la più antica Religione della Nonviolenza Universale
"AHIMSA PARMO
DHARMA"
"La Nonviolenza è la Suprema Religione"
Jai Jinendra!
Da oltre duemilacinquecento anni esiste sul nostro pianeta un
caposaldo della Spiritualità e della Nonviolenza: il Jainismo.
La Spiritualità jainista si basa sulla regola aurea
dell’Ahimsa, il rispetto attivo nei confronti di ogni Vita,
animale e vegetale, che è divina e sacra, e contiene un’anima
individuale eterna, potenzialmente perfetta e santa, che
aspira a liberarsi dai vincoli con la materia. La
condotta dei Jain è dunque orientata al pacifismo, alla
tolleranza, alla protezione della creazione e delle creature,
alla continenza, alla mitezza, al vegetarismo, all’altruismo,
alla sincerità, al perdono.
Nel Jainismo cinque Regole principali sono:
Nonviolenza - Ahimsa
Castità -
Brahmacharya (o fedeltà coniugale per i
laici sposati)
Verità e sincerità - Satya
Non rubare e non essere mai
scorretti o sleali - Asteya
Non attaccamento
- Aparigraha.
Il principale Mantra jainista è il Namokar Mantra:
1.
Non
uccidere volontariamente nessuna creatura
innocente
2.
Non
aggredire nessuno, non fomentare l’aggressività
verso nessuno, tentare sempre di portare pace e
amicizia
3.
Non
prendere parte ad agitazioni violente o
distruttive
4.
Credere
nell’unità umana, non discriminare alcun essere
umano sulla base di casta, colore, setta, o altro,
né trattare alcuno come intoccabile
5.
Praticare la
tolleranza religiosa
6.
Osservare rettitudine
negli affari e nel
comportamento lavorativo,
non danneggiare gli altri in alcun modo, non
praticare mai l’inganno
7.
Porsi
dei
limiti sia nei desideri sensuali sia nei
desideri di possesso
8.
Non ricorrere a pratiche non etiche
nelle elezioni
9.
Non incoraggiare abitudini sociali sbagliate
10.
Condurre una vita libera da dipendenze
come alcol,
droghe, tabacco
11.
Essere sempre attenti e vigili sul mantenere
l’ambiente libero da
inquinamento, non abbattere gli alberi,
non sprecare l'acqua.
La metafisica jainista attribuisce grande
importanza alla logica sul piano cognitivo; viene data una
spiegazione scientifica, codificata nei minimi particolari,
dell’origine e del divenire degli universi, eterni e increati,
in cui si dimostra scientificamente che l’anima non nasce e
non muore, ma migra di corpo in corpo fino alla sua
Liberazione, che può essere ottenuta disgregando i frutti dei
propri karma negativi e dei propri attaccamenti.
La filosofia dei Jain postula le Dottrine
del Non-assolutismo e
della Molteplicità dei punti
di vista (“Anekantavada” e "Syadvada") e la Dottrina
della Costante
Vigilanza.
Le Dottrine del Non-assolutismo e della Molteplicità
dei punti di vista insegnano ad allargare il proprio punto di
vista, la prospettiva di giudizio, e a vedere in ogni
affermazione, pensiero, credo, contemporaneamente una parte di
vero, di non vero, di descrivibile e di indescrivibile.
L’adozione di queste Dottrine apre la mente e il cuore
all'ecumenismo e al superamento di ogni differenza di
religione, di pensiero, di appartenenza.
La Dottrina della Costante Vigilanza richiede ai Jain di non
allentare mai la propria attenzione nei confronti del rispetto
per tutte le vite, e nei confronti dell’applicazione
dell’Ahimsa. E’ detto che un individuo costantemente vigile è
sempre nonviolento, anche quando per una circostanza
imponderabile e involontaria causi una violenza; mentre
un individuo disattento è sempre violento nel suo cuore, anche
quando non causa direttamente una violenza.
I ventiquattro Saggi Tirthankara ( =
Costruttori del ponte) sono esseri umani illuminati e
autoliberatisi grazie alla loro condotta e alla loro
disciplina; il loro compito è essenzialmente quello di
indicatori della Via verso la Liberazione.
Ogni progresso personale nella vita dell'individuo e la
disgregazione dei karma accumulati, possono avvenire
unicamente grazie ai propri sforzi, alla condotta,
all’impegno, alla disciplina dell'individuo. Ciò si descrive
nel Jainismo attraverso l'adozione dei tre Gioielli: Retta Fede,
Retta Conoscenza, Retta Condotta.
Il termine Jain significa Vittorioso e designa
colui che ha vinto sugli attaccamenti, sulle avversioni,
sull’egoismo, sul materialismo, sulle passioni,
sull'aggressività. L’origine del Jainismo si perde
nella notte dei tempi; sono noti al mondo gli ultimi
ventiquattro Saggi Tirthankara che reiterarono i fondamenti
della Dottrina, il più recente dei quali, Vardhamana Mahavira
visse in India intorno al 500 a.C. Mahavira era
contemporaneo di Buddha; come lui figlio di un raja, decise
di ritirarsi per meditare sulla natura dell’anima
raggiungendo il Nirvana pare con vent’anni di anticipo sul
Buddha. Sia Buddha che Mahavira si opposero al vedantismo a
causa della divisione in caste e dei sacrifici
animali.
Come rilevato da diversi
studiosi, il Jainismo
rappresenta il massimo tentativo che sia stato messo in
atto in ambito spirituale per ridurre o annullare la
violenza.
L'alimentazione
dei Jain è da sempre molto restrittiva. I Jain,
oltre a non cibarsi di alcun animale, non si cibano neppure di
tutte quelle creature vegetali estirpando le quali si uccide
l'intera pianta, come cipolle, patate, carote, rape, radici,
bulbi.
I Jain non si cibano neppure del miele, poiché prodotto
mettendo in pericolo la vita delle api.
Inoltre non si cibano di quei frutti - come il melograno o i
kiwi - dove non sia possibile separare dalla polpa
commestibile i semi per restituirli alla terra e permettere
loro di compiere il proprio ciclo di vita, come è doveroso
fare, per i Jain, con tutti i semi di tutti i frutti.
Le
già severe restrizioni alimentari prescritte dalla
Dottrina dei Jain sono state così sottoposte a una
revisione critica per attualizzare l’adesione alla
Regola dell’Ahimsa nei nostri giorni.
Con il rigore che da sempre li
contraddistingue, i Jain, in seguito all'invenzione spietata
dell’”animale-macchina”, hanno adottato per se stessi regole
sempre più restrittive.
E’ così che attualmente i Jain vanno sostituendo il latte
di bovine con i numerosi latti vegetali (di soia, di
avena, di mandorle, di riso, d'orzo, di farro, etc.)
Il modello Vegan auspicato dai Jain è di fatto l’unico
modo per vivere pienamente la Regola d’oro dell’Ahimsa
oggi. Attualmente il Jainismo è
l’unico ambito spirituale a suggerire l’alimentazione Vegan
quale massima espressione di una Nonviolenza quotidiana
pienamente vissuta.
Da SAMAN SUTTAM - IL
CANONE DEL JAINISMO, LA PIU' ANTICA DOTTRINA DELLA
NONVIOLENZA
tradotto da Claudia
Pastorino e Claudio Lamparelli, Mondadori, 2001
[on line su http://www.jainaelibrary.org/]
(147) E’ caratteristica essenziale di ogni uomo saggio che
non uccida alcun Essere Vivente. Senza dubbio, un
individuo dovrebbe comprendere semplicemente i due principi
chiamati Non-violenza ed Eguaglianza verso qualsiasi Essere
Vivente.
(148) Tutti gli Esseri Viventi vogliono
vivere e non morire; per questo le persone completamente
prive di attaccamenti (Nirgranthas) proibiscono l’uccisione
degli Esseri Viventi.
(149) In tutti i casi, sia
consapevolmente che inconsapevolmente, un individuo non
dovrebbe mai uccidere gli altri Esseri Viventi -mobili o
immobili- di questo mondo, né permettere ad altri di
ucciderli.
(150) Come il dolore non ti è
gradevole, ugualmente non lo è per gli altri. Conoscendo
questo principio di Eguaglianza, tratta sempre gli altri con
Rispetto e Compassione.
(151) Uccidere un Essere Vivente è come
uccidere sé stessi; mostrare compassione ad un Essere
Vivente è come mostrarla a se stessi. Colui che desidera il
proprio bene, dovrebbe evitare di causare qualsiasi tipo di
danno ad un altro Essere Vivente.
(152) L’Essere Vivente che vorresti
uccidere è uguale a te stesso; l’Essere Vivente che vuoi
tenere sottomesso è uguale a te stesso.
(154) Anche la sola intenzione di
uccidere causa la schiavitù del karma, sia che tu uccida sia
che tu non uccida; dal punto di vista reale, la natura di
chi manifesta l’intenzione di uccidere è schiava del karma.
(155) Sia il non astenersi dalla
violenza, che l’intenzione di commetterla, è himsa
(violenza).
Anche il comportamento non costantemente
vigile a causa delle passioni, equivale a himsa.
(156) La persona saggia è quella che
lotta sempre per sradicare i suoi karma e che non è
attratta da himsa. Uno che si sforza fermamente di rimanere
non-violento è, dal punto di vista reale, ‘uno che non causa
uccisioni’.
(157) Secondo le Scritture l’individuo
è sia violento che non-violento. Quando l’individuo è
attento e vigile sulla propria condotta, è non-violento;
quando si distrae, è violento.
(158) Non esiste una montagna più alta
del Meru; non esiste niente di più esteso del cielo;
ugualmente, si sa che non esiste in questo mondo una
religione più grande della Religione dell’Ahimsa.
La Filosofia
Jainista non crede nella teoria per cui un Dio abbia creato,
mantenga o possa distruggere l’universo. Al contrario, afferma
che l’universo sia sempre esistito e sempre esisterà, in base
alle leggi del cosmo. Non esiste altro che l’infinito, sia nel
passato che nel futuro.
L’universo è
costituito sia da Esseri viventi dotati di anima, chiamati Jiva,
sia da Esseri non dotati di anima, chiamati Ajiva.
Gli esseri
inanimati sono suddivisi in cinque categorie: la Materia
(Pudgala), lo Spazio (Akasha), il Mezzo del movimento
(Dharmastikaya), il Mezzo della staticità (Adharmastikaya), il
Tempo (Samaya).
Gli Esseri
viventi dotati di anima, insieme alle cinque categorie di Esseri
inanimati, sono tutti aspetti della realtà, anche conosciuti nel
Jainismo come le sei realtà (o sei sostanze, o sei entità)
universali.
Queste sei entità
dell’universo sono eterne e continuamente sottoposte a
innumerevoli mutamenti. Nulla si perde né si distrugge durante
questi cambiamenti, ma tutto si trasforma in altre forme.
L’universo è costituito dalla combinazione delle sei sostanze
universali; tutte loro sono indistruttibili, immortali, eterne,
e continuamente sottoposte a trasformazioni.
Gli Esseri
viventi dotati di anima (Jiva) sono di numero incalcolabile
nell’universo, numero che rimane lo stesso nell’intero universo.
Le anime non possono essere create né distrutte.
Gli Esseri
viventi Jiva sono suddivisi in due categorie principali, Anime
liberate (Siddha Jiva) e Anime non liberate (Sansari Jiva).
Le Anime
liberate, non più intrappolate nel ciclo di morti e rinascite,
risiedono nella parte superiore dell’universo, sono senza forma
corporea, e possiedono la perfetta conoscenza e la totale
percezione; tutte hanno le stesse qualità e tra loro non vi sono
differenze di status.
Le Anime non
liberate possiedono limitata conoscenza, limitata visione,
limitato potere; esse possiedono un corpo (di pianta, di essere
infernale, di animale, di essere umano, o di angelo), sono
intrappolate nel ciclo di morti e rinascite a causa dei karma
accumulati, e tutte loro hanno la possibilità di liberarsi dalle
continue sofferenze del ciclo trasmigratorio delle
reincarnazioni.
L’anima esiste
nella terra, nell’acqua, nell’aria, nel fuoco, negli esseri
umani, negli esseri celesti, negli esseri infernali, negli
animali, nei pesci, negli uccelli, negli insetti, nei germi,
nelle piante, etc.
Gli esseri
viventi sono suddivisi nel sistema filosofico Jainista in base
al numero di sensi che posseggono, e sono classificati in due
categorie, le Anime immobili e le Anime mobili.
Le Anime immobili
(Sthavar Jiva), suddivise in cinque sottogruppi, sono gli Esseri
viventi dotati di un solo senso, il tatto:
Esseri viventi
con il corpo fatto di terra, come il terreno, la sabbia, i
minerali, etc;
Esseri viventi
con il corpo fatto d’acqua, come i fiocchi di neve, il ghiaccio,
la rugiada, la pioggia, etc;
Esseri viventi
con il corpo fatto di fuoco, come la fiamma della candela, il
fuoco, i fulmini, etc;
Esseri viventi
con il corpo fatto di aria, come il vento, l’aria stessa che
tutti noi respiriamo, etc;
Esseri viventi
con il corpo vegetale, come gli alberi, le radici, le piante, le
foglie, i frutti, l’erba, i fiori, etc.
Poiché l’acqua,
le piante, e tutta la terra sono esseri viventi, noi non
dovremmo mai maltrattarli.
Noi non dovremmo schiacciare o danneggiare l’erba, usare più
acqua del necessario.
Noi dovremmo salvare la nostra terra e prenderci cura di essa.
Noi non dovremmo inquinare l’aria, l’acqua, i terreni: causare
danno all’ambiente e provocare inquinamento è considerato un
atto di Himsa, violenza.
Le Anime mobili
(Tras Jiva), sono classificate in Esseri viventi a due sensi, a
tre sensi, a quattro sensi, a cinque sensi:
Beindriya Jiva,
gli Esseri viventi dotati di due sensi (il tatto e il gusto)
come Vermi, Molluschi delle conchiglie, Tarme, Termiti, Microbi
generati da cibo stantio, etc.
Treindriya Jiva,
gli Esseri viventi dotati di tre sensi (tatto, gusto, olfatto)
come Formiche, Chiocciole, Lumache, etc.
Chaurindriya
Jiva, gli Esseri viventi dotati di quattro sensi (tatto, gusto,
olfatto, vista) come Farfalle, Api, Mosche, Ragni, Grilli,
Scorpioni, Locuste, etc.
Panchendriya
Jiva, gli Esseri viventi dotati di cinque sensi (tatto, gusto,
olfatto, vista, udito) come Esseri umani, Mucche, Leoni, Pesci,
Uccelli, Elefanti, Cani, Gatti, Maiali, Galline, etc.
La
crudeltà verso gli Esseri a cinque sensi è considerata il più
grande peccato nelle Scritture Jainiste.
Da
L'ESSENZA DEL JAINISMO - LA STORIA,
IL PENSIERO, LE FIABE di Claudia
Pastorino e Massimo Tettamanti, Editori
Riuniti,
2003
[on line
su http://www.jainaelibrary.org/]
L’India è uno straordinario Paese ricco di tradizioni
spirituali.
Proprio quando l’Occidente era convinto di conoscerne la
storia, le religioni e le filosofie, l’India ci sorprende con
una antichissima e affascinante Dottrina spirituale pressoché
sconosciuta in Italia, il Jainismo.
Il Jainismo costituisce senza dubbio il più alto e concreto
tentativo che sia mai stato attuato in ambito spirituale per
indicare un modo di vita profondamente nonviolento, non solo
nella teoria ma anche e soprattutto nella pratica quotidiana.
Intorno al sesto secolo avanti Cristo, nell’India
settentrionale, visse e predicò un grande Illuminato al quale
viene riconosciuta personalità storica, Vardhamana Mahavira.
Egli non fondò una nuova Dottrina, ma reiterò la Dottrina
predicata dai ventitré Saggi (Tirthankara = “costruttori del
guado”) che lo avevano preceduto: il Jainismo, la più antica
Dottrina della Nonviolenza e della Compassione universale.
Mahavira, figlio di un raja, all’età di trent’anni decise di
abbandonare gli agi della casa paterna per ritirarsi a
meditare sulla natura dell’anima e sulla via per la
Liberazione dalla sofferenza del ciclo trasmigratorio di morti
e rinascite.
Contemporaneo del Buddha, prese anch’Egli le
distanze dal sistema vedico a causa soprattutto della
divisione in caste e dei sacrifici animali. Ma al
contrario del Buddha che, dopo aver seguito per anni il
modello ascetico se ne discostò per ricercare la “via di
mezzo”, Mahavira rinvigorì le regole ascetiche, prescrisse
un codice monastico fondato sul distacco, delineò un
codice morale dal quale fosse bandita anche la minima
violenza contro qualsiasi creatura umana, animale o
vegetale. Mahavira insegnò la parità tra tutti i viventi,
senza distinzioni di casta, di sesso, di specie o di
razza.
Il termine “Jain” significa “Vittorioso” e designa colui
che abbia vinto sugli attaccamenti, sulle
avversioni, sull’egoismo, sul materialismo e sulle
passioni.
Il Jainismo è una Dottrina spirituale ateista, che non
presuppone, cioè, l’esistenza di un Dio né di più Dei
creatori dell’Universo. Il Jainismo identifica il Sacro
con l’energia vivente: l’anima di ogni essere vivente
(uomo, animale, vegetale, e anche degli elementi) è eterna
e divina.
L’anima ritorna a fondersi con l’Assoluto e si libera
dalla sofferenza delle rinascite, soltanto dopo essersi
completamente liberata dagli attaccamenti, attraverso il
distacco, le meditazioni, le austerità,
l'autopurificazione, l'ascetismo e la stretta osservanza
del comandamento dell’Ahimsa, cioè Nonviolenza
attiva verso tutte le Creature: questa è, nel Jainismo, la via
verso la Liberazione.
Occorre sciogliere il nodo tra l’anima e la materia,
determinato dai frutti delle azioni che sono state compiute,
sia cattive che buone, che generano inevitabilmente karma
(negativo o positivo): l’accumulo di karma è la causa diretta
delle rinascite
L’universo jainista è ricco e composito: le anime incatenate
alla materia si reincarnano in questo mondo terreno nelle
varie forme viventi, oppure nella regione celeste in forma di
angeli, semidei o dei, o ancora nella regione infernale: in
ogni caso, tutte queste anime aspirano a liberarsi dal corpo
per raggiungere lo stadio di “Anima Liberata” e rifondersi con
l’Assoluto.
L’osservanza dell’Ahimsa costituisce il cuore stesso e la
regola d’oro del Jainismo; Ahimsa significa simpatia,
fratellanza, amore verso ogni creatura; significa riconoscere
in ogni altro il proprio sé. Il Jainismo attribuisce, inoltre,
estrema importanza alla “Costante Vigilanza” e
all’”Intenzione”: l’Ahimsa deve essere applicata attivamente
in ogni istante della propria esistenza e nei confronti di
qualunque vivente.
Il Jainismo postula la dottrina
dell’Anekantavada, cioè relatività della conoscenza o
molteplicità dei punti di vista: questa dottrina, ben
esemplificata dalla favola “L’elefante e i non vedenti”,
insegna a riconoscere una parte di verità in ogni idea,
pensiero, religione, aprendo così la mente e il cuore a un
reale ecumenismo e all’accettazione delle differenze.
Un aspetto interessante della devozione jainista è che
questa non è concepibile per l’ottenimento di
miglioramenti spirituali o materiali: la riverenza ai
ventiquattro Saggi Tirthankara è fine a sé stessa; compito
dei Saggi è essenzialmente quello di Indicatori della
giusta via verso la Liberazione. Ogni progresso personale
può avvenire unicamente grazie agli sforzi, alla condotta
e all’impegno personale del singolo individuo.
Il Jainismo si divide in due Scuole principali: Svetambara
e Digambara.
I monaci e le monache Svetambara ( = “Vestito di bianco”)
generalmente possiedono un abito bianco, una ciotola per
il cibo e l’acqua, un bastone per accompagnarsi nei lunghi
tragitti a piedi, un piumino per rimuovere gli insetti dal
loro cammino e prima di sedersi e coricarsi, una pezzuola
sulla bocca per non nuocere ai batteri dell’aria.
I monaci e gli asceti Digambara ( = “Vestito di cielo”)
generalmente possiedono il piumino e un contenitore per
l’acqua con cui lavarsi i piedi prima di entrare nei
templi; prendono il cibo e l’acqua da bere nel cavo delle
mani giunte.
I Jain (monaci e laici di entrambi le Scuole), oltre a non
cibarsi di alcun animale (di aria, di acqua e di terra), non
si cibano neppure di tutte quelle creature vegetali prelevando
le quali si uccide l’intera pianta non lasciandole la
possibilità di continuare a crescere e a produrre i suoi
frutti (come i bulbi e le radici: carote, patate, rape,
eccetera); non si cibano dei frutti ricchissimi di semi,
e quindi di anime, come il melograno, dove è difficile
separare la polpa commestibile dai semi (che vanno restituiti
alla terra senza danneggiarli); non si cibano di
miele, prodotto mettendo in pericolo la vita delle api.
Dall’avvento dell’industrializzazione dello sfruttamento degli
animali per la produzione di uova, latte e latticini
(allevamenti intensivi e allevamenti in batteria), i Jain
bandiscono anche gli alimenti di origine animale, poiché la
loro produzione comporta inevitabilmente violenza (Himsa)
sugli animali.
Le più recenti indicazioni dottrinali jainiste suggeriscono
uno stile di vita Vegan al fine di ridurre al minimo la
violenza.
Questo codice morale fa del Jainismo una Dottrina che, pur
così antica, si trova a essere in linea con il più spinto
pacifismo, animalismo e ambientalismo contemporanei.
Proprio l’estremo rigore nella pratica della Nonviolenza ha
contribuito a fare del Jainismo, nel corso dei secoli, una
Dottrina minoritaria: attualmente i Jain sono circa dodici
milioni, quasi tutti in India e negli Stati Uniti d’America.
Fra il 100 e l’800 d.C. vennero compilate numerose
Scritture sia dalle comunità di Digambara che dalle comunità
di Svetambara.
Intorno al 1970, grazie all’iniziativa di Sri Acharya
Vinobaji, studioso indiano di Religioni e discepolo del
Mahatma Gandhi (a sua volta di fede jainista), i Jain indiani
decisero di redigere un testo comune e unanime per la
divulgazione nel mondo della loro Dottrina: per la
realizzazione di quest’opera unitaria vennero riuniti in
assemblea tutti i monaci rappresentanti delle diverse Scuole
jainiste.
Vinobaji, insieme ad alcuni collaboratori, studiò le
principali Scritture jainiste e stese una prima versione
dell’Essenza del Jainismo, sulla base della quale l’assemblea
elaborò all’unanimità la versione definitiva del “Saman
Suttam” (= “Il libro dei credenti nella non esistenza di
Dio”), suddivisa in 756 versetti sul modello del “Dhammapada”.
Nel 1975 venne data alle stampe la versione in prakrito con la
traslitterazione in caratteri latini: per la prima volta
veniva pubblicato un lavoro unanime, che, finalmente, avrebbe
potuto divulgare l’Essenza del Jainismo in tutto il mondo.
Nel 1993 venne pubblicata, in India e negli Stati Uniti, la
prima versione tradotta in inglese.
Nel 2001 è stata pubblicata, per la prima volta in Italia, la
traduzione in lingua italiana, “Saman Suttam, il Canone del
Jainismo, la più antica Dottrina della Nonviolenza”, a cura di
Claudia Pastorino e Claudio Lamparelli.
Coltivare intenzioni positive verso noi stessi e verso
gli altri, nutrire sentimenti di amore e di fratellanza attiva
verso tutte le creature, vedere sé stesso in ogni altro
vivente: questi sono gli insegnamenti del Jainismo. La
proposizione dottrinale jainista è, infatti: “Vivi e lascia
vivere. Ama tutti, servi tutti!”, ove per tutti si intendono
gli esseri umani, animali e vegetali, ma anche la terra, il
fuoco, l’acqua e l’aria.
Le fiabe e i racconti jainisti più significativi, raccolti per
la prima volta in un unico libro, costituiscono un modo
piacevole di accostarsi alla conoscenza di questa antica (ma,
per molti versi, così attuale) Dottrina.
Benvenuti nell’affascinante mondo jainista!
La compassione
dell’elefante
C’era una volta un elefante che viveva in una foresta insieme
ad altri animali.
Un giorno un grosso incendio divampò nella foresta.
Per salvarsi, tutti gli animali, compreso l’elefante, corsero
a mettersi al riparo in un’area sicura.
In poco tempo la zona divenne sempre più affollata e si riempì
di animali.
L’elefante, per un attimo di prurito, sollevò la zampa e,
approfittando dell’occasione, un coniglio saltò velocemente a
occupare lo spazio libero che si era creato.
Nel momento in cui l’elefante stava per riappoggiare la zampa,
si accorse del coniglio seduto e, per evitare di ucciderlo o
di fargli del male, rimase con la zampa sollevata.
L’incendio durò tre giorni e, in tutti questi giorni,
l’elefante rimase con la zampa sollevata.
Quando il fuoco si placò, tutti gli animali, compreso il
coniglio, se ne andarono.
L’elefante si sentiva felice di aver salvato la vita del
coniglio.
Poi, cercò di appoggiare la zampa ma non ci riuscì perché il
suo corpo era rimasto bloccato.
Cadde.
E morì.
Come conseguenza della sua Compassione e della sua Premura,
l’elefante rinacque come Principe Meghkumar nella sua vita
successiva.
Il monaco Metarya,
l’orafo e l’uccellino
Metarya era nato in una famiglia di Paria, gli intoccabili.
Poiché il Jainismo non crede in nessuna discriminazione di
casta e considera tutte le anime uguali, Metarya fu ammesso
come monaco e divenne discepolo del Signore Mahävira.
Un giorno, sotto un sole molto caldo, il Monaco Metarya arrivò
nella città di Rajgriha.
Camminava a piedi nudi, non portava cappello ed era
completamente rasato.
Andava a elemosinare un po’ di cibo in ogni casa,
indipendentemente dalla ricchezza o dalla povertà del
proprietario.
Arrivò alla casa di un artigiano molto famoso nella città per
la sua arte orafa.
Persino il Re Shrenik ammirava le sue capacità.
Quando il monaco Metarya arrivò nel cortile della casa
dell’orafo, quest’ultimo stava lavorando piccole gemme d’oro
da utilizzare per creare bellissimi gioielli.
Quando vide il monaco, l’orafo si sentì molto felice e
onorato.
Smise subito il suo lavoro, si inchinò al monaco e lo
ringraziò per l’onore che gli aveva conferito con quella
visita.
Mentre l’orafo era in cucina a prendere il cibo da offrire in
elemosina al monaco, un uccellino scese dal ramo di un albero
e, col becco, prese alcune gemme d’oro credendo fossero semi.
Il monaco se ne accorse e osservò l’uccellino tornare
sull’albero.
L’orafo tornò e gli offrì del cibo accettabile per un monaco,
cioè vegetariano e non proveniente da violenza o sfruttamento.
Dopo aver accettato il cibo, il monaco ringraziò e riprese il
suo cammino.
Quando l’orafo tornò al suo lavoro si accorse però che
mancavano alcune gemme d’oro.
Cercò dovunque ma non riuscì a trovarle.
L’unica cosa che riusciva a pensare era che le avesse prese il
monaco.
Pensò che forse le costose gemme avevano tentato il monaco
oppure, addirittura, che non si trattasse di un vero monaco
bensì di un malfattore travestito.
Gli corse dietro e lo trascinò a casa propria.
Gli chiese se avesse preso lui le gemme d’oro ma il monaco,
calmissimo, rispose: “No, non le ho prese io.”
L’orafo, ormai arrabbiatissimo, insistette con
l’interrogatorio: “E allora chi le ha prese?”.
Il monaco pensò che, se avesse raccontato all’orafo la verità,
egli avrebbe senz’altro ucciso l’uccellino e che tale violenza
non era assolutamente da permettere.
Non disse nulla e mantenne la calma.
L’orafo si convinse che, poiché non rispondeva, il monaco
stava nascondendo l’oro.
Si arrabbiò ancora di più e iniziò a colpirlo.
Il monaco rimase ugualmente calmo e quieto.
L’orafo, reso sempre più furioso dalla calma e dall’immobilità
del monaco, decise di dargli una lezione.
Lo fece stare sotto il sole con una striscia di cuoio bagnata
legata intorno alla testa.
Il cuoio, seccandosi, iniziò a restringersi e a procurare
grande dolore al monaco.
L’orafo era convinto che, prima o poi, non potendo resistere a
tanto dolore, il monaco avrebbe confessato.
Non era certo in grado di capire quanto questo monaco fosse
compassionevole e altruista, disposto a donare volentieri la
propria vita per salvare la vita di un uccellino mai visto
prima.
Il monaco soffriva atrocemente ma non esitò mai e mantenne la
propria ferma convinzione di non dire all’orafo che cosa
realmente fosse accaduto, per non mettere in pericolo la vita
dell’uccellino.
Non si arrabbiò neanche con l’orafo e rimase in pace pensando:
“Questo corpo è deperibile, perché mi dovrei preoccupare per
lui?”
Inoltre si sentiva pienamente felice di aver potuto salvare
una vita.
In quello stato mentale di totale equanimità il monaco
raggiunse l’onniscienza, chiamata Kevaljnan. Nello stesso
istante, la pressione del cuoio divenne così forte che i suoi
occhi scoppiarono ed egli morì.
La sua anima si era per sempre liberata dal ciclo di morti e
rinascite.
In quel mentre, un taglialegna che passava di lì buttò a terra
una fascina.
Il rumore spaventò l’uccellino che fece cadere le gemme d’oro.
L’orafo le vide, impiegò un attimo a comprendere, e subito si
pentì di aver dubitato del monaco.
Corse per liberarlo, ma era ormai troppo tardi.
Il matrimonio che non avvenne
Il Principe Nemkumär, figlio del Re Samundra Vijay, era
fidanzato con la Principessa Räjul, figlia del Re Ugrasen.
Nel giorno del loro matrimonio, il Principe Nemkumär viaggiava
verso il palazzo della Principessa Räjul su di una carrozza
riccamente adornata.
Mentre viaggiava felice, udì le urla di molti animali e
uccelli.
Chiese al suo cocchiere il motivo di quelle grida.
Il cocchiere gli disse che quelli erano gli animali destinati
al suo pranzo di nozze.
Questa risposta gelò il sangue nelle vene del Principe
Nemkumär e lo rese molto triste.
“Gli animali soffrono quando vengono uccisi. Uccidere animali
e uccelli per l’alimentazione non è giusto e non è necessario”
disse.
Il Principe Nemkumär fece fermare la carrozza e andò a
liberare tutti gli animali.
L’illuminazione lo raggiunse in quello stesso momento.
Egli rinunciò al suo matrimonio e se ne andò.
Abbandonò tutte le ricchezze e tutti i piaceri terreni e si
ritirò nella foresta a meditare.
Molte tra le persone invitate al matrimonio furono illuminate
dalla scelta del Principe Nemkumär: divennero compassionevoli
e smisero anch’esse di mangiare la carne degli animali.
Soma la nuora
Molto molto tempo fa, c’era un mercante Jain molto
religioso.
Ogni mattina si svegliava e recitava i Mantra, svolgeva
pacificamente i riti, si inchinava e onorava i monaci.
Questo mercante aveva una figlia di nome Soma. Anch’ella
compiva tutte le attività religiose come il padre.
Quando Soma divenne maggiorenne si sposò, ma né lo sposo né i
suoi parenti erano persone religiose e in particolare
detestavano il Jainismo.
Sua suocera non sopportava di vedere Soma che impiegava
molto del suo tempo per le pratiche religiose.
Soma non sapeva che cosa fare e ogni tanto aveva dei dubbi:
“Devo abbandonare la mia Dottrina o continuare a seguirla?”
Alla fine decise di continuare a fare ciò che la rendeva più
felice e continuò a praticare i suoi riti.
Ogni mattina, appena sveglia, recitava il Mantra Namokar, il
principale Mantra jainista, e compiva il Sämäyika, la
meditazione per l’ottenimento della serenità. Ogni volta sua
suocera cercava di impedirle lo svolgere di tali attività,
tentando di distoglierla, ma Soma non le prestava attenzione
ed era sempre molto gentile con lei.
Soma cercava di farle capire le proprie motivazioni ma non ci
riusciva.
Faceva tutto quello che la suocera le ordinava ma, ogni
giorno, riusciva sempre a ritagliarsi per se almeno i 48
minuti che la dottrina Jainista consiglia per le meditazioni e
l’avanzamento spirituale.
La suocera di Soma non prestava attenzione alle sue esigenze
religiose e continuava a disturbarla. Alcune volte arrivò
persino a urlare e a picchiarla.
Soma rimaneva calma e tollerava tutti questi abusi senza mai
dire una parola meno che gentile.
Aveva imparato il significato dell’Ahimsa (Nonviolenza) dai
suoi genitori e dai suoi insegnanti di religione e conosceva
l’importanza della pazienza e della tolleranza.
Un giorno la suocera di Soma decise di ricorrere a una misura
estrema.
Comprò un serpente velenoso da un venditore di serpenti e lo
mise in un cesto.
La sera, quando iniziò a imbrunire, chiamò Soma e le chiese di
portarle la ghirlanda di fiori che si trovava nel cesto.
Soma andò nel giardino.
Essendo sempre concentrata sulla propria religione, prima di
prendere il cesto, sussurrò una preghiera al Signore Mahavira
e recitò il Mantra Namokar.
Subito dopo, mise le mani nel cesto per prendere la ghirlanda.
Quando Soma estrasse le mani reggeva davvero una
ghirlanda di fiori.
La suocera di Soma rimase letteralmente shockata.
Soma consegnò, come le era stato ordinato, la ghirlanda che,
non appena venne appoggiata, si ritrasformò in serpente.
La suocera allora comprese finalmente la religiosità di Soma.
Da quel giorno divenne una devota del Jainismo.
La saggia Laxmiben
Questa storia si svolse circa 800 anni fa.
Un giorno un triste viandante Jain era seduto fuori da un
tempio jainista nella città di Karnavati.
Era povero e aveva bisogno di un riparo.
Quel giorno, come usava fare quotidianamente, Laxmiben andò al
tempio.
Terminate le sue preghiere, mentre usciva dal tempio, vide il
viandante.
Con dolcezza gli domandò: “Non ti ho mai visto qui. Vieni da
fuori città?”
L’uomo rispose: “Si signora, vengo dal Rajasthan.”
Lei gli chiese: “Sei solo?”
“No, ho i miei bambini con me.”
“Che cosa ti porta qui?”
“Cerco lavoro.”
“Oh!!” Laxmiben ci pensò un momento e poi chiese: “Come ti
chiami?”
“Uda.”
“Dove vivi?”
“Non ho ancora trovato un posto dove stare.”
“Non ti preoccupare, vieni con me. La mia casa è la tua casa.
Potete stare da me per un po’. Farò di tutto per
aiutarvi.”
Uda, con molta sorpresa, ascoltava quella donna così generosa
e gentile.
Iniziò ad amare molto questo posto dove la gente era così
benevola anche con gli stranieri.
Provò un senso di benessere e si sentiva fortunato.
Con i suoi bambini, seguì Laxmiben alla sua casa. Lei mise a
loro disposizione una piccola casa e del cibo.
Con il tempo, Uda iniziava ad accumulare alcuni risparmi
lavorando duramente e, per ricompensare Laxmiben, pensò di
riparare la vecchia casetta che stava occupando.
Andò da Laxmiben e chiese il permesso di iniziare i lavori.
Lei rispose che, avendogli donato la casa, lui poteva fare ciò
che preferiva.
Uda ringraziò nuovamente e iniziò a riparare i danni peggiori.
Ma, dopo molti mesi, la vecchia casa crollò e Uda dovette
ricostruirla partendo dalle fondamenta.
Mentre scavava trovò un enorme tesoro.
Uda credette che il tesoro appartenesse a Laxmiben e andò da
lei per consegnarglielo.
Ancora non conosceva fino in fondo la generosità del cuore di
Laxmiben; lei rifiutò e disse: “Vuoi scherzare? Quella non è
più la mia casa. L’ho donata a te e ai tuoi figlioli molto
tempo fa.”
Uda si impegnò davvero molto a cercare di convincerla, ma
Laxmiben non cambiò idea e non volle mai neanche vedere o
toccare il tesoro.
Alla fine Uda tornò a casa portando il tesoro con se; ora lui
e i suoi figli non erano più poveri.
La rana devota
C’era una volta, nella città di Rajagriha, un mercante di nome
Nagdatta.
Il nome di sue moglie era Bhavdatta. Si amavano molto ma
l’attaccamento di Nagdatta nei confronti della moglie era
eccessivo.
Disgraziatamente il mercante, un giorno, morì.
Sua moglie pianse tanto, tantissimo.
Il mercante, a causa del proprio karma, rinacque in sembianze
di rana, e proprio nel suo stesso pozzo.
Un giorno, quando Bhavdatta andò a prendere l’acqua al pozzo,
la rana la vide e immediatamente ricordò la vita precedente.
Ora che sapeva chi fosse stato, si sentiva molto felice,
iniziò a danzare e a seguire Bhavdatta.
La seguì dentro casa.
Lei provò simpatia per l’animale, lo prese delicatamente e lo
mise in un posto in giardino dove non avrebbe rischiato di
schiacciarlo per errore.
Ma la rana tornò indietro e la seguiva continuamente, dovunque
Bhavdatta andasse.
Tutto ciò durò per molti mesi.
Un giorno Bhavdatta andò a riverire un monaco di nome
Suvrat. La rana la seguì anche lì.
Dopo aver reso omaggio al monaco, Bhavdatta gli raccontò di
questa rana che la seguiva sempre e domandò al monaco una
spiegazione.
Questi non era un monaco come gli altri, era un Avadhijnani
cioè aveva poteri conoscitivi molto superiori al normale e
sapeva chi fosse la rana.
Spiegò infatti a Bhavdatta che si trattava della
reincarnazione del marito, che aveva ricordato la vita
precedente riconoscendola come sua moglie.
Così, ancora preso dall’affetto per lei, la seguiva dovunque.
Bhavdatta gentilmente prese la rana, la portò a casa e iniziò
a prendersi cura di lei.
Dopo qualche giorno Bhavdatta seppe che il Signore Mahavira
stava arrivando nella vicina montagna Vipulachal.
Praticamente tutti nella città, compreso il Re, andarono a
rendergli omaggio.
Bhavdatta si unì agli altri e, come lei, anche la rana andò
piena di speranza di poter rendere omaggio al Signore
Mahavira.
Le persone vedevano la rana e, per evitare che venisse
schiacciata dalla folla, continuavano a posarla fuori dalla
strada non sapendo che anch’essa stava cercando di raggiungere
Mahavira.
La rana continuò a seguire la folla ma, a un certo punto,
venne involontariamente schiacciata dal piede di un elefante e
morì.
Poiché i suoi pensieri erano pieni di devozione, la rana aveva
accumulato molto karma benefico (Punya), e rinacque come
Angelo, avendo così molte capacità.
Con il suo potere speciale, riguardò le proprie vite passate:
ricordò tutto, sia il proprio eccessivo attaccamento alla
moglie, sia il suo desiderio di vedere il Signore Mahavira.
Per soddisfare questo suo ultimo desiderio, tornò sulla terra
a rendere omaggio a Mahävira.
Subito dopo se ne tornò felice in cielo.
Il gentile Shri
Krishna
Shri Krishna, il Re di Dwarka, era molto valoroso.
Anche se era un coraggioso, era molto gentile di cuore.
Dovunque vedeva qualcuno soffrire, cercava di alleviare il suo
dolore.
Chiunque elogiava la sua dolcezza, anche gli Angeli.
Un giorno il Re degli Angeli disse a tutti loro che esistevano
molte persone piene di compassione ma nessuna paragonabile a
Shri Krishna.
Dopo aver ascoltato questo, uno degli Angeli decise di mettere
alla prova la compassione di Shri Krishna.
Assunse la forma di un cane disgraziato e si mise lungo la
strada principale della città di Dwarka.
Il cane stava morendo di fame, era sdraiato senza forze, gli
si vedevano le ossa e piangeva dal dolore.
C’era sangue su tutto il suo corpo ed emanava un odore
talmente forte che molte persone cambiavano strada quando lo
sentivano.
Un giorno, Shri Krishna passava per quella strada. Vide il
povero cane sofferente.
Senza esitare e senza badare al cattivo odore, si avvicinò
alla povera creatura e gli si inginocchiò accanto.
Gli parlò con dolcezza, pulì il sangue e medicò le ferite.
Strappò i propri vestiti preziosi e ne fece bende per curare
il cane.
L’Angelo disse a se stesso: “Shri Krishna è veramente un Re
gentile”.
Assunse nuovamente la propria vera forma e rese omaggio a Shri
Krishna per la sua dolcezza.
C’era una volta un leone molto molto vecchio. Non aveva
neanche più la forza di procacciarsi il cibo.
Di conseguenza decise di tentare un trucco con l’aiuto di un
braccialetto d’oro che aveva trovato.
Pensava che, offrendo il braccialetto d’oro, qualcuno si
sarebbe fatto accecare dalla cupidigia e avrebbe potuto cadere
in una trappola.
Mentre stava pensando a questo, vide passare un Bramino al di
là di un laghetto. Il Bramino era molto povero e vagava
elemosinando cibo.
Il leone chiamò il Bramino: “Reverendo Bramino, vieni. Ho
fatto molto male nella mia vita. È impossibile contare gli
animali che ho ucciso. Adesso sto cercando di rimediare
offrendo questo braccialetto d’oro a qualcuno che lo merita. E
chi altri lo merita più di te?”
Il Bramino si fece subito prendere dalla cupidigia anche se
rimaneva scettico rispetto alle vere intenzione del leone.
Disse: “Hai ucciso uomini e animali per tutta la vita, come
posso ora crederti?”
Il leone disse, con apparente pena: “Reverendo Bramino, sono
vecchio adesso. È vero che ho commesso molti peccati quando
ero giovane, ma adesso mi pento e vorrei rimediare. Tu sei un
santo Bramino, così ho deciso di donarti il braccialetto.
Entra in acqua, attraversa il lago e vieni a prendere il
braccialetto.”
Il Bramino non riuscì più a resistere alla tentazione. Entrò
nel lago ma si trovò immerso nel fango e subito rimase
bloccato.
Il leone assistette a quella scena, entrò nel laghetto e
iniziò a mordere il collo del Bramino.
Il Bramino urlava ma non c’era nessuno ad aiutarlo.
Così fu ucciso dalla propria cupidigia.
Veri monaci
C’era una volta un Re.
Un giorno il Re decise di offrire in elemosina monete d’oro ai
monaci.
Chiamò uno dei ministri, gli diede una borsa piena di monete
d’oro e gli disse di distribuirle ai monaci della città..
Il ministro cercò per tutto il giorno ma non riuscì a trovare
nessuno a cui dare le monete.
Riportò la borsa dell’oro al Re dicendogli con gentilezza e
riverenza di non essere riuscito a trovare nessuno a cui dare
le monete in elemosina.
Il Re si arrabbiò: “Questo non ha senso! Non sei stato in
grado di trovare un solo monaco in una così grande città?”
Il ministro, che ammirava il Re per le sue buone intenzioni,
gli disse che i veri monaci non avevano accettano le monete
d’oro. Gli altri, quelli che si erano dichiarati disposti ad
accettare le monete, non potevano essere veri monaci perché i
veri monaci non possono accettare denaro.
Aggiunse anche che era sicuro che il Re non avesse
l’intenzione di dare monete d’oro a persone avide che
vestivano da monaci ma che non osservavano i principi
religiosi.
Dopo avere ascoltato le spiegazioni del ministro, il Re si
calmò e iniziò a riflettere.
Realizzò che il ministro aveva ragione e gli diede cento
monete d’oro come ricompensa.
Il saggio Kapil
Nel Kaushambi c’era un Bramino reale chiamato Kashyap Shästri.
Aveva un figlio chiamato Kapil. Kapil crebbe nel lusso e
non si interessò mai allo studio.
Di conseguenza, quando suo padre morì, l’onore di essere
Bramino reale passò a un altro Bramino.
La madre di Kapil si intristì molto quando questo accadde e
pensò che se solo suo figlio avesse voluto studiare sarebbe
diventato sicuramente lui il Bramino reale.
Lacrime scendevano sulle sue guance.
Quando Kapil la vide le chiese: ”Madre, perché stai piangendo?
Che cosa c’è di brutto?”
La madre si asciugò le lacrime: “Figlio mio, mi dispiace che
tu non sia diventato il Bramino reale. Se tu avessi voluto
studiare, avresti preso il posto di tuo padre.”
Queste parole colpirono Kapil che decise di impegnarsi per
ricevere un’ottima istruzione.
Andò da un amico di suo padre nella città di Shrävasti.
Il suo nome era Indradatta Upädhyäya.
Indradatta era conosciuto in tutta la nazione come un uomo
altamente istruito e in molti andavano a studiare da lui.
Fu molto felice quando vide arrivare Kapil deciso a studiare e
iniziò a insegnargli.
In accordo con le pratiche di quel tempo, Kapil doveva
procurarsi il cibo elemosinando.
Questa pratica gli occupava molto tempo e influiva
pesantemente sugli studi.
Indradatta allora si rivolse a una donna della città per
chiederle di mantenere Kapil.
La donna, giovane vedova di un Bramino, si chiamava Manorama.
Kapil iniziò a cibarsi a casa di Manorama e riusciva così a
dedicare più tempo agli studi.
Ma la relazione fra i due divenne intima e, poco tempo dopo,
Manorama si ritrovò in attesa di un figlio. Era preoccupata
per le spese per il mantenimento del bambino, ma Kapil sapeva
che il Re donava due monete d’oro ogni mattina alla persona
che per prima lo benediceva; così decise di andare al palazzo
la mattina dopo.
Il giorno dopo, quando Kapil arrivò a palazzo, si accorse di
essere stato preceduto da altri Bramini.
Riprovò il giorno dopo e quello dopo ancora, ma arrivava
sempre troppo tardi.
Ci provò per otto giorni di seguito, ma non vi riuscì mai.
Decise di dormire nel giardino del palazzo in modo da essere
sicuramente il primo Bramino al mattino.
Durante la notte, ancora intontito dal dormiveglia, vide la
luna all’orizzonte e, scambiandola per il sole dell’alba, si
mise a correre verso il portone del palazzo.
Un poliziotto che controllava quella zona lo vide correre a
quell’ora della notte, lo scambiò per un ladro e lo arrestò.
Kapil tentò di spiegarsi ma il poliziotto gli rispose: “Potrai
raccontare la tua storia a Sua Maestà domani mattina.”
Il mattino seguente Kapil venne dunque portato al tribunale
reale. Tremava perché non era mai stato in tribunale.
Il Re notò la paura sul suo viso e capì che non poteva essere
un ladro.
Il Re chiese: “Chi sei? Che cosa stavi facendo lì a
mezzanotte?”
Kapil umilmente replicò: “Vostra Maestà. Sono un Bramino e
stavo correndo per poter arrivare a palazzo a offrirvi la
benedizione.”
Il Re chiese ancora: “Perché così presto?”
Kapil disse: “Vostra Maestà, per otto giorni ho cercato di
essere il primo a darVi la benedizione per guadagnare le due
monete, ma arrivavo sempre troppo tardi. Così, ieri, decisi di
arrivare durante la notte a palazzo e dormire nel giardino. Ma
anche questo non mi riuscì e adesso sono qui incriminato.”
Il Re disse: “Hai sofferto così tanto per solo due monete. Oh
Bramino, sono colpito dalla tua onestà e ti permetto di
chiedermi qualsiasi cosa tu voglia, promettendoti che
l’avrai."
Kapil chiese un po’ di tempo per pensarci e, ricevuto il
permesso del Re, andò in giardino a riflettere.
Kapil iniziò a chiedersi: “Potrei chiedere 10 monete al posto
di 2 ma per quanto durerebbero? Potrei chiederne 50 ma non
sarebbero sufficienti per pagare tutte le spese che
incontreremo.”
Continuò così fino a raggiungere la cifra di 10 milioni di
monete ma, anche con una cifra simile, non sarebbe stato
possibile vivere tranquillamente tutta la vita.
Continuò fino ad arrivare a pensare di chiedere metà del regno
o addirittura, l’intero regno.
Immediatamente pensò: “Il Re è stato così gentile da offrirmi
qualsiasi cosa desiderassi, perché allora dovrei renderlo un
poveraccio senza possedimenti? Non è giusto. Se gli chiedessi
metà del regno sarei un suo rivale e perché dovrei rischiare
di inimicarmi chi è stato così generoso con me? Potrei
chiedergli 10 milioni di monete d’oro, ma cosa farei con tutto
quel denaro? Troppo denaro porta solo problemi. Potrei
chiedergliene 10 mila........”, ma la sua coscienza gli fece
subito cambiare idea: “Potrei chiederne 1000? 100? 50?
25?.............................”.
Alla fine, decise di non chiedere al Re niente di più rispetto
a quello per cui era venuto: due monete d’oro.
Ma Kapil continuò a pensare: “È il desiderio che mi rende
infelice. È sempre il desiderio che porta alla cupidigia, che
è la radice di tutti i mali. Per evitare tutto questo non
dovrei chiedere niente. Guarda dove mi ha portato il
desiderio! Ho dimenticato di essere venuto qui per diventare
un uomo istruito, mi sono lasciato trascinare dalla situazione
perdendo la moralità e quasi diventando un truffatore.
Cercherò di rimanere calmo e sereno: non chiederò niente.”
Kapil tornò nel palazzo. Il Re gli domandò: “Oh Bramino,
che cosa hai deciso?”
Kapil rispose: “Vostra Maestà. Non voglio niente da Voi.”
Il Re si stupì ed esclamò: “Cosa?”
Kapil replicò: “Vostra Maestà, il desiderio è la radice di
tutti i mali. Più una persona desidera, e più avida diventa.”
Il Re disse: “Reverendo Bramino, non capisco, che cosa intendi
dire?”
Kapil disse: “Oh Re, adesso io non desidero niente.
L’accontentarsi è la salute suprema e io sono felice così.”
Pronunciate queste parole, Kapil se ne andò con un senso di
completo distacco e rinunciò ai piaceri terreni.
Il Re Megharath
C’era una volta, nella Regione celeste abitata dagli Angeli,
una discussione fra due semidei.
Uno sosteneva che in Terra c’erano Re coraggiosi e
compassionevoli che non avrebbero mai esitato a donare la
propria vita per salvare coloro che chiedevano loro
protezione.
Un altro semidio dubitava di questa convinzione.
I due iniziarono a litigare e il Re degli Angeli disse loro:
“Andate sulla Terra e verificate voi stessi”.
I semidei prepararono così un piano d’azione.
Uno dei due assunse la forma di un piccione, l’altro di un
falco.
Sulla Terra il Re Meghrath stava riposando insieme ai suoi
membri della corte.
A un certo punto un piccione entrò da una finestra
aperta e iniziò a volare nel palazzo.
Il Re si sorprese quando si posò su una sua spalla e capì che
l’animale era molto spaventato.
In quell’istante anche un falco entrò a palazzo.
Disse al Re: “Quel piccione è la mia preda!”
Il Re ebbe un momento di sconcerto nel sentire parlare un
falco, ma immediatamente rispose: “È vero che è la tua preda,
ma io posso darti dell’altro cibo.”
Ordinò ai suoi servitori di portare un canestro di
prelibatezze ma il falco disse: “Io non sono un essere umano,
non sono vegetariano. Ho bisogno di carne come cibo.”
Il Re disse: “Lascia che ti dia la mia stessa carne al posto
di quella del piccione.”
Dopo aver sentito questo, uno dei dignitari disse: “Vostra
Maestà, perché dare un pezzo della Vostra carne? Perché non
prendere un po’ di carne dal macellaio.”
Il Re replicò: “No, perché quando noi consumiamo vegetali
fiorisce il commercio del fruttivendolo, mentre, se consumiamo
carne, fiorisce il commercio del macellaio. Il macellaio deve
uccidere un animale per darci la carne che gli chiediamo.
Questo piccione è venuto a chiedere rifugio ed è mio dovere
proteggerlo. Nello stesso tempo è mio dovere fare in modo che
nessun’altra creatura soffra a causa delle mie azioni. Di
conseguenza, darò al falco la mia stessa carne.”
Con queste parole, il Re prese la sua spada, si tagliò un
pezzo di carne dalla gamba e la offrì al falco.
Tutta la corte era ammutolita.
Ma il falco disse al Re: “Oh Re! Io voglio una quantità di
carne corrispondente a quella del piccione.”
Una bilancia fu portata a palazzo. Il Re appoggiò il piccione
su un piatto e mise la sua carne sull’altro. Il Re continuava
a mettere sulla bilancia pezzi della sua carne ma non bastava
mai.
Con il cuore pieno di compassione, il Re decise di mettere
tutto il suo corpo sulla bilancia.
L’intera corte non riusciva a capacitarsi che il Re fosse
disposto a donare la propria vita per quella di un
insignificante uccello mai visto prima.
Ma il Re sapeva che il suo dovere e la sua Dottrina erano più
importanti di tutto il resto.
Si mise sulla bilancia, sul piatto opposto a quello dove era
posato il piccione e iniziò a meditare serenamente.
Non appena il Re si immerse nella meditazione, il piccione e
il falco riassunsero la loro forma divina.
Entrambi i semidei si inchinarono al Re e dissero: “Oh grande
Re! Che tu sia benedetto! Ci hai dimostrato di essere un Re
coraggioso e compassionevole. Sia lode a Te!”
Con queste parole, si inchinarono ancora, salutarono il Re e
se ne andarono. L’intera corte esultò con parole di gioia:
“Lunga vita al Re Meghrath!!”
Qualche vita dopo, l’anima del Re Meghrath divenne il
sedicesimoesimo Tirthankara, Shäntinätha.
Gautamaswami
Nel 607 a.C., nel villaggio di Gobargaon, una coppia di
Bramini chiamati Vasubhuti e Prithvi Gautam ebbe un figlio e
lo chiamò Indrabhuti. Divenne alto e bello. La coppia ebbe poi
altri due figli, Agnibhuti e Vayubhuti. Tutti e tre
erano molto preparati nei Veda e nei rituali religiosi già da
bambini. Divennero bravissimi studiosi molto popolari nello
Stato del Magadh. Ciascuno di loro aveva cinquecento
discepoli.
Una volta, nella città di Apapa, un Bramino di nome Somil
stava conducendo una cerimonia sacrificale nel cortile di casa
propria. C’erano più di quattromila Bramini presenti alla
cerimonia e, tra loro, undici famosi studiosi.
Fra questi eruditi, Indrabhuti si notava come fosse una stella
splendente. Somil era felice e l’intera città era piena
di eccitazione per questo evento, in cui si sarebbero
sacrificati pecore e agnelli.
Prima di iniziare, Somil si accorse di molti esseri celesti
che giungevano verso la Terra.
Pensò che il suo rito sarebbe divenuto il più famoso della
storia.
Disse al suo pubblico: “Guardate in cielo, anche gli Angeli
stanno venendo a benedirci.” E la folla guardò il cielo.
Ma, con somma sorpresa di tutti, gli esseri celesti non si
fermarono all’altare del rito di Somil, ma proseguirono.
L’ego di Somil divenne piccolo piccolo quando egli si rese
conto che gli Angeli stavano andando a porgere i loro omaggi
al Signore Mahavira, che era giunto nella vicina foresta di
Mahasen.
Indrabhuti si sentì oltraggiato da questo incidente e il suo
ego si infiammò.
Iniziò a pensare: “Ma chi è questo Mahavira che non usa
neanche la lingua Sanscrita ma parla il linguaggio popolare?”.
Tutti i presenti alla cerimonia sembravano sopraffatti dalla
sola presenza di Mahavira.
Indrabhuti pensò ancora: “ Mahavira si oppone ai sacrifici
animali e, se avrà successo, noi Bramini perderemo i nostri
privilegi. Andrò a dibattere con lui.”
E partì per sfidarlo.
Mahavira salutò Indrabhuti chiamandolo per nome anche se non
si erano mai incontrati prima.
Indrabhuti si sorprese ma poi disse a se stesso: “Ovvio, mi
conoscono tutti. Non devo essere sorpreso se conosce il mio
nome. Mi chiedo se conosce anche che cosa sto pensando.”
L’onnisciente Mahavira sapeva che cosa stava passando nella
mente di Indrabhuti.
Indrabhuti, benché fosse un valente studioso, aveva un dubbio
sull’esistenza dell’Atma (anima) e stava pensando: “Potrà
Mahavira sapere che io dubito dell’esistenza dell’anima?”
Un attimo dopo Mahavira disse: “Indrabhuti, l’anima esiste e
non dovresti mai dubitarne.”
Indrabhuti rimase shockato e iniziò a stimare molto Mahavira.
Successivamente, ebbero una discussione filosofica e
Indrabhuti cambiò il proprio credo e divenne il suo principale
discepolo.
Indrabhuti aveva quindici anni a quel tempo e, da quel momento
in poi, assunse il nome di Gautamaswämi, poiché veniva dalla
famiglia Gautam.
Nel frattempo, in città, Somil e gli altri studiosi
aspettavano il ritorno di colui che credevano il sicuro
vincitore del dibattito, Indrabhuti. Rimasero stupiti
nell’apprendere che Indrabhuti era diventato discepolo di
Mahavira.
Anche gli altri dieci studiosi Bramini andarono a discutere
con Mahavira e tutti diventarono suoi discepoli.
La gente presente a casa di Somil iniziò allora ad andarsene.
Somil annullò la cerimonia e liberò tutti gli animali
destinati ai sacrifici.
Veri insegnamenti
Molto tempo fa, c’era il dormitorio di Maharshi Satyik ai
piedi di una collina.
Un piccolo numero di studenti viveva lì.
Non era un grosso edificio, ma un insieme di piccole casupole.
Gli studenti imparavano concetti generali e conoscenze
religiose.
Davano molta importanza ai valori morali, vivevano con i
prodotti della loro terra e non dipendevano da altri se non da
sé stessi.
Un giorno, il Re Vikram, la Regina e alcuni servitori
passavano da quella zona e si accamparono nei pressi di un
fiume vicino al dormitorio.
Mentre erano seduti a mangiare, videro passare alcuni studenti
e offrirono loro del cibo.
Gli studenti, con molto rispetto, dissero: “Grazie, ma noi non
possiamo prendere niente.”
Il Re fu molto felice di sentire ciò e di vedere che gli
studenti non cadevano in tentazione.
Dopo qualche tempo, il Re e la Regina, insieme a tutto il
seguito, tornarono in città.
Quando se ne furono andati, alcuni studenti passarono
casualmente nello stesso posto dove era rimasta accampata la
famiglia reale e videro una scintillante collana d’oro. La
presero, la portarono al proprio maestro e gli chiesero
consiglio sul cosa farne.
Il maestro, calmo, disse: “Appendetela fuori. La persona che
l’ha persa tornerà a prenderla.”
Appesero la collana fuori dal portone e tornarono alle proprie
attività.
Nel frattempo, sulla via di casa, la Regina si accorse di aver
perso la collana. Era convinta di averla persa mentre
pranzavano di fianco al fiume e lo disse al Re.
Il Re tornò velocemente al fiume ma non la trovò e si irritò
un poco perché si trattava di una collana di valore
inestimabile.
Andò a chiedere al dormitorio.
Il maestro vide arrivare il Re e lo accolse con parole
gentili.
Il Re gli domandò: “Uno dei tuoi studenti ha per caso visto la
collana d’oro della Regina?”
Il maestro disse: “Se noi troviamo qualcosa che non ci
appartiene l’appendiamo fuori dal portone. Dovreste andare a
vedere là.”
Il Re andò a vedere e trovò la collana appesa.
L’incredibile
incontro tra Chandanbala e Mahavira
C’era una volta una bellissima principessa di nome Vasumati.
Era la figlia del Re Dadhivahan e della bella Regina Dharini
di Champapuri.
Un giorno vi fu un grosso scontro fra il Re di Champapuri e il
Re della vicina Kaushambi.
Fu una triste guerra.
Il padre di Vasumati fu sconfitto e dovette ritirarsi in
disgrazia.
Quando Vasumati e sua madre udirono queste brutte notizie
decisero di fuggire.
Mentre scappavano nei boschi, un soldato dell’esercito nemico
le vide e le catturò.
Vasumati e sua madre erano spaventate perché non sapevano che
cosa ne sarebbe stato di loro.
Il soldato disse loro che avrebbe tenuto per se la bella donna
e avrebbe venduto al mercato la ragazzina.
La madre ricevette uno shock così forte che ne morì.
Il soldato, appena dispiaciuto per quella preziosa perdita, si
recò a Kaushambi per vendere Vasumati.
Quando venne il turno di Vasumati di essere venduta come
schiava, un mercante di nome Dhanavah passò e la vide.
Capì subito che non si trattava di una ragazza qualunque e
lesse sul suo viso tutte le tribolazioni dell’essere stata
separata dai genitori e venduta come schiava. Quale destino le
sarebbe toccato?
Provando compassione per lei, Dhanavah comprò Vasumati, la
liberò dalla schiavitù e la portò a casa propria. Sulla strada
verso casa le chiese: “Chi sei? Che cosa capitò ai tuoi
genitori? Non ti preoccupare e non aver paura di me. Ti
tratterò come se fossi mia figlia.”
Vasumati non rispose, ancora terrorizzata com’era.
Quando arrivarono a casa, il mercante disse a sua moglie: “Mia
cara, ho portato a casa questa ragazza. Non racconta niente
del proprio passato. Per favore, trattala come fosse nostra
figlia.”
Vasumati iniziò a tranquillizzarsi. Ringraziò il mercante e
sua moglie con rispetto e riconoscenza.
La famiglia del mercante si sentì subito molto felice dalla
presenza di Vasumati e la chiamarono Chandanbala, poiché ella
non voleva dire quale fosse il suo vero nome.
Vivendo nella casa del mercante, Chandanbala si comportò come
una figlia rendendo felice il mercante.
Moola, la moglie del mercante, si chiedeva però quali fossero
le vere finalità del marito: temeva che, vista la bellezza
della giovane, egli avrebbe deciso di separarsi e di
risposarsi con Chandanbala.
Di conseguenza, Moola non si sentiva a suo agio con
Chandanbala intorno.
Un giorno di sole, quando il mercante tornò a casa dal
negozio, il servitore che normalmente gli lavava i piedi non
c’era. Chandanbala se ne accorse e si senti onorata dal poter
aiutare e donare gioia a colui che, come un padre, aveva fatto
così tanto per lei.
Mentre era impegnata a lavare i piedi del mercante, i suoi
capelli uscirono dalla crocchia.
Il mercante se ne accorse e, per evitare che si sporcassero,
con una mano, cercò di rimetterli a posto.
Moola entrò in quel momento e, vista la scena, si sentì
oltraggiata.
Credette che i proprio sospetti su Chandanbala fossero giusti
e decise di liberarsene al più presto.
Un giorno Dhanavah dovette andare via tre giorni per un
viaggio di lavoro e sua moglie colse l’occasione per liberarsi
di Chandanbala. Prima di tutto chiamò un barbiere per farle
tagliare tutti i bellissimi capelli. Dopodiché le legò le
gambe con una robusta catena e la chiuse in una stanza
distante dalla zona principale della casa. Disse ai servitori
di non riferire al marito dove fosse Chandanbala o avrebbe
riservato loro lo stesso trattamento, quindi se ne andò a casa
dei suoi genitori.
Quando Danavah ritornò dal suo viaggio, non trovò né Moola né
Chandanbala.
Chiese notizie ai suoi servitori, i quali risposero solo che
Moola era a casa dei suoi genitori ma non dissero niente di
Chandanbala, poiché temevano l’ira di Moola.
Con tono preoccupato, egli insistette: “Dov’è mia figlia
Chandanbala? È meglio che me lo diciate ora, altrimenti, se
scopro che mi nascondete la verità, sarete licenziati!”
Ma ancora nessuno trovava il coraggio di rispondergli.
Si stava arrabbiando molto e non sapeva più che cosa fare.
Dopo pochi minuti, una vecchia servitrice pensò: “Sono solo
una vecchia che sta morendo per l’età, Moola non può farmi
niente di peggio.”
Così, provando compassione per Chandanbala e simpatia per il
mercante, gli raccontò tutto.
Accompagnò il mercante nella stanza dov’era rinchiusa
Chandanbala.
Dhanavah aprì la porta e la vide.
Rimase shockato e le disse: “Mia cara figlia, ti farò uscire
da qui. Devi essere affamata, lascia che ti porti un po’ di
cibo.” Andò in cucina ma non trovò cibo per lei, erano rimaste
solo poche lenticchie secche in una ciotola. Il mercante
decise di portarle queste e che l’avrebbe nutrita meglio
successivamente. Le portò le lenticchie e le disse che sarebbe
andato subito a cercare un fabbro per liberarla.
Chandanbala era frastornata da tutti questi avvenimenti.
Iniziò a riflettere su come rapidamente il destino potesse
cambiare la vita dalla ricchezza alla miseria.
Chandanbala inoltre pensò di offrire qualche lenticchia a
qualcun altro prima di iniziare a mangiare. Si alzò,
camminò fino alla porta, e lì rimase, con un piede dentro e
uno fuori.
Con sua sorpresa, vide un monaco camminare vicino alla casa.
Si trattava del Signore Mahavira.
Disse: “Oh rispettato monaco, per favore prendi un poco di
questo cibo vegetariano che è accettabile per te poiché libero
dalla violenza”.
Ma il Signore Mahavira aveva da tempo preso il voto di
digiunare finché una persona con determinate caratteristiche
non gli avesse offerto del cibo libero da violenza.
Le caratteristiche dovevano essere: 1) la persona doveva
essere una principessa, 2) doveva essere calva, 3) doveva
essere in catene, 4) doveva offrire lenticchie non cotte con
un piede dentro e uno fuori dalla casa, 5) doveva essere in
lacrime.
Di conseguenza, il Signore Mahavira, guardandola, si accorse
che mancava una delle caratteristiche.
Mancavano le lacrime.
Quindi Mahavira se ne andò.
Chandanbala si sentì molto triste e iniziò a piangere.
Era triste perché aveva avuto l’opportunità di offrire cibo a
un monaco e non ci era riuscita.
Con voce rotta dal pianto, richiese ancora una volta al monaco
di accettare il cibo.
Il Signore Mahavira vide le lacrime: tornò indietro e accettò
il cibo, poiché tutte le condizioni imposte dal suo voto
erano soddisfatte.
Chandanbala mise le lenticchie nella mano del Signore Mahavira
e si sentì felice.
Prima di incontrare una persona con tutte le caratteristiche
richieste dal voto, il Signore Mahavira aveva digiunato per
cinque mesi e venticinque giorni.
Gli Angeli del cielo celebrarono la fine del digiuno di
Mahavira.
Grazie al potere degli Angeli, le catene di Chandanbala
si ruppero, i capelli crebbero lunghi, folti e neri ed
ella venne rivestita come una principessa.
Il volume della musica e delle celebrazioni richiamò
l’attenzione del Re Shatanikand.
Il Re andò a vedere che cosa stesse succedendo, insieme alla
sua famiglia, a ministri e altra gente della sua corte.
Sampul, un vecchio servitore, riconobbe Chandanbala.
Camminò verso di lei, inchinandosi e scoppiando a piangere.
Il Re Shatanikand chiese: “Perché stai piangendo?”
Sampul rispose: “Mio Re, costei è Vasumati, la principessa di
Champapuri, figlia del Re Dadhivahan e della Regina Dharini di
Champapuri.
Il Re e la Regina la riconobbero e la invitarono a
vivere con loro.
Così ella andò a corte, ma non prima di aver ringraziato con
tutto il cuore il mercante Dhanavah che era stato così pieno
di compassione.
Tempo dopo, quando il Signore Mahavira introdusse il quarto
ordine nella comunità Jain, cioé l’ordine monastico femminile,
Chandanbala divenne la prima monaca (Sadhvi).
Alla fine di quella vita, Chandanbala raggiunse la
Liberazione.
L’elefante e i non
vedenti
C’era una volta un villaggio in cui vivevano sei uomini non
vedenti.
Un bel giorno uno degli abitanti del villaggio disse loro:
"Oggi c’è un elefante nel villaggio.”
Essi non avevano idea di che cosa fosse un elefante e decisero
che benché non fossero in grado di vederlo avrebbero potuto
comunque capire come fosse.
Andarono dove si trovava l’elefante e ciascuno dei sei iniziò
a toccarlo.
"L’elefante è una colonna!” esclamò il
primo uomo, che toccò una delle gambe.
"Oh, no! È come una fune!" disse il
secondo, che stava toccando la coda.
"No! È come il ramo di un albero!”
disse il terzo, che stava toccando la proboscide.
"È un grosso ventaglio!” disse il quarto,
che stava toccando l’orecchio dell’elefante.
"È come un grosso muro!" disse il quinto,
che stava toccando il ventre dell’elefante.
"Oh, no! L’elefante è un tubo solido!"
esclamò il sesto uomo, che stava toccando una zanna.
I sei iniziarono a litigare riguardo alla forma dell’elefante
e ciascuno sosteneva di avere ragione. Diventavano sempre più
agitati.
Un uomo saggio passava per caso e li vide. Si fermò e chiese
loro: “Qual è il problema per cui litigate in questo modo?”. I
sei non vedenti risposero: “Non siamo d’accordo sulla forma
dell’elefante.” E ciascuno raccontò la propria versione.
Il saggio uomo con calma spiegò loro: “Ciascuno di voi ha
ragione. Il motivo delle differenze è dato dal fatto che
ognuno ha toccato una parte diversa dell’elefante. Infatti
l’elefante possiede tutte le caratteristiche che avete
descritto.”
"Oh!" esclamarono tutti.
Da quel giorno non vi furono più litigi.
Ciascuno dei sei uomini era contento di avere la
propria parte di ragione.
Le vite di
Parshvanath, il ventitreesimo Tirthankara
I due fratelli
L’anima che sarebbe poi diventata Bhagavan Parshvanath iniziò
a prendere la direzione della purezza quando nacque nelle
sembianze di Marubhuti. Sua madre era la moglie di Purohit
Vishabhuti della città Potanpur. Marubhuti aveva un fratello
maggiore di nome Kamath. Poiché Kamath era crudele e rissoso,
fu Marubhuti, benché fratello minore, a prendere il posto del
padre come direttore delle cerimonie rituali del Re e dello
Stato.
Attirato dalla bellissima moglie di Marubhuti, Vasundhara,
Kamath la sedusse.
La moglie di Kamath lo venne a sapere ma, non riuscendo a
dissuaderlo, andò a dirlo a Marubhuti.
Marubhuti, per averne la conferma, disse alla moglie che
sarebbe stato via qualche giorno e, tornando improvvisamente,
li trovò insieme.
Andò dal Re raccontando tutto e Kamath venne esiliato.
Divenne un mendicante e per lui iniziò una vita molto dura.
Dopo qualche tempo, Marubhuti ebbe dei ripensamenti e temette
di avere avuto un comportamento sbagliato nel rendere pubblico
un problema personale della propria famiglia; si rese conto
dell’offesa che aveva così arrecato a Kamath.
Andò dunque a cercare il fratello maggiore e lo trovò in una
giungla.
Si inchinò a lui e gli domandò perdono ma, invece di esserne
pacificato, Kamath fu preso da un incontrollabile sentimento
di vendetta.
Prese una grossa pietra e la scagliò contro la testa del
fratello.
Marubhuti morì sul colpo.
Vita dopo vita
L’anima di Marubhuti rinacque in sembianze di elefante nella
foresta di Vindhyachal.
Divenne il Re della foresta.
Trovandosi un asceta immerso nella meditazione proprio nella
foresta di Vindhyachal, il Re elefante gli andò vicino.
La memoria delle vite precedenti lo illuminò ed egli divenne
un discepolo dell’asceta.
Un giorno camminava vicino a grandi alberi.
L’anima che era stata suo fratello maggiore Kamath era rinata
come serpente della specie Kurkut.
Quando vide l’elefante, lo riconobbe come un nemico della vita
precedente e, dal ramo su cui si trovava, gli saltò sulla
testa e lo morse.
L’elefante, pacatamente, sopportò il dolore e morì in pace.
Nella vita successiva, l’anima di Marubhuti rinacque come
Principe Kiranveg nella zona di Mahavideh. Continuò il suo
cammino verso la purezza diventando un asceta e fu nuovamente
ucciso da Kamath, rinato ancora in sembianze di serpente.
Marubhuti rinacque, sempre nella zona di Mahavideh, come Re
Vajranabh e, ancora una volta, divenne un asceta.
Kamath era rinato in sembianze di aborigeno e uccise Re
Vajranabh con una freccia.
L’anima di Marubhuti rinacque questa volta nella famiglia di
Puranpur. Dopo essere diventato Re conquistò sei continenti e
divenne Imperatore.
Nell’ultima parte della sua vita, Marubhuti abbandonò ogni
bene terreno e divenne un asceta dedito alla meditazione.
Anche in questa vita venne ucciso dal suo vecchio nemico di
sempre, Kamath, rinato come leone.
L’anima di Marubhuti si reincarnò poi nel ventre di Vama Devi,
moglie del Re Ashvasen di Varanasi.
Vama Devi ebbe un figlio.
Durante una solenne cerimonia, il Re Ashvasen annunciò il nome
del figlio: Parshvanath.
La compassione del Principe Parshvanath
L’anima di Kamath, avversario di Parshvanath in tutte le vite
precedenti, si reincarnò nei panni di un eremita. Una volta
l’eremita stava svolgendo un rito sacrificale subito fuori da
una grossa città.
Era vestito soltanto di una veste leggera ed era coperto di
cenere; il sole splendeva, l’aria era molto calda, l’eremita
aveva anche acceso alcuni fuochi sacrificali intorno a se.
Tutta la città era impressionata da questa dimostrazione e
grandi gruppi di persone andavano ad assistervi
Tutti si inchinavano a Kamath con riverenza ed egli li
benediceva.
Vedendo così tante persone, il Principe Parshvanath si
incuriosì e decise di andare anch’egli.
Subito venne colpito dall’austerità dell’eremita.
Con il suo potere extrasensoriale, avvertì la presenza di due
serpenti che erano rimasti intrappolati nella catasta di legna
di uno dei falò.
Il Principe Parshvanath provò pietà per l’eremita che,
inconsapevole, ignorava quell’atto di violenza.
Il Principe Parshvanath disse: “Oh, eremita, che cosa stai
facendo? Non ti sei accorto che ci sono due serpenti che
bruciano nel fuoco?”
Ascoltate queste parole, l’eremita si arrabbiò molto e gridò:
“Oh, fastidioso bambino, non sai che questo è un rituale
sacro? Sei proprio un grande maleducato!”
Il Principe Parshvanath ignorò l’eremita. Chiese ai suoi
accompagnatori di disfare la catasta.
Con grande sorpresa da parte di tutti, due serpenti mezzi
bruciati uscirono da sotto la legna.
L’eremita si vergognò molto e divenne pallido.
Il Principe recitò il Mantra Namokär per i serpenti morenti.
I serpenti mentalmente ringraziarono il Principe e morirono in
pace sotto il benefico influsso del Mantra Namokär.
A causa della serenità con la quale avevano ascoltato il
Mantra, i serpenti rinacquero come Re e Regina degli Angeli
del cielo.
Tutta la gente se ne andò pensando al grossolano rituale
dell’eremita disattento e non costantemente vigile nel non
causare violenza.
L’eremita Kämath, preso dalla vergogna, andò via di là con il
cuore colmo di rabbia e di odio per il Principe.
Kamath morì poco tempo dopo senza essersi mai pentito di
questi malvagi sentimenti.
Grazie alla sua vita di rinunce, l’eremita rinacque in
sembianze di Angelo, col potere di controllare la pioggia, e
il suo nome fu Meghkumar.
Il Principe Parshvanäth divenne il Re della città di Väränasi.
Dopo qualche anno, rinunciò ai piaceri terreni per diventare
un monaco.
Un giorno, mentre Parshvanath era immerso nella meditazione,
l‘Angelo Meghkumar lo vide.
A causa dell’odio accumulato nella vita precedente, Meghkumar
perse il controllo e decise di vendicarsi.
Mandò al monaco Parshvanath molte torture mentali ma egli,
assorto com’era nella meditazione, non ne venne disturbato.
Questo rese Meghkumar ancora più furioso. Creò tuoni, fulmini
e una pioggia da diluvio.
A terra, il livello dell’acqua cominciò a crescere
pericolosamente.
Il trono del Re degli Angeli iniziò a tremare ed egli fece uso
del suo potere per vedere che cosa stesse succedendo.
Vide il monaco Parshvanath subire gli attacchi di Meghkumar.
Con la sua Regina, scese in terra: sotto forma di due cobra
reali, essi si misero dietro il monaco Parshvanath e usarono
le loro teste come ombrelli per ripararlo da quel diluvio.
Fu così che il monaco Parshvanath venne protetto dalla pioggia
torrenziale.
Con fermezza, il Re e la Regina degli Angeli domandarono a
Meghkumar: “Oh, atroce creatura, non sai che cosa stai
facendo? Perché stai accumulando così tanti peccati causando
sofferenza a Parshvanath? Adesso ferma questo cataclisma!”
Il monaco Parshvanath era così immerso nella meditazione che
non si accorse mai di tutto ciò che avveniva intorno a lui.
Meghkumar si impaurì per quei severi rimproveri e
immediatamente rimosse tutta l’acqua.
Chiese perdono a Parshvanath e se ne andò.
Poco dopo questi fatti, Parshvanath raggiunse l’onniscienza e
divenne il ventitreesimo Tirthankara dell’era moderna.
Mahavira,
il ventiquattresimo Tirthankara
Il Principe senza paura
Un giorno, il Principe Vardhamäna, insieme ai suoi giovani
amici, stava giocando vicino a un grande albero secolare.
Di colpo, essi videro un serpente nero, con occhi gialli, che
soffiava minaccioso.
Gli amici del Principe si spaventarono: alcuni scapparono via,
altri si arrampicarono sull’albero.
Soltanto Vardhamäna rimase calmo.
Andò vicino al serpente.
Dolcemente lo accarezzò, lo prese e lo spostò senza fargli del
male.
Tutti gli amici si rassicurarono.
Vardhamäna disse loro: “Dovete avvicinare le creature con
amicizia, non con paura!”
Vardhamäna e il mostro
Un pomeriggio, il Principe Vardhamäna stava giocando con i
suoi anici a “tocca e cavalca”.
Chi riusciva a toccare un altro senza farsi toccare avrebbe
vinto e il perdente avrebbe dovuto trasportarlo sulla propria
schiena.
Un nuovo bambino si unì al gioco.
Questo bambino era facile da battere: perse sempre e si fece
cavalcare da tutti.
Anche il Principe Vardhamäna batté il nuovo arrivato.
Pochi minuti dopo, mentre Vardhamäna era sulla sua schiena, il
bambino iniziò a crescere e diventare sempre più grande e
alto.
All’inizio, gli amici di Vardhamäna guardavano l’evento con
curiosità.
Subito dopo, la faccia del bambino iniziò a trasformarsi in un
orribile ghigno e i bambini si spaventarono e corsero via in
preda al panico.
Alcuni bambini scapparono sugli alberi mentre altri corsero a
casa dai genitori.
Vardhamäna rimase invece calmo e coraggioso.
Il mostro continuò a crescere tantissimo; a un certo punto,
Vardhamäna gli diede un pugno sulla testa.
Il mostro cercò di disarcionare Vardhamäna dalla propria
schiena per evitare un altro pugno, ma non vi riuscì.
Alla fine, il mostro si arrese e chiese perdono.
Vardhamäna lo perdonò prontamente.
Il mostro lo chiamò Mahavira, che significa Grande Eroe.
Da quel momento, il Principe Vardhamäna venne chiamato
Mahavira.
Toglimi dalla povertà!
Il Principe Mahavira diede via tutti i suoi possedimenti e
divenne un asceta vestito solo di un telo leggero.
Il cuore di Mahavira traboccava di equanimità e di
compassione.
Sul suo volto, un sorriso spontaneo di beatitudine.
Camminava con passo sicuro e deciso nelle giungle più
pericolose senza esitare.
Un pomeriggio sentì un debole richiamo provenire da dietro di
lui.
Un debole e malato Bramino, muovendosi adagio con l’aiuto di
un bastone, lo raggiunse e crollò ai suoi piedi.
Lacrime scendevano dai suoi occhi; sul suo viso,
un’espressione di sofferenza.
Con umiltà chiese: “Principe! Per favore aiutami, dammi
qualcosa, toglimi dalla povertà!”
Mahavira riconobbe il vecchio e si ricordò di Som Sharma della
città di Brahmankund.
Molto tempo prima apparteneva alla corte del Re Siddhartha.
Il Re lo manteneva con tutto ciò che desiderava.
Era felice, allora...
Ma, dopo la morte del Re, non l’aveva più visto.
Som Sharma gli disse: “Principe, ho vagato da uno Stato
all’altro dopo la morte del Re Siddhartha, il mio
protettore. Dovunque andavo, la cattiva sorte mi
seguiva. Dopo due anni di vagabondaggio sono tornato a casa
stamattina; i miei parenti mi hanno informato che tu avevi già
dato via tutte le tue ricchezze e reso ricca molta gente.
Principe! Per favore, sollevami dalla povertà con le tue mani
gentili e generose!”
Mahavira era pieno di compassione ma ormai non aveva più
niente da offrire.
Usò quindi il suo telo: lo divise in due e ne diede una parte
al Bramino.
Il Bramino era pieno di gioia.
Prese la veste e la portò a un sarto per chiederne il valore.
Il sarto esclamò: “Bramino, come hai avuto questa veste
divina? È solo una parte di un intero. Se mi puoi portare
anche l’altra metà sarò in grado di rimetterla insieme e
potrai rivenderla per centomila monete d’oro.”
Il Bramino corse dietro a Mahavira ma non ebbe il coraggio di
mostrarsi così avido.
Così lo seguì sempre e dovunque andasse.
Dopo circa un anno l’altro pezzo di stoffa scivolò via dalle
spalle di Mahavira.
Som Sharma lo prese, lo portò dal sarto e vendette il divino
telo al Re Nandivardhan per centomila monete d’oro.
Mahavira e il pastore
Un giorno il Signore Mahavira, dopo aver vagato da un posto
all’altro, si fermò sotto un grosso albero, subito fuori da un
villaggio, a meditare.
Mentre meditava, arrivò un pastore con le sue mucche.
Stava cercando qualcuno che badasse agli animali per poter
svolgere alcune commissioni.
Chiese a Mahavira se poteva accudire gli animali per qualche
ora.
Il Signore Mahavira era immerso in una meditazione così
profonda che non lo udì e non si accorse di niente ma il
pastore se ne andò, convinto che Mahavira avesse accolto la
sua richiesta di badare alle mucche.
Nel frattempo, le mucche iniziarono a pascolare nei dintorni
cercando l’erba preferita.
Qualche ora dopo, il pastore tornò e tutte le mucche erano
disperse.
Chiese a Mahavira: “Dove sono finite le mie mucche? Che cosa
ne hai fatto?”. Il Signore Mahavira era ancora immerso nella
meditazione e non rispose.
Il pastore iniziò a cercare le sue mucche.
Cercò e cercò ma non le trovò.
Mentre era in giro a cercare, le mucche ritornarono nel posto
in cui Mahavira stava meditando.
Quando il pastore tornò, sorprendentemente, tutte le mucche
erano vicine a Mahavira che, distaccato da tutto, continuava a
meditare.
Il pastore si arrabbiò molto perché credette che Mahavira le
avesse nascoste per appropriarsene.
Prese la frusta e stava per iniziare a frustarlo quando un
Angelo scese dal cielo e gli bloccò il braccio.
“Non vedi che il Signore Mahavira è immerso nella
meditazione?” chiese l’angelo.
“Ma mi ha ingannato!” disse il pastore.
L’Angelo rispose: “Lui è un illuminato. Non è legato alle tue
mucche né a nient’altro che faccia parte del mondo. È immerso
nella meditazione e non ti può sentire. Non ha fatto niente.
Avresti accumulato karma negativo nel fargli del male.”
Il pastore si rese finalmente conto di aver commesso un
errore. Si scusò con Mahavira e se ne andò in silenzio.
Anche l’Angelo tornò nella regione celeste, felice per aver
evitato sofferenze a Mahavira.
Il tempio degli scheletri
Continuando nel suo vagabondare, Mahavira arrivò un giorno in
un villaggio vicino al fiume Vegvati.
Subito fuori dal villaggio, su una piccola collina, c’era un
tempio circondato da tantissime ossa e scheletri.
Considerandolo un posto particolare ma appropriato per la
meditazione, chiese il permesso agli abitanti del villaggio di
utilizzarlo.
Molte persone andarono a rendere omaggio all’asceta Mahavira e
lo informarono che, una volta, il povero villaggio era una
grande e prosperosa città.
Tutto era cambiato da quando il demone Shulpani Yaksha, che
danzava e rideva sopra cumuli d’ossa, aveva trasformato la
città di Vardhaman in Asthikgram, il villaggio delle
ossa.
Questi si era impadronito del tempio e non permetteva a
nessuno di uscirne vivo.
Tutti cercarono di dissuadere Mahavira dall’andare al tempio.
Ma Mahavira era determinato a togliere le radici della paura e
gettare i semi del coraggio.
Insistette e, alla sera, era completamente immerso nella
meditazione proprio fuori dal tempio.
Quando scesero le tenebre, l’aria si fece piena di suoni da
brivido.
Shulpani, il demone con la lancia, apparve nel cortile ed
emise suoni di tromba paurosi.
Era molto sorpreso di vedere un essere umano in meditazione
senza paura.
Produsse tuoni che fecero vibrare le pareti del tempio ma
l’asceta non si mosse.
Fece apparire un elefante pazzo che minacciò Mahavira con
zanne terrificanti, poi un fantasma orribile che cercò di
terrorizzarlo, e ancora un serpente nero che lo attaccò con i
suoi denti e il suo respiro velenoso.
Alla fine, gli creò dolore in punti delicati del corpo (occhi,
orecchie, naso, testa, denti, unghie e schiena).
Ma Mahavira aveva una capacità illimitata di sopportare il
dolore.
Anche quelle estreme agonie non riuscirono a togliere serenità
al Signore Mahavira.
Esaurite tutte le sue demoniache energie, Shulpani iniziò a
preoccuparsi.
Pensò di avere a che fare con una potenza divina troppo forte,
che, volendo, avrebbe anche potuto distruggerlo.
Immediatamente, una luce divina illuminò la sua anima.
Pian piano la sua rabbia si dissolse, la sua paura scemò e un
senso di beatitudine lo riempì.
Con profonda umiltà chiese perdono a Mahavira.
Mahavira aprì gli occhi e, alzando una mano, disse: “Shulpani!
La rabbia crea rabbia e l’amore crea amore. Se non causi
paura, sarai libero da tutte le paure. Distruggi dunque il
veleno della rabbia che ti corrode!”
Il cobra Chandkaushik
Questa è una avventura capitata al ventiquattresimo
Tirthankara Mahavira quando era un monaco.
Egli era solito digiunare, meditare e fare penitenze.
Camminava a piedi nudi da un posto all’altro, di villaggio in
villaggio.
Un giorno decise di andare al villaggio di Vachala.
Usando la strada più diretta era necessario passare attraverso
una foresta dove viveva un famoso serpente cobra velenoso
chiamato Chandkaushik.
Si diceva che Chandkaushik potesse uccidere una persona anche
soltanto fissandola con il suo sguardo cattivo e feroce.
Tutte le persone dei villaggi vicino alla foresta vivevano nel
terrore assoluto.
Quando gli abitanti del villaggio seppero dell’intenzione di
Mahavira di attraversare la foresta, lo pregarono di prendere
un’altra strada .
Ma Mahavira non aveva paure e praticava la massima
Nonviolenza.
Non odiava nessuno e considerava la paura e l’odio come
violenza verso se stessi.
Era in pace con se stesso e con tutte le altre creature
viventi.
C’era sempre un’espressione di serenità e di compassione sul
suo volto.
Convinse tutti a lasciarlo andare e si incamminò per il
pericoloso sentiero.
Dopo un po’ notò che la bella terra verde sfumava in un
deserto. Alberi e piante erano morte.
Seppe così di essere arrivato nella terra di Chandkaushik.
Mahavira si fermò per meditare. Pace, tranquillità e
compassione per tutti gli esseri vivente fluirono nel suo
cuore.
Chandkaushik sentì che qualcuno si era introdotto nel suo
territorio e uscì dalla sua tana.
Non senza sorpresa, vide un uomo tranquillamente seduto e
divenne immediatamente furioso pensando: “Come osa costui
venire nella mia terra!”.
Chandkaushik iniziò a soffiare a Mahavira per spaventarlo.
Non riusciva a comprendere la tranquillità di Mahavira.
Divenne ancora più furioso, si avvicinò ancora a Mahavira,
pronto a morderlo.
Non vide intenzioni di fuga da parte di quest’uomo che non
sembrava per niente spaventato.
Tutto ciò rese Chandkaushik ancora più cattivo, iniziò a
mordere e, per tre volte, iniettò il veleno a Mahavira.
Il veleno non infettò Mahavira né disturbò la sua meditazione.
Chandkaushik non era preparato a questo.
Divenne ancora più furioso e morse il piede di Mahavira.
Quando guardò ancora l’uomo, fu sconvolto dal fatto che, non
solo non gli era successo niente, ma, invece di sangue, usciva
latte dalle ferite.
Mahavira aprì gli occhi. Era tranquillo e totalmente privo di
paura o rabbia.
Guardò Chandkaushik negli occhi e gli disse: “Svegliati!
Svegliati Chandkaushik! Pensa a che cosa stai facendo!”
C’erano amore e compassione nelle sue parole.
Chandkaushik si calmò immediatamente e provò la sensazione di
aver già conosciuto quell’uomo.
Immediatamente ricordò le vite precedenti.
Chandakaushik realizzò la verità, comprese dove lo avevano
portato la rabbia e l’ego delle sue vite precedenti.
Pacificamente appoggiò la testa al suolo.
Mahavira riprese il suo cammino.
Chandkaushik, ormai in pace, entrò nella tana solo con la
testa, lasciando fuori il suo corpo.
Dopo un po’, quando le persone seppero che Chandkaushik non
era più pericoloso, mosse dalla curiosità, andarono a vederlo.
Lo trovarono disteso in pace.
Alcuni iniziarono a idolatrarlo e gli offrirono cibo.
Altri invece, arrabbiati per aver perso a causa sua persone
amate, gli tirarono pietre e lo colpirono con bastoni.
Il sangue del serpente attirò molte formiche che iniziarono a
cibarsi delle carni di Chandkaushik.
Chandkaushik, bastonato e ferito, rimase calmo, in pace, senza
più rabbia.
Questo autocontrollo dei propri istinti distrusse il karma
negativo accumulato in passato.
E così, alla fine della sua vita, il cobra Chandkaushik fu
liberato dalle rinascite.
Il periodo di dodici anni di pratiche spirituali del Signore
Mahavira gettò le basi del cammino per il raggiungimento
dell’onniscienza e della condizione di Illuminato.
Dopo la Sua piena Illuminazione, Egli dedicò i rimanenti
trent’anni della Sua vita al benessere di tutte le creature
viventi. In questo periodo Egli rivoluzionò il pensiero umano,
sconvolse molte false dottrine e attaccò tanti dogmi
tradizionali. Le Sue azioni e i principali contributi nel
campo del benessere umano e animale si possono così
sintetizzare:
1.
Mahavira si oppose ai sacrifici animali e umani, alle
superstizioni che popolavano l’India e ai rituali creati
per ottenere benefici per la vita successiva. Come
alternativa, diffuse il cammino della Nonviolenza (Ahimsa)
basato sull’impegno e sugli sforzi personali del singolo
individuo, senza la possibilità di delegare a rituali o a
intermediari.
2.
Abolì la tradizione ormai consolidata di non permettere alle
donne in generale e a uomini e donne delle caste più basse il
diritto allo studio e alla partecipazione ai rituali
religiosi. Fu così coraggioso e saggio da iniziare allo studio
religioso e filosofico persone di tutti i ceti sociali. Fornì
uguali diritti allo studio per tutti. Con successo eliminò il
sistema delle caste in tutte le aree in cui il Suo pensiero si
diffuse.
3.
Sotto la Sua influenza, lo status normale basato sulle caste,
il benessere, la ricchezza e la potenza fu sostituito da un
altro basato su valori etici e morali.
4.
Parlò alle persone con la lingua comune e non utilizzò il
Sanscrito, il linguaggio degli istruiti e delle classi più
elevate.
5.
Per gli asceti della Sua scuola, Mahavira promosse l’idea di
un cammino di distacco dai piaceri, attraverso penitenze,
austerità e meditazione. Ancora oggi gli ordini monastici ed
ascetici si fondano sul distacco, l’equanimità, la
consapevolezza, la Nonviolenza e la disciplina.
6.
I Suoi seguaci provenivano da tutte le classi sociali ed erano
sia uomini che donne, con larga presenza di queste ultime;
ancora oggi, l’ordine monastico jainista è formato
prevalentemente da monache, le quali sono generalmente
insegnanti.
Intorno al 1133 il regno di Kumarpal, Re del Gujarat, Stato
dell’India occidentale, fu largamente influenzato dal grande
maestro Jain Acharya Hemchandra, seguace di Mahavira. Il Re
era così ispirato dai Suoi insegnamenti sull’Ahimsa e la
Compassione che aveva introdotto nell’intero Stato il divieto
di uccidere gli animali per cibo, per sport, per divertimento.
8.
In sintesi, gli originali contributi di Mahavira furono: la
dottrina dell’Ahimsa (Nonviolenza) e il codice della
relatività della conoscenza e della molteplicità dei
punti di vista (Anekantavada) che divennero le basi della
moderna Dottrina spirituale jainista.
Per approfondire:
http://jainmuseum.com/index.htm
http://www.herenow4u.net/index.php
http://en.encyclopediaofjainism.com/index.php?title=Main_Page
http://www.herenow4u.de/struktur/eng/menu_links/0804.audio.htm
http://www.acharyasunilsagar.com
http://www.cs.colostate.edu/~malaiya/jainhlinks.html
http://www.angelfire.com/co/jainism
http://www.fas.harvard.edu/pluralsm/affiliates/jainism
http://www.jainsamaj.org
http://www.jainmeditation.org