in breve In breve : Dall’Etna al Vesuvio, in battello attraverso il Tirreno , e nel cuore della Sardegna , in treno e in corriera … stralci di un interessantissimo racconto del Gennaio 1921.

dal Libro:Mare e Sardegna- di L.W.Lawrence
Lawrence e il passaggio a Tonara
(... )
IN VIAGGIO PER SORGONO


(...) I vari treni erano fermi a fianco a fianco nella stazione di smistamento, e si fecero lunghissime chiacchierate prima che si partisse finalmente! Ma com'era magnifico poi correre nella chiara mattina verso il cuore della Sardegna, sul piccolo treno che ci era così familiare. Viaggiavamo ancora in terza, con alquanto disgusto degli impiegati della stazione di Mandas. Dapprima, campagna abbastanza aperta, con i soliti lunghi speroni di monti dai fianchi ripidi, ma non alti. E dal nostro trenino guardavamo la campagna, i monti, le valli. Lontano, su un basso pendio, si scorgeva una piccola città. Se non fosse stato per il suo aspetto compatto, fortificato, avrebbe potuto essere una città della regione collinosa dell'Inghilterra meridionale. Un uomo del nostro scompartimento si sporse dal finestrino con un panno bianco in mano, come per annunciare il proprio arrivo a qualcuno, nella città lontana. Il vento agitava il panno bianco, la città lontana scintillava, piccola e sola nel suo incavo. E il trenino correva via. Era abbastanza comico a vedersi. Salivamo sempre, e i binari si curvavano in larghi tornanti. Così che, guardando dal finestrino, con stupore vedevamo ogni tanto un trenino correre di fronte a noi, in direzione divergente, con grandi sbuffi di vapore. Ma no, era la nostra piccola locomotiva che si affrettava su una curva, molto avanti. Eravamo un treno piuttosto lungo, tutto carri merci davanti, con la sola eccezione delle nostre due carrozze passeggeri agganciate dietro. Perciò la locomotiva ci compariva sempre davanti tutta affannata, come un cane che scappa oltre e torna e gira intorno, mentre noi seguivamo in coda alla sottile fila di carri merci. È straordinario come questa piccola locomotiva se la cava sulle salite continue e ripide, e come emerge bravamente dal crinale. È una strana ferrovia; mi piacerebbe sapere chi l'ha fatta. Corre, il trenino, su per monti e giù per valli, gira curve improvvise con la massima indifferenza. Non fa come i veri treni, quelli normali, che brontolano in profonde trincee e strisciano con gran fumo e puzzo in gallerie; no, corre su per i monti ansimando come un cagnolino, si da un'occhiata intorno e parte in un'altra direzione, trascinandoci dietro tranquillamente. È molto più divertente del sistema a gallerie e trincee. (…) La piccola locomotiva si affretta sempre più su, fa curve strette come se volesse mordersi la coda - che siamo noi - e improvvisamente si tuffa oltre il crinale e sparisce. E il paesaggio muta. Cominciano ad apparire i famosi boschi. Dapprima non sono che cespugli di noccioli, selvaggi, con qualche bue nero che cerca di occhieggiare verso di noi tra la sterpaglia di mirto verde e di corbezzoli la quale forma il sottobosco; e rari, selvatici contadini che sbirciano il treno. Portano la tunica nera di pecora, col pelo in fuori, e il lungo berretto a calza. Come i buoi, anche loro occhieggiano tra i profondi cespugli. Qui le macchie di mirto sono alte come un uomo, e bestie e uomini ci affondano dentro, spariscono. Sopra si ergono, nudi, i grandi noccioli. Deve essere difficile circolare, da queste parti. (...) Si continua nel pomeriggio. Un contadino in bianco e nero, e la sua giovane bella moglie in costume rosso-rosa, con un opulento grembiule orlato di verde erba, e un piccolo farsetto violaceo sul gonfio, colmo corsetto bianco, siedono dietro a me e parlano. I contadini cedono al sonno. Si continua nel pomerig­gio; ed è bello. È un pezzo che noi abbiamo mangiato la carne. Finiamo adesso il pane bianco che abbiamo avuto in dono, e il tè. Come d'improvviso guardiamo fuori del finestrino vediamo la massa del Gennargentu dietro a noi, un nodo di nevose sommità, bello di là dai lunghi, ardui sproni nei quali siamo impegnati. Perdiamo di vista la bianca massa montuosa per mezz'ora; poi di colpo ce la troviamo inaspettatamente quasi dirimpetto, la grande spalla gonfia di neve

Come è diverso dall'Etna, la solitaria, autocosciente meraviglia di Sicilia! Questa è molto più umana, più conoscibile, con un ampio petto e membra massicce; è un possente corpo di montagna. Somiglia ai suoi contadini. (…) Le stazioni sono lontane tra loro: a un'ora di distanza l'una dall'altra. Ah, come ci si stanca di questi viaggi! Durano eterni. Guardiamo attraverso una vallata. È larga un tiro di sasso. Ma ahimè, il piccolo treno non ha ali, e non può saltare. Così la linea gira indietro, piega verso il Gennargentu, in una lunga infilata di roccia, finché arriva infine a monte dell'angusta vallata. Qui ne segue chiassosamente l'orlo, e gaiamente si slancia a tornare sui propri passi dall'altra parte. E un uomo che ci ha osservati fare il giro è andato giù e ha attraversato in cinque minuti. Ora i contadini sono quasi tutti in costume, anche le donne per i campi nei semipopolati valloni. Questi valloni e vallate del Gennargentu sono assai più popolati che le paludose terre del sud.

Tonara vista da MonteCorte.


Sono passate le tre e c'è freddo dove non c'è il sole. La Stazione a cui ora ci si ferma è l'ultima prima di Sorgono. E i contadini qui si svegliano, si gettano le bisacce sulle spalle, scendono a terra. Lontano vediamo Tonara, in alto. Vediamo il nostro vecchio contadino in bianco e nero accolto dalle sue due donne che sono venute a prenderlo col cavallino: le figliole, belle nei vividi costumi rosa e verde. I contadini, uomini in bianco e nero, e uomini in marrone con le brache strette sulle cosce compatte, donne in bianco e rosa, cavallini con la sella a bisacce, tutto comincia a sfilare su per la strada in salita, bellissimo, verso il lontano villaggio appollaiato nel sole: Tonara, un grosso villaggio che risplende nel sole come una Nuova Gerusalemme.

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(…) E alla fine ci muoviamo. Tra un'ora saremo arrivati. Mentre viaggiamo tra i pendii coperti d'alberi, per lo più di sugheri rosso-bruni, diamo addosso a un gregge di pecore. Due contadini della nostra carrozza che guardano fuori, emettono acute grida sovrannaturali, assolutamente impossibili a riprodursi da un essere comune. Le pecore ad ogni modo conoscono il suono e si sparpagliano. E dopo dieci minuti le urla vengono ripetute per tre giovani buoi. Io non so se i contadini lo facciano per amore. Ma è il più selvaggio e sovrannaturale, inumano urlo di pastore che io abbia mai udito. (…)

Ecco Sorgono.


E' sabato pomeriggio e sono le quattro. La campagna è selvaggia e disabitata, il treno quasi vuoto, e tuttavia c'è nell'aria il senso della sospensione del lavoro. Oh, tortuosi, ripidi pendii boscosi, squarci del Gennargentu, sugheri nudi come negri, oh, odor di contadini, noiosa vettura di legno: come siamo stanchi di tè! Siamo in viaggio da quasi sette ore per fare meno di cento chilometri. Ma ecco, ecco Sorgono, graziosamente annidata tra i pendii boscosi dirimpetto. Oh, magica piccola città! Termine e ganglio di tutte le strade all'interno dell'isola, noi speriamo in te per un piacevole albergo e un'allegra compagnia! Ci fermeremo forse un giorno o due, a Sorgono. (…) Io chiesi informazioni sugli autobus. Allora il giovane dagli occhi stanchi, prendendo un'aria di responsabilità, mi disse ch'era il conducente dell'autobus. Era arrivato da Oristano, distante una settantina di chilometri, quel giorno: la corsa principale. L'indomani mattina sarebbe andato per le montagne a Nuoro, press'a poco la stessa distanza. Il giovanotto dai baffetti neri, e i grandi occhi di greco, era il suo compagno, il bigliettaio. Era la loro linea, da Oristano a Nuoro: un percorso di centocinquanta chilometri e passa. E ogni giorno su e giù, su e giù. Nessuna meraviglia se il giovane conducente aveva l'aria snervata. Pure aveva quella specie di dignità, quel pensoso orgoglio dell'uomo che governa la macchina; il solo che sia simile a un dio oggigiorno: colui che muove le leve di ferro ed è il dio della macchina. Entrambi ripeterono quello che già il vecchio dell'arrosto aveva detto: molto meglio per noi andare a Nuoro che ad Abbasanta. Così decidemmo di andare a Nuoro; si sarebbe partiti alle nove e mezzo, la mattina. (…) L'autobus parte alle nove e mezzo. Il campanile suona le nove. Due o tre ragazze discendono la strada nei loro costumi domenicali di marrone - purpureo. Noi camminiamo nel senso contrario, risaliamo, nella limpida, sonante, aria agghiacciata, a ritrovare il sentiero della sera prima. E di nuovo, da lassù, è stupendo nella tagliente mattina! Tutto il villaggio si stende in un'ombra azzurrognola. Le colline coi loro magri boschi pallidi di querce sono nell'azzurro dell'ombra anch'esse. Solo in lontananza il sole di ghiaccio splendente fa un meraviglioso riverbero come gioiello sui dolci pendii coperti di magri boschi di quell'interna regione. È una fresca, meravigliosa bellezza tutto intorno. E uomini di tal sorta! Ridiscesi al villaggio c'imbattiamo in una piccola bottega, dove compriamo biscotti e sigarette. E troviamo i nostri amici conducente e bigliettaio. Ma sono timidi stamani. Si dicono pronti a partire se noi siamo pronti. E così noi montiamo, allegramente, per lasciare Sorgono. (…) Questa mattina di domenica, come vedo il gelo per gli intricaci e ancora selvaggi cespugli di Sardegna, la mia anima è di nuovo esaltata. Questo non è del tutto conosciuto. Non è del tutto esaurito. Qui, la vita non è soltanto un processo di riscoperta a ritroso. Lo è, ma non soltanto; lo è anche, e intensamente. L'Italia mi ha restituito non so che cosa di me; ma certo molto, molto. Ha ritrovato in me canto che era perduto: come un ricostruito Osiride. Ma questa mattina nell'autobus io compren­do che, oltre la grande riscoperta del passato che uno deve pur fare se vuoi essere intero, vi è un movimento in avanti. Vi sono terre sconosciute, mai prima lavorate, dove il sale non ha perduto il suo sapore. Ma prima bisogna che uno abbia completato se stesso nel grande passato.

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(…) Quando si viaggia si mangia. E subito noi cominciamo a sgranocchiare biscotti; e il vecchio contadino dalle bianche brache a sacco e dalla nera corazza, la vecchia faccia che sorride meravigliata sotto il vecchio berretto a calza, comincia, sebbene non vada che a Tonara, distante appena undici o dodici chilometri di qua, a scorticare un uovo sodo che ha tirato fuori del suo pacchetto. Con calma aria di dissipazione strappa via il bianco dell'uovo in uno col guscio, perché vi è rimasto attaccato il guscio. Il cittadino di Nuoro, poiché tale il giovane dalla faccia ridente è risultato essere, gli dice: "Ma vedete come lo sciupate!". Per tutta risposta il vecchio contadino fa: "Ah!" con un agitare noncurante della mano. Che cosa gli importa di sciuparlo, quando si trova in viaggio e, per la prima volta nella sua vita, va in automobile. Il cittadino di Nuoro ci racconta che ha certi affari a Sorgono, e così va di continuo avanti e indietro. Il contadino faceva un lavoro o un altro per lui, e gli portava giù qualcosa da Tonara. Era proprio piacevole, il giovane dalla faccia ridente, e rese un nulla le nostre otto ore di autobus. Ci disse che c'era ancora molta selvaggina in quelle montagne: cinghiali che venivano cacciati in grandi battute di caccia, e lepri, lepri senza fine. Era curioso e bello, ci disse, vedere di notte una lepre affascinata dalla luce dei fari dell'automobile, correre e correre in testa con le orecchie gettate indietro, tenendosi sempre dentro il raggio della luce, e volando, volando pazza, finché a qualche salita non acquistava velocità su di voi e scompariva nel nero della notte.

Salire verso Tonara.


Scendemmo in una stretta valle profonda, fino all'incrocio stradale e all'osteria, poi di nuovo salimmo, su e su per un ripido pendio, verso Tonara, il villaggio che avevamo visto il pomeriggio prima, nel sole. Ma lo accostavamo ora per di dietro. E come entrammo nella luce del sole, la strada infilò una lunga curva su un aperto ciglio tra due vallate. Così, dritto innanzi a noi, vedemmo uno sfavillare di scarlatto e di bianco. Era in lento moto. Era una lontana processione, scarlatte figure di donne, e una grande immagine che lentamente lentamente moveva via nella mattina di domenica. Andava lungo l'assolato ciglio eguale a picco su una profonda vallata. Una fitta processione di donne che sfavillava in scarlatto, bianco e nero, muovendosi nella distanza, con lentezza, verso una vecchia chiesa isolata, sotto le grigio-gialle costruzioni del villaggio appollaiato sulla cresta; e tutto lo stretto altopiano era come un ponte di luce solare. L'avremmo vista ancora? Di nuovo l'autobus svoltò e corse per la strada ora piana e quindi prese un'altra dirczione. E là in fondo, un po' in basso, vedemmo la processione venire. L'auto­bus rallentò, si fermò, e noi saltammo fuori. Sopra a noi, vecchia e molliccia tra lisce rocce e spruzzi di erba piatta, c'era la chiesa, e sonava la sua campana. Dirimpetto, sempre sopra, c'erano vecchie, semidiroccate case di pietra. La strada veniva su in dolci curve da quanto pareva fossero due villaggi addossati l'uno all'altro sull'ardua cresta del pendio a mezzogiorno. Lontano, giù da quel pendio c'era l'altra vallata, con un bianco sbuffo di macchina ferroviaria.

la processione di S.Antonio


E lentamente cantando nella prossima distanza, piegando incontro a noi sulla strada bianca tra l'erba, avanzava la processione. L'alta mattina era immobile. Noi stavamo su quel ciglio sopra il mondo, con a destra le profondità di silenzio, appiè di noi. E in uno strano, breve staccato di monodia cantavano gli uomini, in un vivo, leggero stormire rispondevano le voci delle donne. Poi ricominciavano gli uomini. Il bianco era di uomini, non di donne. Il prete in tutto il suo apparato di tuniche e stole, coi suoi ragazzi allato, conduceva il canto. Subito dietro a lui c'era un piccolo gruppo di alti uomini abbronzati dal sole, contadini di montagna, che, a testa nuda, e in pantaloni di velluto dorato, procedevano curvi sotto il peso di una grande immagine a grandezza naturale di Sant'Antonio da Padova. Veniva quindi un ceno numero di uomini in costume, ma con le bianche brache che pendevano ampie e sciolte sin quasi alle caviglie invece di essere costrette nelle uose nere. Così essi sembravano molto bianchi sorto la nera increspatura del sottanino. Il nero giustacuore di panno era tagliato corto come una giacchetta da sera, e i berretti a calza erano inerpicati sulle ceste nei modi più vari. Gli uomini cantavano in cupo, basso cono melodico. Poi veniva il frusciante scampanio delle voci femminili. E la processione strisciava lenta, avanzava senza scopo a tempo col canto. La grande immagine cavalcava rigida, e piuttosto assurda. C'era un vuoto dopo gli uomini: poi il cuneo sgargiante delle donne. Esse procedevano a due a due, strette l'una alle calcagna dell'altra, e cantavano con brusca ripresa come il loro turno veniva, sgargianti e belle nei loro costumi. Le prime file erano di ragazzine, due per due, subito dietro ai grandi uomini in bianco e nero. Bambine, timide e convenzionali, in vermiglio, bianco e verde... ragazzine in lunghe gonne di panno scarlatto che scendevano loro sino ai piedi con una banda verde vicino all'orlo; in grembiuli bianchi orlati di vivido verde e di un colore diverso; con un piccolo bolero scarlatto, fermato in porpora sulla gonfia camicetta bianca, e neri panni in testa annodati sotto il mento che lasciavano appena le labbra scoperte, incorniciando il taccino nero. Ragazzine meravigliose, perfette e timide nel rigido costume sgargiante, con le teste vestite di nero! Rigide come principesse di Velasquez! Seguivano ragazzine più grandi, ragazze vere e proprie, poi le donne mature, una fitta processione. Le lunghe gonne vermiglie con le bande verdi in fondo erano una solida massa mobile di colore che ondulava, ondulava morbidamente, e i grembiuli bianchi con l'orlo vivido verde alterno sembravano scaglie di luce. Le bianche camicette gonfie erano legate sotto la gola con grandi borchie di filigrana d'oro, due globi di filigrana agganciati l'uno all'altro; e le ampie maniche bianche sgorgavano dallo scarlatto bolero orlato di verde e purpureo. Le facce si avvicinavano, incorniciate nei loro panni scuri. Tutte le labbra cantavano nelle repliche, ma tuttti gli occhi ci guardavano. E la massa colorata della processione giunse con un morbido ondeggiamento sino a noi: il panno scarlatto-papavero ondeggiò liscio a fondersi tutto insieme, le bande e le strisce di verde-smeraldo parvero fiammeggiare tra il rosso e il bianco vivo, gli occhi scuri si fissarono su di noi sotto ai neri cappucci e si giravano a star fissi su di noi in intensa curiosità, mentre le labbra si muovevano automatiche cantando. L'autobus si era fermato dal lato interno della strada, e la processione dovette nel sorpassarlo stringerlo da presso, spostandosi verso il ciglio affacciato sul cielo alto sulla grande vallata sottostante. Il prete guardò, il brutto Sant'Antonio traballò da una parte un poco mentre superava la sagoma quadrata del grande autobus grigio, coi contadini nei vecchi pantaloni umidicci di velluto color d'oro, che sudavano sotto il carico e pur cantavano a labbra socchiuse; le bianche brache degli uomini si agitarono nell'atto che quelli passavano con le mani dietro la schiena; e le facce si voltavano, per continuare a guardarci. Oh, le grandi mani dure, giunte dietro la schiena sulla nera increspatura del sottanino! Ed ecco le donne sospingersi lentamente anche loro oltre l'autobus, dondolando lo scarlatto e le bande di verde delle gonne, torcendosi indietro a guardarci ancora mentre sempre cantavano. Così tutta la processione passò, e ora sfilava in su, saliva massiccia contro il cielo verso la vecchia chiesa. Da dietro, lo scarlatto geranio delle gonne era incenso, si vedeva il dorso accuratamente, curiosamente tagliato dei bolero color rosso-papavero con i ricami malva e verde, e delle camicette si scorgeva appena una striscia bianca alla cintola. Le maniche rigurgitavano, i panni neri delle teste pendevano a punta, e ondulavano, ondulavano lentamente le increspate gonne, in un moro che le larghe strisce di verde accentuavano perché andava­no indietro e avanti, indietro e avanti in meraviglioso moro orizzontale, indietro e avanti in una lunga, folta ricca striscia di verde gioiello, in meraviglioso moto orizzontale di soave vermiglio, e davano uno statico fulgore a quel moto di contadine cosi magnifico di geranio e malachite. Non tutti i costumi erano esattamente eguali. Alcuni erano più ricchi, altri meno, di verde. E il rosso dei bolero era in alcuni più scuro, in altri meno. E i grembiuli erano in alcuni più poveri, senza ricami colorati tutto intorno. E se ne notavano di vecchi, di molto vecchi: costumi vecchi anche di trent'anni, ma perfetti ancora, conservati per le domeniche e le grandi feste. 11 vermiglio era diventato scuro, molto scuro in questi. Ma questo variare del tono rendeva canto più intensa la bellezza del femminile esercito in moto. Come poi ebbero tutti infilata la piccola chiesetta grigia ch'era sopra di noi, l'autobus scivolò silenziosamente per fermarsi più giù al suo solito posto di fermata, e noi ci arrampicammo per il sentiero tracciato nella roccia su su fino alla chiesa. Arrivammo a una delle porre laterali e trovammo tutto pieno. All'altezza di noi che stavamo sulla soglia della porta aperta, vedemmo in ginocchio sulle nude lastre di pietra le ragazzine, e dietro le donne in ginocchio sui loro grembiuli in file serrate, le mani negligentemente unite nel gesto della preghiera, riempiendo la chiesa sino alla lontana porta aperta dove brillava forte il sole: la grande porrà principale aperta sul ponente. Nell'ombra della bianca chiesa ignuda tutte quelle donne in ginocchio coi loro colori e i loro panni neri sulle teste sembravano una fitta aiuola di fiori, gerani incappucciati di nero. Stavano tutte in ginocchio sulla nuda pietra del pavimento. C'era un po' di spazio libero davanti ai gerani delle ragazzine, poi cominciavano le file degli uomini, ed erano gli uomini in pantaloni di soffice oro inginocchiati in posa di goffa reverenza, con le scure ceste tonde, poi gli uomini dalle bizzarre corazze nere e le gonfie maniche bianche, con le teste grigie e molti con la barba. Quindi, proprio di fronte a essi emergeva in piena vista il prete nella sua corta bianca e stava giusto per attaccare baldanzosamente una predica. Sant'Antonio da Padova era stato posato accanto all'altare, e là esso troneggiava piuttosto pieno di sé, moderno, sorridente a vuoto, con un bambino tra le braccia. Sembrava una specie di Madonna maschile. "Ora" diceva il prete, "il beato Sant'Antonio vi mostra in che modo dovete essere cristiani. Non è, non è abbastanza che non siate turchi. Alcuni credono di essere cristiani perché non sono turchi. Vero che nessuno di voi è turco. Ma voi avete ancora da imparare come essere buoni cristiani. E questo voi potere impararlo dal nostro beato Sant'Antonio. Sant'Antonio..." Il contrasto fra turchi e cristiani è ancora violento nel Mediterraneo dove i maomettani hanno lasciato una impronta così forte. Ma come mi dà ai nervi la parola cristiani, cristiani pronunciata con particolare untuosità pretesca. La voce di quel prete è sterile nella sua omelia. E le donne guardano tutte intensamente l'a-r e me sulla porta, tenendo giunte le mani con molta negligenza. "Andiamo!" dico. "Andiamo e lasciamo che ascoltino.'" Lasciammo la chiesa affollata della sua turba in ginocchio, e andammo giù tra le case smantellate verso l'autobus che stava su una specie di belvedere, una terrazza spianata con qualche albero intorno, silenziosa sopra la valle. Non sarebbe staro strano vedere soldati armati di archibugi che vi montassero la guardia. E io sarei stato contento di un'incursione di infedeli, che ci tirasse un po' fuori dalla nostra cristianità. Ma era un posto meraviglioso. Di solito noi si calcola la vita al livello del mare. Ma qui, nel cuore della Sardegna, la vita ha il suo luminoso altopiano, e il livello del mare è lontano da qualche parte, giù nella oscurità di là dai monti, e non ha senso. La vira vi ha alto il suo livello, alto e dolce di sole tra le rocce. Restammo fermi a guardare sotto nella valle lo sbuffo di fumo ferroviario, lontano nella boscosa valle per la quale eravamo passaci il giorno prima.

Mi sarebbe piaciuto vivere là


C'era una vecchia, bassa casa su quella piazza d'aquile. Mi sarebbe piaciuto vivere là. Il villaggio vero e proprio, composto di due villaggi uniti insieme come un orecchio col suo pendente, si alzava più in là, nel fondo, come uno sporto accanto al culmino del lungo, ripido pendio boscoso che non aveva fine giù per le sue profondità d'ombra. E per quel pendio il giorno prima era salito il vecchio contadino del treno con le sue due sgargianti figliole, e il cavallo carico delle bisacce. E da qualche parte in uno di quei due perlacei villaggi disposti in riga là di fronte doveva esserci il mio girovago col suo compagno. Mi sarebbe piaciuto vedere il loro banco alla fiera, e bere acquavite con loro. "Che bella la processione!" disse l'a-r rivolgendosi al conducente.