Giovanni Cena.
Fu
un gracile maestro dotato di una volontà e di un senso della scuola che elevava
l'insegnamento a missione, negli anni precedenti la prima guerra mondiale passò
al setaccio la palude alla ricerca di studenti tra le povere famiglie di
contadini, sfidando la malaria per portare una buona parola e un po' di luce nei
casolari spogli dell'Agro Pontino. Con la creazione di Casal Delle Palme (1927)
si dà inizio alla realizzazione di una serie di scuole per combattere
l'analfabetismo.
Con Giovanni Cena operarono poeti e artisti, altri insegnanti e medici: Giacomo
Boni, Angelo Celli, Alessandro Marcucci, Sibilla Alleramo e Duilio Cambellotti,
pittore e scultore che nella scuola di Casal delle Palme sull'Appia, tra
Cisterna e il bivio di Latina, ha lasciato sei quadri a tempera che
illustrano la vita in palude.
Ecco quanto scrive di sé lo stesso Giovanni Cena in una lettera da lui
inviata all'onorevole Luigi Federzoni:
"Nacqui il 12 gennaio del '70 [1870
N.d.R.]. Mio padre era
tessitore. C'era al mio paese, Montanaro, un castello
rovinato in cui
abitavano alcune famiglie. Noi avevamo due cameroni a pian terreno, senza
finestre, che avevano servito da prigione e tenevano ancora gli anelli alle
pareti di pietra sempre biancicanti di salnitro. Là ho cullato due o tre
fratelli prima che avessi la forza di fare le spole, la quale occupazione mi
riempiva tutte le ore libere dalla scuola. Poi mio padre andò a cercare lavoro
in Francia, ed ebbi due anni di libertà, nei quali distrussi molte tenere
nidiate; ma la pagai cara gli anni seguenti.
A undici anni, un prete che presagiva di me grandi cose,
incitò mio padre a mandarmi in un ospizio di Torino in cui la retta mensile
non superava le dieci lire, sorta di comunità conventuale ove scopavamo per
turno i dormitorii e rigovernavamo i piatti. Qui in un soppalco scovai alcuni
libri vecchi e secchi, fra cui: L'introduction à la vie dévote di San
Francesco di Sales e la Nouvelle Héloise che m'insegnarono il francese
e qualcos'altro. Facevo dei versi, ma i miei erano sempre bocciati e lo
meritavano. A sedici anni ottenni un posto gratuito al Seminario d'Ivrea e vi
studiai filosofia due anni; incominciavo il primo di teologia, quando mi si
sfrattò a causa d'una biblioteca che si scoperse sotto il mio materasso,
Leopardi, Giusti, Carducci, ecc., e - il più mostruoso, mi dissero - una
traduzione Le meraviglie del corpo umano di non so più chi, Virey, se
non erro.
Allora andai a cercarmi un pane per non domandarne a mio
padre, il quale d'altronde non ne aveva a sufficienza per sé e per i miei
fratelli, giacché, mentre io ero in collegio, a casa mia fratelli e sorelle
nascevano, morivano. Ne morirono tre, ma ne rimasero cinque. Poi morì mia
madre lasciando una bambina che agonizzò per un anno ancora. Come mi facessi
un'istruzione accademica e prendessi diplomi, è cosa che mi fa perdere spesso
ogni calma a pensarci. E quando, pensandoci, sento che potrò perdonare, allora
ho veramente il senso di essere un vittorioso.
Non ricordo quando ho cominciato a leggere; certo prima che
potessi rendermene conto. Mia madre, che era di nascita superiore alla sua
condizione, e allora aveva me solo, mi fece venir su tra i libri di un
antenato prete. Io mi vedo bimbo, col ditino e con gli occhi spalancati sopra
i fregi fantastici e sopra certi mascheroni di alcuni libri rilegati in cuoio
e oro, probabilmente libri di santi... L'istinto livresque è in me "infuso";
non ricordo di aver mai pensato ad altra occupazione per il mio avvenire che
alla letteratura. Ed eccomi qui sano e salvo, non senza ammaccature, e
letterato, di che mi compiaccio. C'è perfino chi m'invidia, e non manca chi mi
consiglia a benedire il felice ordine presente al quale devo se non morii di
fame. "Ringraziami che non ti ho strozzato", diceva il lupo alla cicogna.
...Esse (le mie idee) germinano dalle cose narrate sopra.
La sostanza è negli "Ammonitori" e lo svolgimento sarà in tutto quello che
andrò pubblicando in seguito. Le raccomando alla simpatia di tutta la gioventù
italiana. Io dò ragione a Lombroso. Io sento profondamente che soltanto lo
sfogo della letteratura e la fede nel suo potere di liberazione e di
elevazione mi hanno salvato dal diventare un Ravachol..."
La lettera è riportata nel volume
"Candidati all'immortalità" (Zanichelli, Bologna 1904).
Colpito da polmonite mentre organizza l'assistenza ai profughi Serbi,
soccombe il 7 dicembre 1917, assistito da pochi devoti amici, in quella
solitaria quasi aerea sua dimora di San Filippo ai Parioli, davanti a cui teorie
di pini italici si profilano quasi note musicali nei cielo di Roma.
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