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Khair ad-Din

al secolo…

Francesco Raimondo
[ ciccioraimondo@libero.it ]

Torre del Greco (Litorale Est)


Ecco la versione integrale de "La prima volta di Enzuccio" uno dei tanti racconti lunghi dello scrittore Khair ad-Din alias Francesco Raimondo. L'autore nasce il 25 dicembre del 1945 a Torre del Greco, e nella tarda adolescenza si laurea in Storia e Filosofia all'Università Federico II di Napoli. Per diversi anni ha insegnato Pedagogia a Torre Annunziata. Attualmente svolge il ruolo di assistente sociale nella città di origine, integrandolo con le attività di scrittore, di pittore e di attore teatrale.


L'autore da giovane      Enzuccio abitava "'ncopp' 'a guardia" nel centro storico di Torre del Greco dove era nato sul finire degli anni trenta, poco prima dell'inizio della guerra di cui aveva vissuto assieme alla famiglia, modestissima, e a tutta quanta la città le paure e gli orrori. Nelle sue orecchie di bambino il sibilo delle bombe con le loro terribili esplosioni, negli occhi immagini di palazzi sventrati, di macerie, di morti ammazzati per le strade sia essi uomini o povere bestie ancora attaccate alle carrette, come era avvenuto in quella pasqua insanguinata del 1943! Alla guerra poi era seguita la pace. Ma Enzuccio era stato segnato dalla terribile esperienza. Fu quella una generazione a cui i grandi, senza esserne in alcun modo coscienti, come sempre avviene, avevano sottratto l'adolescenza che con i suoi sogni, con le sue fantasie rende più accettabile, più soffice poi l'impatto giovanile con la realtà della vita. A tredici, a quattordici anni, nei vicoli e nelle piazzette o nei larghi chiassosi di Torre anche Enzuccio e la sua comitiva di coetanei, che formava quasi sempre una banda di quartiere, giocavano. Ma nei loro giochi si poteva notare un non so che di serioso. Poco più che bambini assumevano atteggiamenti da grandi, imitavano infatti più che gli eroi dei film americani proiettati al cinema Savoia, al Vittoria, "pidocchietto", all'Iris, al Garibaldi, i loro padri e zii e nonni alle prese questi ultimi con i problemi della vita. E la vita in quegli anni era difficile; molto difficile per tutti: per i poveri come per i ricchi. Ciascuno infatti aveva i suoi problemi da risolvere in un dopoguerra che sembrava non aver mai fine e che per Napoli e provincia durerà fino alla prima metà degli anni sessanta! Ma questo discorso ci porterebbe molto lontano perciò torniamo a bomba ad Enzuccio ed ai suoi coetanei che per la maggior parte dopo la scuola elementare dai maestri passavano ai "masti". Qualcuno, come il nostro Enzuccio, si era trovato seduto accanto ad un banco assieme ad adulti artigiani assai poco propensi a ritenerlo ancora un bambino. Qui aveva fatto conoscenza con "fusetti", con "pece greca", con gli acuminati bulini e le pietre per affilarli, con i "pezzi" di conchiglia tagliati in varia misura e qualità e destinati a diventare cammei e monili e amuleti e "chionze" che in quel periodo a Napoli facevano ancora la felicità dei soldati e dei turisti americani. Qui ancora veniva iniziato dagli adulti ai misteri del sesso e dell'amore. Cammei riproducenti delicati, classici profili di donne belle, dai capelli ondulati, ornati di fiori, dagli sguardi sognanti, dai colli lunghi, levigati e lucidi, dai seni turgidi come la materia in cui erano incisi, si alternavano ai corni, agli "scartellati", agli "alati cazzi" ricavati dalle parti meno nobili della conchiglia e che in varie misure e fogge e fattura venivano prodotti per un mercato più osé. Seduti a quei banchi beveva la vita con i suoi tabù, i suoi pregiudizi, e imparava da quei "masti" il bene come il male. Ed un altro ancora, vivendo le stesse esperienze di vita, imparava invece ad avere dimestichezza con crogiuoli, con trafile, con pinze, con incudini e martelletti, con acidi e mordenti e con tavolette di amianto di cui non ancora si sapeva quanto fosse pericoloso e che veniva maneggiato, "respirato" con incolpevole ignoranza. Le giovani mani toccavano e l'oro e l'argento e il corallo e le pietre preziose che su quei banchi venivano assemblati in artistici gioielli. Nella bottega del falegname, come immerso nel frastuono della via o del vicolo o del cortile con le loro continue sollecitazioni, c'era chi imparava, aiutando il masto, a riparare e a costruire mobili anche se la sua prima occupazione era per il momento quella di ravvivare il fuoco della fornacella sotto il "cato cu' 'a colla" di pesce o di coniglio" con i "ricci" raccolti da sotto al bancone. Sapeva già distinguere il legno di noce da quello di abete o di castagno ad occhi chiusi, solamente annusandoli, malgrado il fumo. E si andava innamorando così, fisicamente, del suo futuro mestiere! Gli amici di Enzuccio, quelli del quartiere, quelli che formavano la sua banda, erano come lui apprendisti artigiani, a quella, se vogliamo, ancor tenera età. Umberto 'u capuocchio, Franchino 'a licella, 'Ntonio 'ntoff' 'i cannuol', Giggino 'u fil' 'i fierro, Pitruccio cap' 'e cavallo, Cicciotto 'u pasticciotto, Nicola 'u piscetiello, Aniello 'u scazzato, questi in genere i loro nomi con l'immancabile "strangianome". Anche Enzuccio aveva il suo: purpetiello. Si era all'inizio dell'autunno di uno dei primi anni cinquanta: il cinquantaquattro. L'estate era stata molto calda. Enzuccio 'u purpetiello intruppato nella sua banda aveva trascorso le domeniche scorrazzando tra il lido Cavaliere e quello della Scala con puntatine anche nelle acque limpide del porto e della Scarpetta. Durante la settimana ciascuno al proprio posto, a lavorare. Il sabato metà giornata e la domenica tutti al mare! Una maglietta, un calzoncino corto l'immancabile paio di zoccoli, una sacca di tela per la colazione, l'asciugamani ed il costume da bagno. Erano di moda quelli costituiti da due pezze di stoffa abbastanza grezza di colore vario, ma in genere di un blu carico. Costumi audacissimi, degli slip, che si stringevano alla vita al di sotto sempre dell'ombelico con due lacci passanti da quattro asole di metallo per lato che dopo i primi bagni si arrugginivano e davano tanto fastidio alla pelle. Sotto i caldi raggi del sole, felici per il solo fatto di esistere, lui e la sua rumorosissima comitiva, a parte i tuffi, a parte la pesca delle angine, a parte la raccolta delle cozze lungo le scogliere o delle "arzichelle" sopra le "chiane", in quel periodo fecero quasi una simultanea collettiva esperienza sessuale. La presenza di coppiette che nelle acque e dietro gli scogli o lungo la massicciata della vicina ferrovia, tra gli antichi ruderi delle Terme romane o nelle recenti moderne casematte costruite tempo prima a difesa del territorio da un attacco nemico dal mare, si davano da fare aveva suscitato la loro ancora infantile curiosità timorosa per certe visioni così esplicitamente carnali, se pur fugaci e misteriose. Così dai succinti costumi incominciarono quell'estate a far letteralmente "capolino" i loro giovani uccelli con le ali aperte, pronti a spiccare il volo dell'avventura sessuale. Sul finire, dunque, di quell'estate la comitiva aveva transumato tra la nera striscia di spiaggia che andava dal ponte di Rivieccio fin sotto la severa e squadrata mole della torre di Bassano con alle spalle la strada ferrata che si faceva "sentire" con i passaggi cadenzati dei suoi treni ed anche con l'odore particolare del ferro dei binari, e del ferodo dei freni che di tanto in tanto colonne di vento in discesa faceva tracimare dall'infuocato alveo ferroso attraverso i sempre mossi canneti. In questo paesaggio un poco più isolato rispetto ai bagni del Cavaliere, che lì, sotto l'alto muro di cinta del cimitero nuovo, brulicava di gente di ogni età i cui accenti familiari di tanto in tanto arrivavano alle orecchie trasportati dal maestrale, alla spicciolata o proprio tutti insieme in un certo momento della giornata ci si "rintanava" tra gli ombrosi basalti della scarpata, odorosi di selvatica vegetazione o tra i "cassoni", infossati nella scura rena frammista alla sottile, biancastra cenere vesuviana del 79 d.C., per celebrare un rito antichissimo e nuovo, eccitante e piacevole assai: la masturbazione.

     Uno alla volta, per vie diverse, spinti dalla natura ormai così prepotentemente sollecitata e dalle facili occasioni che la strada e l'ambiente offriva a quel tempo, ciascun componente la banda di cui faceva parte Enzuccio 'u purpetiello, con in testa Umberto 'u capuocchio e Franchino 'a licella aveva fatto anche la sua prima esperienza sessuale vera, con una femmina cioè, al di là delle esercitazioni collettive giù a mare. Questo era diventato in breve un argomento non secondario di conversazione quando, dopo il lavoro, nel tardo pomeriggio, si ritrovavano a giocare a sott' 'o muro, a 'n tacca vreccia, o se ne stavano seduti lungo i marciapiedi a ridere e a scherzare, dimentichi a volte della vita che intorno pure si svolgeva. A quell'età l'amicizia e la vita di clan sono caratteristiche universali. Istintivamente, naturalmente, emergono nel gruppo le figure trainanti, i capi tacitamente riconosciuti. La loro preminenza può essere originata da qualità fisiche o da doti di intelligenza e di forte personalità. 'U capuocchio e 'a licella assommavano queste qualità ed insieme condizionavano con le loro scelte la vita del gruppo. Erano stati i primi ad andare a puttana e si sentivano perciò già "uomini fatti". Qualche "masto" più "masto" si era preso il compito di introdurli ai piaceri di Venere. Quella Venere che tanto spesso vedevano scolpita nella corniola o nella sardonica conchiglia. Veramente non si trattava proprio di quella ma di una miliardesima copia che in vari gradi ed in ogni tempo ed in ogni dove ha sempre espresso ed esprime comunque la Forza Vitale della Natura in lotta con la Morte. Unica sua arma, sempre vincente: l'Amore nel suo duplice, stupefacente aspetto fisico-spirituale. Per la maggior parte avevano seguito l'esempio dei capi e per questo si sentivano più importanti, più "esperti". Ciascuno raccontava a modo suo la propria "prima volta" facendo in genere delle descrizioni della donna con immagini iperboliche che ad un ascoltatore più preparato avrebbe ricordato più che la Venere di Botticelli sculture preistoriche in genere acefale e ridondanti di curve con prospere natiche, con vasti ventri, con seni generosi. Solo Enzuccio 'u purpetiello non aveva ancora fatto l'esperienza diretta con l'amore. Era rimasto al "cinque contro uno" come, ridendo, anzi sghignazzando, gli ricordavano quasi tutti i suoi amici. La cosa, cioè il fatto che veniva preso in giro, non lo aveva preoccupato più di tanto all'inizio, ma poi con il passare dei giorni aveva notato che i suoi "punti" all'interno del clan stavano paurosamente subendo un calo vistoso nonostante la sua riconosciuta bravura come disegnatore, apprendista incisore. Ogni riunione stava diventando una vera tortura. Frizzi, lazzi, ammiccamenti, mezze frasi di cui i giovincelli avevano sùbito appreso ad usare stando con i grandi, non venivano risparmiate al suo indirizzo. 'u capuocchio e 'a licella gestivano sapientemente la "manfrina", fingendo di redarguire i provocatori, ma sotto, sotto, li ispiravano e li incoraggiavano. Fu così che poco alla volta proprio i due capi, una botta al cerchio ed una alla botte, riuscirono a convincere il recalcitrante e timoroso Enzuccio ad affrontare la prova. Ed invero lui stesso era affascinato e ansioso di "fare" questa esperienza ora che tutti i suoi compagni l'avevano fatta. Si sentiva come inferiore e quasi ne stava prendendo una fissazione. Per questo alla fine la decisione fu presa. Capuocchio e licella lo avrebbero accompagnato. Si tenesse pronto. A settembre inoltrato le giornate erano splendide. Non più la luce del sole di piena estate, non più alte temperature. L'aria meno calda rendeva il paesaggio più godibile nei dettagli e nei colori. La città ancora intatta, a parte le ferite belliche di una decina di anni prima, si offriva ai nativi e ai villeggianti nel suo incanto. Verde. Verde. Verde dappertutto. Verde dalle mille gradazioni che da sotto il cono della montagna in moltissimi punti arrivava fino al mare! La comitiva continuava di sera a riunirsi. Sciamava spesso per la ripida discesa di via A.Luise o saltellando ancora giù per le gradinate della ciucciara si recava vociante alle Cento Fontane per bere un poco di quell'acqua così saporita e fresca e di cui si sentiva lo scrosciare molto prima di vederla. Il monumento con i suoi zampilli lo si poteva vedere, infatti, solo quando si era giunti sul ciglio del nero scalone perennemente bagnato. Si sbucava poi, passando sotto i ricostruiti ponti della ferrovia sulla spiaggetta alle spalle della quale ancora si affacciavano i ruderi della Polesella e della Tianara. Un lungo, tozzo muretto delimitava la spiaggia dalla stretta via del porto. Qui venivano depositate, come in un cimitero, vecchie e sgangherate coralline e barche da pesca. Il loro fasciame fradicio e seccato dal sole faceva intravedere dai larghi squarci neri madieri di quercia, che richiamavano alla mente costole di carogne in decomposizione. Prive di bompresso, di antenne, con alberature spezzate, coricate sui fianchi come a cercare la posizione migliore per riposare in pace, con il loro aspetto dimesso, quelle vecchie imbarcazioni suscitavano sempre delle forti, malinconiche emozioni! Ma, quando ci si avvicinava o ci si avventurava per giocare, dalle carcasse si levava una puzza di nafta, frammista a quella di innumerevoli deiezioni umane e di animali che si univa a quella del legno, ormai fradicio, formando un cocktail insopportabile. Per questo le escursioni erano sempre brevi, laddove avrebbero potuto fare la felicità di un giovane fantasioso. Enzuccio era uno di questi e quante volte si era provato a rimanere a bordo di una di quelle ex imbarcazioni, immaginando onde fragorose, vele gonfie di vento, navigazioni avventurose alla ricerca di banchi di rosso corallo, si era dovuto sbarcare dopo appena dieci minuti! Però quell'angolo di marina lo aveva spesso disegnato tentando di emulare il pittore De corsi, che abitava poco distante, lì nei pressi del Castello Baronale, e che di quegli scorci era il geniale interprete con la sua tavolozza intonata sul grigio. Peppenell' 'a cortulella "lavorava" proprio al porto, o meglio "dietro" ed era stata scelta da 'a licella per l'iniziazione di Enzuccio. Quella domenica 19 settembre 1954 Enzuccio non l'ha mai dimenticata. Si festeggiava quel giorno uno dei Patroni della città, S.Gennaro. Ma non per questo egli la terrà poi bene in mente. Quel pomeriggio sarebbe venuto 'a licella ed insieme si sarebbero recati giù al porto per il "sacrificio". Quasi non aveva toccato cibo per la tensione. Sbocconcellò solo una "zeppola" prendendola furtivo dal cestino sopra la mensola della cucina e che la mamma aveva fritto e guarnito con marmellata di cresommole che a lui tanto piaceva per il pizzicore che procurava sotto al palato. A sera si festeggiava l'onomastico del padre. Sarebbero venuti i suoi amici… Franchino 'a licella comparve puntuale come un innamorato sotto al suo balcone, gli fece segno e lui sgattaiolò infilando veloce le poche rampe di scale che lo separavano dalla strada. Tra il rumore delle stoviglie la madre gli gridò dietro qualcosa, ma lui non l'aveva sentita. Con i loro vestiti leggeri a tinte chiare si incamminarono in quel tardo pomeriggio domenicale attraversando la città quasi appisolata. Pochi passanti, quasi nessuna automobile. Piazza Santa Croce, inondata di luce, era completamente deserta. Al suo centro il nero cerchio dei sedili di ghisa, ed i quattro chioschi verdi ai suoi angoli proiettavano lunghe ombre sul selciato dandole un'atmosfera inquietante, come quella che si può osservare in certi quadri di De Chirico. Attraversarono rapidamente via Diego Colamarino e, superata la chiesa di S.Maria delle Grazie, scivolarono lungo la discesa di S.Anna, rasentando l' assolata sagoma dell'antico Convento degli Zoccolanti incastonato nella sua "terra frutteto" che si allungava fin quasi al porto lì ai confini dalla frondosa Castelluccia. Il suono cadenzato del clacson di un'auto civile li sorprese accanto alla chiesa di S.Maria del Principio. L'ex Casa del Fascio, ora Ospedale A.Maresca, stava per accogliere nel suo pronto soccorso qualche infortunato. Si fermarono voltandosi incuriositi a guardare la "giardinetta" proveniente velocissima dalla discesa or ora percorsa. Niente feriti sanguinanti o persone portate in braccio. Videro una bella giovane che, aiutata da una anziana donna e dall'autista, dopo essere scesa dall'auto, calma, con il suo pancione si avviava con passi lenti ma decisi verso l'entrata del pronto soccorso. I due amici si guardarono e sorridendo con le destre e le sinistre unite allungarono in avanti le braccia formando delle allusive circonferenze e facendo seguire al gesto le destre oscillanti. Senza parlare si erano detti allegri: all'anema da panza! Ripresero il cammino ma dopo quella visione i due fecero un tratto di strada senza più parlare come assorti in riflessioni di qualche importanza. Ruppe il silenzio Franchino 'a licella che chiese: Oh, i sord' 'i ttiene cu' ttico? Un annuire con la testa, quasi una riverenza, fu la risposta di Enzuccio mentre percorrevano l'ultimo tratto di via C.Battisti tenendo di fronte i cancelli chiusi dei Mulini Meridionali Marzoli. Si fermarono ad ammirare per qualche momento il panorama dalla sommità della scala che unisce via Calastro alla sottostante via del porto. Il maestrale, data l'ora aveva esaurito la sua forza. Soffiava, lievemente e a tratti, facendo sventolare mollemente il tricolore esposto sul balcone della vicina Capitaneria. L'azzurra penisola sorrentina e Capri ed Ischia ed infine Napoli le potevi afferrare con le mani, sotto un cielo azzurro chiaro ove altissime si andavano formando innumerevoli bianche "pecorelle". Nel porto, allineate come in parata, le "menaidi" con le loro tipiche ruote di prua ed i lunghi remi riposti diligentemente nella maniera solita e coperte dalle spesse e grigie tende "olona" dondolavano con impercettibili ma instancabili movimenti. Piccole imbarcazioni a remi, come canotti o veloci lanzetelle, si vedevano entrare ed uscire dal bacino portuale comparendo e scomparendo dietro la lanterna della lunga diga foranea o gli scogli della Scarpetta sovrastata dalla bianca, piccola chiesa di S.Maria di Portosalvo. Discesero le due "appese" rampe di scala e si ritrovarono come sul fondo di una "bolgia infernale". Levando gli occhi in alto a destra lo spettatore infatti poteva vedere ergersi a ragguardevole altezza, compatto, dal colore grigio scuro, quasi metallico, l'antico fronte basaltico risalente alla terribile eruzione vesuviana del 1631. Con il suo bordo frastagliato, le sue linee spezzate dava un senso di oppressione e di apprensione come se da un momento all'altro quella massa potesse riprendere la marcia ogni cosa travolgendo! Enzuccio si ricordò per una sorta di associazione di idee dell'illustrazioni dell'Inferno incise da Gustavo Dorè. Aveva recentemente avuto occasione di vederle e di restarne impressionato al circolo artistico D.Morelli in piazza S.Croce dove aveva accompagnato il masto. Stava ricordando con chiarezza il corpo di Taide, "…la puttana che rispose al drudo suo…" quando Franchino lo distolse con un: Ma che cazzo stai pensanno? Jammo, sagli' appriesso a mme, chella sta 'a cca ddereto! Chi? Taide? fece Enzuccio e l'altro senza capire gli lanciò un'occhiataccia interrogativa. I sacchi di grano all'arrivo e di farina al ritorno dai Molini Meridionali Marzoli venivano scaricati e caricati sulle navi tramite la "lupa": un sistema di nastri trasportatori che era coperto per tutta quanta la sua lunghezza da tettoia e pareti metalliche e per questo somigliava ad un lungo vagone ferroviario posto sopra la diga foranea. Questa struttura dalla diga allungandosi poi sulla banchina nel punto ove questa, prima largo spiazzo, iniziava a restringersi per formare la lunga curva, declinante a sud sud est, con la sue discese a mare, le sue bitte, i suoi anelli ferrosi, formava una specie di "ponte dei sospiri" dalla cui estremità rivolta al mare sporgeva una sorta di barcarizzo che veniva calato nelle stive per le varie operazioni. Una scala in ferro portava dallo spiazzo della banchina sulla sommità della diga ove poggiava il "vagone" quasi all'ombra dell'altissima e snella ciminiera nei tipici mattoni rossi che caratterizzano, assieme al basalto finemente lavorato, l'intero complesso. Per una cinquantina di metri la sede della diga era occupata quasi del tutto dal vagone. Una sola stretta striscia larga poco più che mezzo metro lasciava libero il passaggio di una persona alla volta. Chi vi si avventurava aveva alla sua sinistra le ondulate lamiere del lungo marchingegno e sulla destra non passamani o comode balaustre ma il vuoto e la sottostante scogliera a rispettabile profondità. La vista era però spettacolare con in primo piano i bagni della Scala, l'immancabile ferrovia, il suo verde retroterra, e verso il mare aperto si poteva vedere Resina, Portici, tutta Napoli e la collina di Posillipo. Ma a Franchino 'a licella e a Enzuccio 'u purpetiello in quel momento interessava ben altra bellezza, e non erano i soli! Raggiunsero la sommità della scala mentre Franchino stava proprio decantando all'amico le attrattive di Peppenella 'a corta. "Tene ciert' 'i ziz…" la frase gli si smorzò in gola quando vide una lunghissima fila di gente che se ne stava addossata alle lamiere ondulate del "vagone". Tutti clienti? Possibile? Ebbe per un attimo il timore che Peppenella se la fosse presa di festa, data la festa e che quelli stavano lì per altra ragione. I loro volti dovettero trasformarsi in due grossi punti interrogativi se un uomo di una certa età pensò di rassicurarli con un mesto "Nu poco 'e pacienza! Aspettammo 'o turno!". Altro che festa! Peppenella stava lavorando a pieno ritmo. Erano quasi cinquanta gli utenti! Di tutte le età e condizioni. Franchino fece passare avanti Enzuccio e si pose poco discosto per andarsene avendolo solo accompagnato. Lo avrebbe aspettato giù sulla banchina dove, postosi a fianco a qualcuno dei tanti pescatori, ne avrebbe seguito i lanci e la fortuna! Gli occhi di Enzuccio guardavano il mare sottostante ma non lo vedevano, tutta la sua attenzione era rivolta alla fila che lentamente si accorciava: uno scatto ogni cinque minuti circa… Intanto dietro a lui altri sopraggiungevano. Li si udiva schiamazzare nel mentre salivano la scala in ferro e poi li si vedeva accodarsi taciti ed assorti in un unico pensiero: fottere! Una strana emozione di petto aveva iniziato a prendere Enzuccio e cresceva a mano a mano che si avvicinava al luogo in cui Peppenella stava operando. Ecco, ora la poteva finalmente scorgere se pure ostacolato da chi gli stava avanti. Si pose ad osservarla con attenzione come se gli altri non esistessero. Ciascuno infatti ignorava l'altro come per una sorta di difesa psicologica. Niente morale, niente riflessione. niente di niente. Solo il desiderio di espellere da sé una parte di sé nel modo che la natura matrigna e maliziosa costringe a fare avendo Ella unito all'azione quel particolare piacere che le creature provano ogni qual volta uniscono gli opposti sessi. Per essere corta era corta ma era ben fatta, Peppenella. Così sembrava ad Enzuccio. Aveva i capelli nerissimi e furono la prima cosa che di lei aveva intravisto quando era ancora lontano nella fila.

Foto recente      Erano aggiustati a permanente, tutti arricciati torno torno, dalla fronte alla nuca. Orecchini di corallo, non penduli, assieme ad un'esile collana pure di corallo ornavano il volto ed il collo di Peppenella. Un volto bruno dall'ovale caratterizzato da mascelle squadrate ma non eccessivamente; sulla bocca piccola spiccava un rossetto carico, carico. Una bianca maglietta fatta a rete, a giro maniche, una larga gonna "a campana" di stoffa leggera stampata con figurine di ochette e stelline variopinte le arrivava poco sopra ai ginocchi, un paio di zatteroni con suola di sughero molto alta e tomaia di bianche lucide strisce di stoffa incerata completavano il suo abbigliamento. In quanto a zizze aveva ragione Franchino, le aveva veramente belle! Enzuccio le aveva viste bene quando quintultimo della fila le si era fatto più dappresso ad una distanza di sei, sette metri. Era la sua una posizione simile a quella di chi viaggiando in treno, in piedi nel lungo corridoio affollato, se ne sta appoggiato agli scompartimenti e può guardare fuori scorrere il paesaggio o sbirciare all'interno allungando lo sguardo fino in fondo, movimento di chi gli sta avanti permettendo. Vedeva perciò ad intermittenza le scene degli amplessi che Peppenella offriva per cento lire. Dopo aver preso veloce dalle mani del cliente la somma e biascicato qualche parola alzava la bianca maglietta mostrando i suoi bei seni, abbondanti ma sodi, lievemente più chiari del resto del corpo abbronzato dal sole, levigato dal sale. Essi si alzavano ancora stretti nella maglietta rimanendo per qualche istante come incagliati all'orlo della stessa per poi, fuoriuscendone, ricadere insieme con un improvviso movimento. I capezzoli oscillavano una, due volte e si fermavano all'unisono, duri, come ad indicare il cielo. Le braccia alzate in questo movimento lasciavano scoperti i ciuffi nerissimi delle ascelle. Alzava poi la gonna inserendo il bordo anteriore nella cintura che aveva alla vita e nuda rimaneva in attesa a gambe lievemente divaricate. Anche la pancia era piacevole a vedersi, con il pube prominente e stranamente imberbe come quello di una bambina. Le due corte gambe, come le braccia avevano un non so che di piacevole, di grazioso come quelle bambole di cartone gessato che venivano poste in genere sopra i letti del popolo basso a gambe aperte e che i maschietti immancabilmente andavano a visitare "sotto". Tra quelli che si approssimavano a mano a mano a Peppenella nel mentre questa "faceva" c'era chi volgeva lo sguardo altrove e chi invece aguzzava incantato lo sguardo e aumentava così la propria eccitazione. Enzuccio guardava e non guardava. Per un tratto aveva anzi fissato la sua attenzione sulle onde del mare sottostante dove proprio in quel punto della diga era privo di scogli, spazzati via da qualche violenta libecciata. Un occhio al mare ed uno alla "corta" che si copriva e scopriva con identici, stereotipati movimenti. Ma quella faceva anche qualcosa d'altro. Adesso l'aveva notata meglio. Mentre il cliente, scostatosi da lei, si rimetteva in ordine gli abiti e magari si accendeva un sigaretta per poi veloce allontanarsi lungo il grigio arco della diga, per scendere sulla banchina interna dalle scale, situate molto più avanti, lei prendeva qualcosa appesa ad un grosso bullone sporgente dalle lamiere ondulate e con mossa fulminea se la portava tra le gambe, quindi con altrettanta sveltezza la riponeva al suo posto. Una unica pezza! Uno straccio solo! Una umida mappina usava per nettarsi, per detergere la sua natura. Enzuccio rimase interdetto, stava per venire il suo turno, davanti a lui solo quell'uomo di una certa età che gli aveva rivolto prima la parola, quello della pazienza. Fino a quel momento il suo uccello se l'era sentito svolazzare nella gabbia desideroso di uscirne e volare, volare! Quella maledetta pezza, grondante di sperma collettivo, appesa ad un bullone, sotto i raggi di un sole ormai al tramonto, aveva smorzato come per incanto la sua libido. Rimase come incantato a guardare l'uomo, che molto alto rispetto a Peppenella, l'aveva aiutata a salire su un "basolo", che lì si trovava apposta, ed aveva iniziato a penetrarla in una maniera quasi animalesca, canina, con colpi ripetuti, sempre gli stessi, senza posa. Ma "a corta" schiacciata quasi contro le lamiere se ne stava stoicamente a pararli cercando solo di tenere lontano grosse e brutte mani dalle sue belle zizze! Sapeva bene lei che l'eccitazione precedentemente vissuta attraverso gli occhi faceva sì che le cose si concludessero subito. Come in quel caso. Solo un ah liberatorio, sibilato mentre scendeva dalla pietra e afferrava la pezza. Enzuccio fece due passi avanti, quasi spinto da chi gli stava dietro, poi si fermò a guardare la corta che nel frattempo si era abbassate la maglia e la gonna e teneva ancora in mano la pezza con il braccio allungato per appenderla. "Jamm' chi è primm'?" fece verso il gruppo e quelli indicarono Enzuccio rimasto a mezza strada, a quasi due metri da quella giovane donna belloccia, con gli occhi strani, come affetti da una lieve cispa e con una voce molto fine che contrastava con il suo aspetto robusto. Enzuccio non si muoveva continuava a guardare lei e poi la pezza. "'A corta" dovette leggere nel suo sguardo ingenuo di ragazzino, il disagio, diciamo lo schifo che la cosa gli aveva procurato e subito gli fece con cattiveria: "Ma che si' ricchione? E vattenn' che nun tengo tiempo 'a perdere!" Lo disse talmente inviperita e minacciosa che Enzuccio non se la sentì di passarle vicino a pochi centimetri. Allo stesso modo non se la sentiva di tornare indietro per rifare i cinquanta metri dove una fila di altre persone intanto si era formata, attendeva, ed era pronta a beffeggiarlo. Già quelli più prossimi a lui ridevano alle spalle di "chill' 'u muccusiell". Gli era sembrato ad un tratto che la corta gli si stesse avventando contro, lì su quella specie di stretta passerella e così, istintivamente, si lanciò nel mare sottostante da un'altezza di quasi cinque metri: "a bacchett' 'i ghiaccio". Sentì infilarsi nell'acqua calma e calda prima i piedi e poi tutto il resto del corpo provando una sensazione strana, nuova. Non si era mai tuffato vestito! Non aveva nemmeno pensato di turarsi le narici e l'acqua salata gli era arrivata in gola. Sputarla fu la prima cosa che fece riemergendo, quasi all'indirizzo della corta che nel frattempo egli vide dal basso sporgersi dalla diga a guardarlo e che, equivocando il gesto, ancora più arrabbiata, agitò minacciosa la pezza, cinguettò con voce querula un volgare improperio al suo indirizzo e si ritirò poi seguita dai suoi "ammiratori". Enzuccio nuotò sicuro allontanandosi verso la scogliera che più avanti riprendeva. Diede una lieve gomitata a Franchino intento ad osservare un bel cefalo "cerino" che emergeva, dibattendosi, attaccato alla lenza di un vecchio pescatore. Costui dal fisico minuto ed abbronzatissimo in bianca canottiera e vecchio, ma pulitissimo calzone blu, se ne stava seduto su un "cascettino" abbastanza grande e con una buona folla di curiosi intorno. Soddisfatto, mentre staccava con grazia quell'ennesimo pesce dall'amo, si fece un giro panoramico con lo sguardo, in maniera sorniona e con un sorriso reso più morbido dalla mancanza di tutti i denti! Rispondeva così all'unanime, silenziosa ammirazione. Franchino 'a licella, meravigliato molto nel vederlo così inzuppato, non si trattenne da un: "Ma ch' cazz' hai fatt'!? - Ch' è succies'?". Enzuccio lo tirò in disparte vergognoso degli astanti che li guardavano incuriositi. Si incamminarono quindi verso la spiaggetta all'interno del porto, all'altezza delle coralline in disarmo, che ancora era illuminata dall'ultimo sole. Durante il tragitto Enzuccio serio serio raccontò l'accaduto al compagno che lo ascoltava pensoso e che alla fine sbottò: "Vi' che puletess'! - 'I sord' che fine hanno fatto? - Vide 'i ttiene ancora? - Se so' spugnate? Le due cinquanta lire di carta, una sull'altra erano al loro posto se pure bagnatissime. Enzuccio le spiegò, dopo averle delicatamente separate, e per asciugarle, assieme ai vestiti, si pose in piedi su uno dei due scogli affioranti dalla rena, tenendole nelle mani aperte. Vedendolo così con le banconote pendenti dalle mani 'a licella, che non mancava di un certo spirito, gli fece improvviso: "Par' nu sant'!". E inginocchiandosi a mani giunte, quasi gridando: "San Ci' famm' 'a grazia!". Scoppiarono a ridere. Il sole era quasi del tutto calato, i panni stentavano ad asciugarsi e così decisero di tornare a casa, percorrendo strade meno frequentate. Si inerpicarono su per la salita del Barbacane facendo bene attenzione a non fare con i piedi brutti e puzzolenti incontri! Indenni superarono la vicina latrina pubblica proprio quando dalla tetra "bocca di lupo" della soprastante cella del carcere municipale si levava il canto a squarciagola di una canzone a dispetto. Era la magra consolazione di qualche anima disperata ed ubriaca. Percorsero un misterioso portico, scuro come la pece, e sbucarono sulla discesa di via Comizi che, già illuminata, si andava animando nella sera festiva. Si rituffarono ancora nelle mille stradine del centro storico ed uscirono poi sotto la casa di Enzuccio. Un piacevole odore di dolci "fatti in casa" li accolse non appena varcarono la soglia del portoncino unitamente a voci festose. Entrambe provenivano dall'abitazione di Enzuccio, affollata di amici e parenti attorno al tavolo posto al centro di un grande stanzone di cinque per cinque e di sette metri e rotti di altezza misurati nel punto più alto della gran volta a vela. A capo tavola il padre di Enzuccio, Gennaro, felice veniva festeggiato dai commensali che intanto si servivano con discrezione di zeppole, di castagne secche, di noci fresche, di "nucelle americane", di ceci e fave cotte. Da una panciuta "giarra" di vetro bianco bugnato ci si versava a turno il buon vino rosso prodotto "ncopp' 'i ttre vie" e che 'u cumpariello Ciccillo 'i ficchiniello aveva portato al festeggiato in due perettielli da cinque litri: il rosso e il bianco caprettone, "tant' bbuono 'a copp' 'u pesc'!" come diceva la mamma. E proprio la mamma accolse il figlio e l'amico con un preoccupatissimo "Ma ch' è stato! Pecchè stai tutt' 'nfuso?" Entrambi la rassicurarono subito descrivendole solo in parte la verità. Come avevano concordato per strada. Un piede in fallo proprio sopra la spiaggia ed Enzuccio era scivolato sulla chiana. Ma non si era fatto niente perché si era come sdraiato sopra un soffice, lucido, tappeto di cozze ancora in fasce, il fortunato! Entrò nello stanzino assieme alla mamma che lo rimise in sesto in pochi minuti: pettinato e calzato. Dopo aver arraffato la propria parte di noci, di castagne, di ceci e di fave riponendola nelle tasche come se fosse tanta bellica munizione, se ne uscirono di nuovo, allegri per come si era conclusa l'avventura. Quasi subito si incontrarono con tutta la comitiva che, con Umberto 'u capuocchio in testa usciva vociante dal teatrino dell'Opera dei Pupi di don Alfredo Buonandi in via A.Luisi. Ognuno di loro ebbe chi una castagna, chi qualche fava, chi delle noccioline e così, mangiando e sputando bucce tutt'intorno, ci si raccontò l'avventura di Enzuccio. Questi poco convinto rideva assieme agli altri. 'U capuocchio, ascoltata la storia, con aria divertita si rivolse ad Enzuccio e, guardandolo fisso, gli fece: "Ma tu vuo' fa' ancora, o no!?". Questi per tutta risposta fece il gesto come per dire "E perché no?", suscitando l'approvazione dell'intero gruppo. "E allora c'aspettamm'? - riprese risoluto - 'I soldi 'i ttiene? Venite cu' mmico!". Se ne scese la comitiva ancora per via Gradoni e Canali. Sbucarono "ncopp' 'i fierre", corso Cavour; l'attraversarono imboccando Largo Bandito e sbucando infine "sott' add' 'u Gavino". Un venticello fresco, proveniente dall'alto aveva preso, intanto, a soffiare lievemente verso il mare, comparso improvviso avanti a loro dopo il ponte della ferrovia, e che, ormai quasi buio, era illuminato qua e là da qualche rara "lampara". Umberto a modo suo aveva nel frattempo descritto ad Enzuccio la donna che avrebbe incontrato di lì a poco ricevendone il solito consenso di quelli che già "c'erano stati", e che ne dicevano un sacco di bene. "Ato che Peppenella 'a corta! Chella 'nzvosa!". Il prezzo era un poco più alto, ma ci avrebbe pensato 'u capuocchio a prestargli l'eccedenza. "Mo vide che bella patana!". Lì, nell'agglomerato delle antiche costruzioni che da un lato affacciavano direttamente sul mare e dall'altro sul largo e dritto Corso Garibaldi, nei pressi di uno dei tanti "magazzeni" da sempre adibiti al riparo delle barche, delle reti, insomma della varia attrezzeria marinara, ve ne era uno più defilato, usato come abitazione. Si fermarono quindi in una specie di cortile assai largo e profondo ove troneggiava da un lato l'ossatura di una barca in costruzione lunga sette o otto metri e tutt'intorno tavole di pino per terra o appoggiate in orizzontale ai muri a stagionare assieme a tronchi di gelso, di quercia, di noce. In un angolo neri bidoni bucherellati. Un grosso e lungo tronco di pino, più discosto, giaceva su alti e massicci cavalletti dove aspettava l'opera dei segatori. La comitiva si aggirava tra questi oggetti quasi in una sorta di oscurità. Dal vicino corso giungeva, infatti, una luce già smorzata che illuminava la scena di sbieco facendo risaltare le ombre delle tavole alle pareti, lo scheletro della barca, i bidoni coi buchi. Del mare pure così vicino, non si sentiva più la presenza, mentre nei nasi i ragazzi sentivano un forte odore di segatura, di bitume e di legno bruciato. Si stava tutti a guardare le due grosse ante semiaperte del "magazzeno" abitazione di Nannina 'a rossa e dalla quale si proiettava all'esterno una debole striscia di luce, quando, "Giggino 'u fil' 'i fierro" diede in un grido smorzato: "Maronna!!" Una grossa zoccola, come un'ombra nera gli era passata sui piedi schizzando improvvisa da sotto a un tavolone di pino su cui stava per sedersi. Il trambusto che seguì fu chetato dalla comparsa sulla porta, ora aperta a metà, di un vecchio in bianca camicia a maniche corte, sbottonata, ed in pantaloni chiari molto larghi. Teneva una sigaretta accesa tra le dita, come fosse la bacchetta di musica, ed essa fendeva l'aria scura seguendo e segnando il ritmo delle sue parole. "Ohe! che sta succerenn' ccà ffor'?!!" - "'A fernit' 'i fa' 'sta 'mbricciat' ?!!" - "E jamm'!". Umberto subito gli si avvicinò e a voce bassa tentò di spiegare: "No, don Anto', nuie, simme venut' pe'… po' 'a zoccola…" - "Qua' zoccola?!" ribattè l'anziano che si stava quasi incazzando. "Ma no, 'a figlia vosta, Nannina, ce sta?". Il vecchio dovette finalmente riconoscerlo come uno dei nuovi giovani clienti e si rabbonì subito, chiedendo quanti erano a voler entrare. "Capuocchio", riprendendo tono, rivolto ai suoi fece segno di allontanarsi, poi gli presentò Enzuccio: "Chist' 'u giovine è amico mio e vuless'…" e senza finire la frase gli pose nella mano, che aveva gettato il mozzicone, le banconote necessarie. I tre entrarono e si socchiuse la porta. Il vecchio andò a sedersi su una seggiola bassa, dai piedi segati, posta accosto ad un grosso telone grigioverde di quelli usati per coprire i cassoni dei camion. Esso scorreva lungo una cima tesa all'altezza delle riseghe dei due spessi muri laterali su cui insisteva una lunga, alta, larga ed imbiancata volta a botte, delimitando in questo modo due ambienti: la sala d'attesa e la camera. Enzuccio, rimanendo accanto a capuocchio, che lo rassicurava con la sua presenza, sembrava in attesa di qualcosa quando il vecchio con aria indifferente gli fece: "E vuo' trasì? Uno sguardo interrogativo all'amico e poi, facendosi coraggio, si spinse oltre il sipario. Il cuore gli batteva forte ora, e chissà perché, gli venne di pensare alla mamma che poco prima fiduciosa e premurosa lo aveva rimesso a nuovo. Ma fu un momento breve come un lampo. Era lì e doveva e voleva affrontare la prova. L'atmosfera era nuova, strana, misteriosa. Una fioca lampadina a forfè rischiarava malamente quella specie di camera dalle pareti lontane e dall'alto soffitto in penombra. Vi si addentrò cercando di mostrarsi naturale, ma i suoi movimenti rimanevano lenti ed impacciati. Si girò poi verso destra e, meglio illuminata dalla luce della lampada, posta come abat-jour su una vecchia "colonnetta", vide lei, Nannina 'a rossa, sdraiata come una maya sopra un alto lettino quasi accostato al pesante telone. O meglio ne vide prima le piante dei piedi, in primo piano, pulite, piccole. Poi, come in uno scorcio del Mantegna, le gambe, le ginocchia, le grosse cosce, il pube ramato e più su il ventre largo, di un rosa pallido con il suo ombelico ben accentuato, rotondo, dall'orlo dolcemente bombato. Al loro posto due grossi seni, tondi, tondi, come due cupole i cui lucernari erano i capezzoli ocra chiara. Le braccia rotonde armoniosamente finivano con mani piccole e piene. Vide poi la faccia di Nannina che lo guardava calma come se stesse studiandolo. Aveva una folta capigliatura di ricci rossi che ne incorniciavano la testa rotonda e regolare. Il viso era largo, il naso leggermente rincagnato, con le narici aperte, le labbra, senza rossetto, erano pronunciate, volitive. Enzuccio nel guardare quelle opulenti nudità sentì un impulso all'eccitazione, ma non era come prima che era stato pronto fino all'ultimo e poi…! Ora sembrava tutto fermo. I due grandi occhi verdi di Nannina intanto continuavano a guardare quel ragazzo, poco più che bambino, che era in piedi davanti a lei e non faceva altro che guardarla con le pupille dilatate e non solo per la poca luce. Enzuccio, quasi ipnotizzato da quegli occhi bellissimi e indifferenti li vide ad un tratto come illuminarsi, ridenti. Nannina ponendosi a sedere sull'orlo del lettino con movimento graziosamente femminile, quasi con civetteria gli si rivolse e, con voce amica, disse: "E' 'a primma vota, eh?". Enzuccio non rispose ne si e ne no. Sarebbe stato inutile. Nel mentre gli faceva la domanda 'a rossa stando così seduta lo aveva tratto a sé con le rosee cosce divaricate facendovelo entrare. Gli disse di sfilarsi la camicia e mentre lui lo faceva gli slacciò la cintura e gli calò i calzoni con naturalezza. Gli prese dalle mani la camicia e la ripose su un angolo del lettino. Durante queste operazioni Enzuccio sentiva il calore del corpo della ancor giovane donna, ne sentiva l'odore, lo toccava con le ginocchia scoperte tra il liscio delle sue cosce tornite. Era rimasto in piedi a torso nudo, in mutandina a pantaloncino e con i pantaloni abbassati sulle scarpe. Se avesse voluto fuggire non poteva farlo! "Pur' 'u cazone" fece di nuovo 'a rossa con calma sdraiandosi mollemente sul letto. Enzuccio con il calzone, istintivamente questa volta si era tolte anche la "mutanda" diventata nel frattempo un poco più stretta. Coraggioso quasi saltò sul letto con le scarpe. Ma Nannina che se ne era accorta, paziente, lo lasciò fare aiutandolo solo un poco, sorridendo, con una mano a trovare la strada. Lo tenne abbracciato a lei per breve ché con pochi ed impacciati movimenti Enzuccio di volata fece tutto il suo cammino! Ancora come stordito dalla corsa, infine, vergognoso, fece per alzarsi di scatto ma Nannina glielo impedì con un affettuoso "Chiano! Nisciun' ce corre appriess'". Lo aiutò quindi a scendere dal lettino con calma e con calma rivestirsi, mentre lei con discrezione spariva dietro ad un separè. Ricomparve ancora nuda, con in mano una bianca tovaglia. Enzuccio le si avvicinò senza parlare e lei sempre sorridendo gli disse: "E mo' te ne vuo' i'?" Fu accolto all'uscita dal magazzino dai suoi compagni con un allegro vocìo che si andò spegnendo a mano a mano che tutta la comitiva se ne saliva per i gradoni male illuminati. Una lieve pioggerella intanto cominciava a cadere.*


*Tratto da “La prima volta di Enzuccio” di Francesco Raimondo scritto ed edito dallo stesso nel novembre del 1999. Tutti i diritti sono riservati.


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L'autore ringrazia il giornalista [ Giovanni Guidone ] per la realizzazione della pagina web.