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La realtà di ognuno - Realtà come somma di sentire - 

Dalla caduta delle limitazioni alla comunione degli esseri (..Sì, Padre, la mia presunzione...)-     

 

La realtà di ognuno

 

(1981)

 

FRANCOIS - Degli altri voi non vedete la realtà del loro essere, ma vedete quello che appare. Ciò significa che vedete, al massimo, quello che gli altri mostrano di sé. Non solo, ma anche l'immagine che gli altri danno di se stessi può essere da voi distorta, può essere esaltata o peggiorata. Così che quando vi innamorate di qualcuno, vi innamorate di una immagine. Chissà se il vostro innamoramento potrebbe persistere se di chi amate conosceste non l'immagine, ma la realtà.

 

DALI - Il fatto che gli altri vi mostrano solo un'immagine, e non la realtà, è talmente vero che si può dire sia una pura coincidenza che, talvolta, le intenzioni degli altri corrispondano alle intenzioni che voi credete che gli altri abbiano. Il più delle volte, invece, voi attribuite agli altri intenzioni che gli altri non hanno; oppure non vedete le loro vere intenzioni e su quello che voi pensate che gli altri siano, sull'immagine che di essi vi siete fatti, costruite la vostra relazione con loro, il vostro mondo. Non crediate che quello che io dico si riferisca a casi o persone limite: è cosa di tutti e di tutti i giorni.

 

KEMPIS - Quindi, gli altri non sono importanti per voi a condizione che riusciate a cogliere la loro vera realtà, il loro vero essere; ma sono importanti per le reazioni che in voi riescono a suscitare; e le suscitano solo se voi siete sensibili a quegli stimoli che essi volontariamente o involontariamente vi inviano.

 

DALI - Perciò gli altri sono per voi come una sorta di specchio; essi possono su voi solo ciò che voi permettete che possano. Ma non " permettere " nel senso di " concedere ", cioè come colui che ha un'autorità e che accondiscende a qualche richiesta; ma " permettere " nel senso di lasciare che gli altri abbiano presa su voi, essere in loro balia; che poi, invece, è spesso essere in balia della propria immaginazione e della propria debolezza.

 

KEMPIS - Gli altri, per voi, non sono tanto creature reali quanto immagini costruite dalla vostra mente, spesso animate dalla vostra immaginazione. Ma sono proprio quelle immagini e proprio quel processo che le crea, che fa si ch'esse meglio si adattino ai vostri bisogni evolutivi, che rende le relazioni degli uomini altamente produttive ai fini della maturazione della coscienza individuale.

 

DALI - Colui che è permaloso e che deve superare il suo orgoglio, per esempio, vede l'offesa personale anche dove non c'è. Pensa che gli altri lo vogliano offendere anche quando gli altri non hanno una tale intenzione.

 

KEMPIS - Questo è un modo di rendere massimamente produttive di stimoli le relazioni, e ciò col minimo impiego di cause. E questo risparmio è giustificato dal fatto che sarebbe assai difficile che gli altri avessero la volontà continua di offendere una persona e, al tempo stesso, continuare una forma di rapporto, di contatto con quella. 

Paradossalmente sarebbe necessario, per tutto ciò, una forma di altruismo tale da spingerli a vivere solo per quella persona. Per l'uomo, in sostanza, più sovente accade che sia l'illusione, non la realtà, a produrre fermento evolutivo.

 

DALI - Questo appare più evidente nel piano astrale dove certi abitatori credono di essere in contatto con una persona ed invece, in realtà, soggiacciono alla legge astrale che rende concreta e di fronte a se stessi vivente e palpitante la propria immaginazione. Fatto analogo accade anche nel piano fisico, con la sola differenza che nel piano fisico l'immagine è costruita da un supporto, perché tale in fondo è per l'osservatore la realtà dell'osservato, e quindi in un certo senso, in qualche modo, a quel supporto l'immagine risulta legata; mentre sul piano astrale il desiderio e l'immaginazione hanno campo libero.

 

KEMPIS - Il fatto che nel piano astrale taluni vivano una realtà onirica può sembrare strano; e può sembrarlo se non si tiene presente che quello che importa per ognuno, in qualunque mondo si trovi, non è quello che accade nel mondo esterno ma quello che, di quel mondo, si riflette in lui. Il mondo esterno è importante per ogni essere solo in funzione dell'apporto che reca al mondo interiore; ed è nella stessa misura dell'apporto recato che è suo mondo, che entra a far parte del mondo dell'individuo.

 

DALI - Fra un impostore che si fingesse maestro e, parlandovi, riuscisse a toccare il vostro intimo in modo costruttivo, ed un vero Maestro che rimanesse per voi un estraneo, sarebbe molto più utile l'impostore del Maestro. Naturalmente questo è un paradosso che nella realtà non si riscontra, tuttavia illustra bene il concetto che stiamo esponendovi.

 

KEMPIS - Sicché nel piano astrale, o in quello fisico, o in quello mentale, insomma nei mondi della percezione, lo scopo di ogni situazione, di ogni avvenimento, è quello di giungere a far vibrare, a toccare l'intimo di ogni individuo. Che l'intinto sia toccato da un avvenimento per così dire reale, o da uno immaginario, non fa alcuna differenza.  

Se l'individuo è toccato da una determinata esperienza gioiosa lo è tanto che l'esperienza sia realmente accaduta, quanto che sia creduta tale. L'esperienza è reale non quando, secondo il vostro modo di vedere, accade realmente, ma solo quando giunge realmente a toccare l'intimo dello sperimentatore.

 

TERESA - Supponiamo, per un momento, che Cristo non sia esistito. Diventerebbe forse meno vero tutto quello che nel Suo nome gli uomini hanno fatto di bene e di male?, quello che hanno sofferto e la gioia e la consolazione che dalla Sua figura hanno ottenuto? Il vero Cristo, nel senso di più importante, più significativo, è quello che gli uomini hanno immaginato, non quello che è esistito.

 

CLAUDIO - Badate bene: con questo non vogliamo significare che la realtà intesa come vera condizione e qualità delle cose non abbia in sé alcuna importanza; tutt'altro; però di ciascuno è massimamente importante, e perciò da conoscere, la propria realtà, il proprio vero essere, non quello altrui.

 

KEMPIS - V'è quindi la necessità di dover considerare le cose da due prospettive. L'una si riferisce ai momenti della vita in cui si è oggetti degli avvenimenti, bersaglio degli stimoli esterni, ed in questo caso è lo stimolo che assume importanza, non la realtà vera o supposta da cui lo stimolo è generato. L'altra prospettiva si riferisce ai momenti della vita in cui si è soggetti degli avvenimenti ed è importante che ciascuno sia consapevole di ciò che rappresenta per gli altri, di quanto può influire nella loro realtà.

     

CLAUDIO - Infatti, quando vi diciamo: « Tutto quello che vi accade, in ultima analisi, è per il vostro vero bene «, ci riferiamo agli avvenimenti di fronte ai quali la vita vi mette. Ma quando siete voi ad agire, quando siete « soggetti « e non « oggetti « degli avvenimenti, la nostra affermazione non vi autorizza ad agire superficialmente e inconsapevolmente. Anzi, quando siete voi gli attori è proprio il momento di comportarvi in modo diametralmente opposto a quello dei fatalisti, e soprattutto in un modo estremamente consapevole, come se foste gli unici arbitri della vita degli altri.

 

DALI - Ma al di là di queste considerazioni - su quale realtà per ciascuno è importante - altre ancora possono essere fatte sul modo di considerare la realtà.

 

KEMPIS - Voi considerate la realtà in continuo divenire perché la frazionate; perché, nel vostro concetto, essa è limitata nel tempo e nello spazio. Per voi la realtà è quella che riuscite ad abbracciare, a percepire: quindi la limitate in senso spaziale; ed è quella che è ora, nel momento attuale: quindi la limitate in senso temporale. Ma il tempo e lo spazio sono, appunto, illusioni, che scaturiscono dal considerare la realtà in modo frazionato e non, invece, quale essa è: un sol tutto inscindibile.

 

DALI - Badate bene, figli, in ciò che diciamo non c'è riprovazione. Infatti l'uomo è creatura della separatività, nasce da essa, come tutta la molteplicità; è quindi un fatto naturale che consideri il mondo nel quale vive estraneo a sé. La riprovazione, semmai, c'è nella misura in cui l'uomo non s'impegna a superare il senso di separatività, non tende a considerare la realtà, appunto, un sol tutto inscindibile.

 

FRANCOIS - Non deve sembrare strano il fatto che quanto l'uomo trova in sé quale parte della sua natura, come il senso della separatività, debba essere superato. Vi sono numerose analogie chiarificatrici: per esempio l'interesse del fanciullo per i giochi, interesse che serve  a svilupparlo nel corpo e nella psiche ma che viene poi superato. La cosiddetta evoluzione dell'uomo è tutto un continuo superare stati d'essere raggiunti.

 

KEMPIS - Allorché si limita la Realtà, quel « sol tutto inscindibile « appare come molteplicità, separazione. Cosicché ciò che l'uomo considera reale è solo apparenza di una parte della Realtà unica totale che così  appare a chi non riesca a cogliere l'unità del Tutto. Ora, se già ben diversa è la realtà parziale rispetto alla assoluta, cioè a quella unica-totale, figuratevi quanto ben diversa sia l'apparenza della realtà parziale rispetto alla Realtà finale. Già nel mondo della percezione potete costatare quanto diverso sia ciò che appare da ciò che è: una pietra, che vista può sembrare un monòlito, è invece frazionabilissima, ed è più vuota di materia che piena.

 

CLAUDIO - Ora, non si può superare il senso di separazione, cioè sentire la Realtà come un sol Tutto inscindibile cercando un'intesa fra l'io e il non io, un'intesa fra le parti; solo nella comunione delle parti avviene il superamento della separatività. 

Tale comunione non è di apparenze, non è mettere in comune le proprie sostanze, i propri mezzi e le proprie qualità, restando enti separati; ma è « identificazione «, cioè scoprire, sentire che il non io è parte integrante, complementare della propria identità. Non è una comunione dall’esterno, ma è eselusivamente dall’interno e dall’interno essere.

 

DALI - Quando voi pensate a Dio, in forza della separatività a cui soggiacete lo pensate come un personaggio dell'apparenza, cioè del vostro mondo. Lo immaginate esterno a voi, Lo pregate come se voi foste qui e Lui fosse lì o lassù. Non tenete presente, cioè, che Dio non può che essere la Realtà Unica Totale, ben diversa dalla somma della realtà parziale. Le realtà parziali necessariamente sono relative; la somma delle relatività non potrà mai dare l'Assoluto. 

Dio non può che essere « quel sol tutto inscindibile « al quale si perviene solo con l'intima comunione, col sentire, nella identificazione. E questo « pervenire «, con tutto ciò che significa, non è un raggiungere o aggiungersi a Dio, è semplicemente la Manifestazione Divina «, l'« Essere Uno e molteplice «, è l'unico possibile modo d'essere di Dio.

 

CLAUDIO - Dio comprende nella Sua esistenza il Tutto: tutte le individualità, tutti gli individui, il soggetto e l'oggetto oltre la separazione. Egli è la coscienza assoluta. Non è tuttavia coscienza della cosa emanata come esistente al di fuori di Sé. Solo chi è nella separatività conosce la realtà in termini di soggetto e di oggetto. Ma chi include in sé il soggetto e l'oggetto è coscienza della realtà nella sua interezza che trascende la separazione.

 

KEMPIS - La coscienza del Tutto-Uno non è la somma delle coscienze dei soggetti, perché sarebbe  sempre una coscienza di parti; ma è la coscienza di ciò che sta al di là delle parti. Questo è importante perché garantisce l'identificazione con la coscienza assoluta non attraverso una sommatoria ma attraverso il superamento della separatività; non attraverso l'acquisizione, che non potrebbe mai avere fine. Non è quindi una questione di quantità, ma di qualità.

 

CLAUDIO - Finché non si è trascesa la separatività vi è dolore, lotta, conflitto degli opposti. L'unità dell'Essere non può raggiungersi attraverso la moltiplicazione della separazione e quindi del dolore, della lotta,  del conflitto degli opposti; in altre parole, attraverso la continuazione della divisione.

 

KEMPIS - La dottrina che accetta la separatività come condizione di esistenza stabile, che non è mai trascesa, che accetta la continuazione del non io e dell'io come fattori integranti della realtà, che non prescinderà mai da una tale impostazione duale, è una dottrina creata da chi non conosce e non ha compreso la vera condizione d'essere del Tutto.

 

CLAUDIO - L'esistenza della separatività non ha lo scopo di far continuare l'« io sono « in perpetuo, ma di liberare la coscienza dall’io, dopo che l'io l'ha creata. 

Il senso della separatività, infatti, non esiste nella natura incosciente; c'è invece nell'uomo, preda dell'io e del tu, del desiderio, della continuazione dell'io personale, della speranza che la vita continui dopo la morte e di riunirsi a coloro che ama. Ma l'unione che egli concepisce conserva la separazione del tu e dell'io; non è l'unione di cui noi vi parliamo. L'io personale dipende dal corpo, dall’educazione, dall’ambiente, ossia dalla personalità, e cambia ad ogni vita.

 

KEMPIS -  L'individualità è continua, attraverso la nascita e la morte; è la guida della propria esistenza quale individuo distinto sino alla comunione del Tutto-Uno, all'esistenza onnicomprensiva, al di là della distinzione, in uno stato d'essere, cioè, in cui si conosce la Realtà al di là dell'apparenza e la si conosce nel modo che non lascia posto a supposizioni ed errori, nel modo più vero che possa esservi, che è quello di essere la Realtà stessa.

 

 

 

Realtà come somma di sentire

 

(1981)

 

Quando si agisce, o si chiede a qualcuno di fare o non fare qualcosa, si è sempre mossi da uno scopo. Tutti i comportamenti dell'uomo sono determinati da un fine che si vuole raggiungere. Assai raramente le azioni umane sono fine a se stesse, e, quando ciò accade, si è nel campo del patologico.

 

Seguire uno scopo, tendere ad un fine, per l'uomo significa sempre mirare a raggiungere un vantaggio, un guadagno in senso lato, ossia assecondare l'istinto egoistico. A questa regola l'uomo non si sottrae neppure quando segue le norme morali,  e questo lo abbiamo già detto più volte.     

 

Attenti quindi a dare la patente di puro a chi condanna l'immoralità altrui. L'intenzione di chi stigmatizza può essere tutt'altro che pura e morale. Anche l'autorità che propugna la moralità non è aliena da un suo interesse, che può essere

quello di conservare il potere e mantenere l'ordine sociale. Per questa ragione alcune regole  cosiddette " morali " sono profondamente diverse da una società all'altra.

 

Ma il vero comportamento morale, che deriva da una natura acquisita e non da una disciplina imposta, ha una ragione che, più che essere finalità, è motivazione; ossia, più che tendere a qualcosa è automatica conseguenza dell'aver compresa la realtà.    

La vera morale, se ancora morale si può chiamare, non può prescindere dalla conoscenza di come le cose sono realmente.       

Questo discorso sembrerebbe affermare l'importanza di conoscere e comprendere la realtà per essere nella vera morale.

Ma, se così fosse, dovremmo dedurre che la religione che ha il più alto numero di fedeli dovrebbe essere quella vera. Non sarebbe infatti ammissibile che la maggior parte degli uomini fosse esclusa dalla conoscenza della vera religione, specialmente se l'ignoranza non di pendesse dalla volontà individuale. 

 

In altre parole: o le religioni, le filosofie, le ideologie che hanno in assoluto il maggior numero di aderenti sono quelle che riflettono la verità, oppure è un fatto trascurabile che l'uomo conosca come le cose sono realmente. Non se ne esce. Tutto questo, naturalmente, ammettendo l'esistenza di Dio e di un fine a cui tenda l'esistenza dell'uomo.

 

Ebbene, noi, dopo aver affermato che il retto comportamento è fondato e scaturisce dall’intima comprensione di una certa realtà, ricordiamo l'altra nostra affermazione, più volte ripetuta, e cioè che non è tanto importante conoscere la  Verità, se la non si vive, quanto invece vivere, sentire intimamente un'opinione qualunque. E questo perché la semplice conoscenza della Realtà, senza la partecipazione, non matura tanto quanto vivere una fantasia.  

Ciò è talmente vero che, fino ad un certo punto dell'evoluzione, non ha alcuna importanza che l'individuo conosca come le cose stanno realmente; anzi, è escluso da questa conoscenza, quasi come se lo si volesse addestrare su situazioni simulate prima di porlo di fronte al Reale.

 

L'uomo è come quei fanciulli che, per giocare, si fingono in una particolare situazione; per giocare si immergono con la  fantasia e con l'incoscienza, propria dell'età, in situazioni immaginate, non di rado tragiche. Aggiungo: fino ad un certo punto dell'evoluzione non è importante che l'uomo conosca la Realtà, a tal punto che essa rimane indeterminata.

Che cosa significa questo?    

 

Rispolveriamo i nostri due giocatori, soli in assoluto, che dopo aver gettato i dadi registrano ciascuno, senza malafede, l'uscita di un punteggio diverso. Certo la prima domanda che vi farete è: «Com'è possibile ciò? «. Ammettiamo che sia possibile: quante volte due testimoni, in buona fede e perfettamente convinti, danno versioni diverse, o addirittura contrastanti di uno stesso fatto.     

 

Qual'è allora la verità? Per prima cosa dobbiamo chiederci: che cosa s'intende per verità? Sicuramente la realtà di quella situazione, cioè una realtà, sia pure relativa, ma che registri, che contenga nella sua interezza anche quale posizione hanno assunto i dadi, e conseguentemente quale punteggio è uscito secondo le regole del gioco. 

Secondo la logica umana la Verità sarebbe quella convalidata da un terzo osservatore. 

 

Non solo, aggiungo io; soprattutto è necessario che questo terzo osservatore veda veramente che cos'è accaduto e non abbia, anch'esso, una sua verità. 

Ma perché questa terza persona dovrebbe possedere il carisma di conoscere la verità? Forse il fatto che la sua constatazione di un risultato corrisponde alla constatazione di uno dei due giocatori prova che quella è la verità? Non potrebbe trattarsi di un doppio errore?

 

Se poi è vero, come noi sosteniamo, che quella che gli uomini credono realtà oggettiva altro non è che la parte in comune dei loro soggettivismi, allora la vera Realtà oggettiva è ben diversa da quella che gli uomini colgono; tanto diversa da rendere impossibile ogni paragone, ogni punto di contatto che possa dare il carisma della Verità ad una visione soggettiva piuttosto che a un'altra. La verità della situazione composta dai nostri due giocatori è una realtà duale, è una realtà relativa che non prevede un terzo osservatore, e, se anche lo prevedesse, le cose non muterebbero. L'interezza, la completezza di quella verità duale, l'intero dossier di quella realtà relativa è costituito da due verità individuali e non ha senso chiedersi qual è la verità oggettiva.

 

Quando parliamo di comprendere la Realtà intendiamo comprendere come le cose stanno; intendiamo, appunto, non sapere qual è la vera apparenza; perché in ultima analisi, per il singolo, è valevole tanto l'una quanto l'altra; ma intendiamo che cosa c'è al di là della apparenza; intendiamo la vera struttura delle cose, non il vero apparire di esse.      

 

Questo non significa che non abbia valore la ricerca, intendiamoci bene. Tuttavia ciò che l'uomo scopre non è la

realtà. E' l'apparenza che si coglie sperimentando una certa dimensione, dimensione che scaturisce dalle limitazioni congenite dello sperimentatore.        

Per quanti sforzi l'uomo faccia per rendere oggettiva l'osservazione e la scoperta della realtà, ciò che egli osserva e scopre è sempre indissolubilmente legato alla sua condizione umana e perciò sarà sempre relativo e soggettivo.            

La realtà in sé è tutt'altra cosa da quella che appare a chi l'osserva in uno stato d'essere limitato.

Il mondo dell'uomo è un mondo di apparenze; dove è ritenuto vero, provato, ciò che riaccade ripetendo le medesime condizioni; o ciò che, se non è ripetibile a volontà, ha il conforto d'essere testimoniato da più osservatori; ed è tanto più vero quanto più numerose sono le prove ripetute e le testimonianze. 

Certo questo è un criterio, ma occorre essere consapevoli che il suo valore non è assoluto; ed essere continuamente consapevoli proprio per quel principio che è alla base del progresso: cioè tendere quanto più è possibile a valori assoluti e oggettivi.      

 

Paradossalmente, si è più vicini alla realtà oggettiva ammettendo la soggettività della realtà fisica che non rifiutandola. Se si è disposti ad ammettere che ciò sia vero - ossia se si può accettare che ciascuno abbia una sua verità valida anche se non corrispondente a quella generale, cioè a quella che statisticamente è la più comune - sembrerebbe di poter allora affermare che la realtà di una situazione è data dalla somma delle conoscenze di tutti coloro che sperimentano quella situazione. 

E siccome la conoscenza è comunicabile, sembrerebbe possibile costituire una specie di " memoria " dove far affluire le varie conoscenze e comporre così il dossier di una determinata situazione, di una certa realtà composita. 

Tuttavia, così facendo, la conoscenza che si avrebbe sarebbe solo la conoscenza dell'apparenza della situazione. 

Infatti, tutta la realtà di una situazione composta da due sperimentatori non è data dalla somma delle sole conoscenze dei due, ma è data dalle azioni,  dai desideri, dai pensieri e soprattutto dal sentire di entrambi. E com'è possibile conoscere completamente la realtà di quella situazione, se non essendo tutti coloro che quella situazione vivono?, se non attraverso la comunione dei sentire individuali?, se non attraverso la comunione degli esseri?          

 

Non solo: per il principio che già enunciai, rifacendomi ad esempi tratti dal mondo della percezione; ossia per il principio che nella simultaneità, cioè quando si è all'unisono, v'è fusione, cioè comunione, e quando v'è fusione v'è trascendenza; in virtù di questa trascendenza ciascuna comunione non è fine a se stessa ma è causa e preludio di altre. 

Meraviglioso, mutuo trasfondersi degli esseri per un reciproco arricchimento.   

 

Se si rifiuta la comunione degli esseri, se la non si ammette, implicitamente si afferma che l'individuo sarà sempre un essere limitato che potrà conoscere, nel senso di vera completezza, non più di ciò che lui stesso direttamente sperimenterà. Del rimanente, al massimo, potrà conoscere l'apparenza.

E vi sarebbe sempre un rimanente, anche se innanzi a lui vi fosse un cammino senza fine. Anzi, più lungo fosse il cammino e più vasto sarebbe il rimanente. A meno che, in realtà, non si trattasse di un solo Essere che vivesse, di volta in volta, la vita di tutti gli individui esistenti in tutti i Cosmi.     

 

In effetti, nel virtuale frazionamento dell'Assoluto che origina la molteplicità, è come se ciascun sentire relativo, eterno in sé, senza tempo al di là del suo apparente cessare, fosse solo ad esistere in qualità e quantità; perciò è come se esistesse un solo sentire alla volta. Ma la conseguenza logica di ciò non è che un solo essere relativo, attraverso un processo di divenire senza fine, tenda all'Assoluto; cioè che l'apparente molteplicità degli esseri in realtà si risolva in un solo essere relativo; la conseguenza è che tutto quanto esiste è come se esistesse per ciascun individuo. Per ognuno è come se il Tutto esistesse solo per sé. Da qui la soggettività della vita individuale.      

 

Ora, siccome ciò che non è incluso in una realtà relativa, limitata, non esiste per quella - per quella è come se non esistesse in assoluto - se ne deduce o che il Tutto è smembrato, ma onestamente ci sarebbe da domandarsi come un organismo smembrato possa sopravvivere, o si deve ammettere che l'unità del Tutto, la sintesi, può essere raggiunta solo nella comunione dei sentire relativi.  

 

In questo mosaico meraviglioso che è l'Esistente, ogni concetto è strettamente legato e dipendente dagli altri e non può essere  sostituito con uno che con gli altri non armonizzi. 

In virtù, della comunione dei sentire, la molteplicità degli esseri nell'apparenza è veramente tale e nella realtà si risolve, sì, in un solo essere, ma in un solo Essere Assoluto.

E nell'unità di un solo Essere, che fonde il Tutto in un abbraccio indissolubile e senza eccezioni, chi sono gli altri? Esseri di se stessi complemento, con limitazioni analoghe alle proprie, congegnate per la reciproca elisione.  

Che senso ha, di fronte ad una siffatta Realtà, discriminate i propri simili, quando grazie alle loro stesse esperienze anche il proprio essere si arricchisce?      

 

Quanto pretestuose appaiono le ragioni che si adducono per considerare diverso chi è in tutto simile a se stessi! Quanto apparenti e illusori si rivelano i motivi su cui sono fondate le caste, le classi sociali, le distanze umane! 

 

In tale visione come illogico si dimostra il disprezzo dei propri simili! Perché neppure la diversità dell'altrui intimo essere, se si è compreso, può giustificare il dispregio nei confronti degli esseri più rozzi, che tali sono in conseguenza della loro stessa natura; anzi se si riesce a comprendere ed accettare ciò che si scopre, allora si vede che i propri simili, comunque appaiano, sono la propria completezza, la propria vera ricchezza. 

E in questa convinzione, contrariamente a quanto può sembrarvi, non v'è un espandersi, un ingigantirsi dell'io; perché l'io esiste solo quale prodotto della limitazione; ma v'è il cadere di quelle barriere che l'io genera; il liberarsi, l'espandersi della coscienza; un arricchirsi dell'immensità dell'impersonale.

 

 

 

 

Dalla caduta delle limitazioni alla comunione degli esseri

 

(1981)

 

 

La Realtà oggettiva è la Realtà quale esiste in se stessa, al di là di come viene percepita, colta dagli osservatori.      

La Realtà oggettiva è, insomma, la vera qualità e condizione di esistenza di quanto possiamo osservare; e, più ancora, data la nostra limitata possibilità di ricezione, la vera qualità e condizione di esistenza di quanto esiste oltre l'osservabile.    

Se è vero, come è vero, che tutto quanto esiste non può essere staccato da Dio, altrimenti verrebbero meno i caratteri assoluti divini, ne discende che tutto quanto esiste è parte integrante dell'esistenza di Dio, cioè di Dio stesso; anche se Dio è tutt'altra cosa dalla parte, così come l'uomo è tutt'altra cosa dalla mano del suo corpo.     

Se dunque ciò che osserviamo e più ancora ciò che esiste al di là di come appare nella osservazione (sempre subordinata e dipendente dai mezzi con cui si osserva) è la sostanza di Dio; e se la Realtà oggettiva è la vera qualità e condizione di ciò che  esiste in sé, al di fuori dell'aspetto che assume nel processo di percezione, allora solo Dio è la Realtà oggettiva. E siccome Dio è l'Assoluto, l'unica Realtà oggettiva è la Realtà Assoluta.  

 

D'altro canto Dio, cioè la Realtà assoluta, non può essere sezionato, diviso in parti. Un osservatore è solo per la limitazione dei suoi mezzi di osservazione che ne coglie una sola parte, ma Dio in Sé è un sol Tutto inscindibile. Ciò che noi percepiamo e osserviamo è tutt'altra cosa da come è in sé, da come è oggettivamente: è cioè soggettivo e non è assoluto, è cioè relativo.  

 

Cerchiamo di puntualizzare il significato di questi termini e, più che dei termini, dei concetti.  

Dicesi "soggettivo" ciò che dipende dal soggetto, dal suo modo di percepire, di pensare e di essere; quindi la verità soggettiva, che per l'interessato non è meno importante della oggettiva, può esistere solo nel mondo dei soggetti, ma dei soggetti dotati di percezione, cioè nei piani fisico, astrale, mentale.   

In questi piani la realtà che si conosce intanto non è assoluta perché è parziale, cioè è relativa, poi è soggettiva cioè legata al modo di essere, alla personalità, alla psiche del soggetto conoscente.

 

Si può conoscere una verità relativa in modo non soggettivo?       

Dicesi "relativo" ciò che ha relazione con qualcosa; perciò relativo si usa in contrapposto ad Assoluto. Allora una realtà può essere relativa, cioè non assoluta, ma può non essere soggettiva; cioè può essere considerata quale realtà parziale al di fuori della percezione.      

 

Quindi una parte della Realtà Assoluta, considerata in sé, senza il soggetto che la percepisca, sarebbe realtà relativa. Ma quale può essere una realtà parziale, avendo detto che la Realtà è unica e che il dividere in parti deriva solo dalla limitazione percettiva del soggetto osservatore? Se si esclude il soggetto, che ha una percezione limitata della Realtà, la Realtà in sé è assoluta e quindi, se si esclude il soggetto, si esclude la parte e si esclude la soggettività, ma si esclude anche la relatività.      

 

Il problema avrebbe una impostazione differente se il soggetto avesse la possibilità di conoscere al di fuori della propria soggettività. E qua non mi riferisco alle conoscenze cosiddette oggettive della scienza umana ma proprio ad una diversa possibilità di conoscenza, di unione fra soggetto ed oggetto che escluda la percezione ed ogni altro intermediario: cioè una conoscenza che non si serva di simboli e immagini per trasportare nella mente la realtà del mondo in cui si vive ma che sia essere la Realtà stessa. Questa sarebbe la conoscenza più vera, perché non sarebbe ricostruire la Realtà nella propria mente servendosi di immagini e simboli, cioè avendo un'idea della Realtà, ma sarebbe conoscenza della cosa che scaturisce dall’essere la cosa stessa.    

 

La forma di conoscenza per intuizione può darvi un'idea di quelle che sono le conseguenze della unione tra soggetto ed oggetto. Infatti, se la soggettività nasce dalle caratteristiche personali, psichiche del soggetto, con l'intuizione che esclude i mezzi di conoscenza inquinati da tali caratteristiche si ha una conoscenza sempre relativa perché parziale e cioè di parte, ma non più soggettiva.      

 

In sostanza, la divisione in parti della Realtà Assoluta non è reale; avviene ad opera e dentro il soggetto conoscente; il  quale ha una conoscenza relativa e soggettiva se delimita la realtà per effetto delle limitazioni congenite nel processo di percezione; oppure ha una conoscenza relativa ma non soggettiva se conosce al di là del processo di percezione.      

 

La conoscenza relativa-soggettiva è chiaramente depositata nella mente, né potrebbe essere diversamente appartenendo essa ai mondi della percezione, delle immagini, dei fenomeni.

Ma la conoscenza che significa "essere", cioè la conoscenza relativa e non soggettiva non può risiedere nella mente, la quale per sua  stessa natura può accogliere solo immagini. Dirò per inciso che anche nell'intuizione, conoscenza per contatto diretto, ciò che si può raccontare è la traduzione in parole, e quindi in pensieri, della intuizione vera e propria.   

 

Dove può essere con tenuta una realtà relativa ma non soggettiva, cioè non colorata dalla personalità, se non nel mondo del sentire di coscienza?

Non lasciatevi ingannare dai termini: sentire può sembrare quanto di più soggettivo possa esservi; ma queI sentire del quale noi vi parliamo è "essere"; è quel sentire che sussiste indipendentemente, anzi domina gli stimoli provenienti dai mondi della percezione; è quel sentire che abbraccia in successione realtà sempre più vaste.

 

Ricordate sempre che non è la Realtà che oggettivamente è suddivisa, costituita da tante parti: è il sentire che sente in termini parziali, quindi relativi, la Realtà in se stessa Assoluta.  

Quindi la realtà relativa-soggettiva è dei mondi della percezione - piano fisico, astrale e mentale -; la realtà relativa è del mondo del sentire di coscienza - piano akasico-; la Realtà oggettiva è del mondo divino, del mondo Assoluto. La Realtà oggettiva è dell'Uno, la realtà relativa e relativa-soggettiva sono della molteplicità. L'Uno contiene la molteplicità, quindi essere Uno significa sentire la molteplicità come un sol Tutto inscindibile, significa perciò essere Tutto, ed essere Tutto significa trascendere la relatività e la soggettività.    

 

Noi  affermiamo che la consapevolezza di esistere comune ad ogni essere, dal mondo della molteplicità alimentata ed alimentando sentire sempre più ampi si riconosce nell'unico sentire: nella consapevolezza assoluta che comprende ogni consapevolezza, ogni sentire.

 

La successione dei sentire ha termine col sentire che trascende la relatività e la soggettività perché è sentire-essere tutto, ma niente in particolare. Questo « essere tutto «, come si può intendere? Aiutiamoci nella comprensione limitando le nostre considerazioni allo stato di essere di coscienza cosmica.   

 

Come sapete, la coscienza cosmica è la massima espressione del sentire cosmico, che precede immediatamente la coscienza assoluta. La coscienza cosmica abbraccia, perché è, l'intera Realtà cosmica. Ogni essere del Cosmo ha, al vertice della sua esistenza, la coscienza cosmica. 

 

Ciò significa che quella consapevolezza di esistere che unisce tanti sentire sempre più ampi e diversi, si da farli apparire come un solo essere che modifica il suo sentire, sfocia in uno stato di coscienza in cui l'intera Realtà cosmica è simultaneamente presente. Ogni essere, che sembra avere un sentire che si modifica, a ben vedere è costituito da tanti sentire sempre più, ampi, ognuno dei quali è contenuto dal successivo e l'ultimo dei quali li contiene, per ampiezza, tutti.     

 

Ma tutti quali? Tutti quelli che, legati dalla consapevolezza di esistere, creano idealmente l'essere che sente, oppure i sentire di tutti gli esseri?

Se la coscienza cosmica è l'intera Realtà cosmica,  chiaro che la coscienza cosmica contiene, perché è costituita da, tutti i sentire di tutti gli esseri del Cosmo.     

E come potrebbe essere possibile ciò se la coscienza cosmica non fosse « una «?, cioè se tutte le varie consapevolezze di esistere che originano tutti gli esseri del Cosmo non confluissero, non si congiungessero fino alla Comunione totale? S, tutti i fiumi di coscienza di esistere che alimentano e sono alimentati da sentire individuali sempre più ampi, confluiscono alla fine nell'oceano della coscienza cosmica in cui ogni individualità è arricchita dalle esperienze dei sentire delle altre a tal punto da essere una sola individualità, un solo essere, quindi.    

 

Ciò che nasce come molteplice e diviso ha la sua radice, la sua vera condizione di esistenza nell'unità, nell'unione: il miracolo della unione.    

Ciascun essere che nasce, sperimentando, essendo una sola parte del Cosmo, giunge a identificarsi, ad essere l'intera Realtà cosmica.   

 

Il sentire di un essere A, unendosi al sentire di un essere B, dà luogo ad un sentire-essere C in cui si assommano e si trascendono le esperienze di A e di B. Il sentire-essere C è tanto l'essere A quanto l'essere B. Il sentire C rappresenta l'identificazione, il riconoscersi di A con B e di B con A. E se C fosse l'intera Realtà cosmica, tanto l'essere A che l'essere B la raggiungerebbero pur essendo nati come parte di quella Realtà. Con parole più esatte potremmo dire: la consapevolezza di esistere che alimenta ed è alimentata dal sentire A, così come quella del sentire B, sfocia in un sentire, e lo alimenta, in cui tanto la realtà A quanto la realtà B sono egualmente presenti e sentite; perciò non un annientamento di A o di B, ma un arricchimento di entrambi.      

 

Soffermiamoci su questa Verità che non può essere accettata tacitamente da chi si crede così perfetto da ritenersi meritevole di rimanere come è. Chi considera gli altri esseri a lui inferiori non potrà mai non provare repulsione all'idea d'entrare in comunione con qualcuno. Per fortuna tali atteggiamenti sono frutto della mente cosicché, quando la mente non c'è più, l'essere non è più condizionato e, se pure non assoluto, per una legge naturale di armonia e di cooperazione cerca l'abbraccio degli esseri che hanno un sentire al suo equipollente.

 

Questo non significa che le fusioni del sentire, le comunioni degli esseri non avvengano anche a livello umano. La mente si abbandona anche fra una incarnazione e l'altra, non solo dopo lasciata la ruota delle nascite e  delle morti. 

 

La riprova della comunione di sentire a livello umano si ha dal fatto che gli uomini evoluti sono in numero inferiore agli inevoluti e ciò proprio perché i sentire meno limitati sono per una legge matematica meno di quelli limitati. Siccome ad ogni sentire corrisponde un individuo, ci sono meno individui evoluti che inevoluti.

 

E pensare che è tanto logico che il naturale destino di ogni essere sia la comunione! Se le cellule fossero rimaste indipendenti, autonome nella loro esistenza; se la natura non le avesse condotte alla reciproca cooperazione, interazione, non si sarebbero mai costituiti gli organismi con tutte le loro meravigliose possibilità di azione e di espressione. Il corpo di un uomo è il risultato della cooperazione di miliardi di cellule, di singole entità che in se stesse non hanno neppure la millesima parte delle possibilità che ha l'organismo da esse costituito.

 

E per quale motivo così non dovrebbe essere per la coscienza? Perché il sentire di coscienza di un uomo non dovrebbe essere il risultato e l'aggregazione, la comunione di più atomi di  sentire?; quel sentire così sottile e complesso che è capace di indirizzare l'azione dell'umano in senso contrario a quelli che sono gli istinti naturali?; quel sentire che vince la razionalità, a sua volta vincitrice della forza bruta, perché il sentire di coscienza induce l'individuo a comportarsi contro il suo stesso interesse personale, « suprema ratio « della vita individuale? Quel sentire che anche per i materialisti è l'espressione più alta, più nobile che la natura può raggiungere perché e come potrebbe essere così complesso se non fosse il risultato, la sintesi di una molteplicità?    

 

Questo pensiero vi spaventa perché concepite la comunione di  due esseri come la fine di uno dei due; e ciò è un errore, come lo stesso concetto di essere. 

Ripeto: non esiste l'essere che sente ma esistono tanti sentire che, legati l'uno all'altro per successione, logica, creano l'illusione dell'essere che sente. 

Ebbene, questo Sentire, che nella sua definizione più semplice ed universale possiamo chiamare « coscienza di esistere «, non viene mai meno. Questo è importante. Che importa poi se la coscienza di esistere, il vostro attuale sentire di coscienza sia la conseguenza logica di altri numerosi sentire e se questi siano raffigurabili dislocati in senso verticale o in senso orizzontale, in una convenzionale scala dello spazio-tempo?

 

Certo è che il vostro attuale sentire è sempre la premessa logica di un altro più ampio, perciò, qualunque sia la struttura del sentire, la coscienza di esistere e quindi l'esistenza non viene mai meno.  

Soffermatevi sulla vostra repulsione ad ammettere che il vostro attuale sentire sia una molteplicità costituita da tante esistenze.

 

Anche se non lo si ricorda, generalmente non si hanno difficoltà ad ammettere che si possono avere avute vite, in forma umana, precedenti l'attuale. La certezza di questo fatto, tuttavia, si ha solo se si ha il ricordo di quelle esistenze; eppure, come altre volte ho detto, il ricordo è una garanzia di poco affidamento. 

 

Se ritornasse il ricordo di quelle esistenze, che cosa accadrebbe? Ricordereste la vita di personaggi che collochereste in certe epoche storiche; ma collocare questi personaggi nella cronologia storica sarebbe un fatto possibile grazie alla vostra attuale cultura, che conosce la successione degli eventi storici nei tempi; in effetti tale collocazione potrebbe non avvenire e le cose non cambierebbero. 

Intendo dire che l'evoluzione non è un effetto del trascorrere del tempo: il tempo, oggettivamente, non trascorre affatto. L'evoluzione, semmai, è il retaggio della vita non importa dove  e quando ubicata, purché lo spazio-tempo dia l'ambiente adatto all'ampliamento della coscienza individuale.      

 

Il fatto che una ipotetica incarnazione al tempo della Rivoluzione francese sia successiva, nella cronologia, ad una avvenuta nel Rinascimento, non ha alcuna importanza. A rigore, ai fini dell'evoluzione individuale, è importante che le due incarnazioni siano avvenute, non altro.

Voi siete invece disposti ad ammettere una pluralità di esistenze purché bene ordinata in successione nel tempo, cosicché il filo del vostro io sia ben seguibile e distinto, perché avete una sbagliata concezione dell'essere e dell'esistenza. 

 

Ma per quale motivo il filo della vostra individualità non può cucire vite collocate negli stessi tempi, dato che il tempo e lo spazio sono fattori relativi? Se è la contemporaneità che vi impedisce di ammetterlo, sappiate che la vera contemporaneità è quella del sentite; la quale può rendere contemporanei il primo "homo sapiens" di migliaia di anni fa con un selvaggio dell'Amazzonia di oggi, così come possono essere distanti decine di migliaia di anni di evoluzione una madre e suo figlio.      

 

A voi la contemporaneità complica la comprensione della molteplicità delle esistenze, quale ve la sto illustrando, perché pensate alla possibilità teorica dell'incontro di due individui che appartengono alla stessa individualità. 

Ma ditemi: perché le incarnazioni non potrebbero essere cronologicamente contemporanee, dato che il tempo non è oggettivo? Solo i sentire analoghi sono simultanei, perciò se fra l'intervistato e l'intervistatore vi fosse una diversa qualità di sentire ossia non vi fosse simultaneità di sentire, potrebbe benissimo darsi che le due personalità dell'intervistato e dell'intervistatore appartenessero alla stessa individualità; perciò, in un certo senso, quell'essere colloquierebbe con se stesso.    

 

Che c'è di strano? Se la coscienza cosmica è Una, tutti in fondo facciamo parte di quell'Unico Essere e per quante

creature possiamo incontrare incontreremo sempre noi stessi: una parte del nostro vero essere.

 

Vi dirò di più e poi cesserò di scandalizzarvi. Perché sentire le due vite non può essere simultaneo? Forse che la visione dei  due occhi è in successione l'una rispetto all'altra? Il fatto che ciascun occhio abbia una sua visione esclude che entrambi possano far capo ad uno stesso centro ricettore? E quel centro ricettore non percepisce in egual modo le due visioni, pur realizzando una sua sintesi che le trascende? Per quale motivo, il vostro sentire attuale non dovrebbe o non potrebbe essere il centro ricettore di tanti altri sentire singoli, appartenenti ad esseri dislocati nei loro spazi-tempi anche comuni?    

 

Tuttavia c'è un principio, una legge che ordina la manifestazione dei sentire, ed è che sentire analoghi vibrano, si manifestano simultaneamente; mentre sentire diversi si manifestano in successione, dal più semplice al più complesso. La caduta di una limitazione origina sentire equipollenti, che perciò entrano in comunione, che sono sempre simultanei e possono appartenere ad individui che dividono lo stesso tempo e lo stesso spazio.

Lo Stesso tempo e lo Stesso spazio può essere diviso fra individui che hanno un sentire non analogo: essi non sono simultanei perché non entrano in comunione, tuttavia l'uno dei due può essere un sentire che, in qualità, contiene l'altro, essere cioè il risultato di comunione di sentire analoghi all'altro.

 

Eccettuati gli atomi di sentire, ogni sentire è composito e contiene, per ampiezza, per qualità, tutti i sentire di cui è centro ricettore. In lui sono contenute le vite degli esseri che manifestarono i sentire che li costituiscono; egli è tutti quegli esseri e nessuno di essi in particolare; quegli esseri, in lui, non sono annullati ma trovano la continuità della loro consapevolezza di esistere in quel sentire che li contiene tutti, ricco delle esperienze di ciascuno; perciò quel sentire non rappresenta una reciproca elisione degli esseri di cui è centro ricettore, ma un loro reciproco arricchimento.    

 

Certo, questa Verità è incomprensibile per chi pensa al suo essere futuro come alla continuazione di se stesso. Come se, a comunione avvenuta, egli trovasse il ricordo dell'esistenza di altri esseri rimanendo però lui il personaggio vero. Ciò realmente sarebbe la morte degli altri esseri; ma per fortuna non è cosi; il nostro futuro essere è un essere del tutto nuovo che è tutti noi ma non è nessuno di noi in particolare; un essere in cui tutti noi ci riconosciamo, ci identifichiamo e troviamo la vera continuità, la vera sopravvivenza, la più vera esistenza.

 

Una tale concezione della Realtà, oltreché essere vera, fornisce una logica spiegazione dell'altruismo; fa comprendere come l'amore agli altri non sia un irrazionale ed innaturale atteggiamento dei mistici, ma piuttosto il naturale e logico sentire che ogni essere non può che trovare, dato che la completezza della propria esistenza sta solo nell'esistenza degli altri esseri.    

 

Allora, come si può sentirsi superiori, più importanti degli altri, dal momento che ciascuno è indispensabile non  tanto per la funzione che ha nei confronti dei suoi simili quanto perché rappresenta un centro di sentire unico e insostituibile?

Tutti gli esseri sono egualmente importanti.      

Se anche tu fossi il sovrano dell'umanità non saresti più importante,  dal punto di vista della manifestazione del sentire, del più sconosciuto e isolato degli esseri. Ogni sentire relativo, così prezioso ed unico, è un momento nella teoria dei sentire ognuno dei quali è eguale solo a se stesso, cosicché nella dimensione del divenire e della molteplicità ciascun essere, essendo sempre un sentire diverso, mai rimane identico a se stesso.

 

Convinciamoci di ciò; suscitiamo con la logica il corrispondente intimo sentire; rivolgiamoci al vertice della comune esistenza per realizzare quel contatto che è comprensione-liberazione:

 

"Sì, Padre, la mia presunzione mi fa così cieco della Tua grandezza, e della mia nullità, che vorrei, quale sono, essere eterno. Penso di avere tante qualità da avere il diritto di rimanere intatto eternamente come simulacro della perfezione umana. L'essere diverso dagli altri non mi spinge a comprendere ciascuno, come me, incompleto, ma mi fa sentire a loro superiore e meritevole della particolare Tua attenzione. Perciò rifiuto l'idea di entrare in comunione con loro".

 

" Tutto questo, figlio mio, perché non ami.

Quando, dopo aver imparato a non uccidere, a non rubare, a non desiderare la roba d'altri, a non rendere falsa testimonianza, a onorare il padre e la madre, a non fornicare, a non desiderare la donna d'altri, a santificare le feste, a non nominare il mio nome invano, a non avere altro Dio fuori di me e perciò a pormi sopra ogni cosa, quando tu, per amore, dimenticherai tutto ciò, allora amerai veramente, di quell'amore che non conosce condizioni, timori, riserve; ed io ti dirò:

Hai molto amato e molto ti è perdonato. Amando veramente, tu comprenderai che nulla più ti importa di te stesso e che la più grande felicità è nella comunione con l'oggetto del tuo amore, scopo e coronamento finale della tua esistenza ".

 

Continua