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Significato filosofico delle teorie della relatività - Gli ideogrammi - Istinto, intuito, sentirsi d'esistere - Sentire in senso lato e sentire di coscienza -

Eternità della coscienza di esistere              

 

Significato filosofico delle teorie della relatività

 

(gennaio 1979)

 

Certamente ricorderete la mia affermazione che un corpo il quale fosse solo ad esistere in assoluto non sarebbe mai in movimento: sarebbe e nulla più. Evidentemente, se non vi fossero né tempo né spazio non potrebbe esservi il moto, dato che il moto è appunto, per definizione, la condizione di un corpo che muta posizione nello spazio con il trascorrere del tempo. 

Ma la mia affermazione non poteva avere un significato così semplicemente ovvio: come sempre, era un invito a riflettere. Mi auguro che qualcuno questa riflessione l'abbia fatta ed allora, forse, avrà pensato che, se si parla di corpo, l'esistenza dello spazio potrebbe essere implicita perché - almeno nel mondo che voi conoscete - i corpi si collocano nello spazio. 

Tuttavia la questione non è così semplice come può apparire.  

 

L'uomo nel corso dei secoli ha avuto diverse concezioni di spazio: per esempio Aristotele lo pensava come il volume, l'estensione, l'ingombro dei corpi; esattamente l'opposto di quello che voi intendete nel linguaggio di tutti i giorni allorché affermate che in un ambiente c'è tanto più spazio quanto più è sgombro di corpi.     

 

Prima di Aristotele, Democrito e poi Euclide pensavano invece lo spazio come qualcosa di vuoto, ma che tuttavia esisteva oggettivamente; concezione poi ripresa da Newton il quale postula uno spazio tridimensionale, infinito, immobile, immutabile, indipendente dalla materia, e via e via.

 

Diversamente orientata è invece la fisica dell'uomo di oggi, la quale, in seguito a più precise intuizioni matematiche, con fermate anche in parte da scoperte scientifiche, nega che lo spazio abbia tutti quei valori universali che gli si attribuivano in precedenza. Tanto che, a ben pensarci, sembra assai più vicina al concetto - lontano concetto - aristotelico, piuttosto che concetto newtoniano. Infatti si potrebbe dire che lo spazio è la estensione del corpo-Cosmo, con tutte le sue ma teorie più o meno dense, o, se preferite, più o meno rarefatte, in cui però non esiste il vuoto assoluto. Anche se, per la verità, Aristotele affermava che l'universo, cioè quello che noi chiamiamo Cosmo, non è quello spazio perché non è contenuto da alcunché.  

 

Continuando le nostre riflessioni su un corpo solo ad esistere in assoluto, si scopre che la concezione di spazio della fisica relativistica bene si adatta a quello che è il nostro insegnamento. Infatti se anche il corpo che  noi ipotizziamo fosse qualcosa di incorporeo, nel senso di non materiale, egualmente sarebbe immobile, immutabile; non solo, ma sarebbe anche infinito; qualcosa che secondo il vostro modo di vedere non dovrebbe avere dimensioni e che invece è infinito nel vero senso del concetto, che poi dirò qual'è.    

 

Perché questa affermazione vi sembri meno assurda, vi dirò che tutto quanto esiste è " qualcosa ": per esistere deve essere un "quanto ", ovviamente non in senso fisico ma certamente in senso di "sostanza". Lo stesso pensiero è qualcosa; lo spirito lo è. Le cose più astratte che possono esistere, astratte nel senso di non materiali, che non sono in se stesse materia o sostanza, sono dell'ordine dell'attributo, della condizione, della qualità, dello stato; sono cioè indissolubilmente legate alla sostanza, all'ente. Non esiste qualità senza quantità.

" Non si può negare l'attributo senza negare l'esistenza stessa dell'essere ", dice la filosofia. Ma su questo argomento torneremo più diffusamente.

 

Taluno afferma che anche il mondo materiale sensibile è invece immateriale perché è una vibrazione, o qualcosa di simile; volendo, con questa affermazione, spiritualizzare lo spirito; invece non comprende che la vibrazione, nella concezione più astratta, al massimo può essere la condizione di qualcosa, della sostanza. 

Ma se il mondo materiale è allora "vibrazione", cioè è " condizione ", la sostanza è lo spirito, perciò lo spirito diventa meno astratto, più concreto, più reale del mondo materiale sensibile. 

 

Ora, se anche il corpo che noi poniamo esista, unico in assoluto, fosse qualcosa che avesse una sola dimensione - e certamente non sto pensando a qualcosa di simile alla vostra retta che nella vostra stessa concezione è infinita, ma, per esempio, al segmento di retta - egualmente il mondo originato sarebbe infinito; e lo sarebbe anche se fosse una figura a due dimensioni, o un corpo a tre dimensioni; oserei dire, secondo il vostro modo di vedere, fossero anche di grandezza finita. Sì, lo sarebbero, infiniti, qualunque cosa fossero, perché sarebbero tutto l'esistente: e, come tale, non sarebbero limitati da alcunché.

 

Nel mondo che voi conoscete, un qualunque oggetto che prendete in considerazione è limitato da tutto il resto che non è quell'oggetto: cioè un oggetto non è solo ad esistere in assoluto. Ma un oggetto che così fosse, cioè solo ad esistere in assoluto, sarebbe perciò illimitato, non conoscerebbe il limite della finitezza, sarebbe infinito.        

Quando noi diciamo " un oggetto solo ad esistere in assoluto ", voi non dovete immaginare l'oggetto circondato dal "non-oggetto", dal "vuoto"; il vuoto, il nulla, il non-essere assoluti, non possono esistere, perché non possono "essere".

 

Una tale esistenza sarebbe una contraddizione in termini, un assurdo. Anche il non-essere degli orientali è relativo, cioè è " non essere qualcosa " ma " essere qualcos'altro ". Vedete, lo zero della aritmetica che non ha valore di quantità, ma solo di posizione, concettualmente afferma qualcosa, afferma il non valore. Nella realtà fisica - che so? - la stasi, l'equilibrio di un corpo che si contrappongono al moto, pur non esistendo in sé, sono qualcosa, sono la " condizione " di un corpo che non muta posizione nello spazio con il trascorrere del tempo.

Ma il non-essere assoluto - sottolineo assoluto - non può avere significati analoghi, perché nel momento stesso che fosse, che esistesse, che si ponesse, affermerebbe qualcosa, quanto meno se stesso, e perciò  non sarebbe più il " non essere assoluto ". 

 

Il non-essere assoluto si può immaginare solo quale  contrapposizione all'essere assoluto, ma è un errore contrapporre qualcosa all'assoluto perché, se vi fosse qualcosa a lui contrapponibile, l'essere non sarebbe più assoluto: sarebbe semplicemente il termine di una dualità. Allora il nostro segmento di retta - che, voi certamente ben capite, è una figurazione, fra l'altro molto imprecisa dopo quello che ho detto sull'esistenza e sulla sostanza - quindi costituirebbe un mondo unidimensionale infinito, ma con uno " spazio " come lo concepiva Aristotele: cioè l'estensione dei corpi.      

Se invece, in assoluto, l'unico ad esistere fosse una figura piana, cioè a due dimensioni, oppure un corpo a tre dimensioni, i mondi originati sarebbero " infinito bidimensionale ", o " infinito tridimensionale ", ma sempre con uno " spazio " aristotelico. 

Per giungere ad uno " spazio " quale voi lo conoscete, è necessario cambiare tipo di realtà; e cioè da una realtà unica in cui esiste un solo corpo, un solo " quid ", passare quanto meno ad una realtà duale.             

 

Non è la prima volta che parliamo di questo tipo di realtà, la più semplice delle realtà molteplici. Ricorderete l'esempio dei due pianeti in avvicinamento: in una realtà in cui esistono solamente, in assoluto, due corpi, o due "quid", non è immaginabile l'ipotesi che uno solo dei due corpi si muova incontro all'altro, ma si può solo dire che la distanza che li separa diminuisce. Ora, due corpi che esistono in una realtà non sono infiniti, non possono esserlo: l'uno diventa limite dell'altro. Inoltre, fra due corpi che esistono nella stessa realtà c'è un rapporto quanto meno inteso in senso matematico: tale rapporto crea il concetto di relatività, di dipendenza perché, come prima dicevo, ciascun corpo è condizionato dall’altro.            

 

Ora, due corpi che esistono nella stessa realtà non necessariamente sono limitrofi, cioè a contatto; ma se anche lo fossero, per il fatto stesso che i corpi sono due salterebbe fuori il concetto di spazio inteso non più nel senso aristotelico stretto, di estensione dei corpi, ma anche come estensione del " non corpi ", cioè di quel " quid " che divide, delimita, distingue i corpi: fa dell'esistente due corpi.           

 

Ora, mi sembra abbastanza comprensibile che, se non esistono i corpi, non esiste il "non corpi ". Quindi lo spazio, comunque lo si voglia intendere, sia come estensione dei corpi e sia come estensione del " non corpi " è strettamente connesso ai corpi. Ma se lo spazio è connesso e dipende strettamente da ciò che esiste, non può esistere uno spazio a tre dimensioni se non esistono corpi a tre dimensioni. 

Nella molteplicità quindi è possibile l'esistenza di uno spazio a n dimensioni purché vi sia un sol corpo che tante ne abbia.     

 

Gli enti percepienti percepiscono la realtà come avente non più dimensioni di quelli che essi stessi hanno nel momento della percezione, cioè relativamente alle contingenti loro limitazioni. Se dunque le limitazioni strutturali di un ente percepiente ne fanno un oggetto cosmico a tre dimensioni, egli percepirà la realtà con tre dimensioni anche se la realtà ne avesse cento. Ma, ripeto, perché la realtà possa avere cento dimensioni è necessario che esista almeno un sol corpo - corpo in senso di sostanza - che tante ne abbia.     

 

Parlando della realtà in termini di spazio, di corpi, di sostanza, può sembrare che si voglia dare un aspetto prettamente materialistico di essa, e diventa paradossale che proprio chi si definisce " uno spirito " dia una simile immagine della Realtà. 

Non va dimenticato che nella vostra cultura occidentale la distinzione della realtà in materia e spirito ha assunto una fisionomia precisa da Cartesio in poi. 

Ebbene la nostra concezione del reale è più simile a quella arcaica, secondo la quale il mondo era materiale e spirituale al tempo stesso. Tuttavia noi affermiamo che la realtà è una, e come tale non è né spirito e né materia. Ogni distinzione è semplicemente convenzionale e di comodo. La scienza che non tiene presente tutto ciò ed adotta sistema chiusi per spiegare la realtà ne lascerà sempre degli aspetti incompresi.      

 

Ora, l'attuale concezione dello spazio non ne fa più qualcosa di infinito, ma qualcosa di curvato e, probabilmente, si dice, rifluente su se stesso. Ne risulta così un continuo spazio-temporale in cui un ipotetico astronauta immortale continuerebbe a viaggiare in perpetuo nello spazio senza mai trovarne la fine, senza mai ritrovare  gli stessi paesaggi, pur essendo lo spazio finito. 

Ciò è in qualche modo comprensibile solo se si pone che lo spazio, più che contenere, dipenda da ciò che esiste; ed il tempo, più che essere, dipenda dalla successione degli eventi. Ho detto " esiste " ed " eventi ", cioè ho adottato una concezione meno relativistica di quella della omonima scienza, per la ragione che dirò poi.

 

La scienza relativistica, infatti, circa la simultaneità afferma che un evento simultaneo con un insieme di altri eventi lo è solo in relazione ad un dato sistema inerziale. 

Questo significa - in parole più semplicistiche, ma anche più comprensibili - che più eventi percepiti da un osservatore come simultanei non lo sono invece più, percepiti simultaneamente da un altro osservatore che, rispetto al primo, sia in moto. E non è questo quello che noi abbiamo sempre affermato con l'esempio dei fotogrammi, dicendo che una stessa serie di fotogrammi non è percepita simultaneamente da sentire di grado diverso, che pure alla stessa serie sono collegati?      

Questa affermazione della scienza relativistica dovrebbe far meditare coloro che sostengono che quanto la scienza umana ha oggettivamente provato e controllato non  potrà mai essere smentito dalle successive ricerche e scoperte. Chissà che le successive ricerche e scoperte non rivelino un nuovo e diverso punto di osservazione della realtà, e quindi una nuova e diversa percezione degli eventi e dei fenomeni?        

 

Tempo e spazio non sono più valori universali ed omogenei. L'omogeneità è sostituita da un rapporto costante. Ma se il rapporto fra tempo e spazio è costante, tanto che il tempo è considerato una dimensione dello spazio, allora lo spazio contiene solo tutto ciò che esiste nell'unità di tempo intesa come unità di mutazione; ma se così è, allora lo spazio è diverso nel tempo; e se lo spazio nel tempo muta, cioè non è mai eguale a se stesso, allora esiste uno spazio per ogni evento.

Difatti, in parole ancora semplici, la scienza relativistica dice che lo spazio non si deve più considerare come uno schermo tridimensionale sempre eguale a se stesso, immobile, immutabile, sul quale si proietta la serie degli eventi; ma l'evento è un fatto spazio-temporale, per cui esiste un tempo ed uno spazio per ogni evento: per ogni fotogramma, dicemmo noi.

E non è questo quello che noi abbiamo sempre affermato, giusto con l'esempio dei fotogrammi, sostenendo vero il concetto della realtà-essere in confronto al concetto della realtà in divenire?      

 

Si potrà obiettare che non v'è nessuna prova provata che la realtà sia da intendersi in " essere ". Ma bisogna stare attenti a dire che non sia vero, e che quindi non esista ciò che non è interpretabile in una sola direzione, cioè in senso esclusivo, e che in senso esclusivo è percepito; perché, se così si fa, si identifica l'esistenza con la percezione, e il concetto dello spazio come ciò che contiene tutto quello che esiste nell'unità di mutazione diventa ciò che contiene tutto quello che è percepito in quella unità.

 

Ma se così è, allora l'esplosione di una supernova che in qualche modo voi osservate ai limiti del cielo visibile, cioè nel vostro ora, diverrebbe un evento dello spazio-tempo qual'è ora. Mentre così non è, o tutta la scienza relativistica diventa un controsenso. 

Quindi è necessario ben distinguere ciò che esiste in sé da ciò che è percepito.

 

La conclusione filosofica di questo discorso - quella, in fondo, che ci interessa - è che se le scoperte scientifiche progredissero di pari passo con la giusta interpretazione dei fenomeni voi assistereste al progressivo dissolversi di tutti i sistemi chiusi e comprendereste che ogni percezione della realtà è una immagine, come tale incompleta e inesatta.

Nel mondo della percezione, le scoperte scientifiche sono vere sempre e solo per approssimazione. 

 

La Realtà, nella sua essenza, è irragiungibile. Ma questo non significa che l'uomo debba volgere la sua attenzione e credere vero ed  esistente solo ciò che percepisce e quale lo percepisce; ma deve dargli la misura della sua dimensione.

Questo, in fondo, è anche il significato filosofico delle teorie "speciale" e "generale" della relatività.

 

 

 

Gli ideogrammi

 

(1980)

 

 

Vorrei ricordarvi alcune nostre affermazioni fondamentali, e cioè: la Realtà, intesa come totalità di ciò che esiste, è una, molteplice nell'apparenza ma unica nella sostanza, tanto da formare un sol tutto inscindibile: il Tutto-Uno-Assoluto.      

 

Il vuoto, il nulla, il non essere assoluti, non possono esistere. Tutto quanto esiste è qualcosa in senso di "sostanza", intesa nel concetto filosofico di un "quid " non astratto. L'accidente, l'attributo, la condizione, la qualità, lo stato eccetera, non esistono in sé ma sono sempre legati a qualcosa; in ultima analisi, alla "sostanza".

L'unica sostanza è lo spirito, divina sostanza, sostanza di Dio, inscindibile, indivisibile, infinito, immutabile, immobile, omogeneo eccetera, eccetera, da cui traggono origine tutte le sostanze, tutto ciò che esiste, che pure non esiste in sé in quanto è apparenza dell'unica sostanza allorché essa è considerata come enucleata dal Tutto-Uno-Assoluto.  

Il pensiero-pensatore, considerato in sé, è qualcosa in senso di " sostanza " anche se ciò che rappresenta è frutto di una enucleazione e quindi non è oggettivo rispetto all'ultima Realtà. Il pensiero, considerato come idea, come significato,  come attività del pensatore-pensiero, è analogo all'attributo, alla condizione, alla qualità, allo stato delle cose; cioè non esiste in sé ma è strettamente connesso al pensatore-pensiero in quanto tutto uno con quello. Tutto quanto l'uomo considera astratto, cioè esistente solo come pensato, in sé ha la natura dell'idea, ma come tale è indissolubilmente legato al supporto, al substrato di " sostanza ": il pensatore-pensiero.  

 

Per chiarire con una similitudine: il pensatore-pensiero è come un  quadro considerato dal punto di vista materiale, colori e forme; mentre il pensiero, come idea, è il significato del quadro, il suo contenuto che, nel mondo materiale, è indissolubilmente legato al quadro.

 

Queste affermazioni, intese separatamente da quanto altro abbiamo detto, sembrerebbe che confermassero il concetto della realtà intesa come divenire, al centro della quale è l'uomo visto come ente che diviene attraverso alle sue attività fisiche, emotive, di pensiero eccetera. Ma questa è invece una interpretazione delle cose derivante dall’abitudine a considerare la realtà in un certo modo, dal giudicarla dal di dentro, cioè non freddamente ma sotto l'impressione che si ha vivendola con certe limitazioni. 

 

Se si considera invece la realtà dal punto di vista scientifico, cioè al di fuori della coscienza in senso lato, ma semplicemente della materia, ed a noi va bene perché tutto è sostanza o legato ad essa, allora si scopre che tutto è riconducibile ad una particolare disposizione delle sostanze.  

 

Cercherò di spiegarmi. Per semplicità esemplificativa prendiamo in considerazione un uomo che compie una azione: l'azione, come attività fisica dell'uomo, in sé è un insieme di movimenti, di atti; tale è l'azione dal punto di vista meccanico. 

Tuttavia l'azione ha un suo significato rivelantissimo: per esempio, l'uccidere; altre azioni che sono finalizzate ma non nei riguardi altrui: per esempio, cibarsi; altre che hanno un significato che si esaurisce nella sola gestualità, come quelle rituali; eccetera. Comunque, lasciando da parte ogni e qualunque fine e significato delle azioni che investono più propriamente il mondo mentale, l'azione in sé è un insieme di atti, di gesti.     

Se si fuoriesce dal mondo dell'individuo, cioè da colui che agisce, e come osservatori prendiamo in considerazione un insieme di atti per ravvisare il " quanto ", nel senso della fisica, dell'azione, cioè la minima grandezza possibile, ci troviamo di fronte ad una realtà raggelata, fissa, immobile, proprio come il fotogramma di un film: il fotogramma della unità di mutazione della realtà fisica. 

 

Se ancora osserviamo, spersonalizzandolo, un singolo fotogramma, dimenticando cosa sono quelle immagini tridimensionali che osserviamo e che cosa rappresentano, che significato hanno; cose tutte soggettive e relative alla dimensione d'esistenza in cui sono collocate e a chi vive in quella dimensione; se, dicevo, si osserva che cosa è il fotogramma in sé, non possiamo fare a meno di concludere che è un insieme di materia, di sostanza aggregata in un certo modo; null'altro.      

 

Più evidente vi risulterebbe questa conclusione se il fotogramma, anziché riguardare le vostre azioni e quindi il vostro mondo, riguardasse uno di quei mondi immaginati dalla fantascienza, completamente diverso dal vostro; oppure riguardasse sempre il vostro mondo ma visto al microscopio; concludereste cioè che quel fotogramma, in sé, è un insieme di forme, di materie dislocate in una certa maniera, come in un quadro di un astrattista. 

A questo è riconducibile la realtà fisica prescindendo da significati, valori, pathos, eccetera, che del resto riguardano altri piani di esistenza.

 

Se così è, l'uomo che agisce, che compie una azione - uomo come corpo fisico - salta fuori solo perché in tutti i fotogrammi che si prendono in considerazione c'è quel comun denominatore che è quella forma che chiamiamo " corpo fisico " e che proprio per il fatto di essere comune a vari fotogrammi stabilisce quel collegamento, quella continuità di identità nel suo complesso detta " corpo dell'uomo ", ma che a ben vedere è semplicemente frutto dell'abitudine a considerare in senso unitario fatti diversi, perché si crede conservino la stessa identità attraverso il succedersi degli eventi.    

 

Quello che abbiamo detto per il mondo fisico può essere ripetuto per il mondo delle emozioni o astrale, e per il mondo del pensiero o mentale, con qualche complicazione per quest'ultimo perché è il mondo in cui si ha l'analisi, la sintesi eccetera, in cui si traggono i significati, si comprende anche solo in senso intellettuale e non di coscienza. Prima dicevo che il pensiero è qualcosa in senso sostanziale. Consideriamolo come attività del corpo mentale dell'uomo, così, come l'azione dal punto di vista semplicemente meccanico è definibile quale attività esterna del corpo fisico. 

 

Cerchiamo allora di capire, anche sommariamente, come si svolge quella attività, tenendo presente che la mente, il corpo mentale dell'uomo, è considerata in senso unitario solo perché esiste un collegamento, una sequenzialità di pensiero, in cui hanno parte predominante la memoria e la personalità, ma che in effetti la mente è una molteplicità tale e quale come prima dicevo esserlo il corpo fisico.

 

Voi sapete che ad ogni incarnazione l'uomo ha un nuovo corpo fisico, un nuovo corpo astrale ed un nuovo corpo mentale. Consideriamo il corpo mentale nella sua parte intellettiva come un insieme di materia, sostanza mentale non organizzata, una tabula rasa. Il fanciullo apprende secondo un meccanismo che rudimentalmente è già noto agli psicologi ed ai ciberneti; cioè una certa forma del mondo fisico, una figura, col venire legata ad una sensazione diventa esperienza consumata, e registrata nella mente del soggetto ed immagazzinata.   

 

Come avviene questa registrazione? Mediante la organizzazione di un " quanto ", nel senso della fisica, di sostanza mentale: il fotogramma mentale. Ciascun fotogramma mentale corrisponde ad una immagine del mondo conosciuto, da prima empiricamente e poi in modo intuitivo, come spiegherò; cioè corrisponde ad una idea basilare. 

Il fotogramma mentale è simile ad un ideogramma in cui la sostanza mentale, organizzata in una certa forma, contiene l'oggetto della conoscenza avuta. Tutte le volte che l'ideogramma mentale si ripropone spontaneamente, o con l'atto del ricordo, al pensatore ritorna il significato della conoscenza-esperienza. 

 

Ottenuto un certo numero di conoscenze empiriche e costruiti i relativi ideogrammi mentali, la ulteriore conoscenza, particolarmente quella astratta, cioè di semplice e puro ragionamento, avviene per comparazione fra gli ideogrammi-base. Questa operazione non sarebbe possibile se le esperienze, il conosciuto, non fossero immagazzinati, trattenuti nel significato; cioè se non fosse possibile riportare alla consapevolezza la conoscenza ottenuta; ed ecco la memoria. Gli ideogrammi mentali che ciascuno si è costituito sono tutti archiviati nel proprio corpo mentale, utilizzabili per una comparazione con ciò che via via l'uomo deve capire.       

 

La più alta forma di ragionamento, quella creatrice, si riproduce per il principio della trascendenza, similmente alla visione tridimensionale che è risultato della fusione trascendente delle due immagini oculari piatte. Allo stesso modo, la comparazione fra due ideogrammi che l'uomo ha immagazzinato nella sua mente, ed aventi un certo significato, può creare un terzo ideogramma di contenuto più complesso degli altri due. Quindi l'attività di pensiero, non solo il ricordo, è tutta un'associazione di idee: conoscere è sempre riconoscere, anche quando è apprendere, capire ciò che non si è mai saputo; ricordatelo!      

 

La possibilità di ragionare è la possibilità di confrontare i fotogrammi o ideogrammi mentali e disporli in modo conseguente, in modo cioè che rispetta l'ordine delle cose conosciute fino a creare nuovi ideogrammi che non riflettono più la realtà conosciuta ma che esistono solo come puro pensiero.

 

Tuttavia, per quanto astratto sia il pensiero contenuto dagli ideogrammi, essi ideogrammi sono della stessa sostanza mentale della quale sono costruiti quelli che riflettono le cose materiali.

L'attività dei corpi fisico, astrale e mentale è riconducibile a semplici o complessi moti meccanici. La stessa volontà, che è considerata uno dei fenomeni più complessi della vita psichica, potrebbe essere interpretabile come semplice determinismo psichico, cioè come forte desiderio che sarebbe capace di indirizzare e volgere tutta l'attività dell'uomo al raggiungimento dell'oggetto del desiderio, quindi sostanziale assenza di scelta e di autonomia, di decisione cosciente. E questo, talvolta, è vero. 

Quello che salva l'uomo e tutto quanto esiste dall’essere un automatismo, è la coscienza, il sentire in senso lato, che va dal sentirsi d'essere alla coscienza del Tutto.

 

La coscienza, nel suo stato più limitato che noi abbiamo definito atomo di sentire è autoconsapevole ed è sentire d'essere. La coscienza stessa è qualcosa in senso di sostanza: è la divina sostanza spirito, più o meno limitata, più o meno autoconsapevole. Ma per quanto limitata sia, è sempre sentirsi d'esistere.      

La differenza che c'è fra la sostanza-coscienza e la sostanza-mente, pur essendo una sola la vera Sostanza, è che la sostanza-mente, per esprimere l'idea, il pensiero, deve essere organizzata, aggregata in un certo modo, e quindi l'idea si potrebbe definire "la qualità della sostanza-mente "; mentre la coscienza non subisce organizzazione per esprimere sentirsi d'esistere sempre più ampi: è essa stessa sentire più o meno ampio, più o meno onnicomprendente, secondo che sia meno o più limitata.  

 

In ogni caso, se noi affermassimo che tutto quanto esiste nei mondi fisico, astrale e mentale, inclusi i veicoli omonimi dell'uomo, è un gigantesco meccanismo che produce coscienza, una gamma che va dall’atomo della coscienza alla coscienza individuale, non sbaglieremmo di molto.  

 

Se poi si tiene presente che solo per comodità di comprensione, abituati come siete a considerare il mondo in divenire, abbiamo considerato l'uomo come un ente che diviene, che acquisisce e che crea nel tempo; ma in effetti tutto è, tutto esiste già al di là del tempo; se si tiene presente questo, allora veramente si comprende che Dio è il Tutto, che Tutto è Uno, che il prodotto del Tutto è la Coscienza Assoluta, e viceversa.

 

Tutto quanto esiste è sostanza-qualità: non può esistere quantità senza qualità. Gli stessi numeri, che esprimono quantità, pura, astratta, sono qualità dell'unità. Allo stesso modo non può esistere qualità senza quantità. Dio stesso è quantità e qualità: Egli è la totalità del Tutto che trascende la sommatoria delle qualità e delle quantità. In ciò è la suprema ragione, l'esistenza del Tutto.

 

 

 

 

Istinto, intuito, sentirsi d'esistere

 

(1980)

 

 

Osservando la vita dei regni naturali, gli studiosi concordemente affermano che ogni atto del vivere costa fatica. Fatica costa procacciarsi il cibo, allevare la prole, sopravvivere e così via. Niente è dato senza dover pagare il corrispettivo in fatica.      

 

Questo è vero ma solo parzialmente perché, in effetti, la parte più nobile della vita, della specie naturale, quella che la rende in un certo senso creativa, che dirige ogni atto del vivere, ogni singolo individuo ce l'ha gratuitamente per dotazione congenita. 

Parlo dell'istinto, cioè di quell'impulso interno che non dipende dalla ragione né dalla volontà e che, in un modo quasi invincibile, spinge ad agire in un certo senso, lasciando tuttavia chi agisce inconscio del motivo per cui agisce e della verità che sta alla base della sua azione e dei suo comportamento.   

 

Pure l'uomo, quale essere della natura, è dotato dell'istinto, anche se in misura minore di quella di cui sono dotati gli appartenenti alle altre specie naturali; tuttavia ha altre  dotazioni che lo compensano della fatica che l'esistere costa. 

Per verità, dico queste cose in forza del discorso perché, in effetti, l'esistenza si paga da se stessa: costi quel che costi, l'esistere è sempre più ciò che si ottiene dall’esistenza di quello che si paga. Ricordatelo!      

 

Rammentando le altre gratificazioni che l'uomo ha dalla vita, non intendevo riferirmi ai vari colpi di fortuna che può avere, o alle doti naturali che può sfruttare, che sono tutti crediti karmici: mi riferivo a quella facoltà che emerge naturalmente e spontaneamente di cogliere, all'istante, la verità di una cosa e sapere ciò che è da farsi e ciò che è da evitarsi. Mi riferivo, insomma, all'intuizione.  

 

Diversamente dall’istinto, l'intuizione porta con sé la coscienza; cioè dell'intuizione si ha coscienza; ossia essa porta sempre una conoscenza. Senza il processo dell'apprendere, essa dà egualmente la consapevolezza e la cognizione di una verità, come se la si fosse appresa con la ragione. 

Mentre l'istinto governa solamente la vita attiva, i comportamenti, l'intuizione riguarda esclusivamente la vita contemplativa, astratta, e da lì, semmai, si riflette poi sulla vita attiva. 

Dono meraviglioso che sovrasta in nobiltà l'istinto ma che, con tutta la sua preziosità, non raggiunge l'importanza del sentirsi d'essere, comprendendo in questo termine l'intera gamma che il sentire origina: dalle sensazioni alla più alta forma di coscienza.

 

Nelle forme di vita elementari il sentirsi d'essere si identifica con le sensazioni; cioè se non vi fossero delle modificazioni dell'autoconsapevolezza, dovute a stimoli sensori, verrebbe a mancare il sentirsi d'essere o per lo meno non si amplierebbe la sua intensità.

 

Mano a mano che il sentire si amplia, l'individuo è capace di recepire altri stimoli: per esempio, nell'uomo, gli stimoli che vengono dalla vita intellettiva; a séguito di questi altri stimoli, il sentire si amplia ancora fino a che diventa indipendente dai vari stimoli e ne è liberato.      

 

Ora, fra tutti i moti che agitano l'intimo dell'uomo - sensazioni, desideri, antagonismi, paure, eccetera - e che in fondo, a ben vedere, sono quelli che fanno sentire vivi certi uomini, qual'è il sentire?   

La risposta è: la sua parte più vera, quella che, al limite, lo fa agire contro tutte le influenze ambientali e sensorie, perfino contro l'istinto. Quindi il sentire è il vero se stessi che dovrebbe ispirare i pensieri, dirigere la volontà e l'azione, amministrare i desideri. 

In effetti, ad un dato grado di ampiezza ciò accade, ma prima di allora rimane confuso fra le varie influenze ambientali a cui è sottoposto l'individuo e che finiscono col prendere il sopravvento e dirigerlo nella vita.       

 

Parlare del sentire, quindi, significa parlare di quel sentire che ha una certa ampiezza, quando è in grado di dirigere l'individuo, quando risulta chiaro che è qualcosa di più dell'istinto e dell'intuizione. Infatti, mentre l'istinto fa agire in armonia ad una legge, ad una verità, come se la si conoscesse, e mentre l'intuito dà la conoscenza della Verità senza il processo dell'apprenderla, il sentire addirittura è " essere una Verità ", una realtà. Quindi è qualcosa di più radicato di un semplice stimolo, per quanto esatto sia, o di una semplice conoscenza, per quanto vera sia. Il sentire è propria natura, è l'espressione della realtà acquisita.

 

Il sentire è tanto meno limitato e flebile quanto più è consapevole di far parte di un Tutto e, quindi, quanto più è conscio della propria funzione in quel Tutto.      

Una tale consapevolezza, quando è bene delineata, quando è intima convinzione, quand'è propria naturale indole, cancella ogni timore dell'ignoto, annulla ogni conflitto, ogni senso di avversità nei confronti degli altri, facendoli amare; insomma, cancellando all'origine ogni paura, ogni angoscia, ogni moto egoistico, dà una somma beatitudine.      

 

Voi non potete concepire la gioia se non come qualcosa che segue al raggiungimento di un  vostro desiderio ben determinato; potete essere felici solo attraverso certe particolari stimolazioni che scaturiscono dalla dualità avere-non avere, essere-non essere, cioè dal gioco dei contrari. 

Ma esiste una beatitudine data dalla pienezza, dalla contentezza, dalla esultanza, dalla letizia, dalla felicità che scaturisce spontaneamente perché è legata ad uno stato  d'essere in cui  -  come ho detto - ci si sente parte integrante di un Tutto meraviglioso, in cui si capisce che tutto ciò che accade ha il solo fine di portare ogni essere alla più alta forma di esistenza.

 

Rendendosi consapevoli di ciò, ci si sente approdati in un porto sicuro, al di là di ogni tempesta, nel mare tranquillo della pienezza, a tal punto che ci si chiuderebbe in se stessi se non vi fosse la spinta ad immedesimarsi in quel Tutto di cui si capisce essere parti integranti ma che solo gradualmente si giunge a sentire come tale. Per dirla con concetti umani, si cerca l'abbraccio, l'unione con gli altri; ma non per la ragione che sempre spinge l'uomo, cioè per prendere, per avere qualcosa, sia pure affetto; bensì per dare, per donare se stessi consapevolmente a quella parte dell'esistente che ancora non si sente unita a sé.

 

Lo slancio con cui ci si protende verso ciò che ancora non si sente parte di sé - ma più giusto è dire: a cui ancora non ci si sente uniti - è uno slancio dettato da qualcosa di simile all'amore conosciuto dall’uomo allorché è capace di amare altruisticamente: donare tutto se stesso per il bene di altri. L'amore che si raggiunge e che, gradualmente, fa entrare in  comunione gli esseri, non è una sorta di sodalizio ma per ognuno è essere anche l'altro, arricchirsi reciprocamente delle rispettive esperienze, raggiungere un livello tale da rendere entrambi un solo essere.      

 

Questo concetto, nella maggior parte di chi ascolta, susciterà smarrimento e perplessità. E' inevitabile; siete troppo abituati al culto di voi stessi, della vostra personalità, deI vostro io, per accettare a cuor leggero una simile rivelazione. Voi vedete, in queste comunioni che fondono  gli esseri in una sola essenza, una sorta di decimazione, un annullamento di tutti coloro che tali comunioni costituiscono. Ed è un errore,

perché non si tratta di un annullamento ma di un arricchimento; non di una decimazione ma semmai di una decuplicazione dei singoli sentire individuali, che raggiungono un livello di vivezza e di espansione ben oltre la somma dei sentire costituenti.

 

Ora, per comprendere come ciò sia possibile, bisogna chiedersi: che cos'è, nella dimensione umana, che fa evolvere l'uomo? Il contatto con i suoi simili, le relazioni che ogni uomo necessariamente ha con gli altri uomini, familiari, amici, estranei, nemici, sono fonte di quegli stimoli che lo inducono a reagire e costruire la sua coscienza individuale. Il cammino, come ben sapete, è molto tortuoso e anche indiretto; attraverso al gioco dei contrari l'uomo raggiunge il giusto modo d'essere nei riguardi della società in cui vive: giusto modo d'essere che deriva dall’aver compreso quale deve essere la propria vera funzione in quella società. Dunque le relazioni tanto possono, eppure il legame che esse stabiliscono è  superficiale rispetto alla comunione degli esseri, non agisce mai direttamente sull'intimo essere di quelli che sono i soggetti delle relazioni, ma solo per risonanza.

 

Cerco di spiegarmi: una cattiva azione che un vostro simile può farvi giunge nel vostro intimo - si dice: vi ferisce - solo se voi, in un certo senso, permettete che sia così; cioè se raccogliete, se reagite a quegli stimoli, se siete sensibili e suscettibili a quel tipo d'impulso. Ed è bene, perché proprio attraverso alla vostra suscettibilità la vita - o meglio: le vite - vi porteranno a superare, a non raccogliere, ad avere pietà di chi non ama perché chi non ama, prima di tutto, è infelice.  

 

Questo è il legame che, al massimo, le relazioni umane costituiscono; e se anche è un legame che, in ultima analisi, lascia sempre gli esseri uno diviso dall’altro, è egualmente capace di operare quel miracolo che è l'ampliarsi del sentire individuale, perché facendo  cadere le limitazioni che distanziano i sentire ne innesca la comunione.

Immaginate quale miracolo sia capace di operare sugli esseri un'unione diretta dei sentire, dato appunto che l'unione, il contatto indiretto è già capace di far cadere le limitazioni individuali, cioè è capace di trasformare gli esseri.      

 

La sequenza è questa:

caduta delle limitazioni,

nascere di sentire diversi dagli originari ed equipollenti fra loro, 

comunione dei sentire equipollenti,          

manifestarsi del diverso sentire, di un sentire più ampio.

Dopo di che il ciclo inizia nuovamente.

 

Come ho detto, la caduta delle limitazioni dei sentire di poco ampiezza - per esempio, degli uomini - avviene vivendo nei mondi della percezione. Ma lasciata la ruota delle nascite e delle morti, nel piano di esistenza del sentire che cos'è che si sostituisce agli stimoli dei mondi della percezione per determinare la caduta delle limitazioni del sentire?      

 

Per rispondere a questa domanda, innanzi tutto, bisogna ricordare che il  frazionamento del Sentire Assoluto - che è appunto all'origine dei sentire relativi, limitati - non è reale ma virtuale. Se così non fosse il Tutto sarebbe smembrato: ma, quel che più importa, nulla vi sarebbe di Assoluto. Il Tutto sarebbe una " quantità di relativi ". Dire che il frazionamento è virtuale significa dire che le limitazioni che creano i sentire relativi sono costruite per la reciproca elisione; significa dire che ciascun sentire relativo, limitato, è indissolubilmente legato all'altro tanto da costruire un sol tutto in realtà inscindibile.    

 

Aiutatevi a capire con un'immagine mentale: pensate a quei giochi di pazienza in cui si deve ricostruire un'immagine scomposta in tanti piccoli tasselli, l'uno diverso dall’altro. I tasselli sono fatti in modo da incastrarsi perfettamente e comporre l'immagine. Così, l'insieme del mondo del sentire è un solo tutto in cui i singoli sentire tali sono perché così si sentono, ma non perché così siano. 

 

In altre parole: il sentire relativo, limitato, tale è perché tale si sente; perciò il destino, il fine, il tendere del sentire limitato non può che essere quello di manifestare la vera struttura, il vero stato d'essere del mondo del sentire:  l'unità dell'Uno inscindibile. Se si può capire questo, allora quello che può apparire  incomprensibile non è " ad opera di che cosa avvengono le fusioni dei sentire allorché non vi sono gli stimoli dei mondi della percezione ", ma piuttosto  " perché mai nei sentire limitati le fusioni, per avvenire, devono essere stimolate ". Infatti, se i sentire in realtà compongono un sol tutto, sentirsi uno col Tutto non può che essere il naturale epilogo di ogni sentire.   

 

Certo che, inizialmente, quando il sentire è solo " coscienza d'essere ", le unioni possono avvenire solo ampliando i sentire stessi, cioè annullando le limitazioni attraverso stimolazioni; ma poi le comunioni avvengono spontaneamente.

 

Vedete, una similitudine si può trovare nelle reazioni nucleari per fusione, in cui i nuclei atomici si fondono sviluppando una grande quantità di energia calorica, fra l'altro.

La reazione, per iniziare, necessita di un'altissima temperatura, temperatura che poi è mantenuta dallo sprigionarsi dell'energia calorica, prodotto della reazione. In sostanza la reazione, per iniziare, ha bisogno di un innesco e poi continua spontaneamente.  

 

L'essere strettamente legato l'uno all'altro è talmente natura intrinseca del sentire relativo che, allorquando le virtuali limitazioni sono tante da farne solo dei sentirsi d'essere - cioè qualcosa che non aspira ad essere unito a qualcos'altro -, cessa il virtuale frazionamento: il sentire ha raggiunto le massime limitazioni possibili: sono così creati gli atomi di sentire, l'emanazione è al suo culmine, inizia l'epopea del sentire relativo che, di fusione in fusione, troverà nel proprio identificarsi in Dio la propria realtà, la propria vera esistenza. E non può essere diversamente, perché che cosa può esserci di più bello, dolce, felice, se non la comunione con l'oggetto del proprio amore? Che cosa può esserci di più nobile che anelare di unirsi agli altri? Capire, sentire che gli altri sono parte del proprio unico essere, amarli tanto da anelarne la comunione?

 

Se, nonostante tutto quello che diciamo, rifiutate questi concetti perché non potete concepire di entrare in comunione coi vostri simili, allora, permettetemi, vi compiango, perché ciò significa che non avete mai provato il vero amore, che non sapete amare!     

 

 

 

Sentire in senso lato e sentire di coscienza

 

(1980)

 

Più volte abbiamo ripetuto che il sentire del quale parliamo, considerato nella sua forma più elementare, è la coscienza di esistere: il sentirsi d'essere.

Invece il sentire nella espressione assoluta è la Coscienza Assoluta, il sentire d'essere il Tutto-Uno, e perciò sentire al di là della separatività e della sequenzialità; in altre parole: una coscienza in cui il Tutto è nella sua reale condizione d'essere di Eterno Presente e di Infinita Presenza; una coscienza che non è condizionata né dal tempo né dallo spazio; una coscienza che contiene il Tutto-Uno.

 

Questo non significa che gli estremi della scala siano contrapposti o contrapponibili. Infatti il Sentire Assoluto, contenendo in sé per intensità ogni possibile sentire, quindi i sentire di tutti i Cosmi, è così l'Uno-Assoluto che, proprio perché tale, non ha e non può avere contrapposti.    

 

Come ho detto, il Sentire Assoluto contiene per ampiezza tutti i possibili sentire; e non potrebbe essere diversamente perché, altrimenti, non sarebbe Assoluto. Sul piano assoluto, non essendovi successione, potenza ed atto sono una sola cosa: quindi se il Sentire Assoluto, per essere tale, deve contenere in ampiezza tutti i possibili sentire, essi non possono che esistere ed essere realizzati, cioè non possono rimanere allo stato di possibilità non realizzata: sul piano assoluto, "possibile" e " realizzato " sono la stessa cosa; solo ciò che è realizzato è possibile, e ciò che è possibile è realizzato.  Questo perché Tutto è Uno.

 

Da quanto ho affermato si può azzardare una figurazione concettuale della Coscienza Assoluta, e cioè: i sentire relativi sarebbero come le cellule che compongono la Coscienza Assoluta, la quale tuttavia, come più volte ho detto, trascende la sommatoria dei sentire che, in un certo senso, la costituiscono.

Un sentire relativo esiste nella sequenzialità e nella separatività, nel tempo e nello spazio, proprio perché è contenuto nella Coscienza Assoluta, contribuendo in modo indispensabile alla assolutezza della coscienza, proprio perché è manifestato o si manifesta nel tempo e nello spazio. Perciò pensate quanto ciascun essere - dico: ciascuno - sia importante e, quello che più conta, lo sia egualmente a tutti gli altri.       

 

Tutto quanto esiste nel mondo della molteplicità - ossia tutto quanto ogni essere sta vivendo, ossia il sentire di ogni essere, ossia ogni possibile sentire - è la manifestazione nel mondo della molteplicità, cioè del tempo, dello spazio, della sequenzialità, della separatività, di ciò che è, che esiste al di là del tempo, dello spazio, della sequenzialità, della separatività, di ciò che ha la sua reale dimensione d'esistenza nell'Eterno Presente, nell'Infinita Presenza, nell'Unità Assoluta.  

 

Il sembrare di finire, di non essere mai lo stesso, di trascorrere, è il modo attraverso il quale ciò che per sua stessa natura è illimitato si limita; è l'apparente limitazione che origina la caleidoscopica molteplicità; ed è l'apparente molteplicità che rende Assoluta, e quindi Unica, Una, la Realtà.      

 

Senza meditare su stati d'essere che sono in immaginabili per la condizione umana, si può egualmente parlare dell'argomento del sentire soffermandoci a considerare quale parte del sentire relativo, del quale vi parliamo, vi sia nei sentimenti e nei risentimenti dell'uomo.      

 

Quando abbiamo parlato di sentire dell'uomo, peraltro precisando sempre sentire in senso lato, ci siamo riferiti a tutti quei momenti dell'animo umano che sono conosciuti come sensazioni, emozioni, desideri, preoccupazioni, angosce, gioie, trepidazioni, e a tutte quelle elaborazioni della mente che costituiscono l'attività intellettiva. 

Infatti, se il sentire nella sua forma più elementare è coscienza di esistere, è sentire in tale senso tutto ciò che dà il sentirsi di essere che fa sentire di esistere. 

E che cos'è, nell'uomo, che lo fa sentire di esistere se non il suo intimo essere in cui si ripercuote il mondo esterno?, in cui gli stimoli che provengono dall’ambiente si traducono in reazioni e quindi in attività? Ciò non significa però che il sentirsi di essere non possa esistere anche indipendentemente da ogni stimolazione ambientale. 

L'essere, infatti, può sentirsi vivo anche quando non ha sensazioni, emozioni, desideri, pensieri e via dicendo; ma perché questo sia vero, e possa esserlo, è necessario che il suo intimo essere abbia raggiunto una particolare ricchezza, un patrimonio-retaggio di molteplici acquisizioni; in altre parole, che abbia abbastanza costituita la sua coscienza individuale, ciò che rappresenta e determina il sentire vero e proprio.   

 

Perché sentire vero e proprio? Forse che quando un uomo con fredda determinazione premedita ed  attua l'azione di uccidere un suo simile, quell'odio che manifesta e che denota la sua scarsa evoluzione non è un suo sentire?, non fa parte del suo essere? O quando, suggestionati da una crudele propaganda, i fanatici arrivano a suicidarsi in massa, si può forse dire che l'azione non rispecchiava la volontà e l'intenzione dell'attore, la sua vera aspirazione non dissimulata e quindi il suo sentire quanto meno del momento? 

Nessuno certo potrebbe sostenerlo. Tuttavia il vero sentire, quello che va oltre il divenire, che è stabile e indeperibile, che è capace di sottrarre l'essere ai condizionamenti dell'ambiente e alle reazioni scatenate dagli stimoli esterni e alimentate dalla mancanza di amore, è qualcosa di ben diverso.      

 

Il vero Sentire è ciò che mai scade, ma cresce e, modificandosi nell'espressione, non è mai in contraddizione con se stesso. Il vero sentire è ciò che fa vivere un essere unicamente per gli altri dimenticando se stesso. Quindi " vero "non nel senso di veritiero ma nel senso di non deperibile, anzi destinato a crescere in intensità e nobiltà: il sentire di coscienza.

 

Certo anche quando, colti dall’ira, violentemente reagite o agire colpendo chi è oggetto della vostra collera, manifestate uno stato d'animo e per ciò un sentire in senso lato; cioè agite come sentite, almeno in quel momento; ma in quel sentire poco c'è di quel sentire di coscienza che si acquisisce con l'evoluzione, che non si perde più ma via via cresce ed è capace di fare di un egoista un essere che si consuma d'amore per gli altri, che è capace di trasformare l'angoscia che danno la crudeltà e l'avidità nella beatitudine di chi ha tutto, perché è tutto.

 

E' proprio la mancanza di un simile sentire che rende gli esseri egoisti e preda dei molteplici condizionamenti ambientali, dei meccanismi animali; è proprio il sentirsi al centro del mondo e quindi il non tenere in considerazione le altrui legittime aspettative, i giusti diritti, e quindi la mancanza di amore altruistico che fanno dell'uomo un essere che vuole prevalere sugli altri, in un modo o nell'altro, in un campo o nell'altro.

 

Così, c'è difetto di sentire di coscienza, mancanza di coscienza individuale, quando si ruba, si sfrutta, si uccide, si tradisce; quando non si fa il proprio dovere o lo si fa per guadagnarsi il paradiso. E qua si apre un altro aspetto del discorso sul sentire: comportarsi diversamente da come si sente, che è una caratteristica prettamente umana, sconosciuta agli animali.   

 

L'animale, normalmente, non conosce le varie forme di dissimulazione che l'uomo, vivendo in società, per varie ragioni continuamente mette in atto nei suoi comportamenti.       

Comportarsi diversamente da come si sente può essere riprovevole, come nella ipocrisia, o encomiabile, come nelle rinunce che si fanno per non dispiacere agli altri. Anche in questo comportamento, quindi, non si sfugge alla legge generale secondo cui la verità dell'intimo sentire, e quindi dell'individuo, sta nell'intenzione. Ciò è tanto vero che solo quando si ha l'intenzione di danneggiare il comportamento può essere diverso dal sentire.   

Infatti, quando per non nuocere si agisce diversamente da come si desidererebbe, anche se si ha un comportamento che non corrisponde al desiderio, e quindi al sentire in senso lato, tuttavia quel comportamento corrisponde all'intenzione di non nuocere e quindi al sentire di coscienza, a quello vero.

 

In altre parole: quando tra il fare una cosa che gratificherebbe il proprio egoismo e il non farla per non nuocere agli altri che ne sarebbero dispiaciuti o danneggiati prevale la volontà di non danneggiare, si agisce come si sente anche se l'azione non corrisponde al desiderio egoistico, perché fra i due sentire - quello di desiderio e quello di coscienza - quello vero è il secondo che prevale sul primo: perciò si agisce secondo il proprio vero sentire.   

 

Così, si spiega logicamente perché abbiamo sempre affermato che è legittimo violentare se stessi solo quando lo si fa per non danneggiare gli altri, perché solo in questo caso il comportamento rispecchia l'intenzione ed il sentire di non nuocere.      

 

Quando invece si violenta se stessi, ad esempio, per meritarsi il paradiso, il comportamento morale non corrisponde al sentire, che è solo quello di meritarsi il premio eterno, cioè egoistico: perciò v'è rottura fra comportamento e sentire, e il dominio di sé, che determina tale rottura, non è positivo.

Mentre quando si tiene un comportamento retto, coartando i propri desideri egoistici, convinti di seguire e perseguire il volere di Dio, allora non c'è discordanza fra il sentire e l'agire: entrambi sono ispirati e volti a  seguire la divina volontà.   

 

Se ne può concludere che solo quando si è animati dall’egoismo può esservi discordanza fra sentire ed agire. La discordanza fra sentire ed agire trae seco nel tempo tutte quelle scontentezze, conflittualità, irritabilità, squilibri che sono all'origine di molte nevrosi.

 

Il sentire che fa parte del proprio intimo essere non è legato al ricordo di esperienze avute. Ciò che è entrato a far parte del proprio sentire non è più perduto, ancorché si dimentichi l'avvenimento o gli avvenimenti che hanno determinato l'ampliamento del sentire. Così, il sentire che, per ampiezza, contiene sentire meno ampi, è quello che è anche se l'individuo che lo manifesta non ricorda le esperienze che manifestarono i sentire meno ampi contenuti nel suo sentire attuale. 

Tuttavia, nell'essere di ognuno è sempre contenuta, ed è sempre possibile riviverla, ogni esperienza di ogni esistenza nei minimi dettagli che, vissuta, fu capace di manifestare il relativo sentire.   

 

Se ciò è vero per il sentire di coscienza, non lo è però per il sentire in senso lato. Tutti i condizionamenti che l'individuo subisce dall’ambiente e dall’educazione - i quali dominarono, quando il suo sentire di coscienza era esiguo, il suo modo di pensare, i suoi desideri, le sue aspirazioni - sono qualcosa che gli è appiccicato addosso; che non viene dal suo vero essere se non in quanto il suo essere non si oppone al recepimento di quei condizionamenti. Perciò quei pensieri, quei desideri, quelle aspirazioni sono strettamente connessi a una mentalità legata al ricordo degli ammaestramenti avuti per mezzo dell'educazione; quando quel ricordo viene a cadere,

cade la mentalità posticcia.

 

In certe società, fra gli elementi che concorrono a rendere stimato un uomo c'è la non disponibilità della propria moglie all'adulterio. E' paradossale: quello che, tutt'al più, può essere considerato un comportamento censurabile della moglie, diventa disonore del marito. 

Ebbene, gli uomini di quelle società naturalmente diventano tutori dell'onestà delle loro mogli, non tanto perché un adulterio li colpisce affettivamente quanto per salvaguardare la loro reputazione. 

 

Invero, un simile costume sociale fa presa perché non si è morti a se stessi, cioè non si ha quel sentire che fa trascendere l'ambizione ispirata dall’io egoistico e fa capire che quello che gli altri possono pensare non cambia quello che in realtà si è. Ora, una tale sollecitudine a salvaguardare il proprio onore è chiaramente posticcia, portata dalle consuetudini e credenze sociali e legata al ricordo di simili regole. Se il ricordo venisse meno e l'individuo fosse trapiantato in un altro diverso ambiente, il suo sentire lato verrebbe meno quale non facente parte del suo intimo, reale essere. Il giorno invece in cui supererà il processo di affermazione del suo io egoistico, e quindi l'ambizione e la sensibilità all'altrui giudizio favorevole, in qualunque ambiente sarà posto che subordini l'onore dell'uomo alla fedeltà della moglie egli non sarà mai condizionato da tale regola, perché il suo vero, intimo, reale sentire glielo impedirà.

 

Da quanto ho detto non traete delle facili conclusioni: per esempio che gli anticonformisti siano persone dall’ampio sentire. Come sempre abbiamo detto, non si potrà mai sapere, esaminando un comportamento, qual'è l'intenzione e quindi il      sentire vero di chi ha quella tale condotta.  

 

Il senso del mio discorso è di non indurvi ad esaminare voi stessi se non per scoprire la realtà del vostro essere; e ciò può avvenire solo scoprendo i vostri comportamenti, le vostre intenzioni al fine di vedere chiaramente qual'è il vostro sentire.

Così, quando siete irritati, quando provate dell'astio nei confronti degli altri, o addirittura odiate, quando desiderate qualcosa o qualcuno a tal punto che fareste di tutto per raggiungere l'oggetto del vostro desiderio, domandatevi quanto tutto questo sia frutto dei condizionamenti ambientali, l'efficacia dei quali voi rendete possibile con la mancanza di un vero sentire che vi sottragga alle lusinghe e ai richiami sensuali. Una tale deficienza non è una colpa, tuttavia il fatto che non lo sia non vi esime dall’adoperarvi per far fluire in voi un sentire più ampio.     

 

Le strade che possono tanto sono, come minimo, due: lasciarsi trasportare, fino alla saturazione, dai richiami e dagli stimoli dell'ambiente credendo che siano ciò che si vuole e di cui si ha bisogno in senso vitale; o rendersi consapevoli di essi e quindi sdrammatizzare il richiamo e il contenuto, sostituire la funzione stimolante e promovente che essi hanno con una visione, una concezione della vita più nobile e più vera.

 

Di tutto ciò abbiamo già diffusamente parlato e non c'è bisogno che ci ripetiamo. Mi pare più utile invece riflettere un poco di più sul sentire, per esempio domandandosi come è possibile che la diversità porti all'unità.

Mi spiego: non c'è dubbio che ogni essere, vivendo, ha delle esperienze che pure essendo analoghe a quelle di altri esseri della sua stessa specie sono tuttavia diverse in qualcosa.

 

Tale differenza è ancora più apprezzabile se pensate agli esseri che stanno sperimentando lo stadio di vita umana, cioè

a quegli esseri che sono fra sé spiccatamente diversi perché hanno personalità differenti. Ora, è chiaro che un essere posto in una determinata circostanza, cioè impegnato in una certa esperienza, ha delle reazioni; ossia sente, in senso lato, in funzione anche della sua personalità e dei suoi condizionamenti ambientali. 

 

Tali reazioni, tali sentire, sono quindi diversi da un essere all'altro che pure sperimentino analoghe esperienze. Ma se anche le condizioni esterne che concretizzano un'esperienza fossero eguali, cioè l'esperienza fosse meccanicamente identica, non c'è dubbio che la risposta a tale esperienza sarebbe diversa da un essere all'altro, posti nelle stesse circostanze, perché diverso è il loro intimo essere. 

Perciò sembrerebbe di poter concludere che gli esseri continuano a diversificarsi sempre di più nel sentire, o perlomeno tendono sempre a mantenere la reciproca diversità, sicché in un simile contesto l'unità potrebbe essere concepita solo come unione non come comunione-identificazione. 

Ed allora, tutto il discorso delle fusioni dei sentire equipollenti, come finisce? E la contemporaneità o simultaneità dei sentire come può esistere se ciascun sentire è diverso? Ecco appunto la necessità di distinguere fra sentire in senso lato e sentire di coscienza.       

 

Ciò che è diverso fra un individuo e l'altro è il sentire in senso lato, mentre ciò che può identificarsi è il sentire di coscienza. 

Il sentire di coscienza, che impedisce in ogni occasione di uccidere, non è diverso fra gli individui che l'hanno raggiunto pure essendo state diverse le esperienze che li hanno condotti a raggiungerlo; pure essendo diverso anche l'attuale loro sentire in senso lato. Allora, una equipollenza di sentire di coscienza esiste, mentre non esiste per il sentire in senso lato.

Ed è giusto: l'equipollenza di sentire di coscienza rende possibili le fusioni dei sentire allorché essa equipollenza diventerebbe identità; questo proprio perché nell'esistente non vi sono ripetizioni, ma solo variazioni.      

Una cosa identica a un'altra non avrebbe ragione di esistere; non affermerebbe, non manifesterebbe nessuna diversità;

non sarebbe unica. Mentre ciascuna unità della molteplicità è unica ed afferma una realtà che non  ha l'eguale ed è perciò indispensabile: senza di essa la completezza assoluta verrebbe meno.      

 

In conclusione, il sentire in senso lato di un essere, sentire che come ho detto comprende le sensazioni, i desideri, i gusti, i pensieri, insomma tutti i moti dell'animo, non ha l'eguale in nessun altro essere. Può essere simile, analogo, della stessa natura, ma non di più. Il sentire di coscienza degli esseri può invece essere equipollente; questo perché tale sentire in sé non ha tutte quelle sovrastrutture che sono le sensazioni, i desideri, eccetera, e che sono motivo di differenziazioni. 

Il sentire di coscienza è un sentire di fondo che quanto più è ampio, intenso, tanto meno è diversificato. I sentire di coscienza analoghi, cioè che hanno le stesse limitazioni, proprio perché tali vibrano, si manifestano all'unisono, sono contemporanei, simultanei. Ed è logico che sia così: tutto ciò che ha le stesse condizioni di esistenza, insomma che è simile, non può che reagire negli stessi termini. 

 

Quindi:

simultaneità di manifestazione fra sentire analoghi e successione, nel manifestarsi, di sentire diversi per ampiezza, partendo dal sentire più semplice e giungendo al sentire più vasto.     

 

La sequenza del manifestarsi dei sentire -sto parlando dei sentire di coscienza- è la seguente:

manifestazione simultanea del più semplice sentire in qualunque spazio-tempo essi abbiano ubicati i veicoli densi, quindi contemporaneità di sentire anche in senso lato di uomini appartenenti ad epoche storiche diverse;

poi: manifestazione dei sentire in senso lato, cioè esistenza degli esseri nei piani densi e conseguente caduta di limitazioni del sentire-base di coscienza;

realizzarsi, con tale caduta, di equipollenza di sentire;

reciproca identificazione dei sentire equipollenti e comunione degli stessi in un solo sentire;

ancora: manifestazione simultanea di tali nuovi sentire più ampi in qualunque spazio-tempo essi siano ubicati

ed abbiano ubicati i loro veicoli densi;

quindi: vita di uomini appartenenti a epoche storiche diverse e conseguente caduta di limitazioni del loro sentire di coscienza;

realizzarsi di sentire equipollenti e comunione degli stessi in un solo sentire. E così via.

 

Naturalmente questo processo ha un termine allorché tutti i sentire raggiungono quella comunione e identificazione che ne fa un solo sentire: il Sentire Assoluto.  

 

Ma il termine non è fine del sentire: è fine della limitazione del divenire. E' sentire non più in termini di successione, di divisione, ma in termini di Essere, di Eterno Presente, di Infinita Presenza, della intera Realtà Assoluta. E' essere non solo un sentire di coscienza che comprende tutti i sentire base di tutti gli esseri, ma anche tutti i sentire, in senso lato, di tutti gli esseri che costituiscono la molteplicità, il virtuale frazionamento dell'Uno Assoluto.

 

 

 

Eternità della coscienza di esistere

 

(1980)

 

Ogni uomo, nel corso della sua vita, si chiede anche reiteratamente se la morte del suo corpo trarrà seco quell'io sono che è dimostrazione della sua esistenza.

 

La paura della propria morte è un coacervo di timori, apprensione per l'ignoto, orrore che la morte in sé rappresenta, panico al pensiero che sia dolorosa, peritanza arrecata dall’istinto di conservazione, sgomento per dover lasciare il proprio mondo, ma soprattutto terrore del nulla, cioè che cessi quell'io sono, quel sentirsi d'esistere che proviamo vivendo e che crediamo sia attributo proprio e particolare della vita del corpo.

 

Se si riuscisse a trovare la certezza che l'io sono, che si crede faccia esistere, non cesserà, forse una buona dose dello spavento che la morte infonde vorrebbe meno.      

 

Chi vuoi vederci chiaro, intanto, deve tener presente che la coscienza di esistere, il sentirsi d'essere, non è legato all'io, essendo il senso dell'io il prodotto delle limitazioni e di un conseguente errato modo di concepire la Realtà.

 

Il sentirsi di esistere non viene mai meno. Chi, con un rapido esame, si volge indietro a cercare nel suo passato una conferma a questa affermazione, può restare perplesso. Nel sonno, la coscienza di esistere viene meno? 

Certamente no; questo lo affermano anche gli studiosi della materia. 

Il fatto che certi sogni si dimentichino subito, al rientro nello stato di veglia, e che quindi nel ricordo vi sia una lacuna che può dare l'idea di una vacanza del senso di esistere, non significa che un vuoto vi sia stato effettivamente. Sapreste ricordare nei particolari che cosa avete fatto tre anni fa? Probabilmente non lo ricordate, eppure lo avete vissuto, eppure il vostro sentirvi esistere era presente anche allora, in quella porzione della vostra esistenza che, ora, costituisce un vuoto nel ricordo.   

 

Nel coma, invece, come nella anestesia totale, come nel cosiddetto riposo dell'Ego, sembrerebbe che effettivamente la coscienza d'esistere venisse meno per un certo tempo. 

Tuttavia la spiegazione è facile: il tempo oggettivo non esiste; quella che sembra una soluzione di continuità nel sentirsi di esistere dell'addormentato, per lui non lo è affatto; lui sente di esistere senza interruzione quello che per gli altri è un tempo lunghissimo; per lui è come andare a capo nella lettura, come voltare una pagina. Sono gli altri che vivono situazioni, fotogrammi, episodi che lui non vive. 

Il suo sentirsi di essere non si arresta in attesa che gli altri vivano ciò che debbono vivere, ma scorre nelle successive situazioni che deve sperimentare senza arresti, senza soluzione di continuità, sia che gli altri contino un'ora o un giorno o un anno.      

 

Questa esperienza, in qualche modo, la si può costatare anche col sonno naturale del corpo fisico. Talvolta vi sembra di aver dormito un attimo e invece sono passate ore. Tal'altra sembra di aver dormito lungamente ed invece si è trattato di un breve tempo. La differente valutazione è dovuta al fatto che nel primo caso si è dormito profondamente, cioè senza ricordare i sogni fatti; nel secondo, invece, il ricordo del sogno è più netto del consueto. 

 

Tutto ciò ci conferma che il tempo, oltre ad essere un fattore relativo sul piano della fisicità, è anche estremamente soggettivo sul piano individuale, cioè ognuno ha la cognizione del trascorrere del tempo solo in funzione della successione degli avvenimenti che percepisce, veri o sognati che  siano.      

Allorché cessa la percezione - comprendo in questo termine anche la ricezione o il ricordo dei pensieri -, cessa

l'idea del trascorrere del tempo ed il sentirsi di esistere scorre senza soluzione di continuità, saltando a pie' pari la durata degli avvenimenti di cui non si è avuta percezione proprio perché non v'è durata se non v'è avvenimento.      

 

In realtà non esiste una storia che con un tempo oggettivo scorra, distribuendo con la cadenza temporale a ciascuno le proprie esperienze: ma la storia assume l'aspetto di evento oggettivo proprio per la parte in comune di tutte le storie individuali che essa rappresenta. 

E se, nella serie degli eventi di una situazione cosmica che vede unite dieci persone, la decima non deve percepire quello che è in comune alle altre nove (per esempio il paziente di una operazione chirurgica con totale anestesia), allora tale decima persona non deve attendere che il tempo sia passato per continuare a sentirsi d'essere e perciò a esistere, ma passa subito alla sua prossima situazione da percepire, quella in cui gli altri la vedono destarsi. E non potrebbe essere diversamente da così; infatti il non sentirsi d'essere equivale a non esistere; perché la vita è coscienza; l'esistere è coscienza d'essere.  

 

Se mancasse la coscienza d'essere, che nella sua forma più elementare è solo sensazione, mancherebbe l'esistenza. D'altra parte, anche logicamente, si comprende che non sentirsi di esistere equivale al sentirsi di non esistere; e com'è possibile che si senta di non esistere? Se non si esiste, non si può sentire; e se si sente vuol dire che si esiste.    

Il sentirsi di esistere va oltre i cambiamenti di umore, oltre i desideri, oltre i pensieri, pur essendo vero che nella condizione di esistenza umana è proprio l'attività quale azione, quale emozione che lo incentiva.

 

Il sentirsi di esistere va oltre anche i cambiamenti di personalità. Il fanciullo che cresce e diventa uomo muta sensibilmente il suo modo di concepire il mondo, i suoi gusti, i suoi interessi, tanto che se non vi fosse il sentirsi di esistere che, ininterrotto, lega il fanciullo all'uomo che è divenuto, si potrebbe benissimo dire che si tratta di esseri distinti. 

 

Il sentirsi di esistere, unendo due stati d'essere diversi, dà la garanzia che si tratta di un solo essere. Ma questa garanzia ha valore assoluto? Non potrebbe trattarsi del sentirsi di esistere che scivola su tanti stati d'essere diversi secondo una qualche successione logica?; e quindi dare l'idea di un solo essere che muta il suo sentire?; o, più ancora, trattarsi di tanti sentirsi di esistere che si rivelano, affermando la loro esistenza nella Eternità secondo una successione determinata dall’ampiezza della realtà da ciascuno contenuta, come una catena ininterrotta che conduca all'affermazione del più grande sentirsi d'essere, quello " assoluto ", termine d'ogni separazione e perciò d'ogni successione: sentire di Eterno Presente e di Infinita Presenza?  

 

Senza arrivare a cotanta vastità, a un simile vertice, che è anche base di tutto, appare chiaramente che il sentirsi d'essere considerato a prescindere da quelli che chiamate stati d'animo contingenti, a prescindere dalla personalità che muta, rimane ininterrotto al di là del mutare della forma fisica. E quindi non è irragionevole credere che ne sia totalmente svincolato, tanto da sussistere in modo indipendente da essa quand'essa non è più.

Il sentirsi di esistere è il sentire del quale tanto vi parliamo, considerato nella sua forma più elementare, più limitata: è l'atomo del sentire. La massima espressione del sentire, quello che non conosce limitazioni, è il sentire assoluto.  

 

Ad ogni caduta di limitazione corrisponde un sentire sempre più ampio; sempre più volto, aperto, proteso verso gli altri.

Altre volte vi abbiamo accennato a questo processo del graduale rivelarsi del sentire; vi abbiamo detto che inizialmente si svolge ed ha luogo per mezzo di stimoli di varia natura: sensori, intellettivi, sentimentali, che l'individuo riceve principalmente vivendo nel mondo fisico. 

 

Che cosa significa, per l'uomo, " vivere ", nel senso più esteso? Certo non v'è bisogno che ve lo illustri: la vita, con la sua fatica, le sue paure, le sue incertezze, con gli slanci, le speranze, le gioie, insomma con le sue esperienze che trovano nell'intimo dell'uomo il crogiolo in cui si trasforma il metallo vile in oro, la vita è la forza motrice per una simile metamorfosi. Ma il processo è graduale, le limitazioni cadono una alla volta.       

Quand'è che cade una limitazione? - direte -, durante la vita fisica o dopo?

 

Va tenuto presente che la caduta di una limitazione è tutto un processo che può occupare più vite, in cui l'individuo può giungere a comprendere, ad assimilare una certa Verità, può sperimentare personalità l'una in antitesi all'altra. La limitazione cade quando l'individuo può operare una sintesi delle esperienze vissute ed imperniate su quella data limitazione. 

E non si creda che sintetizzare le esperienze vissute o trarne il conseguente significato sia un fatto prettamente intellettivo; gli impulsi che l'esperienza elargisce colpiscono l'intimo essere ed operano una trasformazione che fa maturare e predisporre alla comprensione finale. 

Nessuno capisce, comprende ed accetta una Verità se non è pronto, maturo, predisposto. Nella sintesi finale dell'esperienza, che comprende varie fasi, gioca un ruolo importante la mente individuale; tuttavia il suggello finale non verrebbe apposto, l'insegnamento dell'esperienza non diverrebbe " natura acquisita ", ad opera della sola mente, se tutto l'individuo, con l'intero suo essere, non l'avesse vissuta.

 

Ciò che la mente fa nella sintesi finale, che trasforma l'esperienza in natura acquisita, è una sola parte del processo di rivelazione dell'essere vero. Premesso questo, vediamo quando avviene la sintesi finale dell'esperienza che fa cadere la limitazione del sentire, rivelandosi così un sentire più ampio.     

 

Mi riferirò ad una situazione che ricorre abbastanza frequentemente. E voi tenete presente che tutte le cadute delle limitazioni del sentire umano avvengono analogamente.

Nella cosiddetta evoluzione individuale - che altro non è che un cambiamento di scopo dell'attività esistenziale della propria persona, così da spostare il proprio interesse, prima rivolto su di sé, agli altri - può esservi una fase in cui l'individuo, dopo aver cercato vantaggi materiali ed essersi accorto che essi al massimo durano quanto il corpo fisico, ha un cambiamento di direzione del suo interesse e della sua attività, persegue vantaggi che, secondo lui, possono seguirlo oltre la morte. 

 

Questa risoluzione l'individuo la prende, come generalmente tutte le altre, dopo la morte, quando con la maturazione raggiunta alla fine della sua vita rivede e rivive la sua esistenza e trae la conclusione che ho detto e che a lui sembra la più vera. Ha così una vita in cui è dedito ai riti religiosi, ma non con il giusto sentire, bensì solo formalmente, per meritarsi la benevolenza e il premio divino. In questa seconda esperienza - che è anch'essa solo una parte di quella esperienza totale che lo condurrà alla caduta di una limitazione del suo sentire - comprende che Dio non ama più chi lo loda di quanto ami chi lo bestemmia, e che la religiosità non dà, da parte di Dio, alcuna particolare protezione né alcun vantaggio materiale. 

 

Anche questa conclusione, generalmente, la trae dopo il trapasso, quando raggiunta una data maturazione attraverso il vivere rivede la sua trascorsa esistenza e le altre che sono servite a costruire compiutamente l'esperienza totale che produrrà ora la caduta della limitazione del sentire. 

 

Questo rivedere, con la maturazione raggiunta da ultimo, dà il senso compiuto all'intero contesto esperito ed è il suggello finale della trasformazione in propria natura di quell'insegnamento che l'esperienza doveva donare. Nel caso particolare la sua avidità perde l'eccesso; cioè egli sarà ancora avido, perché perseguirà ancora il suo vantaggio personale, ma non al punto da condizionare, da subordinare totalmente la sua esistenza. 

 

In pari tempo inizierà ad esservi in lui, proprio a seguito della caduta di quelle limitazioni del sentire, un primo larvato senso di dovere: cioè farà qualcosa che, secondo le convenzioni, si è tenuti a fare, anche se il farlo non dà alcun particolare tornaconto. Liberato così dalla limitazione, il sentire rivelato si unisce agli altri sentire che gli sono equipollenti, anch'essi a seguito di analogo processo, costituendo in tal modo un sentire nuovo, un essere nuovo che, manifestandosi nel mondo fisico, incontrerà una serie di altre esperienze che condurranno ad altre liberazioni, ad altre comunioni, ad altre manifestazioni.  

 

Voi stessi, con il vostro sentire, siete la sintesi di esperienze di molti altri soggetti ubicati in tempi e spazi diversi e che hanno nel sentirsi di esistere quel filo, quel collegamento, quella continuità che, essendo l'unica cosa che sopravvive, è la vera sopravvivenza. Il resto, la personalità, il carattere, il modo di agire, di desiderare e di pensare mutano e perciò finiscono d'essere quel che sono; chi condiziona la sua futura esistenza alla sopravvivenza delle sue caratteristiche si rassegni a morire.    

 

Poiché niente, in assoluto, tuttavia trascorre e sparisce, nella profondità e nella vastità dell'essere di ciascuno di voi sussistono tutte le personalità, tutte le esistenze degli individui che hanno concorso alla costituzione del sentire che state manifestando. Questo sentire attuale contiene in sé, per ampiezza, tutti i sentire costituenti, anche se non vi dà il ricordo storico e cronologico degli eventi connessi a quei sentire, a quelle esistenze trascorse.

 

Tale ricordo può tuttavia essere suscitato. Più volte abbiamo ripetuto che la consapevolezza dell'uomo non contiene tutta la sua coscienza, il suo sentire. Ma ciò non significa che il suo attuale sentire sia qualcosa di staccato, lontano, sublime, raggiungibile con sforzo. 

 

La spiegazione della nostra affermazione sta nel fatto che il vostro sentire di uomini si manifesta solo come risposta agli stimoli ambientali; perciò se la vita non vi sottopone a certi stimoli non avete consapevolezza di come sentireste in quella particolare situazione. Non vale infatti immaginare cosa sentireste e come vi comportereste in una certa evenienza, in una data occasione; teoricamente si possono dire tante cose, ma poi, all'atto pratico, ci si comporta diversamente proprio per la ragione che solo allora, quando la vita presenta il suo stimolo, il sentire si manifesta; o meglio, allora l'individuo agisce come veramente sente.     

 

Quando invece il sentire è più ampio, allora fluisce liberamente e non solo quale risposta agli stimoli esistenziali.    

Taluno di voi, sporadicamente, ha sperimentato attimi di intensa esistenza, quando si comincia a sentire di far parte di un tutto e si sente un trasporto, uno slancio di amore verso tutto quanto esiste. 

 

Sono rari momenti e, per quanto intensi possano sembrare, non sono che l'ombra di quella piena beatitudine che è caratteristica naturale dell'esistenza che attende l'uomo: l'esistenza del superuomo. Per bene intendere il concetto, da un tale progressivo liberarsi, aggregarsi, ampliarsi del sentire va tolta ogni propensione concettuale della realtà in divenire. 

Tutto è, niente trascorre: tutto si rivela a se stesso, tutto afferma la sua esistenza nell'istante di un tempo che non esiste, in un punto dello spazio illusorio. Tutto si manifesta per un solo attimo che in sé è eterno: in quell'attimo è l'eternità.

 

Perché mai contate le ore, i giorni, gli anni? Il sentirsi di esistere non conosce fine, anzi è eterno, perché è al di là del tempo. Stolti, che vi fermate e volete immobilizzare il caleidoscopio delle forme che esistono proprio in forza della loro stessa variabilità, della loro stessa caducità. Che cosa volete fermare? La forma delle nubi? Che cosa volete imprigionare? Il pensiero?

Non vi fermate all'esteriore, a ciò che appare. Non desiderate di godere per sempre del profumo del fiore, ma siate ciò che fa fiorire e profumare.

 

Siate consapevoli che tutto lo spettacolo che si svolge di fronte alla vostra osservazione, e di cui siete fatti protagonisti, ha il solo scopo di ampliare il sentirsi di esistere che ciascun essere è fino ad abbracciare ed esprimere la Totalità del Tutto.

 

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