Indice

 

A chi cerca, a chi legge, a chi ascolta (Alan) - A coloro che sono addolorati per la morte di una persona cara (Dali)  -                                 

 

Finalità della vita naturale (Kempis) - Il problema della malattia (Dali, François, Maestro Veneziano, Maestro Orientale)  -        

 

L'uomo non nasce psichicamente tabula rasa (Maestro Veneziano)

 

 Più che fare ed avere, è importante essere(Claudio) - Il sentire è divino slancio d'amore (Teresa)

 

Un insegnamento morale fedele alla logica (Kempis) - Appendice: Della sopravvivenza (Dali)          

 

cerchio firenze 77

 

LA VOCE

DELL'IGNOTO   

 

ALAN  FRANCOIS  VENEZIANO  M.  ORIENTALE  CLAUDIO    TERESA  KEMPIS  DALI 

  

 

 

Indice

 

A chi cerca, a chi legge, a chi ascolta (Alan)       

 

1. A coloro che sono addolorati per la morte di una persona cara (Dali)                                   

 

2. Finalità della vita naturale (Kempis)                 

 

3. Il problema della malattia (Dali, François, Maestro Veneziano, Maestro Orientale)          

 

4. L'uomo non nasce psichicamente tabula rasa (Maestro Veneziano)                                           

 

5. Più che fare ed avere, è importante essere (Claudio)                                                               

 

6. Il sentire è divino slancio d'amore (Teresa)    

 

7. Un insegnamento morale fedele alla logica (Kempis)                                                               

 

8. Appendice: Della sopravvivenza (Dali)          

 

 

 

A chi cerca, a chi legge, a chi ascolta

 

Miei cari amici, è Alan che si rivolge a voi, ossia una delle voci che parlano nelle comunicazioni ricevute dal Cerchio Firenze 77, voci che concorrono tutte a formarne una sola: la voce dell'ignoto.

Il Cerchio Firenze 77 è un consesso di amici che si riuniscono con un soggetto dotato di poteri paranormali e che sono testimoni di comunicazioni di ordine etico-filosofico e di fenomeni che hanno il solo scopo di mostrare l'origine paranormale delle comunicazioni stesse.

 

Ma che cosa sia il Cerchio Firenze 77, e che cosa si proponga, lo ha detto molto bene il Maestro Dali ultimamente. Egli afferma che è molto più chiaro dire che cosa non è il Cerchio, perché umanamente, fisicamente, non esiste. Infatti, non è un'organizzazione né un organismo, non è un'associazione né un gruppo, non è una setta né una consorteria; esiste solo idealmente, costituito da tutti coloro che intimamente condividono la concezione della Realtà che i Maestri cercano di illustrare.                 

Non esistono sottoscrizioni e soprattutto ufficiali  rappresentanti, perché nessuno può considerarsi depositario della concezione che i Maestri illustrano, in quanto ciascuno recepisce soggettivamente e quindi limitatamente.

 

Esistono i testi delle comunicazioni, che costituiscono la fonte diretta delle cognizioni, e ciascuno deve comprendere quelli, non l'interpretazione che altri hanno di essi.

Ciascuno deve accettare solo ciò che torna alla sua logica, e la Verità che condivide diviene sua Verità. Non esiste plagio: la Verità non è un'idea: essa è di tutti.

Che cosa si propone il Cerchio?

Essendo il Cerchio solo una figura ideale, non ha nessun proposito né azione a livello collettivo. Quello che ciascuno si sente di fare lo fa a titolo personale, e se ne assume tutta la responsabilità.

 

Non esiste volontà di fare proseliti o di imporre le proprie opinioni e convinzioni. I Maestri stessi si rivolgono solo a chi cerca perché non è soddisfatto di ciò che sa dalla scienza, dalla filosofia, dalla religione. Essi sono portatori di una concezione e visione della Realtà che risponde a tutte le domande che, non trovando altrove risposta, creano angoscia e smarrimento; ma non hanno alcun proposito di diffondere né tanto meno imporre tale concezione.

La diffusione che è avvenuta e può avvenire è spontanea, non provocata; avviene grazie al consenso liberamente manifestato di chi è venuto a conoscenza dell'insegnamento attraverso alla lettura dei libri pubblicati.

Il presente volume che segue ad altri quattro, e precisamente Dai mondi invisibili, Oltre l'illusione, Per un mondo migliore e Le grandi Verità ricercate dall'uomo, è nato dall'esigenza di accontentare quanti desiderano ascoltare la registrazione vocale delle comunicazioni. Perciò, più che essere una trattazione vocale delle comunicazioni. Perciò, più che essere una trattazione

sistematica dell'insegnamento, come nei volumi precedenti, è una antologia illustrativa delle voci che si alternano nelle comunicazioni ricevute dal Cerchio. Tuttavia, ciò che si pubblica col presente volume va ad arricchire e focalizzare ulteriormente la concezione della Realtà illustrata dai Maestri e quindi rappresenta una continuazione del loro insegnamento, pur avendo una sua autonomia rispetto agli altri volumi.

 

In apertura abbiamo posto un messaggio del Maestro Dali rivolto a coloro che sono addolorati per la morte di una persona cara. Le sue non sono solo parole di conforto, ma stimolano a riflettere per trovare lo scopo del dolore sofferto; non uno stimolo alla sopportazione bensì un incentivo alla comprensione.

Ascoltiamolo.

                                                                                                                                                                                                    ALAN

 

 

Nota: Nel testo, tutti gli interventi di Alan, che introducono e commentano i diversi brani, sono riportati in corsivo. 

 

 

                                                                                                       

A coloro che sono addolorati per la perdita di una persona cara 

                                            

(Dali)

 

La pace sia con voi e con tutti gli uomini, figli cari.

 

Rivolgo queste mie parole a coloro che si avvicinano a noi addolorati dalla cosiddetta perdita di una persona a loro cara, sperando di mettersi in comunicazione con lei per lenire il loro dolore col trovare la prova della sua sopravvivenza.

Quello che io spero di riuscire a darvi non è tanto il sollievo alla vostra sofferenza quanto farvi comprendere che quello che vi è accaduto deve essere il fermento per la vostra trasformazione, che deve condurvi a vedere la vita da un nuovo punto di vista.

 

Uno degli interessi che spingono l'uomo ad accostarsi e ricercare il fenomeno medianico è quello di trovare una conferma della sopravvivenza dell'essere alla morte del corpo. Tale conferma può essere ricercata, fra l'altro, per fugare la propria paura di cessare di esistere, oppure per lenire il dolore che la morte di persone amate ha determinato.

 

In più occasioni ci siamo espressi sulla validità del fenomeno medianico, che si può chiamare spiritico solo di rado, quando raggiunge il contatto con un essere disincarnato. Infatti, anche nei casi in cui non c'è frode cosciente - il che è abbastanza raro - la comunicazione può avere origine nella psiche dei presenti, che dirige le facoltà paranormali del soggetto medianico.

La ragione della frode involontaria sovente risiede nel desiderio di mettersi in contatto con chi non vive più fisicamente, oppure di avere la prova della sopravvivenza, cioè nel desiderio che la realtà sia quale si vorrebbe che fosse.

 

Tuttavia, anche la prova che il raro fenomeno realmente spiritico costituisce ha, quasi sempre, valore soggettivo, cioè non è assolutamente probatoria per chi non ha vissuto di persona l'esperienza; perciò non dà alla scienza umana, costituita da certezze oggettive, un arricchimento, un punto fermo per la conquista di ulteriori mete.

 

D'altra parte, siccome le azioni degli uomini non traggono origine solo e sempre dalle certezze oggettive, tutto questo non deve impedire all'uomo di avere una sua opinione in merito e, conseguentemente, un suo comportamento.

 

Il fatto che noi rappresentiamo costituisce una proposta di opinione e, conseguentemente, una proposta di vita nella quale l'uomo è consapevole di far parte di una collettività in cui i più dotati che detengono un qualsiasi potere non sopraffanno i deboli, ma colmano le loro deficienze; in cui si invocano maggiori diritti solo quando si adempiono nel miglior modo tutti i propri doveri; in cui gli errori degli altri non diventano giustificazione dei propri ed invito ad errare, ma incentivo a perseguire un mondo migliore cominciando a migliorare se stessi.

 

Non è, questa, una comoda concezione della vita; tutt'altro; però è una concezione che ha il pregio di rispecchiare l'ordine naturale delle cose; che non chiude la realtà in schemi fissi sacrificando l'individuo ma, via via, l'adatta alle sue reali esigenze evolutive.

Chi si rivolge a noi, più che la prova della sopravvivenza trova una simile concezione della vita, che è molto di più della certezza che l'essere non cessa di esistere. Chi invece, cercasse solo tale conferma, o la comunicazione con qualche caro trapassato, perderebbe il suo tempo.

Anzi, vi dirò di più: esorto a diffidare dei medium che si dichiarano capaci di evocare a piacimento i disincarnati. Acciocché il contatto avvenga non basta che vi sia il tramite: la comunicazione deve essere prevista dall'ordine generale secondo cui si svolgono le cose.

 

Chi conosce la storia dello spiritismo sa che vi sono stati medium che hanno servito da tramite per le comunicazioni di molte entità e non sono essi riusciti a mettersi in contatto con una che, più delle altre, amavano e desideravano sentire.

 

Noi siamo una delusione per chi avesse tali aspettative. Tuttavia, non possiamo ignorare la dolorosa aspirazione di chi soffre per il trapasso di una persona amata. Con tutto ciò, più che permettere il contatto con essa, invitiamo chi soffre di questo a riflettere sul suo dolore. Naturalmente, parlo nel presupposto che chi mi ascolta sia una persona ragionevole perché, altrimenti, a nulla servirebbe il mio dire.

 

Comincerò il mio discorso invitando a riflettere sul fatto che la vita dell'uomo deve avere uno scopo, che non può essere quello di soddisfare tutti i desideri umani e di pensare o preoccuparsi solo per se stessi.

La vita sociale e di relazione in cui l'uomo viene a trovarsi, gli avvenimenti stessi che gli accadono, il suo stesso modo di reagire agli stimoli, lo inducono a dedicare uno spazio più o meno grande agli altri. E gli altri sono - almeno in principio dell'evoluzione della coscienza - coloro la cui vita in qualche modo si riflette sulla propria, in qualche maniera la condiziona. E' un dedicarsi egoistico, quindi, allorché il legame non sia stabilito dall'affetto; ma anche quando l'interesse all'altro è originato dall'amore, non sempre è spoglio di egoismo; anzi, spesso si tratta di amore possessivo.

Il vero amore desidera il bene di colui che si ama anche se ciò si concretizza in una situazione in cui l'amato non si può più avere vicino come prima. Credo che nessuna persona ragionevole possa contraddire tale affermazione.

 

La vita presenta degli avvenimenti che non sono conseguenza della volontà di alcuno ed altri che, pur essendo conseguenza del comportamento di qualcuno, coinvolgono certi che non vi parteciperebbero se non fosse il caso che li ha messi a tiro. Di fronte a tali eventi si ripropone il quesito che indubbiamente ogni uomo si è posto nel corso della sua vita, e cioè se l'esistenza di tutto abbia un suo significato, oppure se tutto sia un non-senso.

Quelli che non accettano il significato trascendente della vita si giustificano dicendo che non è dimostrato questo significato trascendente della vita; tuttavia, quando la loro esistenza li mette di fronte a dover accettare o no qualcosa di indimostrabile, suppliscono alla mancanza di certezza con la plausibilità offerta da un ragionamento logico.

E non si può certo affermare che logico sia pensare che all'origine di tutto quanto esiste vi sia una fortuita circostanza che dal nulla -- in senso organico - non solo avrebbe creato la materia e la vita, ma avrebbe soprattutto composto quel codice genetico secondo cui tutto si sviluppa ordinatamente. Cioè, è assurdo pensare che dal caos il caso abbia creato, o quanto meno avviato, il procedere ordinato, ossia l'ordine e il fine.

 

Se, invece, si volesse supplire a tale mancanza di logica pensando che tutto quanto esiste, esiste da sempre - cioè senza origine -, allora né conseguirebbe che tutto sarebbe eterno, al di là della caducità delle singole forme, e quindi l'esistere sarebbe eterno, al di là della caducità delle singole esistenze: ossia si affermerebbe, implicitamente, ciò che si vuol negare.

Perciò, il negatore del senso trascendente della vita in nessun caso fonda la sua opinione sulla logica, come fa invece tranquillamente quando nella vita deve prendere partito di una cosa inaccertabile oggettivamente.

 

La logica conforta, invece, l'opinione di chi crede che l'esistenza del Tutto abbia un significato trascendente. Non è certo il caso di addentrarci in dispute religiose o filosofiche, che nascono da una simile convinzione; tuttavia credo che si possano accettare, senza scomodare troppo la fede, alcune plausibili affermazioni come, per esempio, che se l'esistenza del cosmo ubbidisce a precise leggi, cioè ha un ordine, lo stesso ordine non può mancare nella vita dell'uomo, elemento di tale cosmo; e che al di là dell'incomprensibile, per noi, significato degli avvenimenti che ci capitano, a cui prima facevo cenno, vi sia un preciso significato, una profonda ragione.

 

In altre parole: o Dio non esiste, ma è illogico; oppure, se esiste, non può essere dispettoso e crudele. Cosicché quello che si reputa un castigo, una cattiveria della vita, al di là del suo sapore immediato deve nascondere un fine degno della Divinità, cioè un fine di amore e di vero bene per chi lo subisce. Tutto ciò è quanto suggerisce la logica e il buon senso.

 

Allora, voi che siete schiantati dal dolore per la perdita di una persona amata, se siete creature ragionevoli, se veramente amate chi è trapassato, dovete arginare il vostro dolore nel pensiero che la sofferenza che state vivendo ha un senso per la vostra vita, e che la morte di chi amate è un evento necessario al suo vero bene.

Se veramente amate chi è trapassato non potete essere tanto egoisti da pensare che sarebbe stato meglio che il suo bene non si fosse compiuto.

Ripeto: tutto questo è quanto una persona di buon senso può, accettare senza scomodare la fede, semplicemente seguendo il raziocinio, strumento che appunto è dato all'uomo per fargli capire il senso della realtà nella quale vive.

 

Se poi, per bontà vostra, credete che la voce che vi parla giunga da quella dimensione di cui prende coscienza l'essere dopo la morte del suo corpo fisico, e se ancora credete che questa voce conosca, se non tutto, almeno parte della Verità, perchè non basta essere trapassati per essere nel Vero; allora vi dico, sapendo che mi credete, che la separazione dai vostri cari trapassati è solo per voi, che rimanete nel mondo fisico, perché loro vi sentono e vi vedono in forza del legame amoroso che vi unisce.

Non pensateli quindi con dolore, perché li rattristereste; ricordateli nei momenti in cui erano sereni, nella certezza che li ritroverete, perché il legame creato dall'amore è un legame che non si spezza mai e che, nelle future esistenze, conduce chi si ama a ritrovarsi in amore.

Come l'esistenza di chi è trapassato continua, così la vostra deve proseguire a beneficio di coloro che vi sono vicini fisicamente. Se vi sembra che il destino sia stato crudele con voi, avete un motivo di più per non essere crudeli con gli altri facendo pesare su loro il vostro dolore.

Ora mi fo portavoce di un ideale messaggio che tutti i vostri amati, che hanno lasciato il piano fisico, potrebbero rivolgervi. Accoglietelo nella convinzione che corrisponde al loro sentire:

 

  " Amore mio,

  non potermi vedere più fisicamente ti ha lasciato in un dolore che ti fa rifiutare la vita.

  Sappi che questa è l'unica cosa che può farmi soffrire, e perciò promettimi che troverai la forza necessaria per reagire e continuare a vivere come quando mi vedevi, mi toccavi, mi interrogavi, ed io ti rispondevo.

  Sappi che sono egualmente vicino a te; anzi, più di prima; e che l'amore che ci unisce ci lega indissolubilmente e ti condurrà a rivedermi, 

 riabbracciarmi, riavermi.

  Le nostre strade sono solo momentaneamente ed apparentemente divise, ma al di là del velo che ti separa da me, e che dà corpo al romanzo della vita,

  noi siamo una cosa sola.

  Ora tu non puoi più dedicarti a me fisicamente, e se rimpiangi di non averlo fatto in passato più di quanto potevi, promettimi che da ora in poi ti de-

  dedicherai di più agli altri a cui sei vicino, ed offrimi quel di più che farai.

  Un giorno, quando tutto questo anche per te sarà  compiuto e trascorso, volgendoti indietro nel ricordo tutto ti sembrerà un brevissimo sogno, quasi non vissuto, e solamente la pienezza data dalla consapevolezza di aver pagato un debito, la gioia della comprensione del perché è potuto accadere, la felicità di ritrovarsi quale frutto del tuo dolore, saranno ciò che ne rimane.

  Ti amo.

  Per sempre tuo".

  Che la pace sia con voi e con tutti gli uomini, figli  cari.

                    

                                                                                                                               DALI

Toccanti, vero?

Il Maestro Dali sinteticamente pone alla nostra riflessione il problema se tutto quanto esiste sia dovuto al caso oppure se abbia una origine trascendentale.

Il Maestro Kempis a questo proposito afferma che l'uomo con quanto può osservare, sia pure dalla sua condizione

limitata, e senza fare atti di fede, può trovare risposta a tale quesito e può logicamente dedurre a che cosa stia spingendolo la forza naturale della vita.

Quello del "caso o finalità" è un dilemma che ha impegnato molti pensatori. Anche recentemente il francese Monod ha creduto di dimostrare che l'opera mirabile di costruzione della vita naturale è dovuta solo al caso ed alla necessità.

Osservate nella comunicazione che segue come il Maestro Kempis confusa tale affermazione sul filo della logica.

 

Finalità della vita naturale

(Kempis)

 

In effetti, le Verità dello spirito non sono illogiche e perciò non sono inaccessibili alla ragione. Dirò di più: le Verità dello spirito non sono antiscientifiche quando la scienza è Verità, o meglio, quando esse e la scienza sono vere. Non può essere diversamente da così. Sicché, quando la scienza contraddice la fede c'è difetto di Verità dall'una parte o dall'altra.

 

Se ciò è vero, come è vero, allora, allo stato attuale delle conoscenze scientifiche si può trarre una conclusione che, se anche non dimostrabile, sia ragionevolmente sostenibile ed accettabile dai materialisti, benché affermi che realtà non è materialistica?

La risposta è un sì deciso. Però mi preme precisare che tale deduzione è utile soprattutto agli spiritualisti perché insegna loro a poggiare la fede sulla logica fino a dove il loro raziocinio lo consente, e ad evitare, così, di vivere in un mondo che può diventare onirico e delirante.

Inoltre, mi sembra doveroso precisare che l'ateo non va considerato come un colpevole perché, se non crede in Dio, molte volte la colpa - se di colpa si deve parlate - è delle teologie che portano immagini incredibili della Divinità; non solo incredibili, ma anche false, a tal punto che, per esempio, sono più nel vero coloro che negano l'esistenza di un Dio creatore e signore del Cielo e della Terra di chi, invece, lo affermi.

 

Ora, poniamoci mentalmente in una posizione imparziale, quella che dovrebbero avere i giudici, proprio come se dovessimo emettere una sentenza basandoci solo sugli indizi e su fatti che oggettivamente non danno prove incontrovertibili.

 

Il materiale dal quale dobbiamo trarre la nostra convinzione è parte in causa, esiste, perciò ha una ragione; ma è proprio il motivo della sua esistenza che ci sfugge e che invece potrebbe confermare tante ipotesi e dare ragione a tanti che abbiamo creduto dei poveri sognatori, anche se i loro sogni hanno trascinato l'umanità più di quanto riescano a farlo i temperamenti pratici e concreti.

Guai se l'uomo fosse solo pratico e concreto! Perderebbe tanta parte di quella poca gioia che riesce a gustare e appassirebbe per l'incapacità di vibrare interiormente al canto della fantasia.

Il materiale dal quale dobbiamo trarre la nostra convinzione non è adulterato e non è falsificabile, perciò abbiamo garanzia di Verità. L'ostacolo sta solo nell'interpretazione. Questo materiale è la vita della natura, il meraviglioso mondo nel quale viviamo e di cui facciamo parte. E' uno spettacolo prodigioso, al quale abbiamo fatto l'abitudine e che perciò non apprezziamo più. Però osservandolo, studiandolo, si riscopre e ci rivela le sue meraviglie.

Non c'è nuova scoperta che ci deluda o mostri aspetti irrazionali: anche quegli accadimenti che alcuni chiamano errori della natura, non lo sono affatto.

 

Per esempio, le specie della vita naturale che si sono estinte, e che i naturalisti talvolta considerano tentativi errati della natura di adattamento all'ambiente, non sono assolutamente errori e si possono spiegare con repentini cambiamenti delle condizioni ambientali quando le mutazioni genetiche erano in atto e indirizzate diversamente.

Certo, non si può negare che la natura proceda per tentativi, ma questo non può essere interpretato come una incoscienza assoluta e, conseguentemente, un automatismo non finalistico della sua vita. Niente è senza scopo nelle funzioni naturali delle specie naturali. E il fatto che la natura proceda per tentativi, che cosa significa? Se osservate un non vedente col suo procedere per tentativi, pensate forse che egli sia incosciente e proceda a caso, senza un suo indirizzo e un suo fine? No, certo: egli è solo mancante di quel senso che gli consentirebbe di dirigersi direttamente laddove vuol giungere. Allo stesso modo la natura non possiede quel senso che la farebbe procedere più direttamente; ma ciò non significa che il suo procedere non sia finalizzato; anzi, è proprio il suo tentare fino a riuscire che ci dà la misura della sua determinazione e la prova del suo finalismo.

 

Ora, pur non essendo dei naturalisti, domandiamoci quale può essere il fine che la natura ha tentato di raggiungere e tuttora persegue. Capirlo non è impossibile e non rende necessario azzardare ipotesi incontrollabili. Basta osservare i risultati del suo faticoso e lungo lavoro: dalla prima cellula vivente all'uomo. Ma non si deve credere che il corpo umano, siccome in ordine di successione è l'ultima specie creata dalla natura, sia il fine unico a cui essa tendeva. Se fosse stato così, tante specie intermedie, una volta costruito l'uomo, si sarebbero dovute estinguere e perlomeno non avrebbero dovuto continuare ad evolversi.

 

Una delle difficoltà per comprendere il finalismo della natura è proprio quella di voler interpretare tutto in chiave umana.

La domanda da porsi è questa: esiste la vita della natura; tale vita tende a qualcosa oppure è fine a se stessa? Questa domanda ha un senso più profondo: infatti, se c'è un finalismo nella vita della natura, allora è vera la concezione spiritualistica del mondo; diversamente, è vera quella materialistica.

 

Certo, per vedere il vero fine della natura bisognerebbe vedere nella sua globalità tutta l'opera naturale, mentre il campo di indagine dell'uomo è assai ridotto. Però io credo che qualcosa possiamo osservare anche con le nostre modeste capacità.

Per esempio, l'istinto di conservazione, che è evidente nelle varie forme di vita e che è più forte a livello di specie o di gruppo che a livello individuale. Infatti, se osservate l'individuo formica, vedete che quasi non esiste come tale perché fa tutto in funzione della vita del formicaio.

Così, gli animali che si suicidano in massa perché la sovrabbondanza numerica della loro specie danneggerebbe pesantemente altre specie e romperebbe così l'equilibrio naturale, è un altro degli esempi dell'intento della natura di conservazione della vita a livello generale.

 

Ora, se la vita dell'individuo comprende lo scopo di conservare la vita del gruppo e quindi della specie, e se la vita della specie si conserva in un naturale equilibrio di rapporti fra le specie, ciò significa che la vita delle varie specie ha lo scopo di conservare la vita in generale.

Quindi la vita naturale ha quanto meno lo scopo, il fine, dell'autoconservazione .

 

Ripeto: senza fare atti di fede si può affermare che uno degli scopi naturali sia quello di conservare e tramandare la vita di ogni singolo individuo, ma, al di là di ogni singolo individuo, conservare e tramandare la vita delle specie; ed ancora: al di là di questo, di conservare e tramandare la vita in generale, cioè di tutte le specie. Sì, perché se non ci fosse la varietà e molteplicità delle specie, nelle quali quella umana è una non più importante delle moltissime altre, la vita non potrebbe conservarsi.

Il meraviglioso, reciproco apporto di tutte le specie viventi, la struttura ecologica che mantiene equilibrate le condizioni vitali, la catena alimentare attraverso alla quale l'una specie si lega in modo dipendente all'altra, non sono forse la prova che Tutto è Uno?

 

Ma che senso avrebbe conservare la vita di tutte le specie se non fosse per conservare la possibilità di vita di ogni singolo individuo? Dire infatti la specie e la totalità delle specie è dire un'astrazione; in pratica è dire la totalità degli individui. In realtà, sul piano pratico e concreto, ciascun individuo, vivendo, contribuisce alla vita di altri, anche se, per vivere, uccide.

 

Forse qualcuno potrebbe chiedersi: se il fine della natura è quello di conservare e tramandare la vita, come mai non crea degli individui immortali, nel senso che non siano sottoposti alla morte per invecchiamento? 

Rispondo che ogni fenomeno ha le sue condizioni, i suoi limiti, entro i quali si verifica. La vita fisica ha come  condizione il logorio e l'invecchiamento. Ma, attraverso alla riproduzione, la vita supera la sua stessa caducità temporale, ed è proprio attraverso a tale rimedio che si manifesta il suo fine di autoconservazione.

Riconoscere il fine di autoconservazione della natura non è un atto di fede. Anche sul piano delle sole conoscenze elementari delle scienze naturali, è un'affermazione che ognuno può condividere tranquillamente senza correre il rischio di essere considerato un visionario, uno spiritualista. Ma ciò alla logica basta per arrivare a conclusioni importantissime.

Infatti, se voi concedete che la conservazione delle specie sia al di sopra dell'autoconservazione dell'individuo, voi ammettete che c'è qualcosa che va oltre l'immediato meccanismo della vita individuale, e che essa vita individuale è dipendente, subordinata a quel qualcosa, quindi tende a quel qualcosa. E non è questo un fine?

Non solo, ma se voi credete anche solamente che la vita in generale miri quanto meno all'autoconservazione, voi credete in un fine.

E se c'è un fine, anche uno solo, allora la vita non può essere frutto del caso. Non se ne sfugge: o tutto è casuale negli eventi della vita naturale - ma allora dovete spiegarmi come può essere casuale, per esempio, l'andamento sociale di un alveare -; oppure, se c'è anche una sola finalità, ed anche solamente immediata, il caso non può essere all'origine, né può essere all'origine del Tutto.

Caso e finalità non possono coesistere, o la logica non è più logica.

 

Ultimamente un bell'ingegno ha creduto di spiegare l'opera mirabile di autocostruzione della natura affermando che tutto è frutto della necessità e del caso.

Evidentemente l'autore capisce che riconoscere un fine, uno scopo alla natura, significa credere che tutto non è solo materia; mentre egli vuole affermare il contrario per difendere le sue opinioni fa l'impossibile: infatti, sostituire allo scopo la necessità ed il caso è invero fare un torto all'intelligenza dell'uomo. Proprio solo sul piano della logica, una tale affermazione è una contraddizione insanabile.

 

Che cos'è la necessità? Stato di bisogno di qualcosa indispensabile.

La necessità delle vite naturali si chiama, in qualunque caso, azione per la continuazione della vita, e cioè volontà inconscia di sopravvivere. E non è già questo uno scopo, un fine? Allora, come si può legare il fine col caso, senza ammettere già quello che si vuol negare? Forse che mettendo accanto alla parola necessità la parola caso si possono imbrogliare le carte? Non per chi capisce il significato delle parole e dei concetti.

Il caso poi, secondo l'autore, porterebbe alla soluzione o alle soluzioni che la natura trova dopo tentativi infruttuosi. Ho già detto che il solo tentare, cercare, denunzia già esso un fine. E allora?

Credo che non valga sprecare altre parole per una affermazione così manifestamente illogica e contraddittoria in se stessa.

Ora, nella meravigliosa simbiosi delle specie attraverso alla quale ciascuna trae fonte di vita, il fatto che una, quella umana, sia dotata d'intelligenza e di autocoscienza, che significato ha nei confronti dello scopo che la natura ha, di conservare la vita?

Evidentemente, nessuno; anzi, semmai è controproducente, visti i danni che l'uomo apporta all'ambiente. 

La razza umana poteva benissimo non essere dotata di intelligenza e di autocoscienza, e la vita biologica sul pianeta non ne avrebbe risentito.

 

Ragionevolmente si può escludere che le facoltà psichiche, il cui possesso diversifica la razza umana dalle altre naturali, siano uno strumento, un elemento che gioca nel fine di autoconservazione della vita naturale.

D'altra parte, siccome tutto ha uno scopo in natura, uno scopo devono averlo anche le qualità psichiche dell'uomo. E siccome, in natura, chiaramente la vita dell'individuo è subordinata, in modo inconscio per i singoli, alla sopravvivenza del gruppo; e quella del gruppo alla sopravvivenza della vita di tutte le specie; dato che l'uomo è un essere autocosciente, si può ragionevolmente supporre che il fine per il quale la natura lo ha dotato delle facoltà psichiche sia quello di fargli perseguire coscientemente quel senso collettivo del vivere che qualcuno chiama altruismo e che, nelle altre specie, è perseguito inconsciamente e condizionatamente.

 

Una tale concezione poggia, su elementi concreti e può essere condivisa tanto da materialisti quanto da spiritualisti; quindi rappresenta il punto d'incontro di due concezioni contrapposte: la conciliazione di fede e ragione.

Una tale concezione costituisce la quintessenza della morale, e il conseguente comportamento non può essere eluso con la scusa che è illogico e incredibile il fatto da cui discende.

Tutto è chiaro: basta voler vedere.

 

Pace a voi.

                                                                                                                                                                                                    KEMPIS

 

 

Tutti noi ci dimentichiamo che la natura ci è amica, che quando siamo ammalati essa lotta per la nostra guarigione.

Nel messaggio che segue, Dali, François, Il Veneziano L'Orientale parlano del problema della malattia.

 

 

Problema della malattia

(Dali, François, Maestro Veneziano, Maestro Orientale)

 

Che la pace sia con voi e con tutti gli uomini, figli cari.

La malattia, o la presunta tale, è uno dei problemi che coinvolgono l'uomo e lo affliggono nella sua vita terrena.

L'argomento meriterebbe una trattazione vastissima, però possiamo svolgere delle semplici considerazioni che possono chiarirci le idee e renderci attenti a questo problema fino a vederlo nelle sue giuste dimensioni; senza, peraltro, approfondirne ed esaminarne i moltissimi aspetti.

A questo scopo, François, il Maestro Veneziano ed il Maestro Orientale vi parleranno proprio di questo argomento e vi diranno cose che possono servire, ce lo auguriamo, ad illuminarvi.

 

                                                                                                                                                                                                              DALI

 

 

Riscuotere la fiducia di un proprio simile fa in ogni caso e a tutti piacere, ma non sempre e non tutti si sentono in dovere di non deludere la fiducia che viene accordata; mentre è senz'altro doveroso, per chi è oggetto dell'altrui stima, apprezzarla e tenere nella dovuta considerazione quello che è un tributo spontaneamente offerto, perché così si può definire la fiducia.

L'immagine più bella della fiducia che un essere può esprimere è quella del bambino che si rifugia nelle braccia della madre, e nell'adulto è quella di chi si rivolge al medico.

 

Cari medici, ogni volta che un malato si rivolge a voi tenere presente questo aspetto della relazione che si stabilisce; tenete presente che si tratta di una creatura comunque sofferente e bisognosa, che si abbandona a voi come il fanciullo nelle braccia della madre in cerca di protezione, aiuto e sollievo. E' una creatura che si affida a voi perché è incapace di risolvere quel suo problema e, se l'accettate, il suo problema diventa il vostro.

D'altra parte, come potreste non accettarla quando avete scelto di esercitare l'arte medica, e perciò non avete scelto una professione bensì una missione, perché di questo si tratta quando l'attività che si svolge è diretta a persone e non a cose ed oggetti.

 

Certo che talvolta, obbiettivamente, il medico non può fare a meno di deludere la fiducia che il malato ripone in lui, perché la medicina non gli mette a disposizione - non avendoli - rimedi validi a guarire quell'infermità che affligge il paziente; in quel caso il discorso sul tradire la fiducia del malato si sposta dalla figura del medico alla validità della scienza medica, ma si sposta solo quando il medico può veramente dire di avere la coscienza a posto; e lo può dire quando ha impegnato tutto se stesso nella ricerca del rimedio; quando, umilmente riconosciuti i propri limiti, non li ha nascosti al malato e lo ha indirizzato a chi ha una maggiore conoscenza della sua; ma soprattutto quando è consapevole dell'importanza della sua figura, non già per estorcere onorari da capogiro bensì per il senso di responsabilità che conseguentemente deve avere ed animare la sua opera.

Chi prende la necessità degli altri in generale, e in particolare le loro malattie, come una fonte di esose ricchezze, non ha niente di diverso da chi estorce denaro con minacce di morte.

 

Dicevo della validità della medicina. Invero, se la medicina in generale è la scienza per conservare o restituire la salute all'uomo, è molto più ampia di quella che ufficialmente si arroga un tal nome. Ed in effetti molte sono le arti e le scienze alternative, per il mondo occidentale, che promettono la sanità: l'agopuntura, le cure semplici, l'allopatia, l'omeopatia, la pranoterapia, lo yoga, l'ipnoterapia, eccetera eccetera; quelle che si basano su particolari alimentazioni, altre che non si può fare a meno di definire amene, come quella che insegna a parlare agli organi ammalati del proprio corpo, da consigliare particolarmente - dico io - al malato che soffra anche di solitudine. 

Un quadro divenuto talmente caotico che non converrebbe neppure prendere in considerazione, se non presentasse reali guarigioni.

Allora, come comportarsi di fronte a tante discipline che promettono la salute quando si è nella necessità di fare una scelta? E qui il discorso torna sulla fiducia, elemento di primaria importanza per riuscire in qualunque cosa, perché la psiche ha una rilevantissima influenza non solo nell'attività volontaria del corpo ma anche in quella involontaria, includendo in ciò i meccanismi biologici.

 

Io sinceramente la fiducia la riporrei in primo luogo nella medicina ufficiale del mondo occidentale, che quando fallisce è in alta percentuale perché è stata male applicata. Certo, quando si dichiara impotente, o quando il malato, per una sua condizione speciale, non tollera i rimedi che essa pone a disposizione, tanto da ricevere un danno peggiore del male; o quando si tratta semplicemente di conservare la propria salute; allora non si debbono disdegnare le altre discipline che, come ho detto, vantano risultati positivi e, non di rado, risolutivi di casi disperati.

Perché dare la fiducia in prima istanza alla medicina ufficiale, salvo le eccezioni di cui dicevo?

 

La malattia ha sempre una componente psicologica rilevantissima, per cui ogni medico dovrebbe essere un bravo psicologo. Sulla componente psicologica presente a monte di ogni malattia si aggiunge un'altra componente della stessa natura: quella di chi sa di essere un malato, costituita dallo stato di sofferenza fisica, dalla paura di non guarire dall'impedimento limitativo dato dall'infermità, dalla diversa situazione che si crea, e via via.

 

E' vero che la cura ideale non deve limitarsi a tamponare gli effetti, ma rimuovere soprattutto le cause; ed è altrettanto vero che la medicina scientifica tampona solo gli effetti, anche quando crede di essere risalita alle cause, perché le cause sono sempre psicologiche essendovi, a monte della malattia, quanto meno la mancanza di quello stimolo di reazione che scatena le difese naturali dell'organismo; però, quando la causa ha già somatizzato l'effetto occorre riparare subito il danno ricevuto dall'organismo, e niente v'è di più immediato, a questo scopo, della medicina scientifica, comprendendo in ciò anche la chirurgia.

Le cause dell'ulcera gastrica sono risaputamente di natura psicologica: stati ansiosi, temperamento introverso e sospettoso, eccetera eccetera; però quando l'ulcera ha raggiunto uno stato di gravità che può farla degenerare, è inutile cercare di rimuovere le cause: occorre subito tamponare l'effetto con una cura chirurgica. Sarà, di poi, da eliminare la causa acciocché la malattia non si riproduca. 

Questo naturalmente è un esempio radicalizzato, tuttavia, anche nei casi più sfumati, il principio rimane valido.

 

                                                                                                                    FRANCOIS

 

 

Amici, il discorso che vi rivolgiamo vuol essere più generale e non riguardare solo coloro che oggettivamente hanno problemi di cattiva salute. E' un discorso che principalmente è rivolto a tutti quelli che hanno deciso non stanno bene.

Il primo sintomo che volge a far concludere di essere ammalati è un senso di malessere generale. Tale sintomo è immediatamente interpretato come un segno, un avviso che c'è qualcosa che non funziona nel proprio corpo.

L'interpretazione di chi prova un tale malessere non lascia alternative, mentre in effetti l'alternativa c'è, e come!, ed è costituita dal fatto che il malessere, che è originato dal vivere una situazione non gradita, molti lo attribuiscono ad una malattia del corpo mentre ha origine psichica.

Cosicché la malattia immaginaria, formalizzata con il rito delle visite dal medico, ed anche la malattia reale, diventa una giustificazione per evadere la realtà. Perfino il semplice senso di stanchezza è un modo di ribellarsi e non fare qualcosa che si dovrebbe e non si vuole fare;   perché quando si ha da fare qualcosa che piace, non si sente stanchezza.

 

Allora, quando vi sentite un malessere, non date per scontato che siete ammalati; esaminate le vostre situazioni familiari e di lavoro o di relazione, e in una percentuale alta troverete lì la causa del vostro malessere originato da scontentezza. Non solo, ma anche nelle situazioni senza problemi la psiche gioca lo scherzo di farvi sentire scontenti per vari motivi: per esempio, per noia.

 

Moltissimi sono coloro che non si sentono attivi se non hanno qualche motivo di preoccupazione. La preoccupazione, per loro, diventa stimolo per avere interesse alla realtà.

Moltissimi sono anche coloro che colmano il vuoto interiore del loro essere creandosi una malattia. L'incapacità di pensare, la mancanza di interessi, di vita interiore e di attività nel loro mondo che li soddisfi, li lascia - per loro difetto - in uno stato di vuoto che essi cercano di colmare, inconsapevolmente, inventando una malattia, cioè qualcosa a cui pensare, che dà da fare, che suscita l'attenzione degli altri su di sé, che non li fa languire nell'inattività.

 

Allora, amici, quando vi sentite un malessere e non v'è una disfunzione organica, la causa è da ricercarsi nella sfera psichica. La prima cosa da fare è quella di non cullarsi nel vostro malessere ma di reagire facendo forza su voi stessi, imponendovi qualcosa che vi distragga e vi

impegni: per esempio, sottoponendovi a un esercizio di ginnastica. Il corpo fisico ne ritrarrà beneficio ed anche la psiche sarà ben adattata, sarà ben disposta da quel rito che porta a nuovi interessi e nuove relazioni.

 

                                                                                                                                                                     MAESTRO VENEZIANO

 

 

A te, fratello caro, che invece sei veramente ammalato nel corpo, raccomandiamo egualmente di reagire, di non far pesare sui tuoi cari la tua malattia più di quanto già possa pesare.

Non limitarti più di quanto la tua stessa malattia oggettivamente ti limita, non temerla dandoti per vinto da essa, ma sfidala!

Se cadi nella disperazione, ti chiudi alla possibilità di ricevere qualsiasi aiuto.

Non pensare di vivere un'esperienza negativa; trai da  essa quel motivo di cambiamento per il quale si è determinata e resa necessaria.

Il tuo vero bene non è la semplice guarigione ma la tua giusta reazione, la trasformazione che essa deve operare in te. Perciò ricorda che il vero aiuto non è tanto quello di guarirti, quanto quello di aiutarti a comprendere.

Non sentirti abbandonato e solo; ripeti mentalmente con me questo mantra, in forza del quale puoi meglio impiegare le doti che la natura ti ha assegnato per la sana attività dei tuoi corpi:

 

"Io sono una cellula di un immenso organismo nel quale mi sento illusoriamente distinto e separato, ma dove in realtà sono parte integrante del Tutto.

In questo immenso organismo io vivo in simbiosi con ogni essere e sono investito da una corrente vitale che ha come fine il perpetuarsi della vita sempre pronta a manifestarsi.

In una tale esplosione di vita, la malattia è contro il fine della natura ed è quindi un fatto che la natura stessa combatte.

Io non devo perciò sentirmi rifiutato ed abbandonarmi alla malattia, ma reagire con tutta la mia volontà.

In tutto ciò non sono solo, la natura stessa mi aiuta con la sua inestinguibile corrente vitale che tende a conservare la vita. Infatti, lo stato di bisogno di ogni essere è percepito dall'intero comune organismo, che gli indirizza energie riequilibratrici insite nello stesso moto vitale.

Sta dunque a me aprirmi a queste energie e goderne tutta la potenza.

La forza che io devo evocare non deve giungere da un punto remoto del cosmo ma da dentro me stesso, quindi è a mia portata. Se in me essa è assopita, io voglio che si liberi ed agisca costantemente.

Impartisco questo ordine alla mia mente, che se è capace di farmi ammalare lo è altrettanto di farmi guarire, sfruttando la forza vitale della natura.

Io domino la mia mente e l'asservo a me stesso. Conosco i suoi tranelli, le paure che mi infonde per prevalere sulla mia volontà ed agire a suo capriccio.

Io sono il suo sovrano e l'asservo al mio volere. Essa mi ubbidisce e fedele lavora per me con tutte le sue possibilità consce ed inconsce. Anche quando la mia attività cosciente è volta ad altro, la mia mente   inconscia continua ad alimentare la mia guarigione,   attimo dopo attimo.

La mia mente è uno strumento prezioso: io voglio che sia la mia forza e la mia chiarezza. Perciò le impedisco di creare ombre che mi torturano e angosce che mi annientano.

E tu, malattia, non mi incuti alcun timore. Che cosa puoi fare più che far morire il mio corpo?

Niente può farmi cessare di esistere.

Morire è rinascere.

La morte non esiste".

 

Om mani padme aum

 

                                                                                                                                                                                 MAESTRO ORIENTALE

 

 

Avete ascoltato il Maestro Veneziano accennare all'origine psichica della malattia o della presunta tale.

La vita psichica dell'uomo ha un'enorme importanza perché, unitamente agli stimoli che gli provengono dall'ambiente nel quale vive, è il motore dell'evoluzione spirituale dell'uomo.

La psicologia solo recentemente ha assunto o vuole assumere il carattere di scienza, e non di filosofia, e le discipline ad essa connesse - come la psicoanalisi e la psicoterapia - si dibattono nella incertezza di principi in cui esse versano, dovuta alla mancanza di esperienza e quindi di prova.

Il Maestro Veneziano nel messaggio che segue dice la sua a proposito delle affermazioni contraddittorie delle varie scuole secondo le quali l'uomo, all'atto della nascita, è concepito dal punto di vista psichico come una tabula rasa oppure no.

Tale intervento non ha valore accademico ma fornisce  delle chiare indicazioni che possono mutare l'aspetto dei problemi nei quali ciascuno è immerso e porre in una posizione più adatta a risolverli.

 

 

L'uomo non nasce psichicamente tabula rasa

(Maestro Veneziano)

 

Figli, vi benedico!

L'uomo, nei riguardi di se stesso, è come quelle madri che amano talmente i loro figli da accettarli come sono, giustificarli sempre; quelle tante madri - e anche padri, intendiamoci - che amano a tal punto da continuare ad amare anche se il figlio le fa soffrire, dimostrando così che l'evangelico comandamento di amare chi ci fa patire, che pare un ideale morale irraggiungibile, è invece più diffuso di quello che si crede.

Dicevo che l'uomo si giustifica sempre perché si ama sempre, senza eccezioni. Non per nulla l'amore che ha per se stesso è stato preso come esempio di come si debbono amare gli altri.

 

Anche dal come si pone nella realtà traspare la grande stima di se stesso: il nemico è sempre esterno, la colpa non è mai sua, ma pure, quando lo fosse, si tratterebbe sempre di debolezza, cioè di essersi lasciato trascinare, di non aver avuto la forza di resistere alla lusinga del male, di quel male che è sempre esterno a lui.

E', nata da ciò la comodissima invenzione del diavolo tentatore, che in fondo non è completamente priva di fondamento, al di là della figura infernale. In effetti, la tentazione non è rappresenta gli stimoli che vengono dall'ambiente, le sollecitazioni che si ricevono dal mondo. Invece il concetto della tentazione non è più corrispondente allorché faccia pensare all'uomo come ad un innocente, un puro, la cui colpa sia - come ho detto - solo e sempre debolezza; mentre è chiaro che, se certe sollecitazioni allignano, è perché c'è difetto di coscienza; quindi sì, si possono considerare anche esterne all'uomo, però non estranee dal momento che sono seguite, hanno un riscontro interiore.

Ma al di là di ciò, l'essere interiore, il nucleo, l'anima, la realtà dell'uomo, sfrondato da quella miriade di influenze, suggestioni, imposizioni esterne, quale è?

 

L'uomo, quando nasce, è forse psichicamente, caratterialmente, una tabula rasa, un terreno vergine su cui l'educazione, le esperienze infantili ed altri condizionamenti ambientali e culturali imprimono segni indelebili, dandogli la personalità e l'intimo fermento che l'accompagnerà tutta la vita?

Oppure ciascuno nasce già con certe inclinazioni, propensioni, debolezze, che poi la vita quotidiana tirerà fuori?

 

Se quest'ultima è l'ipotesi giusta, da che cosa è determinato il diverso intimo essere di ogni uomo?, e fino a che punto l'educazione, l'ambiente, i condizionamenti, possono modificare o annullare la dotazione caratteriale con cui ciascuno inizia ad affrontare la vita!

 

Tali sono gli interrogativi a cui si cerca di dare risposta comprendendo il funzionamento psicologico dell'essere più complesso e sfuggente del creato: l'uomo.

Il fatto è che fra un essere umano e l'altro può esservi più differenza che fra un verme ed un uccello, perciò il funzionamento del processo psicologico dell'uomo sfugge ad una codificazione generale, e da ciò il permanere del mistero.

 

Sostenere che l'uomo nasca, psichicamente e caratterialmente, una tabula rasa e che solo le esperienze infantili determino il suo carattere è come sostenere che l'uomo è assolutamente libero nelle sue scelte, cioè sostenere un'ipotesi manifestamente impossibile.

Pure se si considera l'uomo identificato e limitato al corpo materiale, nel momento in cui apre gli occhi nel piano fisico ha già una dotazione di neuroni che lo diversificano, anche se impercettibilmente, da ogni altro suo simile: perciò non è una tabula rasa.

 

Tuttavia, il fatto di non essere una tabula rasa non impedisce alle esperienze infantili di imprimersi in modo abbastanza condizionante nella psiche, sicché le varie influenze e impulsi che fanno agire o non agire l'uomo traggono origine, in primo luogo, da ciò che egli è quale risultato di precedenti incarnazioni - ossia quale stato di coscienza raggiunta, che spesso è confuso con l'inconscio collettivo -, e secondariamente dalle esperienze infantili, dall'educazione ricevuta, quali elementi a lui necessari per continuare il processo evolutivo in base ad evoluzione conseguita.

 

L'ambiente nel quale e immerso l'uomo corrisponde come un perfetto incastro alle sue necessità evolutive, e le ripercussioni delle esperienze sussistono e producono effetti non solo nell'età infantile bensì finché l'uomo vive confrontandosi e scontrandosi con i suoi simili, agendo e subendo, dominando ed essendo soggiogato.

 

Secondo la scienza, l'uomo psichico è formato da un nucleo autocosciente detto io su cui agiscono due forme inconsce: l'es - o il complesso degli istinti che tendono ad affermarsi, delle tendenze ereditarie o individuali che attengono alla vita, alle esigenze animali - ed il super io costituito dall'esigenza etica, dal complesso delle regole morali e quindi dall'esercizio dei divieti.

 

Secondo tale schematizzazione manicheistica, anche il nucleo dell'essere si potrebbe considerare una tabula rasa su cui agiscono le due forme inconsce in qualche modo acquisite. Mentre noi affermiamo che il nucleo dell'essere va oltre il principio autoconsapevole e non è affatto una tabula rasa.

Il nucleo dell'essere è quella coscienza che riassume e contiene il succo delle molteplici incarnazioni e che si manifesta quanto meno come fortezza, determinazione, volontà nell'assolvere il proprio dovere, ma che per gradi arriva all'espressione massima del sacrificio di sé, a favore di altri.

 

Il sacrificio di sé non è quindi, un io che capitola a favore del super io inteso come moralità posticcia, acquisita dall'educazione, bensì coscienza raggiunta, parte del proprio essere, intima natura.

Quanto più si è costituita la coscienza individuale, attraverso alle esperienze fatte nelle molteplici incarnazione tanto meno si è trascinati dall'es; sicché in linea generale si può dire che quanto più l'uomo è evoluto in senso spirituale e tanto meno è condizionato dall'educazione  dall'ambiente, dalle tendenze genetiche ereditarie.

 

L'intimo essere di ognuno è dato in primo luogo dalla propria coscienza acquisita nel corso dell'evoluzione, ed in secondo luogo da tutti quei fattori che sono posticci rispetto al vero essere stabile e che derivano da esperienze infantili, dati caratteriali, condizionamenti di vario genere, sociale, culturale, religioso, eccetera. 

 

Ripeto: i fattori posticci possono attecchire nell'essere proprio nello spazio che la mancanza di coscienza individuale lascia vuoto; ed è proprio vivendo quelle debolezze, quelle limitazioni, che la coscienza si espande e l'individuo si libera.

Il senso etico degli uomini può derivare dalla loro   coscienza individuale raggiunta, oppure, quando così non è dalle credenze religiose indotte. La differente origine si rivela solo nell'atto pratico, perché quand'è costruzione posticcia la professata moralità è ben presto tacitata a favore del proprio interesse contrario; mentre quando è coscienza raggiunta non potrà mai essere tacitata per un motivo egoistico. Cosicché i valori che gli uomini hanno perduto rispetto al passato erano valori posticci, che saranno trovati invece quali valori reali, facenti parte della propria coscienza individuale.

 

Questo trovare la coscienza, cioè fare o anche semplicemente pensare, desiderare qualcosa per proprio sentire e non per imposizione o suggestione, è conseguenza di un processo in cui gli elementi componenti sono una serie di stimoli esterni ambientali agenti sull'uomo, e l'azione e reazione dell'uomo stesso, frutto della sua partecipazione quale soggetto attivo e passivo del processo.

 

Nell'uomo cosciente il modo di comportarsi, di rispondere agli impulsi, non segue le leggi della psicologia, tanto che può non reagire ad un impulso provocatore ed agire al di fuori di ogni stimolo esterno. Mentre l'uomo che è all'inizio del processo di acquisizione della coscienza è assai più prevedibile nei suoi comportamenti; inoltre interpreta la realtà soggettivamente, non riesce cioè ad uscire fuori da se stesso, dai suoi interessi e dai suoi comodi, per concepire uno stato delle cose che soddisfi gli interessi di tutti; e non solo: la sua soggettività è tale da fargli interpretare ciò che gli altri dicono o fanno, gli avvenimenti, secondo ciò che pensa, desidera o teme.

 

Veramente, in certi casi, non occorrono le (varianti) per far vivere a due protagonisti di uno stesso avvenimento due storie diverse: così, quelle che nell'intenzione di uno nascono come gesti di simpatia, nell'interpretazione dell'altro prendono corpo come offese.

Ma come può nascere il malinteso?

 

Il "conoscere" è sempre "riconoscere", fu detto. La percezione senza l'interpretazione, la catalogazione, sarebbe priva di significato. Quando c'è una convinzione a priori, anche semplicemente un'idea preconcetta, essa inquina il processo dell'apprendere, del conoscere, del sapere; processo che è sempre, come ho detto, un fatto di comparazione fra ciò che si sa e ciò che si viene a conoscere. Cosicché, in una determinata situazione che coinvolge persone nei confronti delle quali si ha una certa opinione, il loro comportamento è interpretato in chiave dell'immagine che ci si è fatti di esse, anche se la loro intenzione è totalmente diversa; perciò la realtà assume un aspetto falso; cioè vi è una falsificazione della realtà.

 

Non crediate che tutto ciò possa avvenire solo nel nascosto mondo delle intenzioni, dove è facile attribuire agli altri intenti che nessuno può sapere se sono veramente quelli, tranne chi dovrebbe averli. Voglio dire che si possono attribuire agli altri non solo pensieri e desideri non corrispondenti ai veri, bensì anche azioni: un gesto e anche un episodio possono essere letti e presi come prova confermativa della propria opinione preconcetta. Così, in molte occasioni, è nata la Storia!

 

C'è da chiedersi perché mai, quale è il motivo per cui la propria convinzione arriva a falsificare la realtà. La risposta a questa domanda implica una interpretazione delle vicende umane in chiave completamente diversa da quella che comunemente è seguita. Infatti, normalmente, come dicevo all'inizio, la responsabilità, la colpa, sono sempre altrui, e quando non è possibile ascrivere ad altri i fatti dannosi allora è il destino avverso che li ha fatalmente imposti; mentre è assai più vero che la responsabilità delle vicende umane, il seme da cui traggono origine, è quasi sempre del soggetto.

Se poi si pensa alla legge di causa ed effetto, allora anche quegli avvenimenti che sembrano casuali e indipendenti dalla volontà di chi li subisce furono invece fondati, promossi, da chi ne è vittima apparentemente irresponsabile. 

 

Una simile chiave di interpretazione delle vicende umane porta, per esempio, ad affermare che quando due litigano non importa sapere  chi ha cominciato: entrambi lo vogliono. 

Questa è la più semplice delle conclusioni a cui si può pervenire. Infatti, proseguendo sullo stesso binario si può concludere che non solo gli stati d'animo, l'umore malinconico o le nevrosi sono volute da chi ne soffre, ma anche malattie organiche e situazioni della propria vita lo sono; cioè c'è un bisogno psicologico a monte di tutto quello che si subisce con dolore. Se quindi si è vittime di un compagno che fa angherie e approfitta del più debole, è perché quella situazione che si subisce corrisponde ad una necessità psicologica che si ha, e ciò rimarrebbe vero quand'anche fosse una situazione estremamente dolorosa.

 

Certamente, a qualcuno tutto ciò sembrerà eccessivo, e facilmente l'incredulo porterà a favore della sua incredulità il fatto che il suo dolore non è conseguenza di ubbie, bensì di vicende dolorose ed assolutamente non provocate o volute da lui.

Intanto, c'è da dire che una vicenda dolorosa può essere vissuta più o meno dolorosamente, e chi avesse la necessità psicologica di autopunirsi vivrebbe assai più dolorosamente e disperatamente una situazione di altri che non avessero la sua necessità. 

Poi, c'è il discorso dei due litiganti, e cioè che non di rado, in certe situazioni, in qualche modo ci si è posti, e lo dimostra il fatto che in esse si vuol rimanere, perché nulla si fa per uscirne. 

E c'è ancora di più: si sa che in determinate condizioni di tensione interiore si possono porre in atto i poteri paranormali che ognuno ha e che non tutti possono manifestare a piacimento, così come sembrano poterlo fare alcuni, solo perché non tutti sanno creare a piacere, appunto, quella particolare necessaria tensione interiore. 

 

Ora, chi ha un atteggiamento di pessimismo, chi pensa di essere sfortunato rispetto agli altri, perseguitato dalla sorte, può benissimo avviare effetti psicocinetici avversi a se stesso che possono concretarsi in fatti oggettivamente contrari. A quel punto, si sente perseguitato dalla sorte o addirittura

da Dio; mentre, per una qualche necessità psicologica, egli è il persecutore di se stesso.

Convincersi che vivere drammaticamente le proprie vicende dipenda dalla necessità psicologica di autopunizione può far pensare che tale necessità sia conseguenza di una condanna di se stessi per ciò che si è fatto. In altre parole, il soggetto avrebbe esaminato il suo operato e, trovatolo errato, desidererebbe riparare autopunendosi; mentre così non è e, per capire perché, basta pensare all'effetto karmico, che non è punitivo ma di comprensione.

Cioè il karma non è conseguenza della comprensione, bensì la comprensione è conseguenza del karma. Così, certe azioni, desideri, pensieri, traggono seco come effetto il desiderio di autopunizione, ed è vivendo situazioni autopunitive che l'individuo cambierà - comprendendolo - quelle azioni, quei desideri, quei pensieri.

 

A chi sta vivendo simili esperienze mi rivolgo così:

Amico, tu resti incredulo alle mie parole. Non credi verosimile che tu possa essere il persecutore di te stesso. Credimi, è più inverosimile e assurdo che lo

sia Dio.

A te non sembra possibile che la causa di quanto ti accade, della tua sofferenza, sia da attribuire a te  stesso. Credimi, è più inverosimile e crudele che tu soffra a motivo dei capricci di un altro.

Ti sembra inaccettabile che gli avvenimenti che ti sconvolgono siano permessi perché tu ti desti alla coscienza. Credimi, è più inaccettabile e ripugnante che non abbiano significato.

Non pensare a Dio come a qualcuno che non abbia altro da fare che renderti difficile la vita, ma considera sempre te stesso l'autore dei guai che ti affliggono.

Certo, il ruolo di vittima di persecuzioni è più accettabile, perché più nobilitante, di quello di autore.

Però ricorda: di una sola persona si può essere vittime nel vero senso: di se stessi.

Liberati dall'idea che il tuo compito sia essere martire degli altri e dell'avverso destino. Stai giocando la tua partita, puoi essere penalizzato dalle regole che ogni gioco ha: solo da ciò dipende la tua sofferenza, e solo in ciò sta la ragione dell'avverso destino.

Però, da parte di Chi è origine, sostentamento e fine della nostra esistenza, non c'è persecuzione né freddo distacco, tutt'altro: c'è totale partecipazione e anelito alla nostra migliore riuscita; c'è amore nei confronti nostri, perciò c'è comprensione dei nostri limiti e quindi della nostra fragilità: poiché noi soli, amico, siamo gli autori-vittime dei nostri errori.

Nessuno ci giudica, nessuno ci condanna, nessuno ci punisce, se non noi stessi!

 

Figli, vi benedico.

                                                                                                                                                                       MAESTRO VENEZIANO

 

 

 

Del mondo intimo dell'essere parla, sia pure da un altro punto di vista, anche il Maestro Claudio.

Rifacendosi all'antico Conosci te stesso, ci invita a renderci costantemente consapevoli delle vere motivazioni del nostro agire, dei nostri desideri e pensieri, a trovare cioè la verità di noi stessi al di là di come vogliamo apparire, sembrare, anche ai nostri stessi occhi.

Una tale autoanalisi comprende in sé tutti i benefici della psicoterapia, ed è la sola capace di rimuovere i limiti che impediscono l'espandersi della coscienza individuale. Quindi è una cura, oltre che psichica, anche spirituale. E che una tale autoanalisi sia importante lo evidenziano le parole dei Maestri, che non si stancano di ripetere quanta importanza abbia l'intimo dell'uomo. Essi affermano che una società è tanto più progredita quanto più riesce a trasformare ed arricchire interiormente i suoi componenti. Infatti, tutto quanto l'uomo compie all'esterno di sé è per lui importante solo in funzione di ciò che apporta all'interno di se stesso.

Più che fare ed avere, è importante essere.

Ascoltiamo il Maestro Claudio che ci esorta ad occuparci di più del mondo interiore.

 

 

Più che fare ed avere, è importante essere

 

(Claudio)

L'uomo di oggi prende coscienza dello sfruttamento a cui è sottoposto da varie parti. Non parlo solo del lavoro. La moglie, i figli, facendo leva sull'affetto familiare, esigono da lui più di quanto sia ragionevole chiedere. Il prete, paventando catastrofi in questo o nell'altro mondo, esige un voto politico che assicuri un regime favorevole alla religione. E così via.

 

La reazione della presa di coscienza di fronte a tutto questo, ed ai privilegi goduti da pochi, rafforza l'egoismo di ognuno. Si dice allora: "Io non voglio più essere sfruttato. Io voglio godere i privilegi che gli altri godono". Così le parti si invertono, gli sfruttati diventano sfruttatori. La confusione e la licenza aumentano lo scontento di ognuno. Se l'operaio non ha la sua giusta paga, è un sacrosanto suo diritto lottare per averla, ma il suo dovere è quello di amare e difendere il suo lavoro. D'altra parte, non è ammissibile che le posizioni vantaggiose di pochi mortifichino la collettività, che per il guadagno di certi venga danneggiata l'economia generale.

 

Ogni uomo, per quanti beni possegga, per quanta abilità e capacità abbia, non è che un uomo, cioè un operaio degno del suo salario, e nulla di più.

La società futura, se vorrà sopravvivere, non potrà fondarsi sul profitto e sull'egoismo, in ultima analisi. E' perciò necessario inserire l'individualismo nel collettivismo, nel senso di strettamente assolvere i propri compiti ma lavorare per la collettività e non per profitto personale.

Solo da una fusione dell'individualismo con il collettivismo potrà nascere una società nuova, fondata e costituita da individui nuovi.

 

E' chiaro che ognuno si attende che questo cambiamento avvenga imposto dall'alto, da chi governa, dai pubblici poteri, essendo ognuno convinto di non avere ruolo  alcuno nella cosa pubblica. 

Noi affermiamo che ciascuno ha la sua responsabilità, ognuno contribuisce a creare l'ambiente nel quale vive, non fosse altro con le tacite acquiescenze.

Ciò che noi diciamo è esattamente l'opposto di quello che si crede comunemente. Nessuno è responsabile della vostra inettitudine. Se la società è ingiusta è perché voi non siete sensibilizzati al problema della giustizia, e a vostra volta siete ingiusti.

 

Come potete pensare di responsabilizzare gli altri di ciò che voi dovete fare e non fate! Quando osservate il  triste spettacolo della corruzione e del facile arricchimento, voi rimpiangete di non essere nel giro, di non avere l'occasione di arricchire facilmente a vostra volta. Così, allo stesso modo, condannate il privilegio perché voi non siete privilegiati.

Se non viene superata individualmente una concezione egoistica della vita, nessun problema che affligge l'umanità potrà essere durevolmente risolto.

 

Che cosa dovete fare, dunque?

Per prima cosa, convincervi che la felicità non sta nell'accumulare ricchezze o amicizie, liberarvi dal desiderio di sfruttare gli altri, ed essere convinti che la sola ricchezza è quella che giace nelle profondità del proprio essere.

Ogni individuo è ricco solo di se stesso.

E' sfruttare gli altri anche volerli convincere alle proprie idee per avere dei seguaci.

Capisco la vostra facile obiezione: ma noi non vi parliamo per avere dei seguaci. Noi pensiamo che possiate trarre un aiuto dalle nostre parole; ma se voi non credete e non seguite ciò che noi diciamo, non soffriamo.

E' chiaro che alla base dell'esistenza di ognuno c'è l'egoismo, e che l'egoismo non può essere sradicato ipso facto. Così, quello che vi chiediamo all'inizio è un comportamento più giusto nei confronti dei vostri simili, un'esistenza in cui le necessità siano ridotte all'essenziale, ben sapendo che questo non vi cambia, che questo ha valore solo nel confronto degli altri e della società in cui vivete, ma che vi lascia inalterati nell'intimo vostro; tuttavia è necessario acciocché la libertà dei singoli non divenga licenza, l'egoismo individuale non si trasformi in crudeltà, prepotenza tirannia.

 

Ma voi dovete superare l'io egoistico e personale che impronta ogni vostra azione, ogni vostro desiderio, ogni vostro pensiero.

Ciò è possibile solo se si è convinti della necessità di un simile cambiamento. 

Il discorso che noi facciamo ha valore per chi sa che la causa della confusione, di tutto ciò che non procede rettamente, non sta al di fuori di sé ma sta nell'intimo di ognuno. Le nostre parole invece non servono a chi rinuncia alla società perché si pone nella posizione della volpe della favola di Esopo, che rinuncia all'uva solo perché non vi può arrivare.

 

Ma come è possibile superare l'io egoistico ed umano?

Per secoli gli uomini, quando hanno pensato a questo problema, sollecitati dalle grandi spiritualità, hanno creduto sufficiente comportarsi come degli altruisti per cancellare il proprio egoismo, e non hanno pensato invece che cambiando l'atteggiamento esteriore la natura interiore rimane immutata.

 

E' perfettamente inutile che l'ambizioso si cosparga il capo di cenere. Se non ha mutato la sua natura interiore lo farà indubbiamente per meritarsi un posto preminente in una supposta vita spirituale.

L'unico modo per superare i propri limiti è quello di rendersi consapevoli di essi.

 

Vedete, lo scopo della vita dell'uomo potete chiamarlo come volete ma, in sostanza, significa una cosa sola: superare una visione egoistica dell'esistenza. Nessun sentire di coscienza può essere raggiunto se non viene superato l'egoismo. Questo, in poche parole, lo scopo della vita dell'uomo.

 

Allora, per raggiungere questo scopo è necessario rendersi consapevoli dei limiti che stanno alla base di una concezione egoistica della propria esistenza; eseguire una sorta di auto-psicoanalisi. 

Ciò può sembrare molto complesso perché, scoprendovi egoisti, voi pensate di cambiare vostra natura cambiando un atteggiamento esteriore, tutto dando, distruggendo la vostra esistenza che fino ad allora avete costruito fondandola su quella visione della vita.

Ma non è cosi. Niente di tutto questo. Ed ecco dove la cosa, da complessa, diventa semplice perché richiede solo e null'altro di più, che un po' di costanza.

Voi dovete esaminare i vostri stati d'animo e quindi i  vostri comportamenti. Dovete ricercare la ragione dei vostri timori, della vostra incomprensione, dei vostri pensieri. Voi dovete fare, per le vostre azioni e per i vostri desideri, quello che fate nei confronti degli altri. 

Io vedo con quanta solerzia voi cercate di indovinare le intenzioni altrui nei vostri confronti, specialmente. "Perché mi avrà fatto questa domanda?, per quale motivo avrà evitato di incontrarsi con me!". Dunque, quello che c'è da fare voi lo sapete fare; si tratta solo di spostare la vostra attenzione dagli altri a voi stessi, mantenendo nell'analisi un contegno distaccato e sincero.

 

Alcuni sogliono giocare delle partite a scacchi da soli, ponendosi ora da una parte ed ora dall'altra della scacchiera. Così voi, nell'analisi di voi stessi, dovete svolgere questo doppio ruolo dell'osservatore e della persona osservata, dimenticando nell'osservare che gli osservati siete voi stessi.

Ma la fase più delicata dell'analisi, oltre il rendersi consapevoli, è di non cadere nella tentazione di comportarsi in modo opposto a come si scopre di essere.

 

Vediamo di fare un esempio. Supponiamo che, analizzando voi stessi, scopriate di essere degli arrivisti che non esitano a mettere in cattiva luce i propri colleghi pur di valorizzare se stessi. Da un certo punto di vista l'arrivismo non è un difetto, è un pregio, perché rende attivo l'individuo e così lo rende creativo. 

Ma ciò che io affermo è che l'arrivismo è un portato dell'egoismo, e limita l'individuo, lo fa schiavo e lo rende crudele. 

Se voi siete convinti e soddisfatti della vostra esistenza, se credete che la causa di ogni confusione risieda fuori di voi, allora l'arrivismo non è un difetto, è un pregio. 

Ma se fate parte del novero degli uomini che, pur potendo soddisfare ogni loro desiderio, si sentono inappagati, allora l'arrivismo è un difetto che deve essere troncato alla radice. E si giunge alla radice non comportandosi come dei non arrivisti, ma ponendosi fuori di quella concezione che vi conduce ad essere degli arrivisti; convincendovi, come prima ho detto, che la felicità non sta nell'accumulare cose che si crede possano arricchire il proprio io.

 

Forse queste parole ricordano una concezione religiosa della vita. Non fate l'errore di considerare l'uomo diviso in due parti: una spirituale ed una materiale, e credere che quando la materiale gioisca la spirituale soffra, e viceversa. Quando l'uomo soffre è perché non ha compreso qualcosa, e se allora il suo spirito potesse, soffrirebbe.

L'insegnamento morale che l'uomo ha conosciuto, o perlomeno l'interpretazione dell'uomo data alle parole dei Maestri, è sempre stata del tutto esteriore.

Si è mirato ad avere un modo di agire. Se l'uomo pensa ai cosiddetti Maestri, pensa che questi siano altruisti, che si comportino in un certo modo, ed allora crede che l'evoluzione dei Maestri sia raggiungibile comportandosi in quella maniera; e non comprende invece che la cosiddetta evoluzione è un fatto di sentire interiore, che non ha alcuna importanza nei confronti di questo sentire interiore ed individuale il mutare di un atteggiamento esteriore.

 

Non è così. Ve lo ripeto, figli: voi dovete rendervi conto di ciò che si agita nell'intimo vostro. Voi dovete superare una concezione della vita fondata sulla separatività.

Che cos'è in sostanza una cura psicoanalitica? Riportare nella sfera della consapevolezza dell'individuo quegli istinti che, per il fatto d'essere condannati dalla morale della società, sono stati dall'individuo sepolti negli strati profondi del suo io, e, riportandoli alla sua consapevolezza, farglieli superare.

 

Quello che io vi propongo è un analogo processo. Voi dovete rendervi consapevoli di ciò che sta dentro di voi, dei limiti che sono alla base della concezione egoistica dell'esistenza, al di là della tentazione di comportarvi in modo opposto a come scoprite di essere, al di là del bisogno direi quasi di condannare voi stessi; semplicemente rendendovi consapevoli: perché è questa consapevolezza che, per un processo naturale, vi affrancherà da quei limiti che sono alla base di ogni concezione egoistica, troncando così alla radice la causa di ogni incomprensione e di ogni dolore.

 

Pace a voi, figli. Pace, pace.

 

                                                                                                                                                                                                 CLAUDIO

 

 

Le voci che parlano nelle comunicazioni del Cerchio 77 hanno modi diversi di presentarsi a chi le ascolta proprio  per giungere a più persone, per togliere quanto più è possibile gli ostacoli a chi vuol comprendere.

La diversità di espressione non confonde l'esposizione dell'insegnamento, al contrario lo completa, perché i messaggi si integrano l'un l'altro.

I temperamenti mistici possono trovare nelle parole, ad esempio, di Sorella Teresa il linguaggio che è loro congeniale. I suoi messaggi servono anche per ricordare a tutti che il filo logico su cui si svolgono le altre comunicazioni ha lo scopo di convincere e, convincendo, di suscitare quel sentire che è divino slancio di amore.

Ecco come Teresa si rivolge a voi.

 

 

Il sentire è divino slancio d'amore

(Teresa)

 

Sorelle, fratelli,

la mia gioia di questo momento mi viene da voi, dal fatto che voi state ad ascoltarmi, mi accogliete. Come desidero, perciò, contraccambiare la gioia che mi date! Oh se riuscissi ad esservi utile! 

Certo non lo potrei tentando di spiegare la perfezione di Dio: io sono così poca cosa che non posso certo aspirare a capire tanta immensità. Ma tutto quello che sento in me, Dio me ne fa dono immeritato. E' come se per il suo potere, a cui nulla è impossibile, quell'oceano infinito ch'Egli è, entrasse e si facesse contenere in una piccola coppa. 

Sì, anche a chi è ben poca cosa Egli si rivela in tutta la Sua grandezza. Ma Egli si rivela solo quando abbiamo imparato ad amarlo nelle sue creature. E quanto poco impegno; invece, mettiamo in ciò! Anzi, cerchiamo, facciamo di tutto per mettere fra noi e loro delle barriere. Anche quando una simpatia, un'amicizia,  sbocciano grazie ad un moto istintivo e inconsapevole, col volere mettere i punti sulle i, voler dare sapore al sale, finiamo col raffreddare ed estinguere il reciproco slancio.

 

Forse se ponessimo più attenzione a noi stessi, alle nostre imperfezioni, ci sarebbe più facile capire i difetti dei nostri simili, perché simili si chiamano non solo per l'aspetto fisico ma anche, e soprattutto, per l'essere interiore.

Sicuramente nessuno è perfetto. E' fin troppo facile trovare dei difetti nei propri fratelli. Ma se amiamo così tanto la perfezione da volere che essa sia attorno a noi, allora almeno una di quelle virtù che lamentiamo mancare negli altri, facciamo che sia nostra!

 

Siamo sinceri con noi stessi, ammettiamo che poi, con   la critica che facciamo a chi in qualche modo richiama l'uomo ad una vita retta, noi cerchiamo di creare una ragione  per la quale non seguirne il richiamo; cerchiamo di crearci un alibi, distruggere l'uomo per zittire, annullare ciò che egli dice.

E' più facile negare Cristo che seguire il Suo Vangelo.

E anche quando non lo si nega, è più facile dire che fare.

Generalmente all'uomo piace sentenziare, disporre, comandare. Ma chi è preposto al comando dovrebbe sempre  porsi, nell'intimo suo, nei panni di chi deve eseguire, e non chiedere di più di quanto egli stesso possa sopportare.

Chi è preposto al comando sia consapevole della responsabilità che ha, essendo responsabile di coloro che dirige. Il suo ufficio non si esaurisce con l'ostentare il suo grado, col gloriarsene: piuttosto, sia preoccupato per quello che l'ufficio comporta. E chi è in sottordine, subordinato, non si senta perciò privo d'importanza. Lo stesso Cristo, dicendo "Padre, sia fatta la Tua volontà e non la mia", ci ha insegnato la via dell'ubbidienza, e ci ha svelato che essa è comandata da Dio.

Dire con convinzione "Sia fatta la Tua volontà" è avere trovato la sicurezza che il dolore che incontriamo è  sempre il frutto dei nostri errori, è sempre il frutto della nostra incomprensione, e che Dio lo permette per il nostro vero bene, per un fine non di vendetta, ma di amore.

Ripetiamo con convinzione le parole del Salmista:

 

"Signore, Tu sei il mio pastore. Non mancherò di nulla. Mi fai riposare su verdi pascoli, mi conduci    presso acque tranquille, ristori l'anima mia.

Anche se camminassi nella valle delle tenebre, non temerei nulla di male, perché Tu sei con me".

 

Oh, Padre, fa' ch'io Ti veda attraverso alle creature,   ch'io non mi fermi al lato tristemente umano, agli inevitabili limiti, ai difetti più o meno scostanti. Fa' ch'io non consideri la loro abilità, la loro sicurezza, la loro bellezza, come qualcosa che appartiene a loro, ma che li consideri Tuoi doni, quali in effetti sono.

Fa' che al di là di ogni apparenza veda Te, Essere per Essenza, di cui noi siamo riflessi tanto più somiglianti quanto meno siamo limitati.

Ciò che Tu vuoi che l'uomo faccia, e come l'uomo sia, non è un mistero, solo che l'uomo lo voglia, se lo domandi.

 

E non si può neppure dire che fare la Tua volontà sia faticoso, costi sforzo. Lo è quando l'uomo non vuole; ma quando ci si abbandona a Te, quando si dimentica se stessi, il proprio guadagno, il voler apparire, allora la Tua via porta innanzi con sicurezza, con la gioia nel cuore e una forza che tutto fa superare.

Se si fissano in Te i nostri propositi. Tu non ci abbandoni, ricolmi di consolazione la nostra vita.

Capisco, o Signore, che è a Te che dobbiamo consapevolmente e volontariamente venire. Dicci dove dobbiamo guardare per vederTi e non vedere altro.

Se, come dice sant'Agostino, quelli che si rifugiano in Te è con la fede che ti trovano, dacci, o Signore, la fede; se è con la virtù, dacci la virtù: se è con la scienza, dacci la scienza.

 

Ma forse per trovarTi, o Signore, dobbiamo lasciare il mondo, gli affetti, la famiglia, il lavoro? E' proprio indispensabile che rinunciamo a tutto, ci isoliamo? No, Tu non lo vuoi necessariamente, tanto più perché se l'uomo non supera dentro di sé l'attaccamento smisurato alle cose sensibili, è inutile che fugga il mondo. Lontano che vada, con sé recherà sempre nel suo cuore le sue innumerevoli brame. Invece, se pur restando nel mondo, nella famiglia, pur lavorando, compirà le sue azioni anonime, insignificanti, dedicandole a Te; se amerà e servirà di più i suoi cari, donando a Te quella vita apparentemente inutile; se cercherà di pulire, abbellire, facilitare la vita degli altri per amore a Te, o Signore, allora sì che Ti mostrerai!

 

Tutto sta nell'intenzione. Essa santifica le cose più inutili, le azioni più comuni. Chi nell'intenzione si dona a bene altrui, vive unito a Te, o Padre, e tutto ciò che fa diventa soprannaturale.

Dio è presente in tutte le sue creature. Infatti niente  e nessuno può esistere se non per Iddio, in forza del suo continuo comunicare l'essere. Tutto è opera della Sua sostanza, e in tal modo Dio è dappertutto. Ognuno di noi, per parlare col Padre e godere della Sua compagnia, non  ha bisogno di salire al cielo; per cercarLo non ha  bisogno  di ali, perché basta che resti in silenzio e Lo contempli in se stesso.

Dunque, o Signore, non avrò bisogno di viaggiare in lungo e in largo il mondo per trovarTi, ma anzi quanto più il mondo mi sarà estraneo e indifferente, pur rimanendo in esso, e più facilmente Ti troverò.

 

Ora lo so, o Signore: io stessa sono il luogo dove Tu dimori e Ti nascondi. Posso dunque non essere felice, sapendo che Tu sei con me! Tu sei il mio vero essere: che cosa posso volere di più?, che cosa cercare ancora fuori  di me se Tu, il Tutto, sei in me ed arricchisci e colmi l'inutilità che io sono?

Eppure anche il mondo sensibile a noi esterno, se sapessimo osservarlo con attenzione ci chiamerebbe a Dio, alla Sua incommensurabile grandezza. Ma l'uomo si serve  del mondo solo per appagare i suoi desideri egoistici, per cercare la sua gloria, e così trascura di osservare con attenzione quanto lo circonda e che, in ogni particolare, rende testimonianza alla grandezza di Dio.

Tutto, dalle meraviglie della natura alle invenzioni con cui inavvertitamente, senza imposizioni, richiami gli uomini a Te, tutto ci parla di Te.

Tu elargisci agli uomini il bene in una forma così umile e silenziosa che essi credono sia prodotto della loro fatica e della loro abilità, credono sia loro proprietà.

 

Sorelle, fratelli,

Dio non vuole che la vita dell'uomo sia sofferenza, sofferenza e rinuncia, ma gli ha dato anche la gioia; e non solo quella spirituale e tutta interiore che può effondersi con l'estasi nell'animo del santo; non solo quella rarefatta e intellettuale dell'uomo raffinato; ma anche quella che può venire dai sensi e che può godere anche l'uomo più rozzo.

 

Ma la ricerca del piacere non deve essere lo scopo della vita dell'uomo; e non solo del piacere del mondo sensibile; non solo della soddisfazione intellettuale; ma anche della gioia, dell'estasi mistica: nulla e nessuno, nella vita dell'uomo, deve essere esclusivo in assoluto, deve occupare il posto che, infine, è solo di Dio.

Perciò non amate solo voi stessi; e quando avete compreso ciò, e amate gli altri, allora considerare che non dovete amare solo alcuni. Se non siete capaci di altro amore più impersonale, fate dell'amore ai vostri familiari lo scopo della vostra vita; e quando sarete riusciti a dedicare tutti voi stessi a loro, ricordate che la vostra vita non può avere quel solo scopo.

Sorelle, fratelli,

dimenticate quella domanda che insistentemente vi fate tutte le volte che la vita vi si propone: "Che cosa ho da guadagnare, o che cosa ho da perdere?".

Siate leali con voi stessi e con gli altri. Non vi difetti adunque la sincerità.

Dice sant'Agostino: "Liberami, Signore, dalla lingua ingannatrice, insegnami a non dire menzogna, a non spargere diffamazione, a non lanciare calunnie, a non rendere falsa testimonianza". Così io dico a voi: abbandonate ogni forma di simulazione, doppiezza e formalismo. Rifuggite procedimenti tortuosi e subdoli, ma amate e cercate lo splendore della verità. Le vostre parole corrispondano ai pensieri. Pensare una cosa e dirne un'altra allo scopo di ingannare, di assecondare la propria causa, divide gli uomini da Dio. Mentre il nostro destino è l'unione.

 

Signore, in Cristo Tu sei il Dio della pace, della misericordia, della verità, dell'amore. Fa' che quella pace, quella misericordia, quella bontà, quell'amore, ci uniscano e siano con noi e fra noi in tutti i giorni della nostra vita.

Tu sei il Dio dell'unione. Fa' che lo spirito ci unisca  consapevolmente gli uni agli altri in un solo corpo, con la comunione dell'amore, della comprensione di una sola Verità.

Signore, Dio del Tutto, rendici degni del miracolo che stiamo vivendo.

 

Amen. Amen. Amen.

 

                                                                                                                                                                                                      TERESA

 

 

L'insegnamento morale dei Maestri non è un elenco di cose che l'uomo deve o non deve fare, enunciato senza alcuna giustificazione; e l'uomo che segue questo insegnamento non deve seguirlo perché il Maestro ha detto così. Ciò che i Maestri dicono è il risultato ed il portato di una ferrea logica, quindi chi lo segue si convince della sua giustezza in virtù di questa logica, che non lascia un momento scoperto di tutto l'insegnamento.

E' quindi un parlare al cuore dell'uomo passando dalla sua mente; è quindi uno spronare l'azione dell'uomo attraverso alla convinzione di ciò che è giusto fare.

Ciò che il Maestro Kempis dirà è una chiara illustrazione di questi principi seguiti nella didattica dell'insegnamento.

 

 

Un insegnamento morale fedele alla logica

(Kempis)

 

Pace a voi.

In altre occasioni abbiamo detto che se l'uomo non avesse avuto in sé la spinta dell'egoismo, probabilmente il progresso non sarebbe quale è. Infatti la volontà di possedere, di essere valutati, di porsi in una condizione di privilegio, è un propulsore che non ha l'eguale nell'attività dell'uomo.

E' vero che , poi, l'egoismo finisce col divorare se stesso, e che la spinta propulsiva si trova nell'altruismo; tuttavia all'inizio dell'evoluzione è l'espansione dell'io, la volontà di potenza, che fa agire nella vita.

 

Come è che l'egoismo agisce, riesce a tutto, se per definizione è smisurato amore di sé, del proprio guadagno e piacere?

Semplicemente ponendo l'uomo in stato di necessità, rendendolo schiavo del suo desiderio di soddisfare i suoi bisogni, e quindi di adoprarsi, di agire in quel senso. Infatti, che cos'è che muove ogni essere vivente se non la necessità? Se gli esseri non avessero bisogno di nulla, non vivrebbero. E' la necessità che li spinge ad ottenere ciò di cui necessitano.

 

Nell'uomo, essere in cui alla vita fisiologica si aggiunge quanto meno una vita psichica, la necessità è anche di natura astratta, a tal punto che la situazione appagante può non avere alcun significato in termini di materia ed essere invece pregna di significati psicologici.

Come si spiegherebbe, diversamente, la fatica del pellegrino e la sua commozione alla vista di un luogo che ritiene sacro, ma che in sé non ha niente in più di tutti gli altri della Terra, se in lui non vi fosse una necessità psicologica che lo muove, e se la commozione non derivasse se dall'appagamento di quella, non altrimenti potendolo il luogo in sé?

Necessità, solo e sempre necessità!

Infatti, che nome mettere al motore che fa muovere l'uomo, ora assoggettandolo ad una vita noiosa e di fatica, ora spingendolo all'imprevedibile avventura, se non necessità? Necessità rimane, sia quando è impossibilità di sottrarsi all'azione, sia quando è volontà di fare.

Necessità è anche quand'è desiderio, necessità del corpo o necessità dell'intimo essere. Tuttavia, la necessità dell'uomo, che è motore del mondo umano, è per la quasi totalità di natura psichica; sicché chi dice che il pensiero non ha potere sulla materia afferma il falso. E che cos'è che ha fatto innalzare piramidi, muraglie, colossi, meraviglie dell'umana possibilità? Non è stata forse un'idea, una convinzione, un'incorporea ambizione? Che cos'è che edifica civiltà, cambia il volto naturale del pianeta, se non l'opera dell'uomo, mosso in ultima analisi dal pensiero?

 

La necessità, per essere soddisfatta, implica sempre un lavoro e molto spesso un'abilità, cosicché sarebbe dispersivo che ciascuno costruisse da sé tutto quello che desidera; ed inoltre non si raggiungerebbe quella qualità di esecuzione che si raggiunge specializzandosi. Così, ciascuno si specializza in qualcosa, che rappresenta una fase, una atto di quella catena per l'appagamento delle necessità che muove il mondo umano. Ciascuno è un piccolo ingranaggio che soddisfa in parte necessità di altri per poter soddisfare le proprie.

 

Una tale organizzazione, indubbiamente razionale come tutte le cose che si sono risolte da sole, in forza della necessità premente di risolvere, si serve di un mezzo, di un termine di paragone attraverso al quale si può barattare il frutto del proprio lavoro con quello di altri che ci è necessario; un tramite, quindi, attraverso al quale potenzialmente si può ottenere e possedere tutto quello che l'uomo può dare e fare; una sorta di jolly per soddisfare le proprie necessità: il denaro.

 

Oh, signore dell'uomo, che rendi ricercato, ossequiato, rispettato, chi, per il proprio valore, sarebbe rifuggito e disprezzato; che fai sopportare ciò che sarebbe insopportabile ed accettare la più umiliante delle situazioni; che legittimi, chiamandolo dovuto e giusto guadagno, lo sfruttamento più crudele, il furto più sfacciato e la più insaziabile avidità, che fai dare torto a chi ha ragione, e viceversa, premiare chi non è il migliore e ottenere il proibito.

 

Tutto questo, e molto più, sei capace di dare e di fare. Tale è il tuo potere.

Ma da chi ti viene tanta forza? Dal tuo intrinseco valore? Non direi proprio: sei carta, inchiostro e poco d'altro. E se anche tu fossi oro, forse che l'oro, per il fatto d'essere raro e ricercato, è un miracolo più grande, dal punto di vista della cosa in sé, di quello che è la materia più comune?

Convenzioni e simboli nel mondo umano stabiliscono ciò che è prezioso ed il relativo valore; sicché quella forza che è capace di dominare l'uomo disposto a farsi dominare in ultima analisi è una manciata di fumo, un vuoto simulacro. 

Il padrone dell'uomo è ancora una volta un fantasma della mente.

E' proprio per questo, perché in sé il denaro non ha valore, che può dominare solo chi è disposto a farsi dominare. Certo sono tanti, quasi tutti, quelli che restano avvinti dalla forza del denaro: ma questo non smentisce la verità che solo chi vuole può farsi comprare.

 

Si obbietterà che il denaro è il mezzo attraverso al quale si possono soddisfare certe proprie necessità; e se necessità significa esigenza, bisogno, e se si dice cosa necessaria quella ci cui non si può fare a meno, come può darsi che qualcuno possa astrarsi dalle proprie necessità?

Forse è qualcuno che non ha necessità, che non è schiavo, perché la necessità è sempre schiavitù; o qualcuno che è libero, perché in qualche modo può sottrarsi alla lusinga delle cose che desidera. In altre parole, questo tipo di libertà dalla necessità, dal desiderio, libertà che in ultima analisi risparmia fatica al genere umano, è ottenuto attraverso alla repressione, al superamento, all'assenza di necessità?

 

Certo che, per quanto uno cerchi di non avere necessità, o di reprimerle, non riuscirà mai ad annullarle completamente. Ebbene, quelle che mostra di non avere non ci sono proprio, oppure sono da lui avvertite e poi superare, o represse?

direi che alcune non ci sono proprio, per esempio la necessità psicologica che porta al desiderio di possedere, per esibizionismo, un'automobile lussuosa. Altre, per esempio quelle connesse alle necessità della vita fisiologica, sono ridotte all'essenziale, non già con la riflessione ma spontaneamente, per effetto del superamento raggiunto con l'autoanalisi e la comprensione di se stessi.

 

Questo non significa che l'evoluto non possa apprezzare e consumare, per esempio, un cibo cucinato bene, oppure non provi richiami sessuali. Certamente le sue necessità non diventano lo scopo della sua vita, però ciò non significa che l'uomo evoluto sia un essere che nulla abbia di umano. Chi così sembra, così vuole apparire per essere ritenuto più di quello che è. Il vero essere evoluto rifugge da tutto quanto lo pone in una posizione di evidenza e di superiorità psicologica, comprendendo che è importante essere e non già essere creduti, essere ritenuti.

 

Queste cose vi dico affinché vi liberiate dal fascino che esercitano su voi coloro che dicono d'essere incarnazioni della divinità. Osservate i particolari del loro comportamento e probabilmente, me lo auguro, vi accorgerete che quella divinità, incarnandosi, si è molto limitata, tanto da diventare financo un uomo meschino.

Ciascuno è quello che è e non quello che vorrebbe essere; e quello che è, scappa fuori, infine, da quello che fa e da come si comporta. E, quand'anche incontraste il più evoluto degli uomini, lui è lui e voi siete voi. Nella migliore delle ipotesi quello che potrà darvi saranno solo delle indicazioni.

Nessuno potrà percorrere per voi la strada che voi dovete percorrere. Nessuno, neppure Dio, potrà darvi un aiuto di una tale portata.

Queste cose vi dico perché, invece, l'uomo crede e vuol far credere che sia possibile commerciare le cose dello spirito così come è possibile, col denaro, acquistare quasi tutto.

 

Sento qualcuno esclamare: "Beh, Kempis, piantala! In fondo, col denaro si può anche aiutare".

Certo. Io non ce l'ho col denaro che, come è stato detto giustamente, può essere un ottimo servitore o un cattivo padrone. Faccio, e vi invito a fare, delle semplici considerazioni sulla psicologia dell'uomo il quale molto spesso dimentica, nella sua avidità, che le cose sono fatte per l'uomo, e non viceversa, riprendendo invece la memoria per porsi al di sopra di tutto quando si tratta di se stesso. 

Il denaro è un mezzo, come ho detto, e beato chi ne fa buon uso, magari aiutando; ma più beato ancora chi è capace di aiutare al di là delle possibilità offerte dal denaro. E questo non significa parlare di filosofia a chi ti chiede del cibo.

 

Allora, che cosa significa aiutare? Credo che la definizione, più precisa e più generale sia: alleviare altri da preoccupazioni, sollevarli da stati di necessità da cui non riescono ad uscire.

L'aiuto è appoggio, assistenza, collaborazione, sovvenzione, confronto, difesa, protezione, carità. Tutti vorrebbero essere aiutati, e tutti dovremmo aiutare, se non vi fosse quell'unica condizione che il concetto di aiutare gli altri contiene: la condizione che chi chiede aiuto sia in uno stato di necessità da cui, da solo, non riesca ad uscire, e che non rifiuti l'aiuto.

Quante altre condizioni, invece, si pongono per aiutare!

Son tutti pretesti per non fare ciò che non si vuole. Aiutare e fare del bene sono confusi e identificati, ma per chiarezza è necessaria una distinzione. Infatti, se aiutare significa sollevare gli altri da stati di necessità da cui non riescono ad uscire, ciò può essere identificato solo col fare del bene in una determinata concezione di bene. Ma se per bene si intende comprendere, allora, al limite, interrompendo uno stato di necessità che, vissuto, portasse alla comprensione, si interromperebbe la comprensione e, quindi, si farebbe un male.

 

D'altra parte, che cosa può essere "bene"? Felicità e piacere?, conoscenza del vero?  utilità individuale o sociale? Credo che non serva spendere molte parole per dimostrare che il bene dell'individuo non può essere che il raggiungimento del fine per cui esiste, cioè il raggiungimento della coscienza individuale. Quindi, sì, soddisfare le necessità vitali di chi, da solo, non è ne  capace, ma soprattutto renderlo in grado di provvedere da sé; tamponare l'effetto, sì, ma rimuovere la causa. Questo è il vero bene e, perciò, il vero aiuto.

Ed ecco il solito polemico che mi accusa l'essermela cavata con  un gioco di parole, tirando in ballo la coscienza individuale, come se tutti sapessero che cosa significa.

 

Eh sì, hai ragione, amico! Che cosa sia l'uomo cosciente non è facile a sapere, anche perché non ci sono molti esempi a cui rifarsi.

Uomo cosciente è colui che, quanto meno, fa il suo dovere, e che cosa sia il proprio dovere non è difficile da individuare. Comunque, se tu non lo sapessi, ti darò io una carta dei doveri dell'uomo, ricordandoti che il dovere riguarda la condotta ed è, quindi, un rapporto fra te e gli altri, una regola del mondo della separatività che l'amore muterà da obbligo talvolta faticoso a felice, desiderata, spontanea dedizione; ma soprattutto ricordandoti che attenerti a questa regola è il minimo che devi fare.

 

Il tuo primo dovere è mantenere gli impegni che ti sei assunto di genitore, di coniuge, di figlio, di amico.

E' fare nel miglior modo possibile il tuo lavoro.

E ciò basterebbe; tuttavia, se questo ti sembrasse poco, aggiungo: non agire come se il tuo dovere fosse quello di seguire i peggiori. Tu non approvi la loro condotta, sai che non è giusto ciò che fanno, perciò non credere di perderci se non ti approfitti come loro. In verità ci perderesti molto se ti mettessi a loro pari.

Il tuo dovere non è neppure quello di scoprire e propagare i difetti dei tuoi simili per apparire e sentirti migliore di loro; bensì quello di riconoscere i tuoi e sentirti superiore agli altri solo quando tu raccogliessi in te tutte le qualità e le abilità che la natura raziona fra l'intero genere umano.

Il tuo dovere è quello d'essere sempre efficiente, anche quando non sei controllato. Le rivoluzioni degli umili schiavizzati falliscono poi nella loro inattività.

Tu non sei solo e indipendente. Se anche tu fossi l'unico uomo al mondo, e in grado di soddisfare tutte le tue necessità vitali, dipenderesti sempre da ciò che ti fa sopravvivere. Tanto più tu, che fai parte della società umana, sei legato per molti aspetti ai tuoi simili; dalle relazioni che hai con loro trai sempre qualcosa, anche quando ti sembra di dare solamente. Il tuo dovere è, quindi, non trattare i tuoi simili come oggetti, o peggio, ma trattarli come persone.

Il tuo dovere è quello di capire che le tue necessità non sono più importanti e più prementi di quelle simili che hanno gli altri, e di essere rispettoso dei problemi altrui quanto lo sei dei tuoi.

E' tuo dovere chiedere agli altri solo quanto tu stesso sei in grado di sopportare, e di non essere loro di peso, o perlomeno di esserlo solo quanto gli altri lo sono per te.

E' doveroso per te partecipare alla vita sociale, ma non per quello che puoi ottenere a vantaggio dalla tua persona, bensì perché tu sei un elemento componente della società nella quale vivi ed è tuo dovere rendere efficienti, migliorare le sue istituzioni fatte per rendere migliore la vita di tutti. Sii come l'organo di un corpo che con la sua vita contribuisce a mantenere vivente l'intero organismo, perciò la tua esistenza deve abbellire la società di cui fai parte.

Se le tue condizioni obiettivamente ti impediscono di collaborare sul piano concreto, allora il tuo dovere è di essere il conforto dei tuoi simili, e non la loro disperazione; accettando serenamente, con la forza del tuo spirito, il tuo stato; riuscendo tu, bisognoso, a donare.

 

Se quanto ti dico ti sembra ovvio e scontato, lo sai.

E se lo sai, perché non lo fai?

 

Pace a voi.

                                                                                                                                                                                                    KEMPIS

 

 

E' giunto il momento di accomiatarci da voi.

Le parole dei Maestri hanno toccato le corde del sentimento, della logica, del senso mistico, con lo scopo di invogliare chi per la prima volta li ha uditi a saperne di più, e chi già li conosce di avvicinarsi di più a loro attraverso all'ascolto della loro unica voce, la Voce dell'Ignoto, che desidera che comprendiamo, perché ci ama.

Permettetemi di abbracciarvi con tutto l'affetto di cui sono capace.

                                                                                                                                                                                                      ALAN

 

 

Appendice: Della sopravvivenza

(Dali)

 

Un brano del messaggio che il Maestro Dali risolve al Convegno di Camerino dell'agosto 1980, che aveva per tema "La sopravvivenza": problema indiscutibilmente aperto alla ricerca scientifica.

 

Più che entrare nel vivo, nel merito del problema, che costituisce l'argomento centrale del Convegno, desideriamo rivolgerci a tutti quelli che sono interessati al problema della sopravvivenza ed, al riguardo, hanno una opinione.

Voi, che credete che la sopravvivenza sia un fatto dimostrato e dimostrabile, state attenti a non costruire su questa vostra certezza un'altra religione nel senso deteriore della parola.

Sia il credere in modo certo alla sopravvivenza un motivo per andare incontro agli uomini fraternamente, perché questo è il sentire che la certezza della sopravvivenza deve trarre seco.

 

Anche il credere nella sopravvivenza può avere degli aspetti negativi: può, per esempio, far perdere all'uomo il senso dell'importanza della vita terrena; oppure condizionarlo con la paura del castigo divino tanto da farne un tiepido o, peggio ancora, da metterlo in mano a coloro che dell'invisibile si dicono intermediari, per plagiarlo e sfruttarlo.

Il giusto modo di credere nella sopravvivenza è quello che dà serenità, voglia di vivere, di operare; è quello che fa realizzare se stessi ora, nel presente, nella vita che voi state vivendo.

 

Voi, invece, che pensate che la sopravvivenza sia un fatto incerto, indimostrato, o che non vi credete affatto, sappiate che nell'economia delle cose siete tanto utili quanto i più accessi sostenitori dell'immortalità dell'essere. Ma non sentitevi autorizzati ad improntare la vostra vita al più cieco materialismo, alla sensualità più spinta, dando importanza ai soli beni materiali ed alle sole sensazioni fisiche.

 

Il non credere alla sopravvivenza può essere un fatto positivo quando serva a concentrare tutti gli sforzi sull'indagine priva di condizionanti tabù, ma con il solo intento d migliorare le condizioni di vita del mondo terreno. Il credere che nulla esista dopo la morte del corpo può essere estremamente utile se spinge gli uomini ad unire le loro forze, ad essere solidali nella sventura che, secondo l'interpretazione  materialistica, il caso cieco e crudele rovescia su di loro; quando li spinge a colmare quel "nulla" che vi sarebbe al posto dello spirito con qualcosa che dia un significato alla vita, la renda meritevole di essere vissuta, la riscatti dall'essere solo una polluzione della materia.

 

Credere che l'uomo muoia con la morte del corpo può essere positivo quando, pur senza la speranza che la vita abbia un significato trascendentale, pur nella convinzione di finire di esistere, egualmente si riesce a lavorare per un mondo migliore, per quelli che verranno e che mai ci saranno grati del loro benessere.

La concezione materialistica, quella che nulla dà all'uomo per colmare la sua solitudine, diventa la concezione più spirituale che vi sia quando fa dell'uomo un essere che vive, che sente in termini di rettitudine pur non avendo la speranza d'essere ricompensato in vite future. E in verità vi dico che gli esempi più fulgidi di questo vero spiritualismo si trovano fra i materialisti.

 

A tutti voi, che credete e non credete, diciamo: non siete convinti d'essere i depositari della verità assoluta, e perciò non siate intolleranti. Siate sempre disposti ad ascoltare chi non è della vostra stessa opinione. Guai a chi crede che non vi sia nient'altro che possa fargli rivedere le sue convinzioni; o, peggio ancora, a chi crede che non vi sia nulla di più importante di ciò che sa.

 

Non fate delle vostre convinzioni un pretesto per distinguervi, dividervi da chi non la pensa come voi. Non coalizzatevi con l'intento di avversare chi non è con voi, ma siate consapevoli che ciascuno rappresenta una parte di un Tutto poliedrico, e che ciascuno è unico e irripetibile nel cosmo.

 

Come in un organismo pluricellulare ciascun organismo ha una sua funzione che lo distingue dagli altri, e tutti insieme non si combattono ma cooperano ed interagiscono per l'equilibrio vitale dell'organismo stesso, così voi non fate dell'altrui diversità in senso lato, cioè non solo della diversità di opinione, motivo di antagonismo, di condanna; ma sappiate vedere in chi è diverso da voi un complemento di voi stessi, perché in realtà ciascuno fa parte di un sol Tutto inscindibile.

 

Cercate di rappresentare nel miglior modo la parte che siete chiamati a rappresentare, sì da non creare ostacoli a chi voglia riconoscersi in ciò che credete. Ad ognuno il suo compito, ed è importante che ciascuno lo svolga con l'unico scopo di arricchire la conoscenza dell'uomo e renderla il più aderente possibile alla Realtà oggettiva.

 

A tutti voi, credenti e non credenti, auguriamo di essere soprattutto in buona fede; di non essere portatori di interessi faziosi od egoistici; di risvegliare le qualità migliori di chi avvicinate, di avere una chiarezza di idee tale da costituire un punto di riferimento per il pensiero dell'uomo; di giungere là dove siete attesi e necessari; di essere docili strumenti del divino volere che tutti guida all'ampliamento della coscienza individuale; di capire che in realtà non vi sono né debbono esservi vinti o vincitori, ma solo persone che, con la loro fatica, il loro impegno, in buona fede, lavorano per riscattare l'uomo dall'ignoranza, dalla paura, dalla dipendenza e dallo sfruttamento, e ne fanno un nuovo essere con un nuovo, meraviglioso sentire.

 

Qualunque sia lo scopo che vi ha condotto a questo Convegno, vi ringrazio di cuore e vi benedico, perché realizzandolo, rendendolo vivo ed operante, voi contribuite a mantenere desta l'attenzione dell'uomo sul problema della sopravvivenza.

 

Che la pace sia con voi e con tutti gli uomini.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                            DALI

 

 

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