Le ragioni del dolore - La speranza - Non giudicare - 5. La ragione del dolore Affanno afflizione amarezza angustia ansietà
angoscia, corruccio crepacuore, dispiacere duolo disperazione, inquietudine,
malinconia macerazione mestizia, oppressione, patèma patimento pena pianto,
rammarico rodimento, sofferenza spina squarcio schianto spasimo strazio
supplizio, tristezza tribolazione travaglio tortura tormento: dolore. Chi è quell'essere felice che può domandarsi: «
Cos'è il dolore? ». No!, non è acqua quella che sostanzia gli oceani, i
poli, e rende fertile la terra: sono lacrime versate dal dolore. Vi guardo, creature d'ogni specie, razza, ceto ed
età: siete tutte segnate e dominate dal dolore. Vi guardo cercare
affannosamente il piacere ed affannosamente trovare la sofferenza. Il dolore non è come il sole, che splende in egual
misura sui giusti e sugli ingiusti; sembra accanirsi con i buoni, gli inermi,
lasciando perciò ‑in grande perplessità chi soffre e chi è spettatore
della sofferenza, che in ciò vedono una ingiustizia. Infatti il dolore - che sia sensazione fisica
o sentimento appare assolutamente dannoso e tanto negativo che l'uomo ne fa la
maledizione di Dio. L'esistenza del dolore è, al tempo stesso, lacerante
esperienza e, per gli esseri dotati di raziocinio, paurosa minaccia nonché
causa di angosciosi interrogativi. Generalmente l'uomo accetta piú l'esistenza della
morte che quella del dolore. Ed è giusto. Perché mai temere la morte tanto da
sognare l'immortalità? Che sciocchezza! L'uomo che fosse immortale sarebbe il
piú disgraziato degli esseri. La morte è la piú grande benedizione: libera
l'umanità dalla tirannia dei potenti, dalla noia dei sapienti, dal peso dei
notabili. Pensate un attimo a che cosa sarebbe l'umanità se
nessun uomo del passato fosse morto, specialmente ì potenti. Tutti vorrebbero
continuare a pesare sulla storia. Ve la immaginate che Babilonia? E quanto è
comodo, invece, poterli mettere in disparte, obliarli, seppellirli nel
silenzio. Tu che temi la morte, non ti rendi conto quanto le
devi? Vorresti continuare a vivere? Ebbene, se anche tu fermassi il decadere
del tuo corpo, sei soddisfatto di te stesso come sei? 0 forse vorresti
continuare a vivere migliorandoti via via, trasformandoti? Ma trasformarsi è
morire, morire a quello che si è. E la morte è solo trasformazione. Fortunatamente si muore di continuo. E se la morte è
la regina della terra - in quanto nessun essere vivente ad essa sfugge - il dolore ne è il re. Vivere è avere un retaggio di dolore. Non è pessimismo il mio, è constatazione di un fatto
estremamente naturale. Riconoscerlo noti è soffocare la speranza. P, assurdo,
per non dire mostruoso, sperare di cambiare l'ordine naturale senza tener conto
delle ragioni che lo determinano. Questo è il punto: la ragione del dolore. Perché mai tanto dolore affligge ogni essere
vivente? E fa dubitare i raziocinanti che la vita sia un dono; e fa pensare
piuttosto che introduca in un luogo di pena dove, per qualche oscura ragione,
ognuno debba soffrire. E se fosse - come nella catena alimentare
della natura ogni creatura si ciba ed è cibo di altre - che le
sensazioni, le emozioni, il dolore degli esseri viventi costituissero alimento
per invisibili entità ultraumane? E se il dolore - che è tormento di ogni
essere carnale - fosse il piacere di entità cosmiche immateriali, che si
adoperassero in ogni modo per far soffrire i viventi e così trovare, esse, piú godimento? In tal modo gli esseri
viventi tutti - e piú d'ogni altro l'uomo - sarebbero come animali
da allevamento, fatti vivere e soffrire per il piacere di invisibili, potenti,
sovrastanti, crudeli parassiti. Questi ed altri sono i dubbi che la dilaniante
crudeltà del dolore fa sorgere in chi cerca una ragione di esso. Il credente, di fronte allo spettacolo del dolore,
conosce il dubbio. Chi soffre perde la fede. Nei momenti di grande dolore anche
la piú ferrea delle convinzioni spirituali, vacilla. « Padre, perché mi hai
abbandonato? » si chiese lo stesso Cristo all'acne della sofferenza. Il dubbio che il dolore suscita nel credente si
chiama « timore di aver offeso la Maestà divina » ed è intendere il
dolore quale castigo. Ma non in tutti i credenti il dolore evoca sensi di
colpa; a molti fa pensare d'essere vittime di ingiustizia ed allora, spesso,
diventa ribellione. « Guai a ribellarsi nel dolore! » dicono i padri
spirituali. lo, senza avere la pretesa d'esservi guida, vi dico:
ribellatevi pure! Il dolore non è una
cosa piacevole. R ufficio di ogni uomo essere forte, ed è ufficio dell'uomo
forte resistere al dolore. Ma non sentitevi in colpa se vi manca la
rassegnazione, se non sapete accettarlo come se fosse un piacere. No!, non
tento di mettere d'accordo Dio e il dolore dicendovi che è l'uomo l'artefice
della propria sofferenza. E’ un Dio di crudeltà quello che toglie il figlio
alla madre, che lungamente lascia le Sue creature nei tormenti tanto da far
loro invocare la morte? R un Dio spietato quello che fa arrancare i Suoi figli,
trascinare fra mille patimenti, e rimane muto alle loro invocazioni disperate?
Il peggiore degli uomini talvolta sarebbe piú pietoso. E' un Dio impotente quello che, invocato, implorato, non dà le poche ore di sollievo che una semplice, insensibile pillola può dare? Perché Dio, nella Sua incommensurabile perfezione, ha creato il dolore? E se non lo ha voluto o lo vuole Lui, perché lo permette? « Perché mi è successo questo? Perché devo soffrire?
», si domanda il sofferente. Tutti vorrebbero conoscere il perché del loro
dolore. Esistono tante risposte quanti sono quelli che patiscono. E ne esiste
una che le riassume tutte: l'uomo soffre
perché deve superare l'io personale ed egoistico. Questa è la risposta. Il resto è dettaglio con poca
importanza. Non è tanto un tipo di azione che determina l'effetto, quanto l'intenzione. Quindi non serve conoscere
il dettaglio: conoscete voi stessi, le vostre intenzioni, e saprete il perché
della vostra sofferenza. Quante volte abbiamo ripetuto che non si tratta di
sapere, ma di « essere ». Non sempre e non necessariamente chi compie eccessi
dettati dal suo orgoglio, rinasce cieco. Quando si soffre - cioè si
subisce l'effetto karmico - si sta seguendo la « via dell'azione ». E'
tardi per riflettere; a quel punto non c'è che il fatto che fa soffrire, vissuto, a poter dare una data
maturazione che manca e mancava all'atto in cui si è determinato il karma di
sofferenza. Serve riflettere prima, nella vita di tutti i
giorni; porre attenzione ai vostri rapporti con gli altri; vivere con la vostra
sensibilità e la vostra considerazione una vita in cui gli altri non siano
relegati al solo ruolo di comparsa, in cui vi avviate a superare l'io personale
ed egoistico. Questo è il solo modo di risparmiarvi sofferenza. Certo è che per il fatto stesso che il dolore
esista, è da Dio voluto, ricade su di Lui. Ma sarebbe un Dio estremamente
crudele quello che condannasse al dolore altri restandosene ben al di fuori,
nella beatitudine del Suo Olimpo, a guardare chi soffre. Tutto quanto esiste - per esistere - deve essere « sentito », ed il modo in cui ciascun essere lo « sente » è il
modo attraverso al quale lo « sente » Dio; perciò è il modo attraverso al quale
esiste. Attenti a quello che ho detto. Il dolore fa parte di una dualità della quale - saremmo tentati di dire se non temessimo di essere retorici
- Dio stesso
ne soffre e ne gioisce. Certo è che nulla di ciò che esiste, in senso lato,
anche soggettivo - a cominciare dalle sensazioni per finire al sentire divino -, esisterebbe se non fosse in
Dio, pur essendo Dio tutt'altro dal particolare. Ma una domanda ricorre in chi riflette sul dolore e
cioè se Dio avrebbe potuto evitare di creare la sofferenza, per dirla in
termini di creazione. Una tale domanda rientra nel quesito piú ampio e
generale, cioè: se le cose tutte avrebbero potuto essere diverse da come sono
congegnate. Ed io rispondo di no. Vi rispondo con una asserzione che può essere
accettata solo per fede. D'altra parte sarebbe impossibile constatare la
spiegazione con la sola mente umana. A voi che non potete tanto, quando soffrite dico: «
Non ringraziate Dio per la sofferenza, né maleditelo. Quando soffrite pensate
che non è tanto Dio a mandarvi quelle pene, quanto Dio a trasformare quel
dolore in un balsamo per il vostro essere,
il vostro esistere. Dio che non
condanna né si vendica, Dio che con quel mezzo, senza alternative, vi riscatta
da una vita senza coscienza, vi richiama a partecipare alla Sua vera natura. Nel momento che richiamate su di voi il dolore e poi
soffrite, sappiate che altro mezzo non v'era per condurvi innanzi d'un passo ». Forse il dolore perde il suo sapore di maledizione
ed appare meno crudele se visto in una luce diversa che libera chi soffre
dall'idea di patire una punizione divina, che non lo fa sentire in colpa se non
riesce ad accettare la sofferenza e che, soprattutto, fa del dolore uno
strumento dell'amore divino, un mezzo per farci partecipi dell'esistenza di
Dio. Sono consapevole che quanto dico può essere recepito
piú da chi è spettatore della sofferenza che da chi soffre. Chi patisce non
intende ragioni, se non quella che può dare termine al suo soffrire. Ed è
giusto che sia cosí. Ma nell'ora della disperazione, quando senti di non
farcela con le tue sole forze e ti volgi attorno, forse senza speranza, quanta
gioia e sollievo ti dà la mano di chi ti aiuta! Ebbene, se ti sembra bello e giusto avere trovato soccorso, perché tu pure non soccorri? E se non soffri, ma il dolore per te rappresenta una paurosa minaccia che ti paralizza e speri di non trovarlo, ti dico: « Vana è la tua speranza, prima o poi ti toccherà di patire ». Perciò non
sprecare le tue energie a sperare che non ti tocchi, ma impiegale a capire chi
soffre. Se poi puoi capire, senza averle provate, quanto gravose e dolorose
siano le vicissitudini dei piú, perché non ti adoperi per alleviare anche in
minima parte il peso di quelle? Se puoi capire che sia giusto e bello che ogni
uomo non viva solo per se stesso, ma concepisca e viva la sua vita nella
solidarietà con i propri simili, pronto a sostenere la parte piú umile nella
scala sociale, pronto a dare anche se non ha ricevuto, come facente parte di
una sola, grande famiglia, allora perché pensi solo a te stesso e aspiri a
posizioni di preminenza e prima di dare - se dai - fai il bilancio
di cosa hai avuto e frapponi mille condizioni al tuo dare, finanche esigere che
chi ha bisogno risponda al tuo ideale di bisognoso o addirittura ti sia
simpatico? Se puoi capire che sia giusto e bello che la società
non sia un meccanismo senza calore umano in cui le istituzioni hanno perduto di
vista il fine, lo scopo per cui sono state create - che é quello di
aiutare gli uomini -, perché nulla fai di ciò che tu puoi fare per
riscaldare i rapporti con i tuoi simili, anche semplicemente cercandoli,
intrattenendoti con loro senza un tuo scopo egoistico? Perché invece fuggi chi
non ti è in qualche modo utile e fai di tutto per liberarti della sua compagnia
come se fosse una calamità? Certo l'ideale sarebbe che fossi tu ad avere
l'iniziativa, tu ad operare una siffatta società! Ma già tanto sarebbe che tu
considerassi chi ti avvicina cosí come vorresti essere considerato. Questo è quello che il dolore ti indirizza a farti
comprendere, ad insegnarti; ma non già come un fatto di conoscenza, un
patrimonio della mente, bensí come un'intima trasformazione: un essere nuovo che in tal modo sente e perciò opera, ancorché
perdesse o perda il ricordo dell'esperienza avuta. Oh dolore, primo alimento della paura! Che cosa non
si fa per sottrarsi al tuo abbraccio! Sei tu che rendi sgradite certe
esperienze, tu che muovi gli esseri viventi per un verso anziché per l'altro.
Sarebbe forse temuta la fame se non fosse dolorosa? E chi intraprenderebbe
l'odissea che comporta lo sfamarsi se il digiuno fosse piacevole? Dunque tu,
dolore, condizioni le esperienze degli esseri viventi e al tempo stesso li
muovi da un venefico, mortale ristagno. Ebbene, se nelle cose che posso spiegare, tu,
dolore, mi appari utile, la stessa utilità deve esserci laddove non arrivo ad
afferrare la ragione della tua esistenza. In effetti tu sei il termine di una
primordiale dualità, senza la quale nulla vi sarebbe di ciò che è; tu, per la
tua stessa natura inviso e rifuggito da coloro che non esisterebbero e
cesserebbero di esistere se non ti avessero conosciuto e non continuassero a
conoscerti; tu, motore primo del divenire! Ma dunque, se allora il tuo esistere è vitale,
rifuggirti, ribellarsi alla tua opprimente presenza è un errore? Se quale
termine di una dualità che dà vita ed evoluzione, tu, dolore, sei
provvidenziale, perché mai ribellarsi al tuo straziante dominio? Giusto
parrebbe invece supinamente subirti. Sí, è vero: il dolore è una macerazione
insostituibile, ma la sua funzione è anche quella di far reagire, imprecare,
rompere le situazioni spiritualmente cristallizzate, indurre a ricercare, a
chiedersi: « Perché? », a diventare
strumenti di speranza e di gioia! L'esistenza del dolore poggia su precise ragioni,
quanto meno su quella di spingere gli uomini a serrarsi, a colláborare, a
lavorare uniti per cancellarlo dalla tetra. Realizzandosi ciò, l'importante
tappa raggiunta non sarebbe tanto l'assenza di dolore, quanto l'unione fraterna
degli esseri. Guai a chi passivamente subisse il dolore! Lo
svuoterebbe di gran parte del suo significato. Perciò, fratelli che soffrite,
imprecate, maledite, cercate, chiedetevi perché. Cosí facendo fate quello che
il dolore deve farvi fare! Ma non identificatevi con il vostro dolore. Voi
siete molto di piú. Non lasciate che il dolore occupi tutti voi stessi e
la vostra vita, divenga l'unico scopo di essa e vi paralizzi. Pensate che non
vi è mandato per mettervi alla prova o che so io, ma che voi stessi l'avete
richiamato, anche se al momento non ricordate e non capite perché. Forse, se pensate che voi stessi siete la ragione
del vostro soffrire, vi sarà piú facile reagire, ritrovare la serenità. Ma
soprattutto ricordate che al di fuori della dualità basilare di cui il dolore
.è un elemento, ciò che sembra crudeltà è supremo, reale Amore che attraverso
alle lezioni della vita cosí ci parla: « Figlio mio,
non ostinarti a cercare la felicità dove non l'ho posta. Essa non è nel
possesso dei beni materiali, nell'appagamento dei sensi, nell'esaltazione del
tuo io o nella condiscendenza che tu puoi avere da parte dei tuoi simili. Io
solo sono la vera beatitudine. Il mondo dei
fenomeni in cui ti muovi ed agisci non deve essere lo scopo della tua vita, ma
solo un mezzo che ti conduce a me, perché io solo sono la tua vera esistenza,
la tua vera essenza. Per quanto tu
sia debole, insufficiente e misero, per quanto abbietto tu sia giudicato o tu
sia, ricordati: io ti amo, perché io solo sono il vero amore. Cercami e non
sarai deluso. Trovami e non conoscerai mai piú il dolore ».
KEMPIS 6. La speranza Nella storia della civiltà vi sono alcune scoperte e
invenzioni la cui utilità è stata veramente fondamentale ed universale; ad
esempio il fuoco, la ruota, la leva e via e via. Cosí nell'odissea dell'homo sapiens - questo essere che
dalla prima forma di individualizzazione evolve fino a dimenticare la propria
individualità per accendersi del piú puro altruismo - c'è qualcosa di
altrettanto fondamentale e universale. Certo non si tratta di un bene
materiale, non si tratta di una dote naturale di cui piú o meno tutti siano
provvisti. Si tratta di qualcosa di inafferrabile, non di rado infondato e
assurdo, ma che dà, a chi lo possiede, talvolta, piú di un aiuto materiale, di
un bene prezioso. Parlo della facoltà di sperare: della speranza. Oh, speranza, cara amica dell'uomo, quanto gli dai
in cambio di nulla, perché non costa sperare! Tu addolcisci ogni angoscia, ogni
dolore; tu aiuti a sopportare, ad accettare; tu apri uno spiraglio di luce a
chi è immerso nell'oscurità anche piú greve. Ed è per quello spiraglio che non
è sopraffatto, che non soccombe. Anche nelle situazioni disperate - cioè
senza speranza - tu non ti rassegni e in altra forma, con altra promessa,
soccorri l'infelice. Chi è che aiuta a tener duro, a resistere nella tempesta
delle avversità? La speranza che tutto finisca. Chi è che oppone resistenza
alla malattia e ne impedisce il dilagare piú di ogni medicamento? La speranza
di guarire. Chi fa sopportare duri sacrifici, talvolta con forza sovrumana? La
speranza di riuscire, di raggiungere la mèta. Se non vi fosse la speranza di
raggiungere l'oggetto del proprio volere, la volontà mancherebbe e lo sforzo,
la fatica, sarebbero decuplicati e, quel che piú
importa,
infruttuosi. Ma ditemi: chi intraprenderebbe un'impresa se non
sperasse di riuscire nel suo intento? Per rendersi conto di quanta forza,
coraggio e conforto rechi la speranza, basta pensare al suo contrario: la
disperazione. E quanto soffrano coloro a cui la speranza non arride piú, lo si
capisce chiedendosi: chi può fare a meno di sperare? Chi è tanto forte da
accettare una condanna della vita, senza illudersi che qualcosa, all'ultimo
momento, lo salvi? Chi rinuncerebbe a una promessa di aiuto nel bisogno? Fra coloro che la speranza non soccorre vi sono i
pessimisti. Poveretti! Sono da compiangere. Si, è vero, possono aver ragione,
ragione a non confidare; ma possono anche aver torto e allora perché rinunziare
in partenza a quell'afflato che la speranza sa donare? Per non rischiare la
delusione? Bene, io vi dico invece: rischiate. Quel teorico cinquanta per cento
di delusione che potreste avere è piú conveniente di un cento per cento senza
speranza. E poi, perché non sperare? Perché darsi per vinti,
perché mettere limiti alla potenza di Dio? Fra i casi giudicati senza
speranza, ce n'è sempre almeno uno che, invece, si è risolto diversamente. E
perché il vostro non potrebbe essere il secondo? Però sappiate che tutti i casi
che si sono risolti felicemente, nessuno escluso, erano vissuti nella speranza. Ma se certe speranze vengono deluse e si dimostrano
poi, nella realtà, vane, allora che cos'è la speranza? Assegnamento o chimera,
conforto o illusione? Miraggio o promessa? Prospettiva o sogno? La speranza è
tutto questo: è sogno, miraggio, illusione, chimera quando non si realizza, ma
anche quando è così, la delusione non cancella ciò che la speranza, prima, ha
donato. Credetemi, il Creatore dando all'uomo la possibilità
di sperare gli ha fatto un dono meraviglioso. Saggiamente il cattolicesimo fa
della speranza una virtú teologale, cioè una di quelle virtú infuse da Dio
nell'uomo per la sua beatitudine soprannaturale. Sapete che cosa vi dico? Se la Verità del Tutto, se
la conoscenza del vero significato di tutto quanto accade, se la Realtà
dell'esistente non fosse essa stessa di
per sé speranza, vi direi che è piú importante infondere speranza che far
conoscere la Verità; e se dovessi scegliere fra l'essere Maestro di qualcuno o,
invece, rappresentare per lui la speranza, vi assicuro che con immensa gioia
sceglierei d'essere la sua speranza, perché non ci può essere niente di piú
bello e gratificante che essere la speme di una creatura. Ma, badate bene, io non vi
parlo di quella speranza dell'abulico, del rassegnato; io vi parlo di quella
speranza, anche irrazionale, ma che dà fiducia, stimola ad agire, a non darsi
per vinti. Non vi parlo di quella
speranza che è evasione dalla realtà. Vi parlo di quella speranza che, pur
nella piena consapevolezza della situazione presente, non abbandona. Anzi, piú
sembra assurda e piú dà accanimento a credere in un domani migliore,
raggiungibile
attraverso l'opera nell'oggi. Questo è il punto! Non la speranza che, inerme, vi fa
attendere che la soluzione piova dal cielo, ma quella che la combattere perché
dà la fiducia che la lotta, in qualche modo, possa essere vinta. E quand'anche
ciò non fosse, la vera speranza non si spegne, ma dà la fiducia che niente è
mai veramente perduto e che alla privazione segue, per una legge naturale e divina,
una dotazione piú grande. La vera speranza rende
fidenti che chi si ama veramente, per una legge naturale e divina, non viene
mai definitivamente diviso e che, a una momentanea separazione, segue un'unione
piú bella, piú viva, piú consapevole, piú sentita, piú desiderata e mai più interrotta. Se avete una minima fiducia in me - e lo
credo, perché altrimenti non stareste ad ascoltarmi, nemmeno per curiosità
allora, vi prego, credetemi. lo vi dico che tutto accade per il vostro vero
bene e che nel mondo invisibile che sperate esista non avete degli esseri
ostili che fanno di tutto per farvi soffrire, ma creature che vi amano e che
fanno di tutto per farvi crescere, maturare, rendere piú coscienti, piú liberi
e felici. Si, fratelli, se ancora non l'avete capito, il mio non è un invito alla disperazione: è un invito a sperare! « In che cosa? » sento che vi chiedete. E vi vedo girare attorno lo sguardo, mentre un'espressione di sgomento si rivela sul vostro volto. Sí, certo, le stragi fini a se stesse mietono vittime innocenti, stroncano la vita di inermi passanti. Ma io vi dico: sperate! I fatti obbrobriosi sono subito dimenticati e finiscono col passare quasi inosservati nell'indifferenza generale. Ma io vi dico: sperate! Pare che l'onestà sia un antico ricordo; un'usanza
di tempi ormai superati che non ha piú senso, ma io vi dico: sperate! Nessuno sembra piú disposto a lavorare, a faticare,
a sacrificarsi, a fare il proprio dovere che costa, ma io vi dico: sperate! Nessuno piú vorrebbe rivestire il ruolo di essere
anonimo che svolge i servizi piú umili, in silenzio, ma io vi dico: sperate! Ognuno pretende, con prepotenza esige e non vuole
essere secondo a nessuno, ma io vi dico: sperate! I buoni sono irrisi, sembra che siano premiati i
peggiori e che i disonesti la facciano franca, ma io vi dico: sperate! « Sperare in che cosa? », voi vi domandate. Non'
c'è
nessuno in cui sperare; nessuno che sembri lavorare, industriarsi, agire non
per se stesso; non c'è qualcuno che possa essere levato a simbolo, additato ad
esempio. Allora vi dico: c'è una schiera di creature anonime,
silenziose, che non fanno cronaca, che non conoscono la lusinga del successo,
la tentazione del potere, la sete di possedere; che si accontentano di quello
che hanno, non perché non potrebbero avere altro, ma perché hanno capito, che
sono pronte a donare; che non si sentono umiliate a rivestire ruoli umili, a
mandare innanzi altri, solo che ne vedano il valore; che sono pronte a
sacrificarsi, solo che si convincano che ne vale la pena. Son loro che mi
autorizzano a dirvi: sperate! Sperate in un domani migliore, nell'uomo
migliore, nella virtú trionfante, nel buon senso che prevale, nella coscienza
che si desta, nella volontà di creare un mondo piú bello, nella speranza che
ritorna: perché sperare è carezzare, è concepire il bene, è cullare, è
infondere fiducia, è nutrire, è pascere, è rinverdire, è dare forza. Sperare è
creare! Che la speranza sia con voi!
KEMPIS 7. Non giudicare DALI - Se voi fate attenzione, potete rendervi
conto che certi principi fondamentali, che fanno parte della morale e delle
religioni piú evolute, fanno parte anche della legislazione di tutte le
civiltà. Invero certi principi, come « non uccidere », « non rubare »,
eccetera, hanno una ragion d'essere che si fonda tanto su motivi etico‑religiosi
quanto su l'indispensabile reciproco rispetto che deve essere alla base dei
rapporti fra i membri delle società che vogliono sopravvivere. Infatti, come un organismo pluricellulare vive solo
se le cellule che lo costituiscono vivono in stretta armonia e cooperazione - cioè non in antagonistica lotta
-, allo stesso modo una nazione, una
civiltà, si costituiscono tali ed evitano la disgregazione solo se fra i
cittadini esiste almeno una civile convivenza basata sul reciproco rispetto. Questo deve farci riflettere e comprendere che i
fondamentali principi morali non sono astratte imposizioni volte solo a creare
problemi al singolo uomo, a misurare la sua capacità di resistenza e di
sopportazione, per poi meritarsi o no il paradiso; ma poggiano su una logica
che anche un ateo non può che ritenere giusta e condividere. Questo discorso, però, non vuol dare alla morale un
valore assoluto. Preciseremo poi in che termini è valida l'etica. Certo, non è
assoluta: è tanto piú universale quanto piú si rivolge a individui di analoga
evoluzione. In senso personale, la morale è tanto piú valida quanto piú
rafforza i doveri verso gli altri quanto píú fa comprendere che il giudizio nei
loro confronti - specie quel giudizio che poi preclude ogni slancio di
aiuto e di comprensione - non ha ragione di sussistere, anche perché non
si fonda sulla completa conoscenza dell'altrui verità. Ciò che sappiamo degli altri è solo quello che
appare all'esterno, mentre la realtà di ognuno è quella che scaturisce dalle
intime intenzioni. Una stessa azione fatta da due uomini può avere intenzioni
diametralmente opposte. Ma non è tutto: chi giudica il comportamento
ispirato al materialismo, per esempio, come riprovevole, non sa
che, molto spesso, tale comportamento è solo la reazione ad una precedente vita
forzatamente e sterilmente impostata e improntata al misticismo. Chi, per
timore di un castigo nell'aldilà, tiene una condotta irreprensibile dal punto
di vista religioso, ma solo nella forma e non nella sostanza, cioè senza
uno slancio di apertura verso gli altri , certamente rinasce, per reazione,
ateo. Ma come ateo sarà, verso gli altri, piú generoso e migliore di quanto lo
fu come religioso. Viceversa, chi ha tenuta una vita assolutamente sensuale
sarà, nella successiva, per reazione, tutto volto al misticismo e desideroso di
migliorarsi. Un tale mistico, dall'esterno e nell'ignoranza di ciò che fu, può
essere giudicato un essere avanti nell'evoluzione, mentre il suo slancio
religioso è solo l'altro estremo di quella dualità, di quell'alternarsi dei
contrari a cui sono soggetti e soggiacciono coloro che ancora non hanno trovato
l'intimo equilibrio. Quando non c'è apertura verso gli altri, quando non
c'è altruistica disponibilità, si può spargersi la cenere sul capo quanto si
vuole, ma si è solo lupi in vesti di agnelli. Di contro, un ateo che trovi
nelle dottrine materialistiche l'incentivo a difendere e a proteggere i deboli
e gli sfruttati, ha una vita, piú che morale, altamente spirituale. L'alternarsi da un estremo all'altro della dualità fa parte della legge di azione e di reazione; un aspetto della quale è la legge di causa e di effetto. Azione e reazione che ha lo scopo di ricondurre ad un equilibrio in qualche modo alterato, ma soprattutto ha lo scopo di far raggiungere la coscienza del proprio posto e della propria funzione, nei rapporti coi propri simili.
In effetti tutto
è perfetto e tutto conduce alla realizzazione di una sí tale coscienza. FRANCOIS - A mano a mano che si riesce a comprendere che tutto è in Dio; che il mondo
fisico non è una terra di frontiera a sé stante, dove l'uomo deve dimostrarsi
degno di essere accolto nel mondo divino; si acquista la convinzione che tutto
è perfetto e, nello stesso tempo, perfettibile. In altre parole, tale perfezione non va intesa fine
a se stessa, ché, altrimenti, non lo sarebbe; è una perfezione finalistica che
ha uno scopo ed è proprio tenendo presente lo scopo, l'ordine, che la
disposizione di ciò che è diventa perfetta. Per esempio: gli istinti che
dominano tutti gli animali rendono possibile la manifestazione dei primi sentire; perciò fanno parte della
perfezione del Tutto; tuttavia non hanno valore assoluto, perché è proprio dal
sottrarsi all'imperio di quegli istinti che l'uomo realizza in sé sentire piú ampi. Allo stesso modo gli errori degli uomini, le
crudeltà, il dolore .e tutto ciò che l'uomo addebita a Dio - se non altro
per il fatto che Dio non ne impedisce l'accadere- accade proprio per far
trovare a ciascuno il senso della responsabilità, la coscienza delle proprie
azioni; per far comprendere ad ognuno che non si sfugge ai propri doveri, che
nessuno può vivere solo per se stesso. KEMPIS - Affermare che tutto è perfetto - al di là del valore relativo che ogni evento ed esperienza hanno nei riguardi
di ciascuno - può sembrare negare ogni valore alla morale. Se infatti tutto è perfetto, in ultima analisi, che
senso ha rifuggire il male e tendere al bene? Perché il male, in fondo, fa
parte della perfezione del Tutto. Qui occorre stare bene attenti a non confondere il
piano della relatività individuale con l'Assoluto. Sul piano relativo non c'è
dubbio che esistono « bene » e « male ». Si tratterà di mettersi d'accordo su
quali sono le cose da considerare tali; anche da ciò, appunto, la relatività dei concetti. Questo sempre
sul piano della relatività.
Ma sul piano assoluto (qui mi dispiace ma sono
costretto a fare un discorso filosofico) non possono esistere bene e male
assoluti, perché, essendo termini di una contrapposizione, vicendevolmente
annullerebbero il reciproco carattere assoluto. Infatti, sul piano assoluto conserva la propria
assolutezza solo ciò che non ha il suo contrario. Per esempio: l'Essere
Assoluto, la Coscienza assoluta, l'Esistenza assoluta. I contrari - non
essere assoluto, incoscienza assoluta, inesistenza assoluta - non possono
esistere, come ho spiegato altre volte. Richiamo solo la vostra attenzione sul fatto che
l'essere relativo, la coscienza relativa, l'esistenza relativa esistono; ma non
sono contrapposti all'Assoluto, tant'è vero che sono nel Suo seno. Ora, siccome
il sentirsi d'essere di ognuno, passando in
successione a stati di coscienza sempre piú ampi, riconoscerà nella Coscienza
assoluta la propria vera identità, essendo questa Coscienza assoluta - o
Dio - la Realtà finale di ognuno - quella vera -, essa può
essere considerata il sommo bene di ciascuno. Fatta questa considerazione, si sarebbe tentati di
affermare che una morale generale potrebbe scaturire dal principio che è bene
tutto ciò che volge direttamente all'unione divina, e perciò alla comunione
degli esseri, ed è male ciò che divide. Ma se, come noi affermiamo, comunque
l'uomo indirizzi la propria vita. inevitabilmente il fine di unione è
raggiunto, altrimenti se anche un solo essere fosse staccato da Dio, Dio
sarebbe incompleto, allora anche questo male è relativo e limitato. Tuttavia,
ripeto, questa affermazione non significa altrettanto implicitamente che sul
piano individuale il male non abbia peso. Un termine di comprensione si può trovare nella evoluzione biologica. Infatti, proprio come l'evoluzione biologica procede per tentativi e talvolta per vie indirette, correggendosi naturalmente nello scontrarsi con la realtà ambientale, cosí il cammino spirituale dell'uomo può segnare deviazioni e percorsi indiretti Ora, certe deviazioni, certe esperienze in senso immediatamente opposto al fine spirituale per cui ciascuno vive, possono considerarsi male relativo, anche se solo per questa collocazione apparentemente opposto alla mèta finale. Solo in questo senso, cioè in un senso del tutto particolare - oltre che relativo - e solo in questa forma esiste il male. In ogni caso, il male, l'errore, non sono mai fine a se stessi. In ultima analisi si risolvono e significano capire qualcosa attraverso al suo contrario, il che è una via dolorosa e da evitare. Diversamente da cosí, esisterebbe Dio e il male, ma si tratterebbe di un Dio relativo. Del resto, non siamo certo noi i primi a negare il
carattere assoluto del male. Già nella filosofia greca - vedasi
principalmente Plotino - è contestata la concezione del male come
principio assoluto. Perfino nel cristianesimo - che con il suo Lucifero
sembra assai vicino a posizioni manicheistiche di una realtà duale vista come
una terra di scontro fra bene e male - perfino nel cristianesimo, dicevo,
Sant'Agostino nega la sostanzialità del male. Cosí pure nel pensiero moderno,
specialmente con Leibniz e Hegel, il male è concepito come un momento talvolta
necessario al realizzarsi del bene. Ora, molti incorrono però nell'errore di
credere che un valore relativo sia un « non valore ». Badate bene, incorrere in
questo errore è travisare completamente la questione. CLAUDIO - La relatività di ciò che è male e
quindi, per il principio « contraria acta », la relatività di ciò che è bene,
sul piano personale insegna soprattutto a vivere secondo la propria natura, a
comprendere gli altri e a usare l'auto‑controllo allorché le proprie
azioni rechino danno ai propri simili. Queste conclusioni scaturiscono dalla
considerazione che il modo di vivere di chi avesse raggiunto il vertice della
moralità sarebbe prima di tutto una questione di intimo essere, di natura e poi
di condotta e di azioni ispirate da un sentire in quei termini, e non imposte
dalla volontà soffocatrice di un diverso sentire. Inoltre una tale natura, un simile sentire, si
rivela per gradi e per ognuno attraverso ad esperienze, forse analoghe, ma
diverse. Quindi, anche dando una definizione píú generale possibile di ciò che
è bene e della morale - ossia identificando il bene nella mèta a cui
conduce il cammino dello spirito, e definendo comportamenti morali quelli
ispirati da un interesse che non riguarda la propria persona -, è chiaro
che ciascuno, circa la moralità di comportamenti, può solo dire di se stesso,
dato che la morale individuale scaturisce dal personale sviluppo del sentire, e quindi ognuno - in
definitiva - ha una morale valida solo per se stesso. KEMPIS - Infatti un uomo in cui ancora non si
è affermata la coscienza individuale vive unicamente per se stesso, per il
proprio predominio sugli altri, per il proprio piacere; insomma nei confronti
dei propri simili non ha una condotta certo ispirata ad aiutarli. Sarebbe
assurdo pretendere da lui un comportamento che comprendesse uno slancio di
altruismo. Mentre sarebbe già indice di un primo affermarsi della coscienza
un'azione da lui fatta al di fuori della ricerca del proprio piacere e dei
propri interessi.
Le valutazioni di un uomo simile, quindi, non
potrebbero prescindere dal grado di evoluzione in cui egli si trovasse, perché
un raffronto di ciò che quell'uomo è, con il vertice morale rappresentato
dall'abnegazione di se stessi, non avrebbe senso. Per dirla in termini etico-religiosi,
non potrebbe essere posto a suo carico il suo mancare una occasione di
manifestare altruismo. L impossibile perciò giudicare se un uomo è
volontariamente volto al suo bene morale o meno, non conoscendosi il suo grado
di evoluzione. Né si può giudicarlo dalle azioni, che possono nascondere
intenzioni diametralmente opposte a quelle che appaiono. Si può solo giudicarlo
raffrontando le sue azioni con la morale comune, con la legge sociale, ma ciò
significa ben poco, se si escludono le necessarie implicazioni sociali atte a
contenere le sopraffazioni dei prepotenti. CLAUDIO - La Verità dell'intimo si rivela
nell'intenzione ed è una rivelazione che, anche quando ciascuno voglia
conoscere la propria, rimane riservata, personale. Gli altri non potranno mai
conoscerla con certezza. Tuttavia, se il vero
essere
di ogni
uomo sfugge al giudizio dei suoi simili, non cosí è, né deve es. serlo
necessariamente per ciascuno il proprio. Diversamente ciascuno sarebbe
autorizzato a comportarsi nella completa ignoranza di se stesso e secondo il
suo capriccio; mentre ognuno deve conoscersi, sapere il vero scopo che lo muove
ad agire. La conoscenza del proprio intimo essere può
sorprendere, può diventare la condanna di chi ha tenuto una vita retta e
l'assoluzione di chi, disinvoltamente, ha infranto regole della morale comune.
Il motivo per cui ognuno deve conoscere se stesso, risiede nel fatto che. la
manifestazione di un sentire sempre piú ampio di quello
in atto, ha luogo quando le limitazioni che racchiudono quel sentire cadono, e cadono a seguito
di intime riflessioni, di una attenta analisi, appunto, nella quale si
comprende che la propria responsabilità, la propria esistenza, deve essere piú
sentita, deve essere piú volta agli altri. Quindi un duplice rendersi consapevoli
e dei propri limiti e della possibilità di essere diversi. KEMPIS - La manifestazione del mondo del sentire cosmico si rivela, nel mondo umano,
progressivamente, come sentire
altruistico, e segue una scala in cui ad un estremo c'è un uomo che vive solo per se
stesso, per la propria affermazione, per il suo predominio sugli altri, che
vorrebbe tutti asserviti a sé; all'altro estremo c'è il prototipo dell'uomo che
sente l'altruismo fino alla abnegazione di se stesso. Fra questi due estremi si
svolge l'evoluzione spirituale dell'uomo, attraverso ad una quantità di punti
di passaggio che seguono un progressivo smorzarsi dell'egoismo per un graduale
rivelarsi del sentire altruistico. Infatti fare qualcosa che non sia volta al
proprio piacere, a una qualche utilità per se stessi, per esempio fare il cosí
detto proprio dovere rivela già un egoismo meno totale che l'agire unicamente
per il proprio piacere, per il predominio di sé, con l'intenzione di
schiacciare e nuocere a tutti in modo che nessuno sia superiore o eguale. Non solo, ma anche nel fare il proprio dovere, vi
sono differenziazioni nelle ragioni per cui si è portati a farlo che si
rivelano essere gradi diversi di egoismo, anche in comportamenti apparentemente
eguali. Si può fare il proprio dovere per paura delle conseguenze che possono
ricadere sui trasgressori; oppure per guadagnarsi il paradiso o la stima
altrui, ed è già qualcosa. Ma non è tanto quanto fare il proprio dovere per
amore ad esso e basta! Analoga differenziazione si può fare nel rispetto
verso gli altri. Il comportamento rispettoso può essere motivato dalla paura,
dal proprio desiderio di ottenere favori e vantaggi, ma tuttavia rappresenta un
egoismo meno brutale di quello che anima un uomo che vive solo per il proprio
piacere, piú gretto, piú greve, piú sensuale. D'altra parte invece può esservi - nel
rispetto verso il superiore - una reale deferenza, un dimenticare se
stessi per qualcuno. E cosí, in un progressivo destarsi, accendersi, prima di
giungere al radioso sentire altruistico che ispira l'olocausto di sé per il bene altrui, si passa
per il desiderio di non nuocere, di non pesare sugli altri, di essere utili e
via e via! CLAUDIO - Da questa prospettiva, il giudizio
circa la moralità dei comportamenti si modifica. P chiaro infatti da tale
prospettiva che allorquando si dimentica se stessi, protesi verso il
raggiungimento di un ideale, si è sempre nel giusto, anche se l'ideale è errato. Di contro, se si trascorre l'intera vita in
preghiera con l'intento egoistico di salvare la propria anima, si è sempre in
errore. FRATELLO ORIENTALE - Vedi, fratello caro,
quando vivi per la tua famiglia e aiuti i tuoi familiari, ma non per evitare
difficoltà a te stesso evitandole a loro, bensí per il loro bene anche a costo
del tuo sacrificio, tu sei piú nel giusto di chi conduce una vita caritatevole
con l'intento di guadagnarsi il Paradiso. Ma bada! Se constatando che sei nel
giusto tu ne godi, sappi da ciò che non lo sei. Quando ciò che fai è dettato
dal tuo sentire, ti è inavvertito,
non ti pesa anche se ti è, in effetti, di grande fatica. Anzi, tu desideri
farlo, è per te del tutto naturale il farlo, ne soffriresti se te lo
impedissero, perché quel sentire è
parte del tuo intimo e piú vero essere. DALI - Il termine sentire da noi usato come sostantivo, sta a designare una natura
interiore dell'uomo poco conosciuta. Ognuno sa che cosa sono le azioni, le sensazioni, le
emozioni, i desideri, i pensieri, i sentimenti nel senso comunemente inteso.
Tutti questi, chiamiamoli moti dell'anima, possono essere gradevoli o
sgradevoli, nobili o grossolani, giusti o errati, secondo il giudizio relativo
dell'uomo. Perfino il sentimento - che pure secondo taluni costituisce la
vita morale - non sfugge a questa classificazione. Mentre quello che noi
intendiamo per sentire non può essere
errato, non può essere spiacevole, sfugge, alla legge dei contrari perché non
appartiene al mondo della percezione, anche se il mondo della percezione è
quello che lo fa nascere. Sentire e coscienza, nel nostro linguaggio, si identificano. Ma la coscienza
individuale può essere errata, secondo taluni; la coscienza che noi intendiamo,
no! La coscienza, come il sentire, può
essere insufficiente, mai errata. L'errore nasce proprio dalla carenza di sentire, da una limitazione della
coscienza. L'egoismo, considerato dall'uomo un sentimento, non è un sentire: nasce dalla mancanza di sentire, come conseguenza di una
coscienza embrionale. A mano a mano che la coscienza si costituisce, l'egoismo
si riduce, il sentire si amplia,
perché una coscienza costituita è altruismo spinto all'abnegazione piú totale
di se stessi. KEMPIS - Ma la coscienza-sentire non è solo altruismo. L'altruismo è una
conseguenza di uno stato d'essere di viva partecipazione al Tutto, al di là di
ogni limitazione personale, di ogni visione di parte. t superare il dolore alla
sua stessa radice, la propria incompletezza, ed esistere nella beatitudine che
nasce dall'avere raggiunto uno stato d'essere che abbraccia realtà sempre piú
universali. CLAUDIO - La realtà del tuo essere, la Verità di te stesso, sta
dietro a ciò che fai, ciò che dici, ciò che pensi. E può essere del tutto
difforme dalle tue azioni, parole, desideri, pensieri. Essa giace in te ed
attende di essere liberata. FRATELLO ORIENTALE - Tu che sei volto ad
accumulare beni materiali e di essi ne fai il tuo tesoro, sappi che non è
quella la tua vera ricchezza. KEMPIS - Tu che hai raggiunto posizioni di
preminenza, di potere, di notorietà, sappi che non in quello sta la tua vera
ricchezza. DALI - Tu che accudisci alla bellezza del tuo
corpo come ad un bene prezioso che ti appartenga, sappi che non è quella la tua
vera ricchezza. CLAUDIO - Tu che apprezzi il sapere,
l'abilità, la cultura e la perizia, sappi che non sono ancora quelli la tua
vera ricchezza. DALI - La tua vera ricchezza è un bene che ti
appartiene durevolmente, come e piú che l'umidità all'acqua, il calore al
fuoco, tu a te stesso. Essa giace nel profondo del tuo essere, e si chiama sentire. |