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OSANNA
L'uomo
- Fonit (1971)
Vorrei
spendere anch'io qualche parola sugli Osanna, che molti hanno
indicato come l'autentica rivelazione dell'anno nel campo della
musica italiana. Cinque ragazzi italiani, con esperienze ricche
alle spalle per qualcuno (il flautista Elio D'Anna suonava con gli
Showmen), rivelatisi al festival di Viareggio, cinque solisti con
li idee chiare, soprattutto con un discorso unitario da svolgere
in maniera personale, se si eccettua l'uso del flauto che nella
sua dimensione "drammatica". cioè inquietante,
singhiozzata, non può non ricordare il maestro di tutti i
flautisti degli ultimi due anni, Ian Anderson. Cinque ragazzi che
hanno voluto, un po' per sapore scenico e coreografico, un po' per
inserirsi in quel clima di "totalità" che l'arte oggi
impone, cercare un'ampiezza teatrale, cioè visiva oltre che
sonora nelle loro esibizioni, escogitando una specie di mascherata
in antichi costumi napoletani.
Dal
punto di vista musicale, l' "Uomo", primo LP degli
Osanna, mostra le idee buone degli autori (tutti e cinque gli
Osanna) e degli esecutori: piace soprattutto il flauto e la
chitarra acustica, mentre anche l'elettrica è usata con
parsimonia e gusto, e piacciono i pochi spunti jazzistici del sax.
Si nota una certa frammentarietà non superata, e stacchi e
passaggi mediocri. Per i testi, brevi ma significativi, il tema
fondamentale è l'uomo, nel suo viaggio terreno combattuto fra
l'odio e l'amore. Angoscia esistenziale (E evado verso una meta /
che è più distante di me / E' sempre un passo più avanti / la
vedo e so che non c'è) e intuizione della morte ("Non sei
vissuto mai", "Mirror train"), si alternano alla
coscienza dei problemi sociali ("In un vecchio cieco"),
e alla denuncia della pesante condizione dell'uomo oggi (Si vive,
si muore nel fango e l'orrore / si cercano invano momenti
d'amore). Ma in ogni brano oltre all'angoscia si avverte il
bisogno di riscatto e di speranza, che porta, infine, alla
scoperta di una certezza, dell'unica forza dell'uomo, che "da
secoli si chiama amore".
Fondamentale
sarà vedere gli Osanna al loro secondo appuntamento. Questo primo
album, certo il migliore italiano dell'anno dopo l' "Isola
non trovata" di Guccini e "Collage" delle Orme, ha
tutto sommato un valore sperimentale.
Enzo Caffarelli
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ROVESCIO
DELLA MEDAGLIA La
Bibbia - RCA (1971) Ancora
una volta qualcosa di "nostro" merita posto in questa
rubrica. Il Rovescio della Medaglia è un gruppo romano di quattro
elementi, il chitarrista Enzo Vita, il bassista Stefano Urso, il
batterista Gino Campori ed il cantante Pino Bannarini. L'album
è stato registrato negli studi della RCA direttamente dal vivo,
cioè con due microfoni davanti al gruppo, senza nessuna
operazione di filtraggio e di sovrapposizione di nastri. Solamente
gli effetti elettronici che aprono la suite e compaiono poi di
tanto in tanto sono preregistrati, e vengono utilizzati dal
quartetto anche negli spettacoli. Il
Rovescio della Medaglia mi sembra diverso da un po' tutti gli
altri gruppi italiani, sia quelli da tempo affermati, che quelli
usciti di prepotenza nell'ultimo anno. Le loro intenzioni sono
quelle di creare un tipo di musica tutta propria, una specie di
rock sinfonico, e questo album, concepito da parecchi mesi, e
finalmente inciso dopo il reperimento del fatidico
"contratto", è il primo passo verso una simile
realizzazione, pur restando in alcune parti vicino ad un hard rock
di stampo tradizionale. L'album
ha pure il pregio di rappresentare un concetto unico, una specie
di biblica rievocazione suddivisa in sei parti: "Il
nulla", "La creazione", "L'ammonimento",
"Sodoma e Gomorra", "Il giudizio" e "Il
diluvio". Oltre ai testi, anche gli strumenti cercano a turno
di significare i personaggi e gli ambienti della Bibbia. Enzo
è un solista misurato, molto espressivo, mentre la sezione
ritmica, specie per merito di Stefano , è senza dubbio una delle
migliori fra i gruppi italiani. Infine anche Pino possiede una
bellissima voce, elemento questo che manca a buona parte delle
nuove formazioni nostrane.
Enzo Caffarelli
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STORMY
SIX
L'unità
- First (1971)
Fra
i complessi italiani della "nuova generazione" penso si
possano includere i milanesi Stormy Six, anche se per loro il
discorso è piuttosto diverso.
"L'unità"
è il secondo album del quartetto, dopo un primo risalente al 1968
e rimasto piuttosto in ombra; esce quasi un anno dopo la
partecipazione degli Stormy Six al Festival di Viareggio del '71.
Il gruppo ha dedicato questo disco alla storia e alla cronaca
italiana: la prima è ambientata negli anni a cavallo fra il 1860
ed il 1863, e intende rivedere l'interpretazione eroica del
Risorgimento. Secondo la visione degli Stormy Six, in particolare
di Franco Fabbri che ha guidato l'operazione storica, visione
discutibilissima, Garibaldi non fu un liberatore, ma fece soltanto
mutare padrone al popolo meridionale; il brigantaggio non fu una
forma di delinquenza, ma un modo di ribellarsi all'autorità
nuova, più esigente di quella borbonica; la repressione del
brigantaggio fu una delle pagine più nere della nostra storia
patria; il popolo non accettava la nuova realtà sociale e lottava
per cambiarla subendo sanguinose repressioni.
Sono
quattro storie, due rigorosamente vere, due liberamente inventate
ma vicine allo spirito dell'epoca: un quadro preciso di una storia
non colta sui libri scolastici, ma vissuta con gli occhi di quello
che era il popolo: le musiche sono piuttosto semplici, senza
nessun effetto, ma con un legame preciso con la più semplice e
nuda tradizione italiana.
La
seconda facciata è viceversa ambientata ai giorni nostri, con una
musica più viva e ispirata in maniera pedissequa ai coretti di
Crosby/Stills & Nash, con argomento principale la presa di
coscienza politica degli studenti, coscienza che conduce ad un
impegno rischioso e difficile. La "Manifestazione" canta
infatti la morte di un ragazzo durante un corteo.
L'ultimo
brano "Fratello", dedicato all'ex cantante del gruppo
Claudio Rocchi, vuole colpire quanti credono di risolvere i
problemi del nostro mondo con la filosofia hippie, proponendo un
impegno individuale di amore e di pace, dimenticando certe
componenti sociali ed umane che modellano e influenzano il
comportamento individuale.
Un
album piacevolissimo al di là di quelle che sono le
interpretazioni storiche e le imitazioni stilistiche: e
soprattutto una strada originale nel cammino della musica italiana
per l'impegno e per la fresca vena folklorica.
Da
citare alcuni componenti del complesso Il Pacco che hanno aiutato
nella registrazione i quattro Stormy Six, Franco Fabbri, Massimo
Villa, Luca Piscicelli e Antonio Zanuso.
Enzo Caffarelli
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SEMIRAMIS
Dedicato
a Frazz - Trident (1973)
A
dispetto dell'unica esibizione dal vivo cui mi è stato possibile
assistere, i Semiramis si presentano con un disco, che dovrebbe
facilmente imporli all'attenzione del nostro pubblico.
Il
quintetto, guidato dai fratelli Michele (chitarre e canto) e
Maurizio Zarrillo (tastiere) si porta dietro ancora il retaggio tipico dei gruppi italiani, specie il difficile inserimento della
voce e dei testi nelle musiche (ma perché cantano ancora tutti
come Nico Di Palo?), uniti alla fatale immaturità degli esordi.
Ma
la musica dei Semiramis è vivace e per certi versi originale: i
testi sono buoni, le carenze di ritmica e di fusione quasi
assenti, e semmai mascherate dalla ricchezza di corde e tastiere,
legate e sovrapposte con molto gusto e padronanza di mezzi. Una
ricchezza espressiva, che a parte il sint e l'Eminent facente veci
del mellotron, è sottolineata dal vibrafono, affidato al
batterista Paolo Faenza, ed alle campane, la famigerate "tubular
bells" del bassista Marcello Reddavide, e dalla presenza di
un altro ragazzo, Giampiero Artegiani, che affiancano ora l'uno
ora l'altro leader alla chitarra acustica, alle dodici corde o al
sint.
Le
chitarre amplificate, tranne qualche scoria di hard rock, non sono
fuori posto nel clima generale delle composizioni e della
esecuzioni, piuttosto eterogenee, I brani migliori: "La
bottega del rigattiere", "Uno zoo di vetro" (con un
esplicito richiamo a Mike Oldfield), e "Per una strada
affollata", dai delicati intermezzi acustici (anche i Genesis
hanno insegnato parecchio).
Bello
il disegno interno della copertina di Gordon Faggetter, l'ex
batterista di Patty Pravo, oggi designer di successo: Gordon la sa
lunga sulla pittura metafisica e sul surrealismo, ed il suo quadro
ricorda "In the wake of Poseidon" dei King Crimson.
Enzo Caffarelli
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BATTIATO
Sulle
corde di Aries - Bla-bla (1973)
Terzo
album di Franco Battiato, e di sicuro il più interessante e
maturo. Se con i precedenti, appigliandosi ad elementi ecologici e
scientifici in genere, Franco aveva soprattutto curato propositi
di distruggere, demistificare, con la muova opera - ed era ora -,
la sua preoccupazione è quella di creare: creare una musica
libera, "totale" per usare un termine caro a certi
osservatori, che trova nell'elettronica la sua ragione d'essere.
Musica
biologica: Battiato non rinuncia a questa definizione, anche se si
è staccato dalle tematiche precise di "Fetus" e di
"Pollution". E stavolta la giustifica come "musica
viva, tonificante, da respirare piuttosto che da digerire, specie
di flusso capace di dare inedite, più vigorose pulsazioni
all'organismo".
Rispetto
alle esibizioni dal vivo di quest'anno, direi che Battiato è più
composto e maturo, e la sua ricerca più costruttiva, anche
perché la sala di registrazione offre diverse garanzie da un
qualsiasi palcoscenico. In ogni modo il repertorio è simile;
specie la lunga "Sequenze e frequenze", che occupa la
prima facciata, era stata più volte sperimentata in concerto.
"Sulle
corde di Aries" (l'ariete è il primo segno dello zodiaco,
quello che introduce la primavera) vuol essere un rito di
purificazione e di liberazione, tramite il recupero del caprone
divino. Qualcosa del genere aveva ispirato anche il Cervello nel PL
"Melos". E il tentativo riesce, perché la musica è
costantemente vibrante, di emozioni, come nei liquidi giuochi di
tastiere nella parte finale della prima facciata, nella più
policroma "Aries", con il tenore di Gianni Bedori in
evidenza, o nella più melodica e tradizionaleggiante "Da
Oriente a Occidente", con la chitarra di Gianni Mocchetti e
l'oboe di Gaetano Galli.
I
pochi e brevi testi, compresi una poesia in tedesco, risaltano
come antiche iscrizioni su lapide, circondati da echi soffusi e
strane vibrazioni, ma tutta la musica ha un suo sapore ancestrale,
ora più inquieto ora più sereno.
Battiato
è ancora del parere: "la musica ai non musicisti, la musica
è di tutti". Non è il primo ad affermare una simile cosa
senza passare per pazzo, né è stato il primo ad ipotizzarre
quelle forme di happening in cui viene richiesta la diretta
partecipazione del pubblico nel processo sonoro, che diviene
perciò aperto, casuale, informe, facendo cadere qualsiasi
barriera tra musicisti e non, tra esecutori ed ascoltatori.
Il
critico di musica elettronica Armando Gentilucci ha definito
questa visione mistica della musica "mimesi terapeutica,
compensazione psichica liberatoria, accettazione passiva del
mondo, valvola di sfogo che dovrebbe essere morale, intellettuale
e politica non meno che artistica, e che si scarica invece in uno
choc dell'assurdo". In parole povere, chi dà alla non-musica
un significato politico, sbaglia clamorosamente.
I
risultati ottenuti da Battiato sono stati sotto questo profilo
disastrosi. Coloro che ebbero il coraggio di salire sul palco su
invito dell'artista si saranno forse divertiti, non certo quelli
rimasti ad ascoltare.
In
un disco come questo, viceversa, non c'è frantumazione del
tessuto e voglia di distruggere, non c'è misticismo equivoco,
culto della casualità ed esasperazione tecnocratica. C'è una
costruzione metodica, centellinata, una operazione condotta con
equilibrio: un po' come hanno fatto il maestro Riley e, sulla sua
scorta, gente come Mike Oldfield, Bo Hansson ed altri, con
maggiore fantasia di Battiato, ma anche con maggiore platealità.
Battiato,
che in fondo è una persona conscia dei propri limiti, entusiasta
ma non ambiziosa, non vuol essere il Terry Riley di casa nostra.
Piuttosto intende aprire gli orecchi degli italiani a un discorso
più vasto, più o meno piacevole, più o meno fruibile, ma troppo
importante per essere accantonato ancor prima di essere proposto.
Enzo Caffarelli
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ROVESCIO
DELLA MEDAGLIA
Contaminazione
- RCA (1973)
Come
ispirarsi ai classici, come rinnovarne il fasto e la forza
creativa capovolgendo certi presupposti ed utilizzando un
linguaggio diverso, originale, comunicativo? E' un problema che
buona parte dei musicisti pop si sono posti da tempo, dandovi
ciascuno una differente risposta.
Il
Rovescio della Medaglia, dopo i dischi di hard rock intellettuale,
sperimenta ora una nuova strada, in collaborazione do Luis Bacalov,
già autore di "Concerto grosso" dei New Trolls e di
"Preludio, tema, variazioni, canzona" degli Osanna. IL
classico che funge da modello è Giovanni Sebastiano Bach: un Bach
naturalmente trasfigurato, come indica chiaramente il titolo
completo dell'opera, "Contaminazione di alcune idee di certi
preludi e fughe del Clavicembalo ben temperato di J. S. Bach".
I
ragazzi del Rovescio si sono dunque avvicinati al classico, al
quale almeno in teoria sono sempre stati interessati: in
particolare all'affetto per Beethoven hanno affiancato autori più
moderni, come Bartok: il chitarrista Enzo Vita, che ha collaborato
in sede compositiva con Bacalov, cerca di riprodurre con il suo
strumento certi archi tipici del musicista ungherese. Inoltre il
nuovo elemento, Franco Di Sebatino, ha introdotto le tastiere nel
gruppo e proviene direttamente dal classico.
C'è
dunque una continua opera di osmosi, che alterna momenti
estremamente convincenti come altri forse più ingenui e scontati,
ma con gli strumenti disposti in maniera originale, senza inutili
ripetizioni, soprattutto senza barocchismi superflui. Cosa resti
di Bach è difficile dirlo.
Sottolineo
le note di copertina, in cui si accenna ad un immaginario Isaia
Somerset, musicista scozzese del '700, uno psicopatico che si
sarebbe considerato figlio naturale di Bach, e ad un altrettanto
immaginario chitarrista pop Jim McCluskin, che del Somerset si
riterrebbe la reincarnazione vivente. In termini meno ermetici,
anche il Rovescio vuole ergersi ad utopistico modello di
reincarnazione bachiana, ma con una certa utoironia, senza
presunzione, una volta tanto per questo gruppo.
La
mano del maestro Bacalov ha saputo guidare e plasmare il quintetto
romano, ponendone in risalto le qualità tecniche, che sono
indiscutibili, e smussandone gli angoli più spigolosi e
narcisisti.
La
"Contaminazione" è una lunga suite divisa in tredici
porzioni, differente decisamente dalla precedente produzione del
Rovescio della Medaglia.
Enzo Caffarelli
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BLUE
MORNING
Omonimo
- IT (1973)
i
Blue Morning sono un gruppo romano avviato al jazz d'avanguardia,
da parecchio tempo in anticamera: finalmente esce il loro primo
album, che coincide però con uno sfaldamento parziale della
formazione. Resta il documento, il "risultato di una ricerca
musicale condotta per molto tempo in modo del tutto autonomo e non
senza sacrifici vari", come gli stessi ragazzi del gruppo scrivono nelle note di copertina.
Una
ricerca che pone i Blue Morning - quattro elementi più uno,
Alvise Sacchi, addetto ad "aggeggi vari" e disegnatore
della copertina - all'avanguardia in Italia. Maurizio Giammarco,
sassofonista flautista e pianista, ha suonato con noti jazzisti.
Roberto Ciotti, musicista preparatissimo, è il chitarrista che
Alan Sorrenti avrebbe voluto con sé nell'ultimo gruppo la scorsa
estate. Tutti insieme hanno partecipato alla realizzazione in sala
di dischi di colleghi, come "Alice non lo sa" per
Francesco De Gregori.
Il
loro è un jazz personale, lontano dai modelli inglesi più
imitati: un jazz ricco di spunti creativi e sufficientemente
comunicativo, senza sbavature, con spazio per tutti gli strumenti
e nel medesimo tempo senza noiosi assoli.
L'album
è strumentale, e cinque sono i brani dai titoli molto originali:
"Danza del palombari lottatori", "Panini
volanti", "Farfalle nella pancia", "Belmont
Plaza" e "Una sera di luglio, in città, dopo una cena
col morto": per i quali non è sempre facile trovare il nesso
logico con la musica, ma è comunque piacevole la distinzione dai
soliti incubi, risveglio, sogno, realtà, visione, illusione...
che rappresentano la trovata a senso unico per molti gruppi
italiani minori.
Un'ennesima
prova, quella dei Blue Morning, che la musica in Italia ha uomini
validi, e che sono soprattutto le strutture, e semmai l'educazione
artistica del pubblico a mancare.
Enzo Caffarelli
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NICO,
GIANNI, FRANK, MAURIZIO
Canti
d'innocenza, canti d'esperienza - Cetra (1973)
Nico
Di Palo e compagni sono già al lavoro per il nuovo LP ed il nuovo
spettacolo, insieme all'ex Atomic Rooster Rick Parnell, cha ha
sostituito il batterista Gianni Belleno.
Abbandonato
per motivi legali il nome di New Trolls, rimasto al troncone di De
Scalzi e D'Adamo, adottato momentaneamente un punto interrogativo
a segno del periodo di grande confusione attraversato, scelto per
la Hit Parade lo pseudonimo di Tritons, ed infine per il futuro
quello di Ibis, i quattro hanno realizzato un disco onesto e4 non
dissimile dai precedenti.
Non
so se questo "Canti d'innocenza canti d'esperienza"
darà soddisfazioni commerciali al gruppo, che si è comunque
abbondantemente rifatto con la gustosissima rielaborazione della
rollingstoniana "Satisfaction", con un'imitazione piena
di humour di Bob Dylan (ma perché nascondersi, se la canzone è
così caruccia, ed invece incollare sulla copertina del LP
un'etichetta non proprio qualificante come quella "da
Supersonic"?).
L'album
con i suoi testi finalmente immediati e senza intellettualismi e
retorica, vuole rappresentare la drammatica competizione fra
l'innocenza e l'esperienza: la prima raffigurata da personaggi
come Simona, la figlia di Nico (...anche questo ti dirò, bambina
mia t'insegnerò, ma adesso è ancora presto, puoi dormire ancora
un po'...); la seconda esemplificata sempre in prima persona
(..."con le mie stanche ali di angelo invecchiato, io vado in
giro a cercare sul viso del mio errore lacrime morte"...).
Certe cose richiamano l'iniziale "Senza orario senza
bandiera"; la stessa cosa è avvenuta, paradossalmente, per
l'album degli Atomic System.
Musicalmente
Di Palo e gli altri si muovono sul terreno di un rock epidermico,
creato con tutti i presupposti che comportano la definizione di
hard. In effetti la formazione attuale - e l'entrata di Parnell ne
è una netta conferma - può considerarsi il corrispondente
italiano dei Deep Purple o dei Black Sabbath.
Accanto
alle durezze sonore, anche qualche sprazzo acustico, naturalmente:
e non spregevole, come nella prima parte di "Signora
Carolina" o in "Simona".
Enzo Caffarelli
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TRIP
Time
of change - Trident (1973)
Da
molti anni i Trip sono considerati una delle migliori formazioni
italiane, anche se non sono riusciti mai a sfondare completamente.
Questo è il loro quarto disco, il primo per l'etichetta Trident,
e rispecchia il passato del gruppo, superandolo però per la
nitidezza delle esecuzioni e per la freschezza di idee, che
confermano dei due veterani del gruppo, il genovese Joe Vescovi e
l'inglese Wegg Andersen, e nel nuovo elemento, il batterista Furio
Chirico, tre musicisti preparatissimi.
La
formula triangolare, basata sulle tastiere e il desiderio di
spaziare in ampie suites, collocano i Trip all'ombra di EL&P,
anche se in maniera diversa dalle Orme. Ma è ad altri modelli,
soprattutto agli Yes, che il trio sembra ora avvicinarsi.
La
prima facciata, "Rhapsodia", sono venti minuti di musica
godibile, dove accanto all'indubbia tecnica (che non va confusa
con il tecnicismo, fine a se stesso, distinzione che i lettori
dell'Angolo del pop dovrebbero tenere costantemente presente), si
rileva una musica varia e gioiosa, senza pause o tentennamenti:
una miscela delle solite componenti rock, jazz e classiche,
elaborate con gusto, sia da parte di Vescovi, che si sbizzarisce
sui tempi e sui timbri, sia da parte dei due ritmi, che
sorprendono per continuità e presenza, e costituiscono una delle
migliori coppie in Italia.
La
seconda facciata non è dissimile, anche se frazionata in quattro
episodi distinti. Le cose migliori: "Formula nuova" e
"Corale". I Trip non possono considerarsi sul piano
stilistico un gruppo italiano, come accade viceversa per BMS o PFM.
E in fondo la presenza di un inglese autentico può essere una
giustificazione. Ma se i tre imitano bene gli Yes, ad esempio,
possiamo stare tranquilli: perché questo potrebbe essere il punto
di partenza ottimale per sviluppare un discorso più autentico e
più nostro.
Enzo Caffarelli
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MAURO
PELOSI
Al
mercato degli uomini piccoli - Polydor (1973)
Questo
è il secondo LP di uno dei cantautori dell'ultima generazione che
di più promettono in un panorama per altro piuttosto povero.
Personaggio
schietto e semplice, timido ed imbarazzato in arte come nella
vita, Mauro canta l'amore attraverso l'ottica dell'incomprensione,
dell'impossibilità cioè di essere capito, dell'incapacità di
trovare affetti anche senza grosse ambizione ("Come tanti io
volevo una donna che si accontentasse di me", canta nel brano
di apertura). Anche Mauro è un poeta triste, canta e rimpiange il
passato, ma in una dimensione più serena ("Mi piacerebbe
diventar vecchio insieme a te") e più frammentaria, meno
programmatica di quanto non avvenga, ad esempio, con Guccini.
I
testi sono elementari, senza metafore di difficile soluzione, senza
giuochi di parole, espliciti. Credo che tutti noi, ad una certa
età, ci siamo dilettati a scrivere poesie in momenti di
tristezza, per poi rileggerle a distanza di anni e capire magari
che non ci appartengono più. Bene, Pelosi è un po'
l'emblema di questo fatto culturale, proprio
dell'adolescenza, nella sua semplicità e in certa sua
giustificata retorica. Con l'esperienza però di chi ha superato i
vent'anni e può includere tante sensazioni già nel passato e non
più nel futuro.
A
modo suo, come Battisti, come De André, come Guccini, egli è una
figura simbolica, la voce di tanti ragazzi normali del nostro
tempo, dei poeti mancati (mi perdoni Mauro, ma proprio qui è la
sua forza), insomma degli "uomini piccoli".
Ma
come negli uomini piccoli, anche qui c'è una psicologia tortuosa,
contraddizioni, illusioni e disillusioni, il credersi o meglio il
volersi sentire anormali ("Tu e le mie idee contorte che non
hai capito mai perché sono forse un po' matto"), la mancanza
di reale coraggio, perché l'eroismo appartiene solo ai sogni
("Non puoi dormire e ti perdi nei sogni dietro alle ombre di
strane avventure, come un drogato che scappa dal mondo per non
portare la realtà sulle spalle"). Ed ecco allora i momenti
antitetici, le sfumature psicologiche di "Ehi! signore"
o di "No, io scherzo", le cose migliori di questo LP.
Musicalmente
Pelosi si avvale di arrangiamenti scarni, che contribuiscono a
suggellare atmosfere inquiete, con ampi spazi strumentali dalla
precisa funzione descrittiva.
I
modelli persistono: Battisti ("Ti porterò via",
"Al mercato degli uomini piccoli"), il Paoli più
francese ("Mi piacerebbe diventar vecchio insieme a te",
"Non tornano più", "Un mattino"); ma Mauro ha
raggiunto ormai una sua autonomia ed una sua personalità.
Enzo Caffarelli
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