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AKTUALA
Omonimo
- (1973)
Milanesi
di nascita o di adozione, gli aktuala rappresentano una delle più
significative novità della scena italiana. Cultori di musiche
popolari d'ogni epoca e di ogni paese, appassionati collezionisti
ed etnologi, essi rappresentano una "comune" musicale
votata al recupero di una musica popolare universale, totale, che
fruisca delle esperienze di popoli vicini e lontani, senza la
mediazione della cultura classica.
Musica
dunque istintiva, primordiale, nella quale i segni stessi della
natura, il suono quotidiano diviene musica, come il canto degli
uccelli, e nella quale è facile cogliere, immediatamente, gli
influssi timbrici e le venature melodiche del folklore africano e
mediorientale: la base è infatti il Mediterraneo, e se vogliamo
l'Italia meridionale, che nel corso della storia è stata teatro
di differenti civiltà.
Naturalmente
è rischioso parlare solo di musica popolare. Meglio rinunciare
alle etichette, in un momento in cui anche il jazz e lo stesso
rock si avvicinano e rielaborano il folklore europeo, quello
latino americano, quello indiano, quello africano.
IL
gruppo rifiuta naturalmente qualsiasi virtuosismo solistico,
poiché i loro desiderio o è "quello di riportare alla
strada una musica nata dalla strada". ed in questo senso,
coerentemente, essi hanno compiuto una tournée la scorsa estate
in Liguria, su spiagge e piazze, senza teatri o impresari.
Gli
Aktuala sono in cinque, di cui una ragazza, e suonano un miriade
di strumenti che non mi attardo ad elencare. Segnalo comunque che
parti predominanti hanno la chitarra acustica, vari modelli di
bizzarre percussioni, e numerosi strumenti a fiato, dall'oboe
arabo al normale sassofono.
Le
atmosfere vivono su tensioni di vario tipo, ora aggressive e
convulse, ora pacifiche e dolcissime; i titoli sono sei, ma esiste
una continuità nello spirito musicale della formazione che
impedisce quasi di cogliere i caratteri distintivi di ognuno.
Una
musica che va seguita con particolare attenzione e che non può
esser giudicata con il metro estetico normale, ma relativamente
alle sensazioni che in ogni ascoltatore potrà suscitare.
Enzo Caffarelli
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MUSEO
ROSENBACH
Zarathustra
- Ricordi (1973)
Almeno
sotto il profilo statistico, è un buon momento per i complessi
italiani: ne nascono a decine e registrano dischi con relativa
facilità; inoltre il pubblico ha modo di conoscerli direttamente
grazie ai festival ed alle manifestazioni varie che soprattutto il
mese di giugno ha visto nascere.
Naturalmente
l'inflazione fa capolino, e chi ne risente, oltre al pubblico che
resta confuso, sono gli stessi musicisti: costretti ad accettare
compromessi di vario tipo per giungere all'incisione, a rincorrere
il miraggio della superstrumentazione e della superamplificazione
che poi non sono in grado di mantenere, delusi dopo i primi
inevitabili insuccessi e magari troppo presto abbandonati da chi
inizialmente ha creduto - o finto di credere - in loro; o, nella
migliore delle ipotesi, stretti nella morsa degli impegni - che ne
logorano il fisico ed il morale ripercuotendosi sulla bontà della
loro produzione artistica.
Capita
così un po' dappertutto, ma in Italia le cose che non funzionano
in questo campo sono particolarmente numerose.
E
allora, fra un nome nuovo ed un altro, occorre scegliere con
estrema attenzione: per conto mio ben pochi dischi italiani sono
passati per le colonne di questa rubrica.
Dei
due gruppi di cui mi occupo questa settimana, uno è all'esordio,
l'altro è il risultato della scissione dei New Trolls. Il Museo
Rosenbach, un quintetto genovese, dedica il suo album a
Zarathustra, la cui disperata ricerca del superuomo - si dice
nelle note di copertina - non vuole realizzarsi nell'immagine del
violento condottiero di razza pura, come è stato erroneamente e
tristemente interpretata, bensì nella serena figura dell'uomo che,
vivendo in comunione con la natura, tende a purificare da ogni
ipocrisia i valori umani. Ed infatti "l'uomo-museo",
scelto dal gruppo quale proprio segno distintivo, è
"lavaggio del cervello, utopia e falsità".
La
musica del Museo è il rock melodico tipico dei gruppi italiani,
del Banco soprattutto, con le tastiere in primo piano, e con gli
eccellenti contributi di mellotron e moog che, se usati con
parsimonia e con la dovuta funzionalità, posseggono sempre un
fascino tutto loro.
Ci
sono gli inevitabili agganci alla musica classica; ma come regola
per i gruppi italiani, si tratta di semplici spunti ispirativi, o
meglio di reminiscenze degli studi intrapresi dai musicisti;
oltre che del bisogno di ricongiungersi ad una tradizione musicale
che è più vicina alla nostra cultura ed alla nostra sensibilità
di quanto non lo sia il rock o il jazz.
Lo
schema è quello frastagliato, con passaggi di tempo e di ritmo,
stacchetti e marcette, episodi melodici ad ampio respiro, immagini
in serie; una tecnica impressionistica che con il Banco e la
Premiata ha dato i suoi risultati più efficaci.
Le
musiche sono di Alberto Moreno, bassista (e secondo pianista) del
gruppo. E' un fatto rilevante perché poche formazioni in Italia
hanno nel bassista il proprio punto di forza.
Tra
le due facciate del LP, lievemente superiore la prima.
Enzo Caffarelli
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N.
T. ATOMIC SYSTEM
Omonimo
- Magma (1973)
L'altro
disco italiano appartiene a Vittorio De Scalzi ed a Giorgio
D'Adamo, che in tempi differenti hanno lasciato i New Trolls di
Nico Di Palo per costituire una nuova etichetta a Genova, la
Magma, distribuita dalla Ricordi. Sebbene le controversie di
carattere giuridico non abbiano ancora avuto termine, sembra che
N. T. Atomic System sia la denominazione del gruppo e di questo
album.
Con
i due "ex" compaiono il pianista ed organista Renato
Rosset, e due personaggi noti negli ambienti del jazz e delle
sessions, il sassofonista Giorgio Baiocco ed il batterista Tullio
De Piscopo. La presenza dei due assicura alla formazione brio e
vivacità, che completano la tecnica e le idee compositive dei
leaders.
Quali
rapporti con i New Trolls? Intanto l'uso preponderante delle
tastiere: Rosset usa con abilità moog, mellotron, piano
elettronico ed acustico, organo, anche se a tratti fa il verso
all'Emerson
di "Tarkus" e Vittorio si disimpegna, come già negli
ultimi tempi nei New Trolls, al piano, alla spinetta, all'ARP,
oltre che al flauto, limitando il lavoro alla solista.
Ne
vengono fuori sei brani piacevoli, dove la parte vocale rimane al
solito alquanto isolata dal resto, e non offre granché,
nonostante il gruppo voglia riallacciarsi alla prima esperienza 33
dei New Trolls, quel "Senza orario senza bandiera" che
grazie all'apporto dei parolieri Mannerini e De André, e forse
anche per il momento in cui vide la luce, rappresenta a distanza
l'opera più originale e significativa del gruppo genovese. Lo
confermano dichiaratamente gli stessi titoli come "La nuova
predica di padre O'Brien" ed "Ho visto poi".
Lo
svolgimento melodico e ritmico delle composizioni sono invece
fluidi ed estremamente lucidi, con vertici massimi negli episodi
al sax (parte di "Ho visto poi" e di "Quando l'erba
vestiva la terra"), la porzione classicheggiante di
"Tornare a credere", e l'iniziale "La nuova predica
di padre O'Brien".
Enzo Caffarelli
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BANCO
DEL MUTUO SOCCORSO
Io
sono nato libero - Ricordi (1973)
Non
è facile trovare le parole giuste per questo nuovo capolavoro del
Banco. L'album è venuto fuori dopo un lungo lavoro di selezione
tra il materiale che Vittorio Nocenzi e compagni avevano in mente;
e questo comporta un maggiore equilibrio rispetto ai precedenti
dischi, cioè uno svisceramento di ciascuna idea, superando la
struttura collagistica apparsa di tanto in tanto nel primo LP ed
in "Darwin!".
Dunque
i sei ragazzi (sette con l'aggiunta del chitarrista Rodolfo
Maltese che ha affiancato con l'acustica Marcello Todaro) lavorano
con lucida inventiva su parte delle loro numerose idee, senza per
questo restare ancorati a schemi prestabiliti. L'album è un
superamento soprattutto negli arrangiamenti, nelle trovate
ritmiche e nell'uso dei sintetizzatore, al quale Vittorio ha dato
una fisionomia precisa ed inconfondibile. Inoltre tutti gli
strumentisti sono cresciuti, come la recente tournée ha confermato
indiscutibilmente: e un cenno particolare merita il più giovane
dei fratelli Nocenzi, il pianista Gianni, che esordisce anche
nelle vesti di compositore.
Un
capitolo a parte anche per Francesco: "Big", al di là
del personaggio, è un interprete raffinatissimo, capace di
comunicare straordinariamente anche dai microfoni di una sala di
registrazione. la sua recitazione possiede una spontaneità
inimitabile, e la particolare impostazione contribuisce a far
venire in mente certi elementi della musica lirica che il Banco è
fra i pochi per non dire l'unica formazione italiana e non ad
avere recuperato e riattualizzato alla luce de un linguaggio del
tutto nuovo.
I
testi sono autentiche poesie, la lingua ricca e se vogliamo
ricercata, quindi non sempre di immediata presa, ma nello stesso
tempo talmente pregnante di significati che con un minimo di
attenzione è facile apprezzarla ed innamorarsene.
I
brani di "Io sono nato libero" non costituiscono un
disco a concetto unico, come per "Darwin!", tuttavia si
articolano intorno ad un comune denominatore che è la ricerca
della libertà: libertà che manca ai prigionieri politici
("Almeno tu che puoi fuggi via canto nomade, questa cella è
piena della mia disperazione, tu che puoi non farti prendere. Voi
condannate per comodità, ma la mia idea già vi assalta. Voi martoriate le mie sole carni, ma il mio cervello vive ancora...
ancora"); che manca a chi è costretto a combattere
("Lingue gonfie, pance piene, non parlatemi di libertà, voi
che io stramaledico"); che manca a chi vive nelle grandi
metropoli disumanizzanti ("Qui il vento non soffia - rivive
un'immagine di Cento mani, cento occhi - i rumori, ma c'è il
silenzio che s scrivere nell'aria ferma. Sottile non città, fra i
tuoi perenni grigi, sola").
Inoltre
le parole sono inserite nelle musiche pienamente, senza setti
divisori. Insomma una grande opera: e se l'immagine del grasso
Francesco e la sua umanità poetica sono la prima cosa a balzare
agli occhi ed a toccare il cuore, il gruppo dietro non resta in
secondo piano. Sul piano ritmico non ha più nulla da invidiare a
nessuno, sul piano delle invenzioni solistiche organo, piano e
sintetizzatore, creano suggestioni ed emozioni continue, fuggendo
complesse elaborazioni polifoniche, e senza concedersi momenti di
pausa.
Un
breve cenno sui cinque brani che compongono il microsolco.
"Canto nomade per un prigioniero politico" è una
stupenda canzone "autunnale", per il clima crepuscolare
e nostalgico che la pervade ("In questi giorni è certo
autunno giù da noi, dolce Marta, Marta mia", come se per il
protagonista, "prigioniero per l'idea", lo scorrere
delle stagioni non avesse più senso). La seconda parte del brano
è strumentale e sviluppa in particolare idee ritmiche, con
l'aggiunta alle percussioni di Silvana Aliotta dei Circus 2000.
"Non
mi rompete" è una breve ballata con la chitarra acustica in
evidenza. Francesco si riscopre immaginifico discepolo ariostesco,
mentre il suo impegno recitativo è maggiore ne "La città
sottile", inserito in una dimensione trasognata, da incubo
felliniano, con il pianoforte protagonista assoluto. "La
città sottile", composto da Gianni Nocenzi, è il brano
musicalmente più difficile del LP.
"Dopo...
niente è lo stesso" ripercorre tutta una serie di situazioni
attraverso una curatissima strumentazione: l'impostazione lirica,
la suggestione del dialogo, i personaggi diversi o dovuti alle
diverse situazioni psicologiche che si accavallano e si confondono
nel finale vortice di tristezza, ne fanno probabilmente il pezzo
più significativo del LP. Come pure altrove, i ritmi anglosassoni
sono calati in una sensibilità ed in una forma di tradizione
tipicamente mediterranee, operazione comune anche a gruppi
inglesi, vedi i Gentle Giant ad esempio.
Infine
"Traccia II" si ispira al tema che chiudeva il primo
album del Banco: uno strumentale che nasce in sordina e poi
esplode in un prezioso crescendo.
Un
disto che va ascoltato con molta attenzione, ma che consacra definitivamente
- se ce ne fosse ancora bisogno - questo grandissimo
gruppo.
Enzo Caffarelli
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DEDALUS
Omonimo
- Trident (1973)
Per
la neonata Tridenti esordiscono i Dedalus, Gia segnalatisi come
una delle promesse più benne della scena italiana. Come altri
nomi nuovi, il gruppo si muove nell'aera del jazz più vicino al
rock, quello che in Inghilterra ha nome Soft Machine o Nucleus, in
America Miles Davis, Weather Report, Mahavishnu Orchestra, Herbie
Hancock.
Il
linguaggio dei Dedalus è a metà strada fra le due esperienze,
ricco di immagini, ricercato nelle sonorità, e con risultati
estremamente soddisfacenti fin dalla prima incisione. Sui quattro
giuoca un ruolo notevole l'esperienza, essendo stati tutti più o
meno, nonostante l'età (dai ventitré ai diciotto anni),
impegnati in ambienti qualificati, come quello dell'elettronica,
del jazz o del blues, al contrario di altri musicisti pur
volenterosi, che giungono ad esperienze avanzate dopo anni di
balera.
Agli
strumenti base, che sono batteria, basso, sax o chitarra e
tastiere, si aggiungono il sint, varie percussioni, il
contrabbasso e, la nota più curiosa, il violoncello - che il
pianista Fiorenzo Bonansone inserisce spesso e volentieri tra
lucidi assoli di sax - sonorità liquide di piano elettrico, voci
elettroniche mescolate con gusto ed efficacia, e ritmi tribali
realizzati grazie alla collaborazione di René Mantegna degli
Aktuala.
Musica
cerebrale e difficile, ma variando timbri e strumenti conduttori,
i Dedalus vogliono intenzionalmente prevenire questo pericolo.
D'altra parte la musica si evolve, il rock e con esso il pubblico
del rock tendono parallelamente a qualcosa di più significativo,
a costo di qualche sacrificio di impegno nell'ascolto: i Dedalus
lo hanno capito e non si preoccupano di venire incontro alla massa
con facili concessioni. Ecco perché questo LP non è destinato al
grande successo, anche se rappresenta un convincente esempio di
come anche in Italia si possa suonare bene.
Cinque
i titoli: "Santiago", "Leda", "Conn",
"CT 6" e "Brilla".
Enzo Caffarelli
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DUELLO
MADRE
Omonimo
- Produttori Associati (1973)
Si
tratta di un quartetto composto dal chitarrista Marco Zoccheddu e
dal bassista Bob Callero, che precedentemente avevano fatto parte
degli Osage Tribe, più il sassofonista flautista Pippo Trentin ed
il batterista Dede Lo Previte.
Per
la produzione di Gian Piero Reverberi, il Duello Madre ha composto
ed arrangiato i cinque brani in cui si nota una particolare
attenzione per i gruppi jazz d'oltre Manica, e un allineamento con
numerose altre formazioni italiane d'avanguardia.
La
nascita di numerosi nomi sulla scia di un fenomeno generalmente di
importazione, come molti sostengono ,è uno degli aspetti più
sintomatici e nello stesso tempo inquietanti del mercato italiano.
Lasciamo gli artisti liberi di suonare ciò che vogliono, però
troppi fra di essi sono sfruttati dalle case discografiche,
montati, abilmente manipolati e poi abbandonati. Finché
mancheranno le strutture adeguate, in Italia c'è posto soltanto per
pochi nomi: ed oltre ad una maturità a livello dirigenziale ed
alla preparazione dei gruppi stessi, alludo ad altri problemi
allarmanti, come la mancanza di locali adeguati ad ospitare
concerti pop in Italia, e la mancanza di fiducia negli spettacoli
dei nostri complessi da parte dei gestori e da parte del pubblico
stesso.
Invece
i gruppi nascono come funghi: per il Duello Madre vale il diritto
d'anzianità, trattandosi di musicisti da tempo sulla scena, anche
se battezzati con un nuovo nome. E la loro musica, un jazz ben
costruito e non astruso, cioè comunicativo, è degna di lode. I
brani migliori: "Aquile blu", l'unica con un testo,
"Otto" e "Duello".
Enzo Caffarelli
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ROCKY'S
FILJ
Storie
di uomini e non - Ricordi (1973)
I
Rocky's Filj sono uno di quei tipici gruppi alla cui base non c'è
tanto spirito di emulazione, quanto una genuina necessità di
esprimersi attraverso la musica: un gruppo di amici che si
radunano in cantina per dar sfogo a questa passione, senza porsi,
almeno in principio, obiettivi concreti né ambizioni stilistiche
ben precise. Una musica viscerale e libera, il cui unico appiglio
culturale che si faccia sentire è il richiamo verso il jazz,
inteso anch'esso nella sua massima libertà e visceralità.
Tale
era all'inizio, oltre due anni fa, la musica dei Rocky's Filj: ma
le doti naturali e la freschezza dell'espressione hanno presto
inserito il gruppo in un discorso che forse poteva sembrare
lontano ed illusorio agli stessi musicisti. Dopo la proficua
apparizione al festival d'avanguardia e nuove tendenze di Roma,
nel '72, i quattro ragazzi tornavano in cantina, ma questa volta
sotto la direzione notoriamente magica del produttore Sandro
Colombini. Tutto tempo che, alla luce di questo "Storie di
uomini e non", appare decisamente ben speso: il gruppo ha
infatti intrapreso una strada originale non solo per il panorama
italiano ma anche per quello straniero.
La
formazione decisamente inusuale, chitarra, ance, basso, sax,
clarino e batteria - non compaiono le tastiere, considerate oggi
indispensabili - e la capacità di inserirsi autonomamente in un
discorso decisamente vivo e moderno, le parti fiatistiche
ricollegabili a certi King Crimson e un vago sapore di McLaughlin,
fanno di questi Rocky's Filj una piacevole realtà, infrangendo i
timori di chi credeva che dietro a Banco, PFM e Osanna non vi fosse
più spazio per la musica rock italiana.
L'album,
cinque brani piuttosto omogenei fra i quali si distinguono
"L'ultima spiaggia" e "Martino", rivela una
natura essenzialmente ritmica, stringata, priva di pesantezza; ma
altrettanto presenti sono episodi ricchi di respiri ampi, più
pittorici, piccole isole di quiete in mezzo ad un rincorrersi di
temi ritmici, in cui la voce di Rocky è un metallo che canta,
cesella frasi di grande effetto.
Per
il resto l'animosità e la freschezza della musica assorbe e
miscela benissimo tutte le matrici, poggiando su doti non comuni:
una sezione ritmica impegnatissima e varia, i sax ed il flauto
perfettamente inseriti nella linea melodica, una sorprendente
chitarra capace di eccitanti assoli e di disegnare sfondi
ricchissimi di contrasti.
Il
disco è stato registrato in studio, ma senza sovrincisioni,
curando in particolare la produzione e la gamma dei suoi e dei
timbri: il risultato è quanto di meglio si possa oggi realizzare
suonando una musica viva e moderna.
Enzo Caffarelli
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JUMBO
Vietato
ai minori di 18 anni? - Philips (1973)
Jumbo
al terzo disco, una prova importante e forse decisiva per il
sestetto dopo il convincente "DNA", uscito più di un
anno fa.
Punto
primo, i testi. Logica reazione all'intellettualismo pedante, ai
discorsi filosofici e cattedratici sull'uomo e sulla vita di
troppi gruppi italiani, con i nuovi dischi si sta cercando di
accoppiare alle musiche d'avanguardia testi altrettanto impegnati,
ricorrendo però a situazioni ed immagini più concrete e vere, se
vogliamo più autobiografiche, lasciando ai margini del proprio
discorso il linguaggio aulico e poetico, per esprimersi in maniera
più comunicativa e diretta.
Per
i Jumbo il problema assume il valore tutto particolare, perché
questo album, come il titolo indica assai bene, affronta tutti
temi scottanti della via, estremamente comuni e nascosti d certo
perbenismo farisaico, dall'ipocrisia e dal bigottismo di certi
strati sociali: prostituzione, alcoolismo, droga, frustrazioni
psichiche e sessuali, repressione infantile: sono gli argomenti
intorno ai quali Alvaro Fella e compagni hanno articolato la loro
opera.
fondamentalmente
occorreva affrontare le diverse tematiche in modo significativo e
pregnante, rifuggendo frasi fate o ingenue denunce superficiali,
ma evitando nello stesso tempo prese di posizione categoriche o di
soffermarsi in maniera compiaciuta in certe situazioni.
La
via di mezzo è stata raggiunta: Alvaro canta ed urla (il suo è
un autentico grido di disperazione) spesso in prima persona,
soffrendo e vivendo intensamente ogni brano, e racchiudendo nelle
ultime frasi il succo del disco: "Diciamo no, a ipocriti e
borghesi, a chi è in malafede, a chi non sogna che ricchezza, ai
falsi venditori di parole... ".
Punto
secondo, la musica. I Jumbo tentano vie più difficili di quelle
delle precedenti incisioni, impiegano in misura minore il flauto,
che specie dal vivo costituiva l'elemento conduttore, e si
sforzano di superare una costruzione armonica e timbrica
semplicistica, o quanto meno prevedibile, proprio per accoppiare
alle parole un clima di continua tensione, di inquietudine, di
allarme. Non a caso uno degli episodi migliori del LP, "Gil",
il brano contro la droga, viene fuori da una session che ha
raccolto accanto ai sei Jumbo altri musicisti, i sintetizzatori
E.M.S./A.K.S. di Franco Battiato e di Angelo Vaggi, e le
percussioni di Lino Vaccina degli Aktuala.
La
musica dunque è frastagliata, tortuosa, sofferta. Le tastiere di
Sergio Conte svolgono sempre un ruolo di primo piano, e dal punto
di vista strumentale i vertici della raccolta sono toccati nella
seconda parte di "Specchio", in "Come vorrei essere
uguale a te", nella simpatica "Il ritorno del signor
K" dagli accenti grotteschi (esplicito il riferimento al
precedente LP) e nella già citata "Gil", che
costituisce soltanto una porzione della lunga jam registrata.
Enzo Caffarelli
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LIVING
MUSIC
To
Allen Ginsberg - RCA (1972)
Formatosi
lo scorso anno a Roma, e messosi in evidenza al 2° Festival di
Avanguardia e nuove tendenze, il Living Music non vuol e definirsi
un gruppo rock né un complesso nel senso classico e stereotipato
della definizione. Roberto Marsala, che ha collaborato alla
realizzazione del disco, scrive: "In concerto senso il Living
Music è una scuola di musica, perché lavorando insieme i più
giovani imparano dai più maturi. C'è la combinazione di generazioni diverse, culture diverse, musicisti e non
musicisti".
In
questa ultima frase è raccolto tutto il senso, i pregi ed i
limiti di un gruppo di questo genere, dall'organico non fisso,
guidato comunque da Umberto Santucci e dalla moglie Gianfranca
Montedoro, entrambi da tempo attivi nel mondo del jazz, il primo
come giornalista, fotografo ed organizzatore di concerti, la
seconda come cantante in compagnia di Gato Barbieri, Franco
D'Andrea, i primi Brainticket ed altri illustri musicisti.
Con
un linguaggio semplice e comunicativo, che tenta un riaggancio
alla cultura delle origini, e si ispira ad elementi occidentali
come orientali, americani, africani, asiatici, europei, il gruppo
ha musicato alcune poesie di Allen Ginsberg, uno dei padri della
beat generation e della controcultura americana. Si tratta di
"Howl" (Urlo), di "Song", di "Lysergic
acid" e di "Mandala", lasciate in lingua inglese.
Gli altri testi sono stati tratti da poeti giapponesi ed indiani,
o sono originali del Living Music.
L'approccio
è spontaneo e immediato, anche se rozzo se vogliamo, ma mai
indisponente. Convince la voce di Gianfranca che intona su di un
ritmo ipnotico il celebre inno che comincia "Ho visto le
menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia,
affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all'alba
in cerca di droga rabbiosa, ecc.". O Andrea Carpi, che
attendiamo al suo primo "solo" dopo avere abbandonato
questo gruppo, cantare su una propria melodia alla Neil Young,
"il peso del mondo è amore, sotto il fardello della
solitudine, sotto il fardello dell'insoddisfazione, il peso, il
peso che trasportiamo è amore... ".
Un
disco complessivamente interessante, corredato da un albumetto
interno che descrive brano per brano la raccolta, raccoglie saggi
e definizioni, esemplifica gli intenti ed i metodi che hanno
guidato il gruppo in questa operazione dedicata ad Allen Ginsberg.
Enzo Caffarelli
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TRIP
Atlantide
- RCA (1972)
Tempi
buoni per la musica italiana. Dopo un primo LP passato alquanto
inosservato, risalente al periodo in cui ancora si diffidava molto
dei gruppi italiani, e più ancora di quello anglo-italiani, e
dopo un secondo che è serito soprattutto a rilanciarli senza per
altro ottenere consensi pieni da parte di tutti, ecco i Trip alla
loro terza fatica discografica che li conferma fra i migliori del
nostro panorama.
"Atlantide"
è l'immagine del mitico continente scomparso riflessa nella
nostra civiltà, come monito e speranza a un tempo, contro il
tecnicismo esasperato e la corsa al progresso della società del
duemila.
Il
gruppo si presenta senza il chitarrista, e con un nuovo
batterista, il ventenne piemontese Furio Chirico, mentre "Wegg"
Andersen e Joe Vescovi sono al solito gli autori dei brani ed i
protagonisti delle esecuzioni.
Guardano
indietro, a "Caronte", i nuovi Trip presentano
soprattutto una maggiore mobilità che li affranca dalla
schematicità troppo rigorosa del rock, e spaziano verso lidi
pseudo-jazzistici, specie con la freschezza di idee e la nuova
libertà che sembra caratterizzare l'indiscutibile tecnica di Joe.
Le novità possono essere colte a livello di inventiva e a livello
di sonorità; un piano elettrico ed un organo, modificati
opportunamente ma senza troppi artifici, un generatore elettronico
trovato quasi per caso in uno studio di registrazione, utilizzati
per creare espressioni interessantissime e senza vuoti formalismi
(come ad esempio si era verificato nel primo LP, in cui i Trip
rifacevano palesemente il verso ai Vanilla Fudge, e come oggi
avviene per alcuni colleghi, anche stranieri s'intende).
Tempi
buoni per la nostra musica dunque. Ed è davvero incredibile
osservare come i Trip riescono con una strumentazione tanto esile
a creare atmosfere piene, cercar quasi di dare vita a suoni che
rievochino profondità marine, o avvicinarsi ai toni incantati del
mellotron con un semplice piano elettrico.
L'album
contiene un'unica suite suddivisa in otto sezioni. Le migliori:
"Atlantide", "Energia", "Analisi" e
i pochi attimi conclusivi di "Il vuoto".
Enzo Caffarelli
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