Materiali / Recensioni - 5

 

 

 

AKTUALA

Omonimo - (1973)

 

Milanesi di nascita o di adozione, gli aktuala rappresentano una delle più significative novità della scena italiana. Cultori di musiche popolari d'ogni epoca e di ogni paese, appassionati collezionisti ed etnologi, essi rappresentano una "comune" musicale votata al recupero di una musica popolare universale, totale, che fruisca delle esperienze di popoli vicini e lontani, senza la mediazione della cultura classica.

Musica dunque istintiva, primordiale, nella quale i segni stessi della natura, il suono quotidiano diviene musica, come il canto degli uccelli, e nella quale è facile cogliere, immediatamente, gli influssi timbrici e le venature melodiche del folklore africano e mediorientale: la base è infatti il Mediterraneo, e se vogliamo l'Italia meridionale, che nel corso della storia è stata teatro di differenti civiltà.

Naturalmente è rischioso parlare solo di musica popolare. Meglio rinunciare alle etichette, in un momento in cui anche il jazz e lo stesso rock si avvicinano e rielaborano il folklore europeo, quello latino americano, quello indiano, quello africano.

IL gruppo rifiuta naturalmente qualsiasi virtuosismo solistico, poiché i loro desiderio o è "quello di riportare alla strada una musica nata dalla strada". ed in questo senso, coerentemente, essi hanno compiuto una tournée la scorsa estate in Liguria, su spiagge e piazze, senza teatri o impresari.

Gli Aktuala sono in cinque, di cui una ragazza, e suonano un miriade di strumenti che non mi attardo ad elencare. Segnalo comunque che parti predominanti hanno la chitarra acustica, vari modelli di bizzarre percussioni, e numerosi strumenti a fiato, dall'oboe arabo al normale sassofono.

Le atmosfere vivono su tensioni di vario tipo, ora aggressive e convulse, ora pacifiche e dolcissime; i titoli sono sei, ma esiste una continuità nello spirito musicale della formazione che impedisce quasi di cogliere i caratteri distintivi di ognuno.

Una musica che va seguita con particolare attenzione e che non può esser giudicata con il metro estetico normale, ma relativamente alle sensazioni che in ogni ascoltatore potrà suscitare.

                                        Enzo Caffarelli

 

 

 

MUSEO ROSENBACH

Zarathustra - Ricordi (1973)

 

Almeno sotto il profilo statistico, è un buon momento per i complessi italiani: ne nascono a decine e registrano dischi con relativa facilità; inoltre il pubblico ha modo di conoscerli direttamente grazie ai festival ed alle manifestazioni varie che soprattutto il mese di giugno ha visto nascere.

Naturalmente l'inflazione fa capolino, e chi ne risente, oltre al pubblico che resta confuso, sono gli stessi musicisti: costretti ad accettare compromessi di vario tipo per giungere all'incisione, a rincorrere il miraggio della superstrumentazione e della superamplificazione che poi non sono in grado di mantenere, delusi dopo i primi inevitabili insuccessi e magari troppo presto abbandonati da chi inizialmente ha creduto - o finto di credere - in loro; o, nella migliore delle ipotesi, stretti nella morsa degli impegni - che ne logorano il fisico ed il morale ripercuotendosi sulla bontà della loro produzione artistica.

Capita così un po' dappertutto, ma in Italia le cose che non funzionano in questo campo sono particolarmente numerose.

E allora, fra un nome nuovo ed un altro, occorre scegliere con estrema attenzione: per conto mio ben pochi dischi italiani sono passati per le colonne di questa rubrica.

Dei due gruppi di cui mi occupo questa settimana, uno è all'esordio, l'altro è il risultato della scissione dei New Trolls. Il Museo Rosenbach, un quintetto genovese, dedica il suo album a Zarathustra, la cui disperata ricerca del superuomo - si dice nelle note di copertina - non vuole realizzarsi nell'immagine del violento condottiero di razza pura, come è stato erroneamente e tristemente interpretata, bensì nella serena figura dell'uomo che, vivendo in comunione con la natura, tende a purificare da ogni ipocrisia i valori umani. Ed infatti "l'uomo-museo", scelto dal gruppo quale proprio segno distintivo, è "lavaggio del cervello, utopia e falsità".

La musica del Museo è il rock melodico tipico dei gruppi italiani, del Banco soprattutto, con le tastiere in primo piano, e con gli eccellenti contributi di mellotron e moog che, se usati con parsimonia e con la dovuta funzionalità, posseggono sempre un fascino tutto loro.

Ci sono gli inevitabili agganci alla musica classica; ma come regola per i gruppi italiani, si tratta di semplici spunti ispirativi, o meglio di reminiscenze degli studi intrapresi dai musicisti; oltre che del bisogno di ricongiungersi ad una tradizione musicale che è più vicina alla nostra cultura ed alla nostra sensibilità di quanto non lo sia il rock o il jazz.

Lo schema è quello frastagliato, con passaggi di tempo e di ritmo, stacchetti e marcette, episodi melodici ad ampio respiro, immagini in serie; una tecnica impressionistica che con il Banco e la Premiata ha dato i suoi risultati più efficaci.

Le musiche sono di Alberto Moreno, bassista (e secondo pianista) del gruppo. E' un fatto rilevante perché poche formazioni in Italia hanno nel bassista il proprio punto di forza.

Tra le due facciate del LP, lievemente superiore la prima.

                                             Enzo Caffarelli

 

 

 

N. T. ATOMIC SYSTEM

Omonimo - Magma (1973)

 

L'altro disco italiano appartiene a Vittorio De Scalzi ed a Giorgio D'Adamo, che in tempi differenti hanno lasciato i New Trolls di Nico Di Palo per costituire una nuova etichetta a Genova, la Magma, distribuita dalla Ricordi. Sebbene le controversie di carattere giuridico non abbiano ancora avuto termine, sembra che N. T. Atomic System sia la denominazione del gruppo e di questo album.

Con i due "ex" compaiono il pianista ed organista Renato Rosset, e due personaggi noti negli ambienti del jazz e delle sessions, il sassofonista Giorgio Baiocco ed il batterista Tullio De Piscopo. La presenza dei due assicura alla formazione brio e vivacità, che completano la tecnica e le idee compositive dei leaders.

Quali rapporti con i New Trolls? Intanto l'uso preponderante delle tastiere: Rosset usa con abilità moog, mellotron, piano elettronico ed acustico, organo, anche se a tratti fa il verso all'Emerson di "Tarkus" e Vittorio si disimpegna, come già negli ultimi tempi nei New Trolls, al piano, alla spinetta, all'ARP, oltre che al flauto, limitando il lavoro alla solista.

Ne vengono fuori sei brani piacevoli, dove la parte vocale rimane al solito alquanto isolata dal resto, e non offre granché, nonostante il gruppo voglia riallacciarsi alla prima esperienza 33 dei New Trolls, quel "Senza orario senza bandiera" che grazie all'apporto dei parolieri Mannerini e De André, e forse anche per il momento in cui vide la luce, rappresenta a distanza l'opera più originale e significativa del gruppo genovese. Lo confermano dichiaratamente gli stessi titoli come "La nuova predica di padre O'Brien" ed "Ho visto poi".

Lo svolgimento melodico e ritmico delle composizioni sono invece fluidi ed estremamente lucidi, con vertici massimi negli episodi al sax (parte di "Ho visto poi" e di "Quando l'erba vestiva la terra"), la porzione classicheggiante di "Tornare a credere", e l'iniziale "La nuova predica di padre O'Brien".

                                        Enzo Caffarelli

 

 

 

BANCO DEL MUTUO SOCCORSO

Io sono nato libero - Ricordi (1973)

 

Non è facile trovare le parole giuste per questo nuovo capolavoro del Banco. L'album è venuto fuori dopo un lungo lavoro di selezione tra il materiale che Vittorio Nocenzi e compagni avevano in mente; e questo comporta un maggiore equilibrio rispetto ai precedenti dischi, cioè uno svisceramento di ciascuna idea, superando la struttura collagistica apparsa di tanto in tanto nel primo LP ed in "Darwin!".

Dunque i sei ragazzi (sette con l'aggiunta del chitarrista Rodolfo Maltese che ha affiancato con l'acustica Marcello Todaro) lavorano con lucida inventiva su parte delle loro numerose idee, senza per questo restare ancorati a schemi prestabiliti. L'album è un superamento soprattutto negli arrangiamenti, nelle trovate ritmiche e nell'uso dei sintetizzatore, al quale Vittorio ha dato una fisionomia precisa ed inconfondibile. Inoltre tutti gli strumentisti sono cresciuti, come la recente tournée ha confermato indiscutibilmente: e un cenno particolare merita il più giovane dei fratelli Nocenzi, il pianista Gianni, che esordisce anche nelle vesti di compositore.

Un capitolo a parte anche per Francesco: "Big", al di là del personaggio, è un interprete raffinatissimo, capace di comunicare straordinariamente anche dai microfoni di una sala di registrazione. la sua recitazione possiede una spontaneità inimitabile, e la particolare impostazione contribuisce a far venire in mente certi elementi della musica lirica che il Banco è fra i pochi per non dire l'unica formazione italiana e non ad avere recuperato e riattualizzato alla luce de un linguaggio del tutto nuovo.

I testi sono autentiche poesie, la lingua ricca e se vogliamo ricercata, quindi non sempre di immediata presa, ma nello stesso tempo talmente pregnante di significati che con un minimo di attenzione è facile apprezzarla ed innamorarsene.

I brani di "Io sono nato libero" non costituiscono un disco a concetto unico, come per "Darwin!", tuttavia si articolano intorno ad un comune denominatore che è la ricerca della libertà: libertà che manca ai prigionieri politici ("Almeno tu che puoi fuggi via canto nomade, questa cella è piena della mia disperazione, tu che puoi non farti prendere. Voi condannate per comodità, ma la mia idea già vi assalta. Voi martoriate le mie sole carni, ma il mio cervello vive ancora... ancora"); che manca a chi è costretto a combattere ("Lingue gonfie, pance piene, non parlatemi di libertà, voi che io stramaledico"); che manca a chi vive nelle grandi metropoli disumanizzanti ("Qui il vento non soffia - rivive un'immagine di Cento mani, cento occhi - i rumori, ma c'è il silenzio che s scrivere nell'aria ferma. Sottile non città, fra i tuoi perenni grigi, sola").

Inoltre le parole sono inserite nelle musiche pienamente, senza setti divisori. Insomma una grande opera: e se l'immagine del grasso Francesco e la sua umanità poetica sono la prima cosa a balzare agli occhi ed a toccare il cuore, il gruppo dietro non resta in secondo piano. Sul piano ritmico non ha più nulla da invidiare a nessuno, sul piano delle invenzioni solistiche organo, piano e sintetizzatore, creano suggestioni ed emozioni continue, fuggendo complesse elaborazioni polifoniche, e senza concedersi momenti di pausa.

Un breve cenno sui cinque brani che compongono il microsolco. "Canto nomade per un prigioniero politico" è una stupenda canzone "autunnale", per il clima crepuscolare e nostalgico che la pervade ("In questi giorni è certo autunno giù da noi, dolce Marta, Marta mia", come se per il protagonista, "prigioniero per l'idea", lo scorrere delle stagioni non avesse più senso). La seconda parte del brano è strumentale e sviluppa in particolare idee ritmiche, con l'aggiunta alle percussioni di Silvana Aliotta dei Circus 2000.

"Non mi rompete" è una breve ballata con la chitarra acustica in evidenza. Francesco si riscopre immaginifico discepolo ariostesco, mentre il suo impegno recitativo è maggiore ne "La città sottile", inserito in una dimensione trasognata, da incubo felliniano, con il pianoforte protagonista assoluto. "La città sottile", composto da Gianni Nocenzi, è il brano musicalmente più difficile del LP.

"Dopo... niente è lo stesso" ripercorre tutta una serie di situazioni attraverso una curatissima strumentazione: l'impostazione lirica, la suggestione del dialogo, i personaggi diversi o dovuti alle diverse situazioni psicologiche che si accavallano e si confondono nel finale vortice di tristezza, ne fanno probabilmente il pezzo più significativo del LP. Come pure altrove, i ritmi anglosassoni sono calati in una sensibilità ed in una forma di tradizione tipicamente mediterranee, operazione comune anche a gruppi inglesi, vedi i Gentle Giant ad esempio.

Infine "Traccia II" si ispira al tema che chiudeva il primo album del Banco: uno strumentale che nasce in sordina e poi esplode in un prezioso crescendo. 

Un disto che va ascoltato con molta attenzione, ma che consacra definitivamente - se ce ne fosse ancora bisogno - questo grandissimo gruppo.

                                    Enzo Caffarelli

 

 

 

DEDALUS

Omonimo - Trident (1973)

 

Per la neonata Tridenti esordiscono i Dedalus, Gia segnalatisi come una delle promesse più benne della scena italiana. Come altri nomi nuovi, il gruppo si muove nell'aera del jazz più vicino al rock, quello che in Inghilterra ha nome Soft Machine o Nucleus, in America Miles Davis, Weather Report, Mahavishnu Orchestra, Herbie Hancock.

Il linguaggio dei Dedalus è a metà strada fra le due esperienze, ricco di immagini, ricercato nelle sonorità, e con risultati estremamente soddisfacenti fin dalla prima incisione. Sui quattro giuoca un ruolo notevole l'esperienza, essendo stati tutti più o meno, nonostante l'età (dai ventitré ai diciotto anni), impegnati in ambienti qualificati, come quello dell'elettronica, del jazz o del blues, al contrario di altri musicisti pur volenterosi, che giungono ad esperienze avanzate dopo anni di balera.

Agli strumenti base, che sono batteria, basso, sax o chitarra e tastiere, si aggiungono il sint, varie percussioni, il contrabbasso e, la nota più curiosa, il violoncello - che il pianista Fiorenzo Bonansone inserisce spesso e volentieri tra lucidi assoli di sax - sonorità liquide di piano elettrico, voci elettroniche mescolate con gusto ed efficacia, e ritmi tribali realizzati grazie alla collaborazione di René Mantegna degli Aktuala.

Musica cerebrale e difficile, ma variando timbri e strumenti conduttori, i Dedalus vogliono intenzionalmente prevenire questo pericolo. D'altra parte la musica si evolve, il rock e con esso il pubblico del rock tendono parallelamente a qualcosa di più significativo, a costo di qualche sacrificio di impegno nell'ascolto: i Dedalus lo hanno capito e non si preoccupano di venire incontro alla massa con facili concessioni. Ecco perché questo LP non è destinato al grande successo, anche se rappresenta un convincente esempio di come anche in Italia si possa suonare bene.

Cinque i titoli: "Santiago", "Leda", "Conn", "CT 6" e "Brilla".

                                        Enzo Caffarelli

 

 

 

DUELLO MADRE

Omonimo - Produttori Associati (1973)

 

Si tratta di un quartetto composto dal chitarrista Marco Zoccheddu e dal bassista Bob Callero, che precedentemente avevano fatto parte degli Osage Tribe, più il sassofonista flautista Pippo Trentin ed il batterista Dede Lo Previte.

Per la produzione di Gian Piero Reverberi, il Duello Madre ha composto ed arrangiato i cinque brani in cui si nota una particolare attenzione per i gruppi jazz d'oltre Manica, e un allineamento con numerose altre formazioni italiane d'avanguardia.

La nascita di numerosi nomi sulla scia di un fenomeno generalmente di importazione, come molti sostengono ,è uno degli aspetti più sintomatici e nello stesso tempo inquietanti del mercato italiano. Lasciamo gli artisti liberi di suonare ciò che vogliono, però troppi fra di essi sono sfruttati dalle case discografiche, montati, abilmente manipolati e poi abbandonati. Finché mancheranno le strutture adeguate, in Italia c'è posto soltanto per pochi nomi: ed oltre ad una maturità a livello dirigenziale ed alla preparazione dei gruppi stessi, alludo ad altri problemi allarmanti, come la mancanza di locali adeguati ad ospitare concerti pop in Italia, e la mancanza di fiducia negli spettacoli dei nostri complessi da parte dei gestori e da parte del pubblico stesso.

Invece i gruppi nascono come funghi: per il Duello Madre vale il diritto d'anzianità, trattandosi di musicisti da tempo sulla scena, anche se battezzati con un nuovo nome. E la loro musica, un jazz ben costruito e non astruso, cioè comunicativo, è degna di lode. I brani migliori: "Aquile blu", l'unica con un testo, "Otto" e "Duello".

                                                Enzo Caffarelli

 

 

 

ROCKY'S FILJ

Storie di uomini e non - Ricordi (1973)

 

I Rocky's Filj sono uno di quei tipici gruppi alla cui base non c'è tanto spirito di emulazione, quanto una genuina necessità di esprimersi attraverso la musica: un gruppo di amici che si radunano in cantina per dar sfogo a questa passione, senza porsi, almeno in principio, obiettivi concreti né ambizioni stilistiche ben precise. Una musica viscerale e libera, il cui unico appiglio culturale che si faccia sentire è il richiamo verso il jazz, inteso anch'esso nella sua massima libertà e visceralità.

Tale era all'inizio, oltre due anni fa, la musica dei Rocky's Filj: ma le doti naturali e la freschezza dell'espressione hanno presto inserito il gruppo in un discorso che forse poteva sembrare lontano ed illusorio agli stessi musicisti. Dopo la proficua apparizione al festival d'avanguardia e nuove tendenze di Roma, nel '72, i quattro ragazzi tornavano in cantina, ma questa volta sotto la direzione notoriamente magica del produttore Sandro Colombini. Tutto tempo che, alla luce di questo "Storie di uomini e non", appare decisamente ben speso: il gruppo ha infatti intrapreso una strada originale non solo per il panorama italiano ma anche per quello straniero.

La formazione decisamente inusuale, chitarra, ance, basso, sax, clarino e batteria - non compaiono le tastiere, considerate oggi indispensabili - e la capacità di inserirsi autonomamente in un discorso decisamente vivo e moderno, le parti fiatistiche ricollegabili a certi King Crimson e un vago sapore di McLaughlin, fanno di questi Rocky's Filj una piacevole realtà, infrangendo i timori di chi credeva che dietro a Banco, PFM e Osanna non vi fosse più spazio per la musica rock italiana.

L'album, cinque brani piuttosto omogenei fra i quali si distinguono "L'ultima spiaggia" e "Martino", rivela una natura essenzialmente ritmica, stringata, priva di pesantezza; ma altrettanto presenti sono episodi ricchi di respiri ampi, più pittorici, piccole isole di quiete in mezzo ad un rincorrersi di temi ritmici, in cui la voce di Rocky è un metallo che canta, cesella frasi di grande effetto.

Per il resto l'animosità e la freschezza della musica assorbe e miscela benissimo tutte le matrici, poggiando su doti non comuni: una sezione ritmica impegnatissima e varia, i sax ed il flauto perfettamente inseriti nella linea melodica, una sorprendente chitarra capace di eccitanti assoli e di disegnare sfondi ricchissimi di contrasti.

Il disco è stato registrato in studio, ma senza sovrincisioni, curando in particolare la produzione e la gamma dei suoi e dei timbri: il risultato è quanto di meglio si possa oggi realizzare suonando una musica viva e moderna.

                                         Enzo Caffarelli

 

 

 

JUMBO

Vietato ai minori di 18 anni? - Philips (1973)

 

Jumbo al terzo disco, una prova importante e forse decisiva per il sestetto dopo il convincente "DNA", uscito più di un anno fa.

Punto primo, i testi. Logica reazione all'intellettualismo pedante, ai discorsi filosofici e cattedratici sull'uomo e sulla vita di troppi gruppi italiani, con i nuovi dischi si sta cercando di accoppiare alle musiche d'avanguardia testi altrettanto impegnati, ricorrendo però a situazioni ed immagini più concrete e vere, se vogliamo più autobiografiche, lasciando ai margini del proprio discorso il linguaggio aulico e poetico, per esprimersi in maniera più comunicativa e diretta.

Per i Jumbo il problema assume il valore tutto particolare, perché questo album, come il titolo indica assai bene, affronta tutti temi scottanti della via, estremamente comuni e nascosti d certo perbenismo farisaico, dall'ipocrisia e dal bigottismo di certi strati sociali: prostituzione, alcoolismo, droga, frustrazioni psichiche e sessuali, repressione infantile: sono gli argomenti intorno ai quali Alvaro Fella e compagni hanno articolato la loro opera.

fondamentalmente occorreva affrontare le diverse tematiche in modo significativo e pregnante, rifuggendo frasi fate o ingenue denunce superficiali, ma evitando nello stesso tempo prese di posizione categoriche o di soffermarsi in maniera compiaciuta in certe situazioni.

La via di mezzo è stata raggiunta: Alvaro canta ed urla (il suo è un autentico grido di disperazione) spesso in prima persona, soffrendo e vivendo intensamente ogni brano, e racchiudendo nelle ultime frasi il succo del disco: "Diciamo no, a ipocriti e borghesi, a chi è in malafede, a chi non sogna che ricchezza, ai falsi venditori di parole... ".

Punto secondo, la musica. I Jumbo tentano vie più difficili di quelle delle precedenti incisioni, impiegano in misura minore il flauto, che specie dal vivo costituiva l'elemento conduttore, e si sforzano di superare una costruzione armonica e timbrica semplicistica, o quanto meno prevedibile, proprio per accoppiare alle parole un clima di continua tensione, di inquietudine, di allarme. Non a caso uno degli episodi migliori del LP, "Gil", il brano contro la droga, viene fuori da una session che ha raccolto accanto ai sei Jumbo altri musicisti, i sintetizzatori E.M.S./A.K.S. di Franco Battiato e di Angelo Vaggi, e le percussioni di Lino Vaccina degli Aktuala.

La musica dunque è frastagliata, tortuosa, sofferta. Le tastiere di Sergio Conte svolgono sempre un ruolo di primo piano, e dal punto di vista strumentale i vertici della raccolta sono toccati nella seconda parte di "Specchio", in "Come vorrei essere uguale a te", nella simpatica "Il ritorno del signor K" dagli accenti grotteschi (esplicito il riferimento al precedente LP) e nella già citata "Gil", che costituisce soltanto una porzione della lunga jam registrata.

                                      Enzo Caffarelli

 

 

 

LIVING MUSIC

To Allen Ginsberg - RCA (1972)

 

Formatosi lo scorso anno a Roma, e messosi in evidenza al 2° Festival di Avanguardia e nuove tendenze, il Living Music non vuol e definirsi un gruppo rock né un complesso nel senso classico e stereotipato della definizione. Roberto Marsala, che ha collaborato alla realizzazione del disco, scrive: "In concerto senso il Living Music è una scuola di musica, perché lavorando insieme i più giovani imparano dai più maturi. C'è la combinazione di generazioni diverse, culture diverse, musicisti e non musicisti".

In questa ultima frase è raccolto tutto il senso, i pregi ed i limiti di un gruppo di questo genere, dall'organico non fisso, guidato comunque da Umberto Santucci e dalla moglie Gianfranca Montedoro, entrambi da tempo attivi nel mondo del jazz, il primo come giornalista, fotografo ed organizzatore di concerti, la seconda come cantante in compagnia di Gato Barbieri, Franco D'Andrea, i primi Brainticket ed altri illustri musicisti.

Con un linguaggio semplice e comunicativo, che tenta un riaggancio alla cultura delle origini, e si ispira ad elementi occidentali come orientali, americani, africani, asiatici, europei, il gruppo ha musicato alcune poesie di Allen Ginsberg, uno dei padri della beat generation e della controcultura americana. Si tratta di "Howl" (Urlo), di "Song", di "Lysergic acid" e di "Mandala", lasciate in lingua inglese. Gli altri testi sono stati tratti da poeti giapponesi ed indiani, o sono originali del Living Music.

L'approccio è spontaneo e immediato, anche se rozzo se vogliamo, ma mai indisponente. Convince la voce di Gianfranca che intona su di un ritmo ipnotico il celebre inno che comincia "Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all'alba in cerca di droga rabbiosa, ecc.". O Andrea Carpi, che attendiamo al suo primo "solo" dopo avere abbandonato questo gruppo, cantare su una propria melodia alla Neil Young, "il peso del mondo è amore, sotto il fardello della solitudine, sotto il fardello dell'insoddisfazione, il peso, il peso che trasportiamo è amore... ".

Un disco complessivamente interessante, corredato da un albumetto interno che descrive brano per brano la raccolta, raccoglie saggi e definizioni, esemplifica gli intenti ed i metodi che hanno guidato il gruppo in questa operazione dedicata ad Allen Ginsberg.

                                               Enzo Caffarelli

 

 

 

TRIP

Atlantide - RCA (1972)

 

Tempi buoni per la musica italiana. Dopo un primo LP passato alquanto inosservato, risalente al periodo in cui ancora si diffidava molto dei gruppi italiani, e più ancora di quello anglo-italiani, e dopo un secondo che è serito soprattutto a rilanciarli senza per altro ottenere consensi pieni da parte di tutti, ecco i Trip alla loro terza fatica discografica che li conferma fra i migliori del nostro panorama.

"Atlantide" è l'immagine del mitico continente scomparso riflessa nella nostra civiltà, come monito e speranza a un tempo, contro il tecnicismo esasperato e la corsa al progresso della società del duemila.

Il gruppo si presenta senza il chitarrista, e con un nuovo batterista, il ventenne piemontese Furio Chirico, mentre "Wegg" Andersen e Joe Vescovi sono al solito gli autori dei brani ed i protagonisti delle esecuzioni.

Guardano indietro, a "Caronte", i nuovi Trip presentano soprattutto una maggiore mobilità che li affranca dalla schematicità troppo rigorosa del rock, e spaziano verso lidi pseudo-jazzistici, specie con la freschezza di idee e la nuova libertà che sembra caratterizzare l'indiscutibile tecnica di Joe. Le novità possono essere colte a livello di inventiva e a livello di sonorità; un piano elettrico ed un organo, modificati opportunamente ma senza troppi artifici, un generatore elettronico trovato quasi per caso in uno studio di registrazione, utilizzati per creare espressioni interessantissime e senza vuoti formalismi (come ad esempio si era verificato nel primo LP, in cui i Trip rifacevano palesemente il verso ai Vanilla Fudge, e come oggi avviene per alcuni colleghi, anche stranieri s'intende).

Tempi buoni per la nostra musica dunque. Ed è davvero incredibile osservare come i Trip riescono con una strumentazione tanto esile a creare atmosfere piene, cercar quasi di dare vita a suoni che rievochino profondità marine, o avvicinarsi ai toni incantati del mellotron con un semplice piano elettrico.

L'album contiene un'unica suite suddivisa in otto sezioni. Le migliori: "Atlantide", "Energia", "Analisi" e i pochi attimi conclusivi di "Il vuoto".

                                               Enzo Caffarelli

 

 

Ciao 2001