Materiali / Recensioni - 4

 

 

 

JUMBO

DNA - Philips (1972)

 

La biologia è di moda, e i Jumbo hanno intitolato il loro nuovo album con la sigla dell'acido desossiribonucleico che è alla base della moderna genetica. Il primo album, registrato un anno fa e messo in circolazione soltanto la scorsa primavera, me era parso mediocre. Il secondo invece giunge al momento giusto, e pone i suoi autori nella rosa dei più interessanti gruppi italiani.

Si tratta di un sestetto di musicisti piuttosto personali, anche se concentrati sul filone inglese, specie nell'uso della chitarra solista, tipicamente hard, e nella struttura dei brani che vivono più sulle prodezze dei singoli che sul risultato comune. Le parti vocali meritano due lodi: una prima riguarda la ricerca e lo sforzo di trovare una sufficiente corrispondenza tra rock e lingua italiana, superando la nota incompatibiltà, ed i risultati sono soddisfacenti; la seconda concerne la validità dei testi. Le esecuzioni sono buone, e probabilmente il gruppo esprime meglio dal vivo tutte le sue possibilità.

La prima facciata si articola su episodi di rock aggressivo, sui vellutati interventi flautistici di Dario Guidotti, che suona che l'armonica, e sulla voce grintosa, indubbiamente forzata, ma originale e mai sgradevole di Alvaro Fella, che è anche autore di quasi tutti i pezzi. I primi tre brani sono raccolti sotto il comune titolo di "Suite per il sig. K", dove K sta per arrivismo, perbenismo interessato, ipocrisia, corsa verso falsi ideali di vita.

La seconda facciata, musicalmente più varia, offre ancora testi sullo stesso argomento, il sentirsi vecchi precocemente per non essere all'altezza di rendersi utili a se stessi ed agli altri, per esempio. "Miss Rand" ha qualche lontana influenza di country americano, con un pianino western sullo sfondo. In "Hai visto" è l'organo in primo piano, mentre in "E' brutto sentirsi vecchi" sono la chitarra acustica e la voce di Alvaro a dominare. 

                                        Enzo Caffarelli

 

 

 

QUELLA VECCHIA LOCANDA

Omonimo - Help (1972)

 

"Quella vecchia locanda" è un sestetto romano che ha certamente realizzato uno dei migliori dischi italiani dell'anno, inserendosi di prepotenza nel novero dell'ultima generazione nostrana di gruppi all'avanguardia.

Il gruppo esegue una musica tipicamente inglese nel linguaggio del rock, nella strumentazione ricchissima, nei continui frazionamenti di ritmo e nell'incalzare di fasi solistiche, affidate ora al violino elettrificato e non, ora al flauto o all'ottavino, ora alla spinetta, al mellotron o al moog. La formazione è pressappoco quella dei Gentle Giant, e la musica è molto vicina ai Jethro Tull, specie nell'uso del flauto, nel background batteristico ed in certe frasi vocali: a proposito della voce, mi sembra che ancora una volta il problema dell'applicazione della lingua italiana al rock, trovi scogli insormontabili, tranne forse in uno o due punti del microsolco.

Con uno stile frammentario, ricco di belle immagini, qualche volta un tantino scolastiche, la Vecchia locanda cerca l'equilibrio giusto tra il rock tipicamente britannico, come si diceva, con qualche vago spunto jazzato, e soprattutto con una base classicheggiante, impregnata sul violino che caratterizza tutta la prima parte dell'album e la fase conclusiva; ma non si comprende bene, dato che i riferimenti classici rimangono fini a se stessi, se il gruppo sta cercando un'autentica comunione di momenti musicali, oppure se sta tentando progressivamente di liberarsi del retaggio classico che appartiene indiscutibilmente alla formazione culturale di almeno qualcuno di loro. Certo è che Massimo Roselli, che opera alle testiere, e Donald Lax che suona il violino, mostrano di avere ascoltato Vivaldi e specialmente Bach forse più attentamente di quanto non abbia fatto il flautista e cantante Giorgio Giorgi nei confronti di Ian Anderson.

Ripeto ancora una volta che l'album è fra i migliori italiani in circolazione e lascia intravvedere ottime prospettive. Ma poiché in sede di recensione sono solito indicare di un disco più i difetti che i pregi, voglio aggiungere due parole (non si tratta di snobbismo, penso piuttosto che lo stesso fatto di presentare un LP in questa rubrica - dove passano venti dischi al mese su centinaia che vengono immessi sul mercato - sia già un coefficiente di positività). Desidero solamente sottolineare che il gruppo ha ancora bisogno di trovare rimedio ad una certa freddezza formale, che forse proviene dalla forzata imitazione di modelli stranieri. Se saprà rimpiazzarli con la tradizione italiana, secondo il tentativo di altri gruppi, probabilmente i risultati saranno ancora migliori.

Ottima la registrazione per l'etichetta Help, distribuita dalla RCA italiana.

                                             Enzo Caffarelli

 

 

 

REALE ACCADEMIA DI MUSICA

Omonimo - Ricordi (1972)

 

E' finita l'epoca dell'hard rock e della musica caotica ed ipnotica fine a se stessa. I gruppi italiani hanno imparato la lezione, e dopo qualche flirt passeggero con i gruppi inglesi di maggiore successo (vedi l'esplosione del flauto alla Ian Anderson, presto ridimensionata), eccoli a scoprire una dimensione acustica, melodica, a mettere in prima fila le tastiere, il piano, il mellotron, il sintetizzatore, ed a creare testi intimisti, favolistici, poetici.

Non che in questa operazione gli italiani si siano dimostrati molto originali, perché non sono stati certamente gli iniziatori. Tutt'altro, l'imitazione è forse ancora più palese. Con la differenza tuttavia, che se nel rock duro esse si erano sforzati di immedesimarsi in un linguaggio che non era né può essere il loro, collezionando magre figure e mai superando un livello poco più che accettabile, ora si trovano viceversa a proprio completo agio, con l'arioso respiro delle melodie, le strofe ampia che consentono l'inserimento della troppo armoniosa e barocca lingua italiana (nei confronti di quella laconica ed essenziale degli inglesi), e la strumentazione ricercata e raffinata, dove è sufficiente possedere qualche idea ed un pizzico di buon gusto - anche se non si è veloci, sicuri, tecnicamente preparatissimi - per fare bella figura.

In una parola, gli inglesi ci sono venuti incontro, hanno fatto di tutto - istintivamente ed inconsapevolmente - per portare la musica verso una linea più meridionale, più latina e più classica. Sta a noi raccogliere l'invito.

Come altri, la Reale Accademia di Musica ha registrato un album molto buono che trova immediata collocazione nel discorso sopra svolto. Si tratta di un gruppo romano di musicisti conosciuti nell'ambiente per avere militato in altre formazioni (il nucleo originario del Banco del Mutuo Soccorso, i Fholks), con una cantante di origine spagnola. Prodotti ed assistiti da Maurizio Vandelli, i ragazzi della Reale sfruttano il momento con un sapiente sound basato principalmente sul piano e sul mellotron, con strutture molto melodiche, sulle quali le parti più mosse si inseriscono per progressiva accelerazione dei tempi, senza tuttavia elevarsi con spunti particolarmente originali.

E' la nuova generazione dei gruppi italiani, fra i quali voglio inserire i Jumbo, Quella Vecchia Locanda e il Banco del Mutuo Soccorso. Una generazione che è in possesso delle idee e dell'entusiasmo necessario, ma il cui lavoro si svolge ancora ad uno stadio embrionale. Se uscirà completamente dal guscio, avremo anche noi finalmente una musica bella e sufficientemente autonoma.

Ci prova intanto la Reale Accademia di Musica, con un primo album di sei brani complessivi, tra i quali ricordo "Il mattino", "Padre" e "Vertigine".

                                        Enzo Caffarelli

 

 

 

BATTIATO

Pollution - Bla-bla (1972)

 

Dopo "Fetus", "Pollution" porta il nome dell'operazione ecologica alternativa condotta da Franco Battiato e dai suoi "cervelli manipolatori" lo scorso anno; riprende e racchiude in sé motivi biologici e scientifici e per intenzioni va sicuramente al di là del precedente, e pure nella sua struttura collagistica offre un prodotto piacevolissimo e provocante.

L'impostazione del disco, tutti gli elementi di contorno, la stessa campagna promozionale impostata in termini negativi (la gente non ne può più e fa fermare l'artista più brutto, più buffone, più di cattivo gusto di tutta Italia, ecc.) sono decisamente "di rottura". La copertina rappresenta una delle mattonelle che servirono alla pavimentazione della piazza S. Stefano in Bologna, con un mezzo limone nel quale è stato conficcato un bullone, e l'album è sottointitolato "gesto sonoro in sette anni dedicato al Centro internazionale studi magnetici", partendo dallo spunto di un pazzesco "avviso" reperito ad Imola e riportato integralmente all'interno della copertina.

"Pollution" viene definito la trascrizione di un percorso musicale autolesionista, il gesto finale di un artista ingrato, il crimine lucido di un genio malato.

Gli intenti dissacratori sono evidenti sin dalle prime battute, con la "fucilazione" delle "Leggende del bosco viennese" di Strauss e l'uso costante del sintetizzatore e dell'elettronica, con maniera molto più particolareggiata, descrittiva e funzionale di quanto Battiato non faccia nei suoi shows dal vivo. La musica elettronica è d'altra parte il giusto mezzo per accompagnare testi a sfondo biologico e talora fantascientifico; qui con un tocco in più di ecologia pura, come quando in "Plancton" si profetizza la progressiva trasformazione dell'uomo in pesce per sopravvivere all'estinzione delle risorse sulla terraferma.

L'elemento portante del messaggio di Battiato è una denuncia molto cruda e senza frange retoriche, che invita l'uomo ad una maggiore responsabilizzazione e da una riscoperta di se stesso. "Ti sei mai chiesto quale funzione hai?" è l'enigma che egli si pone più volte nel corso del disco, tanto che poteva esserne il legittimo titolo. In più, come già nel primo album, affiora una vena melodica accattivante, che va dai tocchi brevi e significativi di "31 dicembre 1999: ore 9", forse una profezia della catastrofe universale, alla filastrocca araba di "Areknamess" (il cui testo per buona parte è italiano letto alla rovescia), alle voci filtrate delle allucinate composizioni spaziali di "Beta" o di "Ti sei mai chiesti quale funzione hai?" con un pianto continuo e dirotto.

Anche gli strumenti, dal basso alla chitarra e al piano sono spesso filtrati e restituiti attraverso un VCS3. tutto sommato la ricerca elettronica che il compositore siciliano opera è originale per il nostro panorama, e sembra vicina a certe esperienze tedesche che prendono spunto dalla musica contemporanea e dai Pink Floyd ad esempio. Né le costruzioni armoniche sono povere od effettistiche. In più, volente o nolente, Battiato ha dato un volto al suo personaggio, fattore importante nel momento dei David Bowie e degli Alice Cooper. Un solo pericolo: che dietro la maschera di Battiato, la maschera bianca (il "bianco come unica antitesi allo sporco chimico"), ci sia qualcosa di più della sua faccia.

                                    Enzo Caffarelli

 

 

 

OSANNA

Palepoli - Fonit (1973)

 

Palepoli è la Napoli primigenia, allegoricamente è la terra promessa per una riscoperta dei valori umani e per la liberazione dal tiranneggiamento delle macchine e dell'evoluzione tecnocratica. Gli Osanna hanno fondato su questo presupposto la loro opera teatrale e musicale che sta girando l'Italia.

A noi spetta parlare in questa sede essenzialmente della musica. Ma non possiamo non lodare il gruppo per il coraggio con il quale ha portato avanti e realizzato un lavoro, cui da tempo attendeva con ostinazione e, dire, con un orgoglio tutto napoletano; e per avere aperto la strada, in Italia, ad un discorso artistico più vasto e coinvolgente, come può esser la fusione fra musica, parola, gesto e immagine, secondo una formula che anche altre formazioni italiane - sappiamo di sicuro - hanno in programma per un prossimo futuro.

L'opera si svolge come un'odissea attraverso i secoli, e si articola intorno ad un teatro sperimentale, piuttosto primitivo, che trova il suo riscontro musicale in certe volute imperfezioni tecniche, in una immediatezza che non è mai però rozzezza, nella sfasatura dei cori e nel missaggio che non è quello perfettissimo di altre occasioni.

Sul piano della musica non vi è una vera e propria corrispondenza con i tempi, né un forzato compiacimento nel folklore napoletano. Forse una ricerca de un recupero più approfondito non avrebbero guastato. Solamente nello stupendo inizio ci si trova in un'antica Napoli popolare, tra il vociare di un mercato, un flauto di ispirazione orientaleggiante ed i richiami dei venditori ambulanti, che si risolvono successivamente in un tempo di tarantella, cantata in dialetto (- Fuje 'a chistu paese, fuje 'a chistu paese. Parole, penziere, perzone nun vanno ddaccordo nemmanco nu mese. Fuje 'a chistu paese, fuje 'a chistu paese. L'ammore, 'na casa, nu munno, so 'ccose luntane a 'sta ggente ddjuna - ). Questa è l'introduzione, mentre per il resto gli accenni sono molto vaghi, in pratica brevi spunti flautistici di Elio D'Anna, che ricordano danze popolari.

Non ci sono davvero critiche autentiche da muovere a "Palepoli", specie dopo avere ascoltato con concentrazione e più volte l'album: in particolare la prima facciata ci sembra quanto di meglio un gruppo italiano ha saputo realizzare negli ultimi tempi. La strumentazione è quella solita del quintetto, con ampio uso di fiati e di tastiere; c'è una normale frammentarietà di immagini, ma spesso gli Osanna impiegano tutti gli strumenti insieme, palesando l'affiatamento e la coesione dei quali sono maestri dal vivo, ed il discorso è più unitario e completo, rispetto ad esempio al primo album, "L'uomo".

Il gruppo ha saputo conciliare la musica con l'immagine, senza però condizionare l'una forma d'arte in funzione dell'altra: questo non esclude comunque che si possa avere la comprensione autentica dell'opera solo dal vivo, a teatro. L'uso del mellotron e del sintetizzatore, le chitarre e specialmente quella elettrica di Danilo Rustici che, pur essendo un discepolo di John McLaughlin, è uno dei più originali strumentisti italiani, i fiati insuperabili di Elio distribuiti con precisione e parsimonia, i testi intelligenti e provocanti, beni inseriti negli spazi musicali senza rappresentare un momento staccato nello svolgimento della musica: tutti questi elementi fanno di "Palepoli" un'opera interessante ed importante

                                        Enzo Caffarelli

 

 

 

METAMORFOSI

Inferno - Vedette (1972)

 

Oggetto di accusa da parte di chi vedeva solamente un atto di presunzione nelle rielaborazioni rock di Bibbia, Vangelo e affini, la Metamorfosi non cade nell'errore di volere riproporre in chiave moderna la Divina Commedia: l' "Inferno", secondo LP del gruppo, dopo un primo compromesso che siglava il passaggio dalla canzone di consumo ad una ricerca più impegnata, è soltanto una visione personale del mondo attuale in chiave dantesca.

Nessuna ambizione pretesa. Il discorso si sviluppa infatti come un'analisi dei grandi peccatori di oggi, che in fondo sono quelli di sempre (avari, lussuriosi, violenti, politicanti - e nel caso specifico i "signori presidenti"), anche se con sfumature diverse, come lo spacciatore di droga, i razzisti, gli sfruttatori. Per ciascuno un'analisi sostanziale, vorrei dire quasi lapidaria, ed un'applicazione rigorosa della legge del contrappasso.

La Metamorfosi ha saputo inserire i testi nel contesto musicale senza fratture. Sostanzialmente le musiche rispecchiano l'esigenza melodica dei nuovi gruppi italiani, senza l'ossessività ritmica dell'hard e dei sottoprodotti derivati, come il dark sound cui la formazione non intende affatto ricollegarsi, pur cercando di creare specie in taluni episodi l'atmosfera solenne e tragica che si addice all'ambiente.

Per questi e per altri motivi la Metamorfosi si può collocare, nell'ambito della scena italiana, al fianco del Banco del Mutuo Soccorso e forse delle Orme, anche per certi riferimenti ad Emerson, Lake & Palmer e ad altri gruppi inglesi che usano di preferenza le tastiere.

Accanto ad una solida ritmica, dove tra l'altro figura un batterista di nazionalità congolese, Gianluca Herygers, e all'ottimo cantante e flautista Jimmy Spitaleri, l'elemento portante della fo4rmazione è Enrico Olivieri, che suona in pratica ogni tipo di tastiera, compreso il sintetizzatore.

Ricco di spunti jazzistici, l'album si distingue per il gusto continuo che no esalta la tipica frammentarietà e quei momenti di raccordo noiosi che spesso depauperano le opere dei nostri gruppi.

                                                Enzo Caffarelli

 

 

 

DELIRIUM

Lo scemo e il villaggio - Fonit (1972)

 

A cavallo tra l'impegno della ricerca e il motivo orecchiabile, un occhio all'album "concept" ed uno alla sigla televisiva, ora privati di Ivano Fossati, i Delirium propongono questo secondo album a quasi un anno di distanza dal primo.

Nella loro musica c'è sempre un non so che di indefinito: spunti jazzati, qualche passaggio ricco di gusto e raffinato, senza effettismi di sorte, e qualche rispolveratura delle cadenze e dei colori che hanno fatto, con "Jesahel" e compagnia bella, la fortuna del complesso genovese.

Da quanto si capisce, il gruppo cerca di non deludere le sue schiere di fans. Tra un mellotron ed un piano jazzistico, tra un flauto dolce ed una chitarra acustica, la voce di Mimmo Di Martino, canta i testi brevi ma pieni di significato.

Lo scemo del villaggio rappresenta il disadattato, l'escluso dal gruppo, dalla società, e secondo le note di copertina "il vero uomo, l'interprete autentico della saggezza naturale, nonostante le beffe di cui lo fa oggetto un villaggio i cui sapienti somigliano pericolosamente ad un branco di scimmie". Il personaggio non subisce passivamente, ma denuncia la falsità e la vanità del mondo che lo circonda, da cui la luce eroica che lo illumina e la necessità del conflitto sociale come insostituibile momento dialettico.

Confrontando questo album con il precedente "Dolce acqua", si nota subito una differente distribuzione degli strumenti (in evidenza i sax, ad esempio), mentre la musica a tratti si rifà al precedente lavoro.

Il gruppo riesce in definitiva ad essere originale, senza cioè ispirarsi a nessuno in particolare, ma si sente che è andato alla ricerca di un terreno personale, al di fuori di alcuni canoni tradizionali.

                                         Enzo Caffarelli

 

 

 

CLAUDIO ROCCHI

La norma del cielo (volo magico n. 2) - Ariston (1972)

 

Due mesi fa Claudio Rocchi tornava in Italia dalla sua esperienza indiana, giunta puntuale dati gli interessi artistici ed umani del cantautore milanese. Tornava anche con l'epatite virale, dalla quale fortunatamente si è rimesso.

Questo album è esattamente la prosecuzione del precedente, "Volo magico n. 1", considerato anche il fatto che quel primo doveva essere doppio, mutilato poi per ovvie controversie discografiche. Dunque buona parte del materiale qui raccolto era pronto da un anno almeno. Simile è l'impostazione dei brani, i brevi tratti cantati che focalizzano il pezzo, ed i lunghi episodi strumentali, gli stessi sono i musicisti partecipanti alle registrazioni, fra i quali Eugenio Pezza, Eno Bruce, Lorenzo Vassallo, Alberto Camerini.

L'album di Claudio contiene melodie fresche e dolcissime, anche se qua e là i periodi meditativi vengono un po' sacrificati alla creazione di una particolare concentrazion3e e di una particolare atmosfera; buoni i testi: il loro messaggio è semplice come il personaggio che gli sta dietro. Frasi come "vivi la vita vivendo la vita" hanno un significato profondissimo, ma che purtroppo può sfuggire ad una ascoltatore distratto.

Claudio è già molto conosciuto anche grazie alla rubrica radiofonica "Per voi giovani", e dunque quasi tutti lo apprezzano: pensiamo che questo LP piacerà a chi già lo stima, e riuscirà a convincere anche il resto del pubblico. La cosa più interessante, al di là delle influenze orientaleggianti, ci sembra la vena genuina del cantautore, che sa fare del folk con semplicità e poesia sulla base di un discorso prettamente italiano. Così in "La norma del cielo", "Storia di tutti", "L'arancia è un frutto d'acqua".

                                                     S. R.

 

 

 

LATTE E MIELE

Passio secundum Mattheum - Polydor (1972)

 

Dopo la Bibbia, la Divina Commedia, era prevedibile che anche il Vangelo secondo San Matteo divenisse preda dei gruppi italiani, per soddisfare le ambizioni culturali dei nostri musicisti, sulla scorta di più vaghi esempi inglesi, e per mascherare nella maggior parte dei casi una certa carenza creativa.

All'operazione si sono dedicati Latte e Miele, un trio di ragazzi molto giovani, specie il batterista Alfio, provenienti da una della capitai del pop nostrano, vale a dire Genova. Il compito si presentava non facile per mille ed una ragione: ma essenzialmente in quanto proporre il Vangelo, anche se relativamente ad una piccola porzione quale può essere la Passione di Criso dall'ultima cena al Calvario, era impresa ardua, e perché a differenza della Divina Commedia dei Metamorfosi, e della Bibbia del Rovescio della medaglia, qui esisteva un illustre precedente, la rock opera "Superstar" di Webber e Rice.

Senza particolari ambizioni, Latte e Miele sono riusciti pienamente nel loro compito, descrivendo i vari momenti narrativi o una strumentazione ricca e con tutti gli accorgimenti - non i trucchi - che un attrezzato studio di registrazione può mettere loro a disposizione; e con una freschezza non comune nel panorama dei complessi italiani dell'ultimissima leva, senza annoiare mai, La music è frammentaria, tenuta unita da un sottile filo conduttore, e le esecuzioni sono ricche di una poesia semplice ma efficace.

Quello che ancora non convince pienamente sono i testi, on tanto per la loro sostanza, elementare e tratta direttamente dalle parole del Vangelo, quanto per la collocazione nel contesto della musica. Voglio cioè dire che una parte delle liriche, il ruolo del narratore, è al solito recitate, e dunque interrompe il corso della musica evidenziando quel limite che più o meno è proprio di molti gruppi italiani.

L'opera è stata composta da Giancarlo Della Casa e da Oliviero Lacagnina. Segnalo la parte jazzistica che chiude la prima ed introduce la seconda facciata, ed i cori ecclesiastici, dove si sente la mano del produttore del trio, un ex cantante lirico.

                                               Enzo Caffarelli

 

 

 

LE ORME

Felona e Sorona - Philips (1973)

 

Il terzo album del nuovo corso delle Orme, quello iniziatosi con il sorprendente "Collage", ripropone lo stesso dilemma del precedente "Uomo di pezza". Le Orme sono capaci di una musica piacevole, raffinata e tecnicamente ineccepibile, ma non riescono più a sviscerare una vena originale.

Il gruppo sfrutta sapientemente gli insegnamenti dei migliori complessi inglesi basati sulle tastiere, e li rielaborano con una formula personale. Sottolineo in particolare l'analogia con i Genesis specie nell'uso del mellotron.

"Felona e Sorona", sono i pianeti del sogno e della speranza, simboleggiati sulla bellissima copertina di Lanfranco. Per la prima volta le Orme hanno sviluppato un'interessante trama, i testi sono semplici ma significativi. Felone e Sorona sono due piante fratelli, l'uno luminoso, regno di pace e di serenità, l'altro piccolo e tenebroso, con la flora e la fauna quasi atrofizzati. L'Essere supremo, irritato perché l'astro felice lo ha dimenticato, dirotta verso l'altro la luce, e solo per un momento brevissimo si stabilisce l'equilibrio fra i due pianeti, che si trovano colpiti entrambi dalla luce del Supremo. Poi essi ribaltano completamente la propria condizione. 

La musica è gustosa, i passaggi cantati sono orecchiabili, l'album sarà probabilmente un altro successo. Ma il gruppo ha perduto qualcosa del brio e della vivacità degli inizi, e non riesce a liberarsi dagli schemi già utilizzati in passato. Un periodo di stasi creativa con parecchi punti interrogativi per il futuro.

                                               Enzo Caffarelli

 

 

Ciao 2001