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JUMBO
DNA
- Philips (1972)
La
biologia è di moda, e i Jumbo hanno intitolato il loro nuovo
album con la sigla dell'acido desossiribonucleico che è alla base
della moderna genetica. Il primo album, registrato un anno fa e
messo in circolazione soltanto la scorsa primavera, me era parso
mediocre. Il secondo invece giunge al momento giusto, e pone i
suoi autori nella rosa dei più interessanti gruppi italiani.
Si
tratta di un sestetto di musicisti piuttosto personali, anche se
concentrati sul filone inglese, specie nell'uso della chitarra
solista, tipicamente hard, e nella struttura dei brani che vivono
più sulle prodezze dei singoli che sul risultato comune. Le parti
vocali meritano due lodi: una prima riguarda la ricerca e lo
sforzo di trovare una sufficiente corrispondenza tra rock e lingua
italiana, superando la nota incompatibiltà, ed i risultati sono
soddisfacenti; la seconda concerne la validità dei testi. Le
esecuzioni sono buone, e probabilmente il gruppo esprime meglio
dal vivo tutte le sue possibilità.
La
prima facciata si articola su episodi di rock aggressivo, sui
vellutati interventi flautistici di Dario Guidotti, che suona che
l'armonica, e sulla voce grintosa, indubbiamente forzata, ma
originale e mai sgradevole di Alvaro Fella, che è anche autore di
quasi tutti i pezzi. I primi tre brani sono raccolti sotto il
comune titolo di "Suite per il sig. K", dove K sta per
arrivismo, perbenismo interessato, ipocrisia, corsa verso falsi
ideali di vita.
La
seconda facciata, musicalmente più varia, offre ancora testi
sullo stesso argomento, il sentirsi vecchi precocemente per non
essere all'altezza di rendersi utili a se stessi ed agli altri,
per esempio. "Miss Rand" ha qualche lontana influenza di
country americano, con un pianino western sullo sfondo. In
"Hai visto" è l'organo in primo piano, mentre in
"E' brutto sentirsi vecchi" sono la chitarra acustica e
la voce di Alvaro a dominare.
Enzo Caffarelli
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QUELLA
VECCHIA LOCANDA
Omonimo
- Help (1972)
"Quella
vecchia locanda" è un sestetto romano che ha certamente
realizzato uno dei migliori dischi italiani dell'anno, inserendosi
di prepotenza nel novero dell'ultima generazione nostrana di
gruppi all'avanguardia.
Il
gruppo esegue una musica tipicamente inglese nel linguaggio del
rock, nella strumentazione ricchissima, nei continui frazionamenti
di ritmo e nell'incalzare di fasi solistiche, affidate ora al
violino elettrificato e non, ora al flauto o all'ottavino, ora
alla spinetta, al mellotron o al moog. La formazione è
pressappoco quella dei Gentle Giant, e la musica è molto vicina
ai Jethro Tull, specie nell'uso del flauto, nel background
batteristico ed in certe frasi vocali: a proposito della voce, mi
sembra che ancora una volta il problema dell'applicazione della
lingua italiana al rock, trovi scogli insormontabili, tranne forse
in uno o due punti del microsolco.
Con
uno stile frammentario, ricco di belle immagini, qualche volta un
tantino scolastiche, la Vecchia locanda cerca l'equilibrio giusto
tra il rock tipicamente britannico, come si diceva, con qualche
vago spunto jazzato, e soprattutto con una base classicheggiante,
impregnata sul violino che caratterizza tutta la prima parte
dell'album e la fase conclusiva; ma non si comprende bene, dato
che i riferimenti classici rimangono fini a se stessi, se il
gruppo sta cercando un'autentica comunione di momenti musicali,
oppure se sta tentando progressivamente di liberarsi del retaggio
classico che appartiene indiscutibilmente alla formazione
culturale di almeno qualcuno di loro. Certo è che Massimo
Roselli, che opera alle testiere, e Donald Lax che suona il
violino, mostrano di avere ascoltato Vivaldi e specialmente Bach
forse più attentamente di quanto non abbia fatto il flautista e
cantante Giorgio Giorgi nei confronti di Ian Anderson.
Ripeto
ancora una volta che l'album è fra i migliori italiani in
circolazione e lascia intravvedere ottime prospettive. Ma poiché
in sede di recensione sono solito indicare di un disco più i
difetti che i pregi, voglio aggiungere due parole (non si tratta
di snobbismo, penso piuttosto che lo stesso fatto di presentare un
LP in questa rubrica - dove passano venti dischi al mese su
centinaia che vengono immessi sul mercato - sia già un
coefficiente di positività). Desidero solamente sottolineare che
il gruppo ha ancora bisogno di trovare rimedio ad una certa
freddezza formale, che forse proviene dalla forzata imitazione di
modelli stranieri. Se saprà rimpiazzarli con la tradizione
italiana, secondo il tentativo di altri gruppi, probabilmente i
risultati saranno ancora migliori.
Ottima
la registrazione per l'etichetta Help, distribuita dalla RCA
italiana.
Enzo Caffarelli
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REALE
ACCADEMIA DI MUSICA
Omonimo
- Ricordi (1972)
E'
finita l'epoca dell'hard rock e della musica caotica ed ipnotica
fine a se stessa. I gruppi italiani hanno imparato la lezione, e
dopo qualche flirt passeggero con i gruppi inglesi di maggiore
successo (vedi l'esplosione del flauto alla Ian Anderson, presto
ridimensionata), eccoli a scoprire una dimensione acustica,
melodica, a mettere in prima fila le tastiere, il piano, il
mellotron, il sintetizzatore, ed a creare testi intimisti,
favolistici, poetici.
Non
che in questa operazione gli italiani si siano dimostrati molto
originali, perché non sono stati certamente gli iniziatori.
Tutt'altro, l'imitazione è forse ancora più palese. Con la
differenza tuttavia, che se nel rock duro esse si erano sforzati
di immedesimarsi in un linguaggio che non era né può essere il
loro, collezionando magre figure e mai superando un livello poco
più che accettabile, ora si trovano viceversa a proprio completo
agio, con l'arioso respiro delle melodie, le strofe ampia che
consentono l'inserimento della troppo armoniosa e barocca lingua
italiana (nei confronti di quella laconica ed essenziale degli
inglesi), e la strumentazione ricercata e raffinata, dove è
sufficiente possedere qualche idea ed un pizzico di buon gusto -
anche se non si è veloci, sicuri, tecnicamente preparatissimi -
per fare bella figura.
In
una parola, gli inglesi ci sono venuti incontro, hanno fatto di
tutto - istintivamente ed inconsapevolmente - per portare la
musica verso una linea più meridionale, più latina e più
classica. Sta a noi raccogliere l'invito.
Come
altri, la Reale Accademia di Musica ha registrato un album molto
buono che trova immediata collocazione nel discorso sopra svolto.
Si tratta di un gruppo romano di musicisti conosciuti
nell'ambiente per avere militato in altre formazioni (il nucleo
originario del Banco del Mutuo Soccorso, i Fholks), con una
cantante di origine spagnola. Prodotti ed assistiti da Maurizio
Vandelli, i ragazzi della Reale sfruttano il momento con un
sapiente sound basato principalmente sul piano e sul mellotron,
con strutture molto melodiche, sulle quali le parti più mosse si
inseriscono per progressiva accelerazione dei tempi, senza tuttavia
elevarsi con spunti particolarmente originali.
E'
la nuova generazione dei gruppi italiani, fra i quali voglio
inserire i Jumbo, Quella Vecchia Locanda e il Banco del Mutuo
Soccorso. Una generazione che è in possesso delle idee e
dell'entusiasmo necessario, ma il cui lavoro si svolge ancora ad
uno stadio embrionale. Se uscirà completamente dal guscio, avremo
anche noi finalmente una musica bella e sufficientemente autonoma.
Ci
prova intanto la Reale Accademia di Musica, con un primo album di
sei brani complessivi, tra i quali ricordo "Il mattino",
"Padre" e "Vertigine".
Enzo Caffarelli
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BATTIATO
Pollution
- Bla-bla (1972)
Dopo
"Fetus", "Pollution" porta il nome
dell'operazione ecologica alternativa condotta da Franco Battiato
e dai suoi "cervelli manipolatori" lo scorso anno;
riprende e racchiude in sé motivi biologici e scientifici e per
intenzioni va sicuramente al di là del precedente, e pure nella
sua struttura collagistica offre un prodotto piacevolissimo e
provocante.
L'impostazione
del disco, tutti gli elementi di contorno, la stessa campagna
promozionale impostata in termini negativi (la gente non ne può
più e fa fermare l'artista più brutto, più buffone, più di
cattivo gusto di tutta Italia, ecc.) sono decisamente "di
rottura". La copertina rappresenta una delle mattonelle che
servirono alla pavimentazione della piazza S. Stefano in Bologna,
con un mezzo limone nel quale è stato conficcato un bullone, e
l'album è sottointitolato "gesto sonoro in sette anni
dedicato al Centro internazionale studi magnetici", partendo
dallo spunto di un pazzesco "avviso" reperito ad Imola e
riportato integralmente all'interno della copertina.
"Pollution"
viene definito la trascrizione di un percorso musicale
autolesionista, il gesto finale di un artista ingrato, il crimine
lucido di un genio malato.
Gli
intenti dissacratori sono evidenti sin dalle prime battute, con la
"fucilazione" delle "Leggende del bosco
viennese" di Strauss e l'uso costante del sintetizzatore e
dell'elettronica, con maniera molto più particolareggiata,
descrittiva e funzionale di quanto Battiato non faccia nei suoi
shows dal vivo. La musica elettronica è d'altra parte il giusto
mezzo per accompagnare testi a sfondo biologico e talora
fantascientifico; qui con un tocco in più di ecologia pura, come
quando in "Plancton" si profetizza la progressiva
trasformazione dell'uomo in pesce per sopravvivere all'estinzione
delle risorse sulla terraferma.
L'elemento
portante del messaggio di Battiato è una denuncia molto cruda e
senza frange retoriche, che invita l'uomo ad una maggiore
responsabilizzazione e da una riscoperta di se stesso. "Ti
sei mai chiesto quale funzione hai?" è l'enigma che egli si
pone più volte nel corso del disco, tanto che poteva esserne il
legittimo titolo. In più, come già nel primo album, affiora una
vena melodica accattivante, che va dai tocchi brevi e
significativi di "31 dicembre 1999: ore 9", forse una
profezia della catastrofe universale, alla filastrocca araba di
"Areknamess" (il cui testo per buona parte è italiano
letto alla rovescia), alle voci filtrate delle allucinate
composizioni spaziali di "Beta" o di "Ti sei mai
chiesti quale funzione hai?" con un pianto continuo e
dirotto.
Anche
gli strumenti, dal basso alla chitarra e al piano sono spesso
filtrati e restituiti attraverso un VCS3. tutto sommato la ricerca
elettronica che il compositore siciliano opera è originale per il
nostro panorama, e sembra vicina a certe esperienze tedesche che
prendono spunto dalla musica contemporanea e dai Pink Floyd ad
esempio. Né le costruzioni armoniche sono povere od effettistiche.
In più, volente o nolente, Battiato ha dato un volto al suo
personaggio, fattore importante nel momento dei David Bowie e
degli Alice Cooper. Un solo pericolo: che dietro la maschera di
Battiato, la maschera bianca (il "bianco come unica antitesi
allo sporco chimico"), ci sia qualcosa di più della sua
faccia.
Enzo Caffarelli
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OSANNA
Palepoli
- Fonit (1973)
Palepoli
è la Napoli primigenia, allegoricamente è la terra promessa per
una riscoperta dei valori umani e per la liberazione dal
tiranneggiamento delle macchine e dell'evoluzione tecnocratica.
Gli Osanna hanno fondato su questo presupposto la loro opera
teatrale e musicale che sta girando l'Italia.
A
noi spetta parlare in questa sede essenzialmente della musica. Ma
non possiamo non lodare il gruppo per il coraggio con il quale ha
portato avanti e realizzato un lavoro, cui da tempo attendeva con
ostinazione e, dire, con un orgoglio tutto napoletano; e per avere
aperto la strada, in Italia, ad un discorso artistico più vasto e
coinvolgente, come può esser la fusione fra musica, parola, gesto
e immagine, secondo una formula che anche altre formazioni
italiane - sappiamo di sicuro - hanno in programma per un prossimo
futuro.
L'opera
si svolge come un'odissea attraverso i secoli, e si articola
intorno ad un teatro sperimentale, piuttosto primitivo, che trova
il suo riscontro musicale in certe volute imperfezioni tecniche,
in una immediatezza che non è mai però rozzezza, nella sfasatura
dei cori e nel missaggio che non è quello perfettissimo di altre
occasioni.
Sul
piano della musica non vi è una vera e propria corrispondenza con
i tempi, né un forzato compiacimento nel folklore napoletano.
Forse una ricerca de un recupero più approfondito non avrebbero
guastato. Solamente nello stupendo inizio ci si trova in un'antica
Napoli popolare, tra il vociare di un mercato, un flauto di
ispirazione orientaleggiante ed i richiami dei venditori
ambulanti, che si risolvono successivamente in un tempo di
tarantella, cantata in dialetto (- Fuje 'a chistu paese, fuje 'a
chistu paese. Parole, penziere, perzone nun vanno ddaccordo
nemmanco nu mese. Fuje 'a chistu paese, fuje 'a chistu paese. L'ammore,
'na casa, nu munno, so 'ccose luntane a 'sta ggente ddjuna - ).
Questa è l'introduzione, mentre per il resto gli accenni sono
molto vaghi, in pratica brevi spunti flautistici di Elio D'Anna,
che ricordano danze popolari.
Non
ci sono davvero critiche autentiche da muovere a "Palepoli",
specie dopo avere ascoltato con concentrazione e più volte
l'album: in particolare la prima facciata ci sembra quanto di
meglio un gruppo italiano ha saputo realizzare negli ultimi tempi.
La strumentazione è quella solita del quintetto, con ampio uso di
fiati e di tastiere; c'è una normale frammentarietà di immagini,
ma spesso gli Osanna impiegano tutti gli strumenti insieme,
palesando l'affiatamento e la coesione dei quali sono maestri dal
vivo, ed il discorso è più unitario e completo, rispetto ad
esempio al primo album, "L'uomo".
Il
gruppo ha saputo conciliare la musica con l'immagine, senza però
condizionare l'una forma d'arte in funzione dell'altra: questo non
esclude comunque che si possa avere la comprensione autentica
dell'opera solo dal vivo, a teatro. L'uso del mellotron e del
sintetizzatore, le chitarre e specialmente quella elettrica di
Danilo Rustici che, pur essendo un discepolo di John McLaughlin,
è uno dei più originali strumentisti italiani, i fiati
insuperabili di Elio distribuiti con precisione e parsimonia, i
testi intelligenti e provocanti, beni inseriti negli spazi
musicali senza rappresentare un momento staccato nello svolgimento
della musica: tutti questi elementi fanno di "Palepoli"
un'opera interessante ed importante
Enzo Caffarelli
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METAMORFOSI
Inferno
- Vedette (1972)
Oggetto
di accusa da parte di chi vedeva solamente un atto di presunzione
nelle rielaborazioni rock di Bibbia, Vangelo e affini, la
Metamorfosi non cade nell'errore di volere riproporre in chiave
moderna la Divina Commedia: l' "Inferno", secondo LP del
gruppo, dopo un primo compromesso che siglava il passaggio dalla
canzone di consumo ad una ricerca più impegnata, è soltanto una
visione personale del mondo attuale in chiave dantesca.
Nessuna
ambizione pretesa. Il discorso si sviluppa infatti come un'analisi
dei grandi peccatori di oggi, che in fondo sono quelli di sempre
(avari, lussuriosi, violenti, politicanti - e nel caso specifico i
"signori presidenti"), anche se con sfumature diverse,
come lo spacciatore di droga, i razzisti, gli sfruttatori. Per
ciascuno un'analisi sostanziale, vorrei dire quasi lapidaria, ed
un'applicazione rigorosa della legge del contrappasso.
La
Metamorfosi ha saputo inserire i testi nel contesto musicale senza
fratture. Sostanzialmente le musiche rispecchiano l'esigenza
melodica dei nuovi gruppi italiani, senza l'ossessività ritmica
dell'hard e dei sottoprodotti derivati, come il dark sound cui la
formazione non intende affatto ricollegarsi, pur cercando di creare
specie in taluni episodi l'atmosfera solenne e tragica che si
addice all'ambiente.
Per
questi e per altri motivi la Metamorfosi si può collocare,
nell'ambito della scena italiana, al fianco del Banco del Mutuo
Soccorso e forse delle Orme, anche per certi riferimenti ad
Emerson, Lake & Palmer e ad altri gruppi inglesi che usano di
preferenza le tastiere.
Accanto
ad una solida ritmica, dove tra l'altro figura un batterista di
nazionalità congolese, Gianluca Herygers, e all'ottimo cantante e
flautista Jimmy Spitaleri, l'elemento portante della fo4rmazione
è Enrico Olivieri, che suona in pratica ogni tipo di tastiera,
compreso il sintetizzatore.
Ricco
di spunti jazzistici, l'album si distingue per il gusto continuo
che no esalta la tipica frammentarietà e quei momenti di raccordo
noiosi che spesso depauperano le opere dei nostri gruppi.
Enzo Caffarelli
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DELIRIUM
Lo
scemo e il villaggio - Fonit (1972)
A
cavallo tra l'impegno della ricerca e il motivo orecchiabile, un
occhio all'album "concept" ed uno alla sigla televisiva,
ora privati di Ivano Fossati, i Delirium propongono questo secondo
album a quasi un anno di distanza dal primo.
Nella
loro musica c'è sempre un non so che di indefinito: spunti
jazzati, qualche passaggio ricco di gusto e raffinato, senza
effettismi di sorte, e qualche rispolveratura delle cadenze e dei
colori che hanno fatto, con "Jesahel" e compagnia bella,
la fortuna del complesso genovese.
Da
quanto si capisce, il gruppo cerca di non deludere le sue schiere
di fans. Tra un mellotron ed un piano jazzistico, tra un flauto
dolce ed una chitarra acustica, la voce di Mimmo Di Martino, canta
i testi brevi ma pieni di significato.
Lo
scemo del villaggio rappresenta il disadattato, l'escluso dal
gruppo, dalla società, e secondo le note di copertina "il
vero uomo, l'interprete autentico della saggezza naturale,
nonostante le beffe di cui lo fa oggetto un villaggio i cui
sapienti somigliano pericolosamente ad un branco di scimmie".
Il personaggio non subisce passivamente, ma denuncia la falsità e
la vanità del mondo che lo circonda, da cui la luce eroica che lo
illumina e la necessità del conflitto sociale come insostituibile
momento dialettico.
Confrontando
questo album con il precedente "Dolce acqua", si nota
subito una differente distribuzione degli strumenti (in evidenza
i sax, ad esempio), mentre la musica a tratti si rifà al
precedente lavoro.
Il
gruppo riesce in definitiva ad essere originale, senza cioè
ispirarsi a nessuno in particolare, ma si sente che è andato alla
ricerca di un terreno personale, al di fuori di alcuni canoni
tradizionali.
Enzo Caffarelli
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CLAUDIO
ROCCHI
La
norma del cielo (volo magico n. 2) - Ariston (1972)
Due
mesi fa Claudio Rocchi tornava in Italia dalla sua esperienza
indiana, giunta puntuale dati gli interessi artistici ed umani del
cantautore milanese. Tornava anche con l'epatite virale, dalla
quale fortunatamente si è rimesso.
Questo
album è esattamente la prosecuzione del precedente, "Volo
magico n. 1", considerato anche il fatto che quel primo
doveva essere doppio, mutilato poi per ovvie controversie
discografiche. Dunque buona parte del materiale qui raccolto era
pronto da un anno almeno. Simile è l'impostazione dei brani, i
brevi tratti cantati che focalizzano il pezzo, ed i lunghi episodi
strumentali, gli stessi sono i musicisti partecipanti alle
registrazioni, fra i quali Eugenio Pezza, Eno Bruce, Lorenzo
Vassallo, Alberto Camerini.
L'album
di Claudio contiene melodie fresche e dolcissime, anche se qua e
là i periodi meditativi vengono un po' sacrificati alla creazione
di una particolare concentrazion3e e di una particolare atmosfera;
buoni i testi: il loro messaggio è semplice come il personaggio
che gli sta dietro. Frasi come "vivi la vita vivendo la
vita" hanno un significato profondissimo, ma che purtroppo
può sfuggire ad una ascoltatore distratto.
Claudio
è già molto conosciuto anche grazie alla rubrica radiofonica
"Per voi giovani", e dunque quasi tutti lo apprezzano:
pensiamo che questo LP piacerà a chi già lo stima, e riuscirà a
convincere anche il resto del pubblico. La cosa più interessante,
al di là delle influenze orientaleggianti, ci sembra la vena
genuina del cantautore, che sa fare del folk con semplicità e
poesia sulla base di un discorso prettamente italiano. Così in
"La norma del cielo", "Storia di tutti",
"L'arancia è un frutto d'acqua".
S. R.
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LATTE
E MIELE
Passio
secundum Mattheum - Polydor (1972)
Dopo
la Bibbia, la Divina Commedia, era prevedibile che anche il
Vangelo secondo San Matteo divenisse preda dei gruppi italiani,
per soddisfare le ambizioni culturali dei nostri musicisti, sulla
scorta di più vaghi esempi inglesi, e per mascherare nella
maggior parte dei casi una certa carenza creativa.
All'operazione
si sono dedicati Latte e Miele, un trio di ragazzi molto giovani,
specie il batterista Alfio, provenienti da una della capitai del
pop nostrano, vale a dire Genova. Il compito si presentava non
facile per mille ed una ragione: ma essenzialmente in quanto
proporre il Vangelo, anche se relativamente ad una piccola
porzione quale può essere la Passione di Criso dall'ultima cena
al Calvario, era impresa ardua, e perché a differenza della Divina
Commedia dei Metamorfosi, e della Bibbia del Rovescio della
medaglia, qui esisteva un illustre precedente, la rock opera
"Superstar" di Webber e Rice.
Senza
particolari ambizioni, Latte e Miele sono riusciti pienamente nel
loro compito, descrivendo i vari momenti narrativi o una strumentazione ricca e con tutti gli accorgimenti - non i trucchi -
che un attrezzato studio di registrazione può mettere loro a
disposizione; e con una freschezza non comune nel panorama dei
complessi italiani dell'ultimissima leva, senza annoiare mai, La
music è frammentaria, tenuta unita da un sottile filo conduttore,
e le esecuzioni sono ricche di una poesia semplice ma efficace.
Quello
che ancora non convince pienamente sono i testi, on tanto per la
loro sostanza, elementare e tratta direttamente dalle parole del
Vangelo, quanto per la collocazione nel contesto della musica.
Voglio cioè dire che una parte delle liriche, il ruolo del
narratore, è al solito recitate, e dunque interrompe il corso
della musica evidenziando quel limite che più o meno è proprio
di molti gruppi italiani.
L'opera
è stata composta da Giancarlo Della Casa e da Oliviero Lacagnina.
Segnalo la parte jazzistica che chiude la prima ed introduce la
seconda facciata, ed i cori ecclesiastici, dove si sente la mano
del produttore del trio, un ex cantante lirico.
Enzo Caffarelli
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LE
ORME
Felona
e Sorona - Philips (1973)
Il
terzo album del nuovo corso delle Orme, quello iniziatosi con il
sorprendente "Collage", ripropone lo stesso dilemma del
precedente "Uomo di pezza". Le Orme sono capaci di una
musica piacevole, raffinata e tecnicamente ineccepibile, ma non
riescono più a sviscerare una vena originale.
Il
gruppo sfrutta sapientemente gli insegnamenti dei migliori
complessi inglesi basati sulle tastiere, e li rielaborano con una
formula personale. Sottolineo in particolare l'analogia con i
Genesis specie nell'uso del mellotron.
"Felona
e Sorona", sono i pianeti del sogno e della speranza,
simboleggiati sulla bellissima copertina di Lanfranco. Per la
prima volta le Orme hanno sviluppato un'interessante trama, i
testi sono semplici ma significativi. Felone e Sorona sono due
piante fratelli, l'uno luminoso, regno di pace e di serenità,
l'altro piccolo e tenebroso, con la flora e la fauna quasi
atrofizzati. L'Essere supremo, irritato perché l'astro felice lo
ha dimenticato, dirotta verso l'altro la luce, e solo per un
momento brevissimo si stabilisce l'equilibrio fra i due pianeti,
che si trovano colpiti entrambi dalla luce del Supremo. Poi essi
ribaltano completamente la propria condizione.
La
musica è gustosa, i passaggi cantati sono orecchiabili, l'album
sarà probabilmente un altro successo. Ma il gruppo ha perduto
qualcosa del brio e della vivacità degli inizi, e non riesce a
liberarsi dagli schemi già utilizzati in passato. Un periodo di
stasi creativa con parecchi punti interrogativi per il futuro.
Enzo Caffarelli
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