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AREA Arbeit
macht frei - Cramps (1973) Sono
nati da circa un anno, ma la loro formazione ha già subìto
numerosi cambi (vedi anche le mininotizie di questo stesso
numero), cosicché due soli dell'originaria formazione sono i
superstiti. Gli
Area sono comunque il gruppo più interessante venuto alla ribalta
in questo 1973 in Italia, ed il loro difficile album conferma le
belle premesse di tanti spettacoli e di tanti inviti (ricordo fra
parentesi che hanno suonato in tour con i Gentle Giant, i Soft
Machine, gli Atomic Rooster, i Faces, sono stati invitati alla
Biennale di Parigi ed alla Triennale di Milano, ecc.). Dall'iniziale
free jazz, orientato verso i Nucleus o i Soft Machine, gli Area si
sono spostati verso una ricerca più attenta di contenuti e di
effetti sonori, attingendo alla musica popolare, in modo
particolare a quella greca ed araba, ed alle esperienze
concreto-contemporanee con le quali sono venuti a contatto: Luigi
Nono, Luciano Berio, l'ungherese Gyorgy Ligeti, il greco Yannis
Xenakis fra i principali. La loro musica vuole essere
assolutamente di "rottura", radicale nelle intenzioni
dei musicisti e di chi li guida. "Arbeit
macht frei" significa in tedesco "il lavoro rende
liberi", ed era lo slogan posto all'entrata dei campi di
concentramento nazisti. I sei brani che compaiono sull'album sono
legati da un filo ideologico simboleggiato appunto dalla
consapevolezza del carattere totalitario dell'affermazione. Il
contenuto del LP si ispira a riflessioni sulla violenza e sul
terrorismo: ma scelte orientative come l'introduzione di una
recitazione in lingua araba, i richiami al folklore mediorientali
trasfigurati, le citazioni si Smirne o di Settembre nero, sono da
una parte la logica conseguenza della provenienza (greca) del
leader Demetrio Stratos, dall'altra tendono a sottolineare un
percorso storico-geografico della violenza: dai campi nazisti agli
ebrei, al mondo arabo, turco, greco, russo. E
la musica è violenta, aggressiva, specie nella struttura
volutamente caotica di certi momenti, nelle sofferte
interpretazioni vocali, alcune delle quali recitative, di
Demetrio. Così il brano conclusivo, "L'abbattimento dello
Zeppelin", dal sapore sinistro e provocatorio, sottolineato
da effetti particolari dell'uso della voce, che segue le
indicazioni di Berio nell'affiancamento voce-musica elettronica,
ha un doppio senso: da un lato l'abbattimento di una realtà
difesa dai miti; dall'altro un chiaro attacco alla musica pop
tradizionale, individuabile in quel momento nei Led Zeppelin. Tutti
i brani sono ad alto livello: "Luglio, agosto, settembre
(nero)" con la voce araba che introduce una melodia
orientaleggiante; "Arbeit macht frei" di sapore più
tipicamente jazzistico, come pure "240 km da Smirne",
esclusivamente strumentale, un pezzo fra i migliori anche eseguito
secondo schemi piuttosto classici di free, Infine "Le labbra
del tempo" si presenta più varia e contorta, un insieme di
sensazioni e di voci che si accavallano e si divaricano con
particolare cura degli effetti. Complessivamente
la ritmica si rivela particolarmente efficace: Ian Patrick Djivas,
neo acquisto della Premiata Forneria Marconi, suon un basso Fender
Precision privo di tasti ed il contrabbasso, rivelandosi un
solista instancabile e fantastico. Latro musicista di spicco è
Eddy Busnello, un sassofonista già con una lunga esperienza alle
spalle. Ma
anche tutti gli altri si muovono con attenzione giungendo a
risultati ricchi di potenza e di fantasia, come Stratos, che opera
alle percussioni, suona l'organo con il compito principale di
creare un continuum di fasce sonore per gli altri solisti, ed
utilizza la voce alla maniera tipica e significativa di uno
strumento.
Enzo Caffarelli
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ACQUA
FRAGILE
Omonimo
- Numero Uno (1973)
Sicuramente
uno dei migliori gruppi italiani venuti alla ribalta nel corso
dell'anno, l'Acqua fragile, si presenta con tutte le carte in
regola: scoperti dalla PFM, coadiuvati dal produttore Claudio Fabi,
con testi in inglese (molto belli) scritti da un membro del
gruppo, e tradotti sulla copertina.
In
data recente hanno accompagnato i Gentle Giant in tour, e mi sono
sembrati diversi da quelli conosciuti attraverso il disco.
Sinceramente preferisco parlare dell'album.
"Morning
comes" sembra uscire dal repertorio dei Genesis. Mi si
perdoni i paragoni che spesso uso per i gruppi italiani, ma tutto
sommato una simile affermazione può esser anche un complimento.
La voce del cantante è vicina a quella di Peter Gabriel, ed anche
la costruzione armonica del brano è tipicamente alla Genesis: lo
stesso accade, in parte, per "Song from a picture" e per
"Education story". Le tastiere, usate in funzione
orchestrale, infondono un tono vivace e a un tempo solenne alla
musica dell'Acqua fragile.
"Comic
strips", "fumetti", è significativa parodia degli
ultimi Gentle Giant: azzeccato il titolo, dato l'evidente
tentativo dei fratelli Shulman di dare un'idea visiva dei loro
brani, colonna sonora ideale per cartoni animati.
"Science
fiction suite" e "Going out" sono su di un altro
piano: l'impasto chitarristico ed il tipo di coro, trasferiscono
l'asse di orientamento in America. E si realizza così, su scala,
quella elegante fusione fra musica inglese ed americana che ha
negli Yes i maggiori portabandiera.
In
genere il suono è ricco, le melodie ben congegnate, le esecuzioni
impeccabili. Notevole la padronanza degli strumenti da parte del
quintetto, compresa la sezione ritmica, in genere carente nelle
formazioni nostrane. Molto gusto, e non c'è quella
frammentarietà di colori e di tempi cui tanti altri gruppi ci
hanno abituato.
Enzo Caffarelli
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BALLETTO
DI BRONZO
YS
- Polydor (1972)
Dà
un tantino l'idea della Divina commedia la serie di quadri che
compongono l'album: "Primo incontro", "secondo
incontro", ecc., e l'originale miniaturismo delle pagine
interne della confezione, ma Dante Alighieri non è stato
scomodato, ed il Balletto di bronzo ha creato, al di là dei
riferimenti culturali che non ci sono e al di là dei testi, un album musicalmente ottimo, grazie ad un ritmo sorretto da una
vitalissima sezione che non cade mai nell'hard rock, e grazie alle
numerosissime tastiere di Gianni Leone, che opera al piano,
all'organo, al mellotron, alla celeste, alla spinetta ed al Moog.
Il
Balletto è stato uno dei primo gruppi in Italia a portare avanti
un discorso nuovo, ma come quasi tutti i gruppi nati intorno al
1968-69, hanno incontrato difficoltà insormontabili per sfondare,
al contrario dei più fortunati gruppi del periodo immediatamente
successivo. Il gruppo napoletano ha ora le carte in regola per un
successo di gran lunga più ampio, e l'album "YS" è un
primo esempio di capacità e di idee che sicuramente possono
essere potenziate e sviluppate.
Da
un punto di vista strumentale, il Balletto si presenta omogeneo e
tecnicamente dotato, specie quando l'atmosfera si fa lievemente
jazzata, ed assai pregevoli sono i passaggi alle tastiere, ad
esempio nella seconda parte della lunga "Introduzione",
e nella porzione a cavallo fra il "Secondo" ed il
"Terzo incontro" e nell'"Epilogo". Anche i
testi sono interessanti, ma per il Balletto vale la legge della
difficoltà di accoppiare la lingua italiana con il ritmo del
rock, che sembra nato apposta per le lingue anglosassoni. E' forse
l'unico neo del gruppo di "YS" come di tante altre
formazioni, in parte sormontabile soprattutto se si pensa che la
musica esclusivamente strumentale non è più tabù
Enzo Caffarelli
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DE
DE LIND
Io
non so da dove vengo e non so dove mai andrò. Uomo è il nome che
mi han dato - Mercury (1973)
Corro
il rischio di non trovare più che cosa scrivere intorno ai gruppi
italiani, i quali nonostante il momento buono più volte
sottolineato, si ripetono in una maniera incredibile.
Dopo
il successo clamoroso e, per la maggior parte dei casi, meritato,
di alcuni gruppi nostrani, le case discografiche ed i managers,
fino a quel momento drasticamente chiusi ad ogni tentativo di
novità, ad ogni esperimento che portasse una ventata di
freschezza all'asfittico panorama italiano, hanno creduto di
scoprire l'oro e si sono buttati a testa bassa sul materiale
giovane, spendendo tempo e danaro sull'etichetta
"underground italiano" (ammesso e non concesso che buona
parte delle persone che in Italia tengono in mano il mercato
discografico, siano in grado di selezionare il buono dal cattivo,
e di distinguere ciò che non capiscono da quello che definiscono
underground. Purtroppo la nuova generazione di tecnici e
discografici giovani si sta imponendo solo lentamente).
E'
un breve monito questo che vorrebbe richiamare ad una certa
prudenza, a contenere un fenomeno che rischia la più
ridicola delle inflazioni. Non è un discorso che serve ad
introdurre specificatamente i De De Lind, gruppo nuovo che tutto
sommato conosce il fatto suo e si esprime in termini accettabili,
facendosi apprezzare moderatamente per questo suo esordio, senza
raggiungere tuttavia traguardi troppo ambiziosi e lodevoli.
I
De De Lind sono in cinque, con la tipica strumentazione ricchissima
del nuovo prototipo di gruppo italiano: un cantante che scrive i
testi e suona la chitarra acustica, due ritmi, due solisti che si
alternano al flauto, al sax, al pino, all'organo, alla chitarra
elettrica. Niente di nuovo sotto il sole: le solite melodie
acustiche alternate a ritmi incalzanti e a brevi episodi di rock
più duro, con testi difficilmente imponibili alle esigenze
metriche delle melodie, e strutturati al solito modo ed introno
agli stessi argomenti di introspezione personale che finiscono per
essere fatalmente i più banali (benedetti ragazzi, sarete i duecentocinquantesimi ad usare titoli come "Fuga e
morte", "Smarrimento", "Voglia di
vivere", "E poi...", e meno male che non c'è
accenno a "Sogno e risveglio", "Incubo" e
"Illusione!").
Qualche
influenza classicheggiante, e tante idee appena abbozzate ed ancora
da sviluppare compiutamente. E' un album dal titolo chilometrico
che ha la funzione principale di creare una base, sia pure con
qualche trave traballante, per un edificio futuro forse ricco di
buoni risultati. Tra le due facciate, migliore la prima.
Enzo Caffarelli
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SHOWMEN
2
Omonimo
- B.B.B. (1972)
Gli
Showmen tornano sulla scena contrassegnati dal numero due, dopo un
lungo periodo di stasi successivo alla dipartita di Elio D'Anna,
ora con gli Osanna, e con parecchie idee nuove e interessanti.
Sono
ancora in sei, ma più della metà degli elementi non sono più
quelli che alternavano R&B commercialoidi a ripescaggi degli
anni Quaranta.
L'album
è inciso per l'esordiente etichetta B.B.B. (Beautiful black
butterfly), e si presenta con una confezione elegantissima, e
completa di note, testi, adesivo e manifesto. Ma quello che conta
maggiormente è la musica, un tipico pop-jazz che gli Showmen
hanno sicuramente imparato dai Chicago (l'ultima volta che
apparvero alla televisione, se non vado errato due anni or sono,
suonarono proprio la "Introduction" da "Transit
authority"). Il sestetto ricorda i Chicago per l'impostazione
degli ottoni, la cui sezione è guidata dall'ottimo
italo-americano James Senes, rimasto portabandiera della vecchia
guardia. Ma per buona parte il disco si muove su orientamenti
personali, e sicuramente lascia intravvedere un futuro ancora
migliore.
Come
tutti i gruppi interessanti usciti negli ultimi tempi in Italia,
due sono le preoccupazioni di base del gruppo: scartare a priori
una supina imitazione dei modelli stranieri riagganciandosi alla
tradizione italiana; e creare dei testi originali e validi,
cercando di adattarli nel migliore dei modi al linguaggio del
rock.
I
problemi sono stati risolti abbastanza bene, anche se forse troppa
importanza è stata fatta per tempo e per spazio alla parti
cantate, tuttavia giustificate da una serie di testi molto buoni
("Epitaffio", "E la vita continua", "Lo
zio Tom").
Un
album dunque con un certo coraggio e degno di essere ascoltato.
Un'altra prova inoltre dell'importanza di Napoli (Osanna, Balletto
di Bronzo, ecc.) nel discorso pop italiano, con un invito per gli
organizzatori di concerti a tenere maggiormente in considerazione
la candidatura della città partenopea.
Enzo Caffarelli
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ALAN
SORRENTI
Come
un vecchio incensiere all'alba di un villaggio deserto - Harvest
(1973)
Credo
che Alan Sorrenti sia uno di quei personaggi su cui ci si troverà
costantemente in disaccordo, pronti ad esaltarlo da una parte come
il personaggio più nuovo ed importante fuoruscito dalla nostra
scena, o come un discreto musicista, dall'altra, ma abile
mistificatore prima di ogni altra cosa.
Di
questo secondo LP del cantautore anglo-napoletano abbiamo già
abbondantemente detto in anteprima. Se il carattere peculiare del
personaggio risiede nell'avere ribaltato il concetto tradizionale
dell'uso della voce, per primo in Italia, se pure sulla scorta di
illustri esempi stranieri (Tim Buckley, Shawn Phillips, lo stesso
Peter Hammill), Alan si conferma altresì compositore eccellente,
al di là dell'uso (e dell'abuso in più di un'occasione) dei suoi
indiscutibili mezzi vocali.
Naturalmente
non tutto è farina del suo sacco: la presenza di gente matura, si
solisti capaci di qualsiasi improvvisazione e variazione al suo
fianco, gli consentono una coralità espressiva intelligente ed
affascinante: nel primo album era il sol Jean-Luc Ponty l'uomo di
"punta". Qui sono presenti un Dave Jackson in grande
forma, che alle fughe rabbiose del sax preferisce quelle più
dolci ma non meno inquietanti di uno splendido flauto ("Serenesse"
ed "Oratore"); Francis Monkman pianista e
sintetizzatorista (VCS3) essenziale complemento all'organico; Toni
Marcus violinista piena di grazie ed eleganza; Ron Matthewson al
contrabbasso in un brano e Victor Bell al violoncello in un altro;
infine la coppia italiana (D'Amora - Esposito) certo non
disprezzabile.
La
prima facciata, suddivisa in cinque pezzi, è senza dubbio la più
convincente, la meno forzata e la più varia. Alan sfrutta la voce
nei canali della grande arte, e si sforza di autoesaltarsi nel
limite del lecito, mediante anche testi significativi e pregni di
simbolismi. Rispetto al precedente LP "Aria", c'è
proprio una maggiore maturità espressiva complessiva, una
struttura portante melodica e ritmica più compatta e meno
egocentrica, parole meno decadenti e più realistiche.
"Serenesse",
"Una luce si accende", "A te che dormi",
quest'ultima per sola voce e chitarra acustica, sono degli
autentici capolavori.
La
lunga suite che occupa per oltre ventitré minuti la seconda
facciata, "Come un vecchio incensiere all'alba di un
villaggio deserto", risente invece del progetto troppo
ambizioso e forzato dell'impiego della voce, naturale o filtrata
attraverso il sintetizzatore. Anche l'orchestrazione si fa più
povera, e si entra nel delirio, perdendo spesso la lucidità: si
tenta di creare una nuova atmosfera, una serie di sensazioni prive
di aggancio con la realtà, e la musica si disgrega in una serie
di suoni e rumori illogici. Solo la strofa cantata (con un testo
assai bello) e la parte finale, dove l'abilità vocale si risolve
più che altro in qualche giuoco acrobatico, riscattano
l'incensiere.
Un
disco notevolissimo che imporrà definitivamente Sorrenti presso
il pubblico italiano.
Enzo Caffarelli
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ALLUMINOGENI
Scolopendra
- Fonit (1972)
Gli
Alluminogeni fanno parte di quel gruppo ci complessi nati tre o
quattro anni or sono con la lodevole intenzione di rinnovare il
mercato italiano, ma incapaci di costruire in pratica grandi cose.
Fra i tanti anzi, il trio piemontese ha sempre mantenuto il
ricordo di una melodicità tutta italiana, un po' come più tardi
avrebbe fatto, ma sinceramente ad altro livello, il Banco del
mutuo soccorso.
In
questo senso la musica italiana viene automaticamente a
svincolarsi dai modelli stranieri. Ma probabilmente non è questa
l'intenzione racchiusa nelle ultime righe della presentazione del
disco: "Non parole estetizzanti senza significato, ma
liberazione dalle caverne dell'inglese da cui prima ci giungevano
i suoni". Se si allude alle tematiche musicali, alla ricerca
strumentale basata soprattutto sulle tastiere, non mi sembra
allora che tale allontanamento sia profondo come si vorrebbe far
credere.
Patrizio
Alluminio, occhialuto leader del gruppo, sciorina con abilità i
suoi preferiti, che vanno dal Winwood di "Glad" in
apertura, al piano elettrico, all'organistico Jimmy Smith di
"Cosmo". Spinti come sono verso l'elettronica e l'uso
delle tastiere e degli effetti in generale, gli Alluminogeni si
son edificati in album "spaziale" ("La natura e
l'universo", "La stella di Atades",
"Cosmo", "Pianeta") rivelando purtroppo ancora
una volta la grande crisi di testi che esiste in Italia.
La
musica propone immagini ed invenzioni (- questi suoni che
ascolterete - dicono le note - sono già dentro di voi. Erano
chiusi dentro - ). Ma a mio avviso "Scolopendra" è un
album sì piacevole, ma irrimediabilmente appartenente alla
generazione precedente e non attuale del pop italiano.
Enzo Caffarelli
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FRANCHI
GIORGETTI TALAMO
Il
vento ha cantato per ore tra i rami dei versi d'amore
- Produttori Associati (1973)
Il
disco di un esordiente trio di chitarristi italiani si presenta in
maniera curiosa e provocante , con la copertina che contiene viti,
bulloni, puntine, molle, una manciata di terra e perfino un
peperoncino verde, tutto vero, e con il discorso principale che
concerne la situazione e le possibilità della musica italiana in
questo momento.
Scrive
nella
presentazione del disco Roberto Dané, che è anche il produttore
delle incisioni: "La difficoltà sta nel non rifare un
qualsiasi disco americano o inglese, ma nel tenerne ben conto,
perché, tramontati Puccini o Leoncavallo, la musica viene di lì,
come son venuti i jeans, i capelli lunghi, le chitarre, le bombe,
il pacifismo, la droga, gli hot pants di cagionevole ma contagioso
gusto e tutte le altre porcherie-bellezze che ci manda zietta
anglosassone tutte le mattine. Se poi la musica pop italiana è di
derivazione angloamericana, chi se ne frega, l'ispirazione non
paga diritto d'autore, ancora. Se poi si può stravolgere la
fanfara dei bersaglieri o un vecchio canto alpino o l'inno
americano per fare un giro di musica pop, ben venga, è un'operazione
bieca e divertente e di tutto riposo per la coscienza".
Tale
introduzione, che prosegue sottolineando la difficoltà dei testi
in lingua italiana, serve tutto sommato a creare un alibi
convincente per una eventuale imitazione dei modelli stranieri,
che comunque in Franchi-Giorgetti-Talamo non è evidente e
certamente non intenzionale. Danilo Franchi è di Fiume, Vittorio
Giorgetti di Varese e Oliviero Talamo di Napoli, tutti e tre
studenti universitari e studiosi di musica folk e classica.
L'album,
registrato con l'aiuto di una sezione ritmica e dell'orchestra
pittorescamente intitolata "Unione fraterna e
artigiana", affronta un discorso esistenziale basato su
quattro tempi: l'oppressione, la liberazione mancata,
l'intolleranza e l'amore, ciascuno svolto in due o più episodi. I
testi rivelano un notevole impegno poetico ed anche la musica
riflette la necessità di recuperare con un linguaggio nuovo
qualcosa della tradizione italiana, come hanno fatto, in un
differente contesto, le Orme tanto per fare un esempio.
Non
è musica progressiva e non c'è nulla di trascendentale, però è
un disco degno di menzione nell'attuale panorama italiano.
Enzo Caffarelli
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MARIO
BARBAJA
Megh
- Gnomo (1972)
Barbaja
(vero nome Barbaglia) è un cantautore milanese di ventidue anni,
chitarrista e sitarista, innamorato delle filosofie e della musica
indiana, con "Megh" al secondo album, dopo un primo
intitolato "Argento" non molto interessante ed anzi
passato del tutto inosservato.
Semplice,
poetico, toccante Barbaja trae ispirazione soprattutto da Donovan,
che egli ha imitato fin troppo fedelmente nella prima esperienza,
ma del quale neppure con "Megh" riesce a disfarsi,
specie nel timbro della voce e nell'andamento cantilenante delle
melodie così tipico del menestrello scozzese, soprattutto in
brani come "Sono stato" e "Una promessa".
Altrove
l'amore per l'oriente e le atmosfere eteree e rarefatte fanno
pensare al compagno di etichetta Claudio Rocchi, complice il fatto
che buona parte degli accompagnatori sono gli stessi che
comparivano in "Volo magico n. 1": così "In quella
città " e "Non dire mai", dove Barbaja ricorda
Rocchi anche per l'impostazione delle liriche.
"Megh"
è una parola indiana che significa pressappoco "Raga
dell'autunno, del vespero, delle cose semplici". I nove brani
complessivamente raccolti sono introdotti e conclusi dal suono
d'un carillon napoleonico, che vuole probabilmente significare
come tutta la musica sia nell'attimo di una nota di un organino
meccanico, fuori dal tempo, senza dimensione.
Nei
brani, registrati con la produzione di Massimo Villa ex Stormy Six
e sapientemente arrangiati, abbondano i riferimenti
orientali, sia per la strumentazione che per i testi (le note che
accompagnano il disco parlano di sistemi dialettici nella
filosofia zen). "In quella città (la leggenda)" si
distingue da tutte le altre perché è una libera jam, rielaborata
con particolari effetti elettronici e sovraincisioni (voci al
contrario, piatti della batteria a velocità rallentata, ecc.).
Accanto
all'album di Franchi Giorgetti e Talamo, di cui si parlava sopra,
anche Barbaja va tenuto in considerazione come esempio di folk
italiano credibile e ricco di spunti interessanti.
Enzo Caffarelli
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PREMIATA
FORNERIA MARCONI
Per
un amico - Numero Uno (1972)
Se
una conferma era necessaria da parte della Premiata, il secondo album è esattamente ciò che ci si poteva attendere: più curato
del precedente, meno immediato ed appariscente, sicuramente avrà
una funzione importantissima nell'abituare l'orecchio del
consumatore medio italiano a discorsi più impegnati.
Per
la sua raffinatissima costituzione, l'album avrebbe bisogno di un
buon impianto stereofonico per essere pienamente gustato; perfette
sono le registrazioni, cui ha collaborato Claudio Fabi. La musica
è a tinte tenui, pallide, sempre rigorosamente calibrata ed
intimista, stilisticamente eclettica al massimo, e proprio per
questo tipicamente indicata ad esprimere compiutamente le esigenze
artistiche di questo periodo di transizione.
Le
due facciate sono divise complessivamente in cinque titoli.
"Appena un po'" parte come collage di frammenti di
musica classica, posti in un mosaico policromo, a somiglianza dei
Gentle Giant, il gruppo che pare avere sostituito King Crimson
nella funzione di ispirazione del quintetto. La tradizione
italiana, quegli accenni di tarantella e di canto popolare che nle
primo album venivano calati nel linguaggio meravigliosamente
moderno del gruppo, in un magma sonoro che cresce e scompare, si
dilata e di restringe, è qui ancora presente, sotto forma
prevalentemente di tradizione classica (Sei e Settecento), varie
citazioni sottilmente legate fra loro da episodi di mellotron o
di sintetizzatore. Con questo brano la Premiata ripropone
l'atmosfera fiabesca dei migliori gruppi inglesi e del primo LP
"Storia di un minuto".
"Generale"
imprime alla raccolta una maggiore vitalità, e si rilevano gli
interessi per il jazz, che viene tuttavia a combinarsi con altre
forme espressive; l'impasto fra piano, violino e chitarra,
interrotto da una marcetta militare in sintonia con il titolo,
rappresenta la parte migliore del brano.
"Per
una amico" somiglia forse troppo ai Gentle Giant, sia nella
strumentazione che si basa sostanzialmente sul pianoforte, sia
nella melodia che nell'uso delle voci, ma vorrei precisare che il
confronto con il gruppo fedele discepolo di Francois Rabelais e
dei menestrelli medievali non li fa affatto sfigurare. Il brano è
indirizzato a tutti i sedicenti pacifisti, a coloro che avvertono
l'urgenza dei problemi e ne denunciano la gravità in una sorta di
mistica estasi, senza diretto intervento, caso frequente anche fra
i musicisti. Il brano che dà il titolo all'intero album (forse il
destinatario è Claudio Rocchi) dice fra l'altro: "Non
domandarmi se un giorno cambierà, comincia a fare qualcosa... tu
scappi e ti nascondi e non si può, tu vivi i tuoi compromessi e
non si può... non è più tempo di sogni ma di realtà... ".
"Il
banchetto" presenta una prima parte cantata, con un breve e
pregnante testo contro l'asservimento allo stato costituito
("Sire, maestà, riverenti come sempre siamo tutti qua; sire,
siamo no, il poeta, l'assassino e sua santità, tutti fedeli amici
tuoi, o maestà" e poi ancora: "Tutti sorridono, solo il
popolo non ride ma lo si sa, sempre piagnucola, non gi va mai bene
niente, chissà perché , chissà perché... "). La seconda
parte è strumentale, con il moog che introduce e coordina vari
strumenti classicheggianti (fra l'altro la PFM utilizza il
clavicembalo, la spinetta, vari flauti, il mandoloncello).
Infine
"Geranio" è la più intima e cerebrale fra le cinque
composizioni, quasi impercettibile nelle sue sottili evoluzioni,
nei suoi contrasti chiaroscurali e nella sua fine struttura, con
un maestoso finale dove il moog, come altrove, riesce a dare
l'idea della grande orchestra.
Enzo Caffarelli
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