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NEW TROLLS
Searching for a land
- 2 LP Cetra (1972)
Uno dei caratteri
distintivi di noi italiani è quello di essere un popolo
demitizzatore per eccellenza, pronti ad infierire ogni qualvolta
qualcuno alzi la cresta, ed a ridimensionare senza scrupoli
qualsiasi divismo precedentemente edificato, sia esso nel mondo
dello sport, della canzone, dello spettacolo in genere.
In fatto di musica
pop la critica spietata, il gusto della competizione e della
classifica, la diffidenza reciproca sono purtroppo ancora
all'ordine del giorno: e un po' tutti dovremmo recitare un mea
culpa.
Cosicché era
invevitabile giudicare con il naso un tantino arricciato
quest'ultimo disco dei New Trolls, gruppo che non possiamo dire
abbia sempre fatto professione di modestia, e per giunta con un
titolo e tutti i testi in inglese, quasi per snobbare il pubblico
nostrano. Ma in fondo non è così.
Le musiche sono
costruite in piena libertà, e se puri di tanto in tanto odorano
di saggio dimostrativo, non sono irritanti come talora è parso
dal vivo, e confermano la maturità artistica versto la quale si
avviano i New Trolls, ben arricchitisi di esperienze
d'oltremanica, e ben forniti di spunti classicheggianti e
pseudojazzistici. In quanto ai testi, non potendo negare che la
lingua inglese, per motivi puramente fonetici, si adatta meglio di
qualsiasi altra alle sonorità del rock, i New Trolls hanno agito
in questo modo al fine di prepararsi un lancio adeguato e con le
maggiori probabilità di successo nei paesi anglosassoni, dove la
lingua nazionale è obbligatori. Del resto non possiamo che lodare
il tentativo di portare qualcosa di nostro al di fuori dei confini
italiani, specie perché il precedente "Concerto Grosso"
ha fatto conoscere ed apprezzare il gruppo genovese in Francia e
soprattutto in Germania.
Un disco è stato
registrato in studio, l'altro dal vivo. Tra l'altro si tratta di
uno dei primissimi dischi italiani dal vivo a parte i cantanti
tradizionali, i New Trolls si sono allineati con tanto di
mellotron e di sintetizzatore, e si fanno apprezzare soprattutto
nei periodi acustici e nei brevi tocchi classici, un po' meno
quando la solista distorta di Nico diviene la protagonista.
L'iniziale "Searcin'"
e "A land to live a land to die" sono i pezzi distudio
più pretenziosi, con il piano e l'organo rispettivamente in bella
evidenza; altrettanto valide alcune melodie intimiste, come
"Once that I prayed", la medievaleggiante e breve
"Giga" (la giga era appunto uno strumento a corde del
Trecento), "To Edith", e fra i brani dal vivo la lunga
"Lying here", che occupa l'intera quarta facciata, con
vari flauti e cori gregoriani in apertura.
Il titolo,
"cercando un terra" allude alla ricerca esistenziale
propria di ogni uomo, e si realizza in quadri diversi per i testi
dovuti al nuovo bassista, italo-canadese, della formazione.
"A
land to live
a land to die" canta la ricerca di un popolo intero,
costretto da secoli a migrare, un popolo che cerca "una terra
per vivere e una terra per morire". "Percival" è
il personaggio reale partito alla volta di terre del sogno,
attirato dalla pietra filosofale per non invecchiare, che tenta la
strada dell'amore, poi quella della scienza, infine quella della
fede. La ricerca religiosa è sentita anche in "In St. Peter's
day" ed in "Once that I Prayed", mentre "To
Edith" è tratta da una poesia di Bertrand Russell, non
soltanto per rendere omaggio all'illustre filosofo e matematico,
ma anche per sottolineare il suo messaggio indicante nell'amore
valido e consapevole un porto all'angosciosa ricerca dell'umana
esistenza.
Enzo Caffarelli
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DELIRIUM
Dolce acqua - Fonit
(1971)
Per chi è rimasto
al "Canto di Osanna", devo immediatamente precisare che
i cinque Delirium valgono assai di più, e che anzi sono
sicuramente fra i nomi che danno maggiore fiducia e maggiore
speranza per il futuro della musica italiana.
Dopo gli Osanna,
anche i compagni di scuderia Delirium hanno costruito quello che
in Inghilterra chiamano un "album concept", in altri
termini una raccolta di brani legati da un tema conduttore: tema
conduttore che è ancora una volta l'uomo, compresso dal
particolarismo e minacciato dall'alienazione, in un viaggio di
sensazioni che lo conducono dalla paura alla speranza, attraverso
l'egoismo, il dubbio, il dolore, l'ipocrisia, la verità, il
perdono e la libertà.
Musicalmente il
gruppo preferisce una strumentazione acustica, basata sull'ottimo
flauto di Ivano Fossati, l'autore più prolifico del quintetto, e
sul piano di Ettore Vigo. Possiede inoltre più di una bella voce,
elemento purtroppo assai raro fra i nuovi gruppi italiani, ed
un'impostazione di base che consente loro di affrontare con felice
risultato il jazz, con accenni alla musica sudamericana, e senza
dimenticare nel frattempo un tipo di canzone che ricorda molto da
vicino i migliori cantautori italiani.
Dopo il Preludio ed
i primi due Movimenti, l'album offre un piacevolissimo intermezzo
jazzistico. Il brano è dedicato a "Satchmo", "Bird,
ed un altro indimenticabile amico", ma, come specificano le
note dell'album, vuol essere puramente ispirato al mondo musicale
del jazz, senza accenni espliciti allo stile di Louis Armstrong o
di Charlie Parker.
la seconda facciata
offre una prima parte volutamente semplicistica, quasi in
corrispondenza con un sentimento quale la sincerità, mentre la
musica si fa più complessa e violenta con "Johnnie Sayre",
personaggio tratto dall'antologia di Edgar Lee Masters, la stessa
che ha dato lo spunto a De André per il suo ultimo LP. La
"Favola o storia del lago di Kriss" è un dialto
immaginario fra la luna, il vento ed un lago che vorrebbe uscire
dai propri argini per conoscere.
La conclusiva
"Dolce acqua" è il ritrovamento della speranza alla
fine del viaggio musicale, e gli autori puntualizzano che potrebbe
essere intesa nella sua dimensione ecologica come riscoperta dei
valori più puri della natura.
L'album mi sembra
uni dei migliori italiani da un anno a questa parte. Anche i testi
sono poetici ed incisivi. Non c'è proprio nulla in comune con i
Chicago, i Blood Sweat & Tears ed i Colosseum, come un po'
superficialmente scrive Lilian Terry per le note di copertina di
"Dolce Acqua". Ma forse proprio qui è il bello; non
c'è la solita imitazione del gruppo straniero, di fronte al quale
si finisce fatalmente per fare una magra figura, ma c'è un
discorso molto personale, forse ancora troppo poco elaborato e
maturo, che porterà però sicuramente il gruppo a vertici
altissimi.
Enzo Caffarelli
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BANCO DEL MUTUO
SOCCORSO
1° - Ricordi (1972)
Nome, copertina ed
etichetta originalissimi per una formazione romana sicuramente fra
le più personali tra tutte quelle emerse alla ribalta nazionale
nell'ultimo anno. Il loro organico presenta chitarra, basso,
batteria, piano, organo (sono molto rari i gruppi con piano ed
organo insieme, ricordi i Procol Harum che sono stati i migliori
con le due tastiere), più un cantante eccellente, il panciuto
Francesco Di Giacomo, dai toni vocali molto originali.
L'album del Banco
del Mutuo Soccorso è personale ed originale non solamente nel
panorama italiano (sono compagni di management della Premiata
Forneria Marconi, ma non le somigliano affatto). Ma non offre
neppure facili agganci con gruppi stranieri, e questo per ovvie
ragioni è un immenso bene. In fondo il sestetto ha superato a
pieni voti il consueto "salto" che ogni gruppo italiano
deve affrontare quando abbandona il repertorio inizialmente, di
solito, preso in prestito dagli americani o dagli inglesi, ed
entra in una fase assolutamente creativa e propria.
Il Banco torna sul
tema dell'uomo angosciato ed alienato di fronte alla realtà
circostante, il tema che gli italiani hanno maggiormente
affrontato negli ultimi tempi. Lo fanno con liriche simboliche
molto belle, favolistiche, ariostesche forrei dire tenuto conto
dell'accenno iniziale ad Astolfo e all'ippogrifo, sognanti,
accoppiate con atmosfere melodiche e intimiste, con il piano
sempre in bella evidenza, e con un organico complessivamente
capace e creativo. "R.I.P." (Requescant in pace) e
"Il giardino del mago" i pezzi migliori.
Enzo Caffarelli
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TRIP
Caronte - RCA (1971)
I complessi italiani
continuano a darsi da fare per creare anche presso di noi una
musica interessante: il 1971 ha segnato alcuni risultati
estremamente positivi, come la piena conferma delle Orme, il primo
album degli Osanna, quello non ancora edito dei Panna Fredda, la
nascita della Premiata Forneria Marconi.
I Trip, due ragazzi
inglesi, un piemontese ed un ligure, tutti residenti in Italia ed
operanti per una casa discografica italiana, sono al loro secondo
LP.
Il primo, chiamato
semplicemente "The Trip", denunciava un'accurata ricerca
soprattutto di effetti sonori, affidata al leader musicale del
quartetto, l'organista e pianista Joe Vescovi. Anche in "Caronte"
c'è una palese volontà di rinnovamento, e solo raramente i
musicisti si limitano a mettere insieme espressioni ed influenze
dei gruppi stranieri, dei modelli inglesi in particolare modo,
com'è d'obbligo in questo momento.
Quello che interessa
con immediatezza è il fatto che l'album raccoglie cinque brani
mantenendo un tema unitario, più che altro da un punto di vista
psicologico, perché i testi sono pochi: è il tema di un viaggio
immaginario, di tipo dantesco. La copertina riporta disegni
infernali, e gli stessi musicisti sono fotografati in costumi
antichi nelle acque di un stagno. Caronte, il mitologico
traghettatore delle anime perdute, è qui l'allegoria
dell'ipocrisia di coloro che, secondo gli stessi autori,
condannano i loro "fratelli" morti, come Jimi Hendrix,
il più di moda nelle celebrazioni.
A livello espressivo
non c'è però dark sound, ma un rock meno effettistico, ricco di
spunti pregevoli, specialmente negli impasti fra l'organo di
Vescovi e la solista di William Grey, che costituiscono senza
dubbio la nota più tipica del sound del quartetto. "Caronte
I", che apre la raccolta, è un episodio esclusivamente
strumentale di fattura violenta, mentre "Two brothers",
con il testo completamente in lingua inglese, dopo un inizio di
strani rumori si snoda in un crescendo di organo e chitarra fino
alla porzione vocale, a metà strada fra i Led Zeppelin delle
ultime esperienze ed i King Crimson di "21th century schizoid
man", sicuramente uno dei pezzi che ha più influenzato la
scena musicale degli ultimi due anni. Ci sono rapidi cambiamenti
di tempo, come caratteristica di tutto l'album, e si segnala il
basso creativo di Arvid "Wegg" Andersen.
La facciata B
comprende la melodica "Little Janie", poi l'"Ode a
Jimi Hendrix", un susseguirsi di ritmi violenti e di episodi
pacati, avvincenti nella seconda parte che si apre con un organo
da chiesa e poi si continua con la solista distorta celebrante una
specie dei marcia funebre su di un background percussionistico
particolarmente "heavy".
Enzo Caffarelli
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METAMORFOSI
...E fu il sesto
giorno - Vedette (1972)
Da qualche tempo a
questa parte i gruppi italiani hanno capito soprattutto una cosa:
l'importanza di svolgere un discorso musicale il più possibile
personale, lasciando da una parte le imitazioni da modelli
stranieri, anche se la tecnica e la padronanza degli strumenti non
ha ancora raggiunto la perfezione.
Su questa linea la
formazione che con i risultati più positivi ha saputo accoppiare
allo stile modernissimo e all'avanguardia un gusto ed una
sensibilità tutta italiana è stato il Bando del Mutuo Soccorso,
l'autentica rivelazione dell'ultimo anno, premiati al 2° festival
di avanguardia e nuove tendenze.
Allo stesso festival
si sono segnalati, e sulla medesima strada paiono operare con
successo, i Metamorfosi. A mio parere questi sono i gruppi che in
ultima analisi stanno raccogliendo l'eredità delle prime
formazioni italiane del periodo beat e folk-protesta, cioè i
musicisti che per primi seppero allinearsi con le esigenze
rinnovatrici dei mercati di oltremanica e di oltreoceano, pur
mantenendo un proprio volto italiano. Con la differenza che allora
il proprio mezzo espressivo era limitato al 45 giri e troppo
spesso le canzoni venivano tradotte direttamente dall'inglese; ed
ora viceversa si ha il 33 giri, e si ha soprattutto l'esperienza
di tanti altri anni, che si traduce in una strumentazione più
ricca e più impegnata, in un discorso artistico più ampio e non
militato alla semplice musica, e soprattutto in un esigenza di
riscatto dopo le scure stagioni del pop nel nostro paese.
Tutto questo per
dire che il quintetto delle Metamorfosi non si ispira affatto a
gruppi stranieri, e a costo di cadere di tanto in tanto in qualche
episodio semplicistico, è voluto restare fedele ad
un'impostazione italiana, senza tuttavia risultare banale o
scontato.
Il significato
dell'album è ancora una volta l'uomo, le sue paure, le sue ansie,
il suo riscatto finale attraverso le immagini evangeliche del
Cristo salvatore. I Metamorfosi hanno per altro vasti interessi
letterari (pare abbiano già pronto materiale per un doppio album
intorno alla Divina Commedia), e sono riusciti con abilità a
risolvere il consueto dramma per motivi di metrica e diciamolo
pure per ragioni di interpretazione (sono pochi in Italia i
cantanti capaci di guidare un gruppo) al ritmo del rock.
L'album "...E
fu il sesto giorno" contiene sette brani, fra i quali segnalo
"il sesto giorno", "...E lui amava i fiori",
"Nuova luce" e "Sogno e realtà".
Un plauso alla
Vedette che ha creduto in questi cinque ragazzi, ed un invito a
continuare su questa strada.
Enzo Caffarelli
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I TEOREMI
Omonimo - Polaris
(1972)
I complessi italiano
ancora non esistono per taluni, indaffarati nello scovare ed
esaltare i più strani e sconosciuto gruppi stranieri, e propensi
a snobbare e declassare qualsiasi cosa venga prodotta qui da noi.
E' un discorso che poteva essere considerato valido fino ad uno,
due anni fa. E' bene quindi presentare un po' tutti i nuovi gruppi
italiani, che vogliono dire qualcosa di interessante.
I Teoremi si
presentano con un quartetto tradizionale, ma non suonano il solito
hard caotico: sperimentano atmosfere più impegnative, presentano
una tecnica individuale e di gruppo non comuni, e offrono
complessivamente un album intelligente ed accettabile.
Le parti cantate -
questa osservazione ha un carattere generale - appaiono nei gruppi
italiani sempre meno piacevoli dei corrispettivi inglesi, Il fatto
è che la lingua italiana non è mai riuscita ad adattarsi,
proprio per la sua struttura, al linguaggio del rock; da cui uno
dei problemi fondamentali per la musica progressiva italiana,
specie in un momento in cui tutti si stanno orientando verso testi
significativi.
I Teoremi si
avvicinano ad un certo gruppo di giovani artisti italiani, quello
che fa capo ai Trip, al Rovescio della Medaglia, ai Garybaldi.
Manca ancora loro un pizzico di originalità, che potrà essere
acquisita con una ricerca protratta nel tempo.
Enzo Caffarelli
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OSAGE TRIBE
Arrow Head - Bla...
bla (1972)
Gli
Osage Tribe hanno scelto una denominazione presa in prestito dalla
storia degli indiani (si tratta di una tribù), ed il loto singolo
grafico è stato sin dal primo disco una testa mozza di una
bambola indiana, che vuol rammentare la dispersa civiltà, di quel
popolo in chiave sociale e politica.
Anche a livello di
testi, essi si ispirano alle storie nate nel popolo Osage, ricche
di esperienza popolare e ataviche tradizioni, storie che parlano
di "presa di coscienza", di "armonia con
l'universo", di "un mondo fatto a pagamento, dove le
mani sono piene di soldi e gli stomaci di whisky", del
"dio della vita che dà luce alle menti", di
"cerbiatti d'argento che saltano fra nuvole di giada".
E' un linguaggio antico, ma è il linguaggio di pace nella
battaglia esistenziale di tutti i giorni, e dunque un messaggio
sempre valido.
"Arrow
head", vale a dire "punta di freccia" è il primo
LP del gruppo, per il momento ancora un trio, con Marco Zoccheddu,
ex chitarrista della Nuova Idea ed autore della maggior parte dei
pezzi, "Cucciolo" alla batteria, e "Callero"
al basso. la musica degli Osage parte da una base di rock
tradizionale, sul quale però i musicisti si sforzano di inserire,
con successo, le loro vibranti emozioni jazzistiche: li ascoltiamo
ad esempio in "Cerchi di luce", dove riescono a fare del
buon jazz con la semplice formula chitarra-basso-batteria.
Le cose più
notevoli sono accompagnate da musiche più commericali, ma ormai
non è più tempo di compromessi di questo genere neppure in
Italia, e gli Osage, che sono musicisti molto intelligenti, stanno
tentando (aggiungendo una tastiera ed un fiato) di spostarsi verso
un modo più libero e più jazzistico. La sezione ritmica è già
quella giusta per questo programma. E l'etichetta Bla... bla, la
stessa di Franco Battiato (con il quale gli Osage Tribe hanno
suonato per qualche tempo), e dei Capsicum Red, è fra le più
attente e all'avanguardia nel nostro paese.
Sei sono i pezzi
complessivamente, tre per facciata. Molto bella la confezione
dovuta allo studio al.sa. La copertina esterna è dedicata agli
indiani, quella interna rappresenta un originale flipper
trasformato per l'occasione.
Enzo Caffarelli
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ALAN SORRENTI
Aria - Harvest (1972)
Chi lo ha già
ascoltato è assolutamente d'accordo sul fatto che Alan Sorrenti
rappresenta la figura musicalmente più originale espressa dal
nostro paese da tanti anni a questa parte. E chi non lo ha
ascoltato, non so quanto potrà ricavare dalle mie parole, data
l'estrema difficoltà di cogliere perfettamente nel segno e di
descrivere dettagliatamente questo strano personaggio spuntato
fuori dal golfo di Napoli, e asceso in volo fra le note della sua
"Aria".
"Aria" p
la suite che occupa l'intera prima facciata, ed anche la
composizione più ambiziosa di Sorrenti. L'album è stato
registrato in parte in Italia, in parte in Francia, con alcuni
sessionmen francesi, e con sopite d'eccezione Jean-Luc Ponty, il
numero uno del violino jazz. La casa discografica ha visto giusto
fin dal principio, ha creduto nel ragazzo e gli ha dato carta
bianca, per di più confezionando una bella copertina con tanto di
testi e di note, mentre l'etichetta è una delle più illustri
inglesi, la Harvest. Un autentico successo, dunque, su tutti i
fronti.
Alan suona la
chitarra acustica, compone, arrangia. E' un cantautore del tutto
particolare: la sua forza sta innanzi tutto nella voce,
carezzevole e metallica, aspra e dolcissima a turno, che egli
utilizza come un vero e proprio strumento, una voce personalissima
e duttile, che si assottiglia e riprende corpo, si plasma secondo
la nota, l'allunga e la tiene sospesa salendo le scale più alte,
poi la getta e la raccoglie di nuovo rimodellandola accuratamente.
A qualcuno rammenta Peter Hammill dei Van der Graaf Generator,
specie nell'uso del semiparlato, ma lo stile di Alan è meno
aggressivo, ed ancora più raffinato e dettagliato; e mentre
Hammill guida con la voce gli strumenti, Alan li precorre ed in un
certo senso ne resta al di fuori.
"Aria" è
appunto un giuoco di voce, con il tema lacerato, ridotto a
brandelli, poi ripreso, e solo in rarissimi casi con l'aiuto di
distorsioni od effetti elettronici. Dietro suona l'ottimo
complesso, con Vittorio Nazzaro al basso e a dare una mano ad Alan
con la chitarra classica. Antonio Esposito alla batteria, Albert
Prince al piano, all'organo, al sintetizzatore ed al mellotron, le
cui aperture dolcissime interrompono e congiungono i vari momenti
della composizione. Sullo sfondo i musicisti francesi, due fiati,
un contrabbasso, e Ponty lucido maestro come di consueto con il
violino stregato.
Non si può parlare
di disco sperimentale, perché Alan è già in possesso dei mezzi
e delle capacità espressive necessarie per un discorso formato e
compiuto. I temi confluiscono uno dopo l'altro secondo una
concezione modernissima, senza troppi compiacimenti melodici, né
con eccessiva insistenza sulle frasi ritmiche, talora
semplicemente abbozzando delle idee che viceversa avrebbero potuto
essere realizzate su maggiore scala. Eccellenti dialoghi
violino-voce, o negli episodi in cui domina la possente
costruzione dell'organo, o l'uso raffinato e jazzistico del piano.
La seconda facciata
contiene tre pezzi: "Vorrei incontrarti" è l'unico
brano di stampo tradizionale, che si avvicina al modello più
conosciuto di cantautore; "La mia mente" è una ricerca
cerebrale nei meandri del proprio cervello, con le medesime
caratteristiche formali di "Aria", ed anzi con i toni
ancora più esasperati; e "Un fiume tranquillo"
ripropone l'accostamento a Peter Hammill, e si presenta come un
altro tipico episodio di Sorrenti, con i fiati ed il
sintetizzatore in evidenza, e con una linea melodica nel complesso
più facile e comprensibile degli altri.
"Aria" è
un disco che difficilmente piacerà al primo ascolto, e che verrà
tacciato anche di mistificazione. Secondo me sarebbe stato un
disco interessantissimo anche se fosse stato soltanto strumentale.
In più c'è la voce di Alan, il vero carattere determinante ed
originale, e naturalmente non è facile accettarla immediatamente.
Ma facciamo in modo che il detto "nemo propheta in
patria" per una volta non abbia valore.
Enzo Caffarelli
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CERVELLO
Melos - Ricordi (1973)
Melos è il
personaggio della mitologia greca che rappresenta il canto, ed è
il protagonista di questa ricostruzione del clima della tragedia e
del mito che il Cervello ha voluto offrire al suo esordio.
Il quintetto
napoletano usa un linguaggio volutamente ricercato, arcaicizzante
fino all'esasperazione, ma immediato, senza rifiniture barocche,
costituito di immagini rapide e folgoranti, una descrizione
verbale tesa a provocare, secondo il programma dei musicisti,
visioni altrettanto immediate nell'ascoltatore. Le parti cantate
sono porzioni di un tutto musicale, senza interrompere lo
svolgimento armonico del brano: c'è una sapore dodecafonico e di
antichi canti che si mescolano e rendo l'operazione difficile e
particolarmente interessante, anche se dura al primo ascolto.
Musicalmente il
Cervello presenta una certa autonomia dai modelli stranieri: è
forse un momento di sintesi delle cose migliori offerte dal
panorama italiano, dalla PFM al Banco, agli Area; soprattutto agli
Osanna, cui il Cervello è doppiamente legato: in quanto Corrado
Rustici, chitarrista, è il fratello minore di Danilo, e perché
lo stesso Danilo insieme ad Elio D'Anna sono stati i produttori
dell'album e le attente guide del gruppo costituito da
giovanissimi (età media diciannove anni).
Il recupero della
tradizione mediterranea, e greca in particolare, vuol essere un
fatto ispirativo, non di ricostruzione neoclassica: anzi le figure
di Euterpe, la musa del canto, o del Satiro, dello stesso Melos,
ambiguo, portavoce delle contraddizioni della realtà di ogni
tempo, sono osservate attraverso un diaframma critico. Del rito
dionisiaco viene esaltata la potenza energetica, ma condannata la
forma. Gianluigi di Franco (flauto e voce) e Corrado Rustici hanno
composto i brani, anche se sul disco figurano due prestanome.
Ci sono degli
episodi acustici, tipicamente pastorali, come scenografia
richiede, ma c'è soprattutto un rock-jazz libero, fluido, con
atmosfere galattiche. L'uso del mandolino, del vibrafono e di vari
tipi di flauto danno particolare ricchezza e corposità al suono.
In alcuni brani si osserva proprio una crescita da momenti
tradizionali verso la conquista progressiva di un linguaggio
concettualmente più moderno.
Enzo Caffarelli
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VINCE TEMPERA
Art - Harvest (1973)
Vincenzo Tempera,
milanese, ha fatto un po' di tutto prima di registrare questo
disco che potrebbe essere il passo più importante della sua già
lunga carriera artistica: ha diretto l'orchestra al festival di
Sanremo, ha curato gli arrangiamenti per Nomadi, Giganti, Guccini
e tanti altri, ha inciso "Love story" e "Anonimo
veneziano", si è dato da fare come sessionman, specie
nell'ultimo anno.
Pianista di razza,
diplomato in conservatorio, Vince ama il jazz ed il classico, il
soft rock californiano e la ballata tradizionale, un po' come uno
dei suoi idoli, Keith Jarrett, ed offre in questo album un volto
eterogeneo che risponde perfettamente al personaggio.
"Art" è
stato registrato metà in studio e metà dal vivo al Number One di
Sanremo. La cosa più importante è che Tempera si presenta ad un
pubblico difficile come il nostro con il solo pianoforte, senza
accompagnatori. La sua inventiva, il vigore che costantemente
sorregge l'opera, la tecnica eccellente che egli ha saputo
sviluppare con entrambe le mani, gli consentono giuochi armoni e
ritmici godibilissimi, per cui la musica non viene a soffrire
della presenza di un unico strumento.
Per Vince il pino è
uno strumento da trattare con forza e vigore, strumento melodico e
ritmico a un tempo. La sua tecnica è precisa, asciutta, con una
chiara predilezione per il tocco breve, misurato, senza
barocchismi di sorta.
Nei pezzi più
vicini al rock, egli sembra aver tratto la stessa lezione di Elton
John e di Leon Russell, che discendono in fondo dai rockmen della
prima ora: così ne "Il mio cane si chiama Zenone", già
registrata nel "solo" di Alberto Radius ed in
"Space captain", un brano reso celebre da Joe Cocker in
"Mad dogs".
"Here comes the
sun" è un omaggio ai Beatles, ampliato da qualche fugace
citazione di "Eleanor rigvy" e di altri pazzi celebri.
"Cerveza" prende le mosse da un jazz di vecchio stampo,
e si sviluppa sino a far individuare le influenze di Jarrett,
mentre "Goin' on" e "Gabbia di città" si
rifanno più da vicino ad Herbie Hancock, l'Hancock di "Maiden
voyage".
"Gabbia di
città" in particolare, la composizione più ambiziosa del
LP, riassume il carattere complessivo di Tempera: un saggio a
metà strada fra il colore debussyano e la costruzione armonica
gershwiniana: descrizione breve di frasi, poi rimescolate come in
un caleidoscopio, armonie sviscerate e dissolte, poi ricostruite
dall'interno, sfruttando piccoli frammenti tematici. Una della
migliori improvvisazioni del pianista.
Enzo Caffarelli
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