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LE
ORME
"Collage"
- Philips (1971)
Era
molto tempo che in Italia si attendeva un disco veramente
interessante. Fra i cantautori avevamo avuto solamente un
superlativo Francesco Guccini ("L'isola non trovata"),
mentre lo stesso Battisti ha per buona parte deluso con il suo
"Amore e non amore". Fra i gruppi, dopo i tentativi
degli esordient, fra i quali segnalai i Trip ed i Gleemen, ed i
"ringiovanimenti" della vecchia guardia ("Id"
della Nuova Equipe 84 contiene qualche spunto interessante), sono
usciti i New Trolls con il loro "Concerto grosso", un
medley gruppo-orchestra ad imitazione dei Deep Purple, ed i
Formula Tre con il loro secondo LP. Ma questo album delle Orme mi
sembra fra tutti decisamente il migliore.
"Collage"
premia gli sforzi di uno di quei gruppi nostri che fin dall'inizio
hanno cercato strade nuove, handicappati tuttavia dalla necessità
dei 45 giri commerciali, e dall'imitazione straniera fin troppo
evidente.
Ache
qui i modelli stranieri sono facilmente lievabili: i Traffic in
alcune linee melodiche di vago sapore folk (Stevie Winwood ha
influenzato sempre da vicino la produzione dei Toni Pagliuca); e
Keith Emerson, la cui recente esplosione ha incoraggiato
l'organista italiano in quel discorso di riaggancio al classico
già suo da tempo. Certe affinità espressive, la formazione
triangolare (organo e piano, basso e chitarra acustica e canto,
batteria e percussioni), l'uso temperato dell'elettronica, senza
esagerato effettismo o sapore scenico, avvicinano le Orme a quello
che viene oggi definito il più preparato gruppo inglese, gli ELP:
C'è
però nello stesso tempo un lavoro di assimilazione personale da
parte del trio italiano, per cui Pagliuca, Aldo Tagliapietra e
Micki De' Rossi approdano ad un sound assai originale nell'attuale
panorama nazionale. Nel barocchismo formale della bellissima prima
facciata, come nella moderata sperimentalità della seconda, nei
cantati che non tradiscono una certa impostazione prettamente
italiana (ogni tano fa capolino Battisti), come nelle porzioni
esclusivamente strumentali, che prevalgono, è sempre presente una
linea comune, che supera l'apparente frammentarietà dell'album, e
ne costituisce la spina dorsale al di là di ogni definizione
stilistica.
"Collage",
che apre l'album e gli dà il titolo, è un pezzo di chiara
fattura classicheggiante, nelle forme ora trionfali dell'organo,
ora quasi minuettistiche del clavine. "Evasione totale",
quasi sette minuti, cerca un nuovo linguaggio espressivo
mescolando il classico all'elettronico. Gli altri brani hanno
sapore realistico nei testi, e musicalmente evidenziano temi ed
arpeggi delle tastiere sorretti da un background ritmico
eccellente. Notevolissima "Cemento armato", che supera
gli otto minuti.
I
titoli sono tutti firmati Pagliuca-Tagliapietra, anche se al primo
vanno i meriti maggiori. E' presente a tratti l'orchestra diretta
da Giampiero Reverberi.
Un
album "Collage" che dovrebbe occupare le primissime
posizioni della classifica italiana, in attesa di altre due
speranze, i Panna Fredda e la Premiata Fonderia (sic) Marconi.
Maurizio Baiata
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PREMIATA
FORNERIA MARCONI
Storia
di un minuto - Numero uno (1972)
Devo
dire subito che questo è il disco che attendevamo con fiducia da
parecchi mesi, da quando cioè si era capito che i Quelli, tornati
alla ribalta con una nuova originalissima denominazione, e con un
quinto elemento, il cantante e polistrumentista Mauro Pagani,
avevano le idee molto chiare sua quale tipo di musica suonare, e
verso quali modelli stranieri orientarsi, o comunque da essi
prendere lo spunto.
Così,
mentre la Premiata Forenria Marconi continua a sviluppare una
personalità sempre più propria, cercando di evitare ogni palese
imitazione, esce questa "Storia di un minuto", il primo
episodio di un cammino probabilmente molto lungo.
Franco
Mussida, chitarrista e cantante della formazione, e Mauro Pagani,
che si alterna al flauto all'ottavino ed al violino, sono gli
autori di tutte le musiche e di quasi tutti i testi (c'è lo
zampino del solito Mogol). Parte dell'album era già nota per
l'edizione su 45 giri de "La carrozza di Hans" e di
"Impressioni di settembre".
Parlavo
prima di ispirazioni: ebbene la principale viene dai King Crimson,
dei quali il gruppo amava interpretare in concerto più di una
pièce. La "introduzione" è tipicamente crimsoniana,
mentre la successiva "Impressioni di settembre", dolce e
stupenda per la musica e per il testo, ricostruisce la struttura
caratteristica della "Lucky man" di Greg Lake, con le
aperture a largo respiro di organo e di moog. Intimista allo
stesso modo, ma più acustica e stilisticamente più personale la
prima parte di "Dove... quando".
Due
le cose principali da osservare: una prima è la levatura tecnica
degli strumentisti, la loro poliedricità, fruttata pienamente
nell'impiego di flauto, violino, clavicembalo, mellotron,
sintetizzatore, pianoforte, chitarra a dodici corde, percussioni.
Sicuramente un album come questo potrebbe avere un certo successo
anche all'estero, forse nella stessa Inghilterra.
L'altra
considerazione è la ricerca del gruppo all'interno di certe
matrici classicheggianti tipicamente italiane: Vivaldi, Rossini,
Verdi: l'amore adombrato per la musica operistica, e soprattutto
il desiderio, comune un po' a tutti i nuovi gruppi nostri, di
riscoprire contenuti da rivestire e da reinterpretare nel
patrimonio musicale italiano, colloca la PFM in una posizione del
tutto particolare nel panorama di coloro che cercano un aggancio
al classico. I sintomi emergono in E' festa" e nella seconda
parte di "Dove... quando", carosello di suoni, di pause,
di dialoghi ricchi di fantasia e di una strumentazione varia e
costantemente indovinata.
L'album
è molto frammentario: ma frammentario non è un aggettivo
negativo, vuole solamente significare la tessitura sfaccettata,
intrecciata, elaboratissima, dei colori che compongono il mosaico
dei suoni, su cui veleggiando testi semplici ma significativi,
anch'essi frammentari, ricchi di silenzi, editi alla descrizione
di piccole cose, di immagini tradizionali ma rivissute con ingenuo
incanto, simili alla poesia di stampo crepuscolare.
Il
flauto ed il violino, rispetto alle esibizioni dal vivo, sono
molto impiegati, mentre impiegati sovente il mellotron ed il moog,
e la chitarra acustica è l'autentica dominatrice.
Buona
la registrazione, anche se la voce è troppo in sottofondo. E
bello il disegno di copertina, opera di Caesar Monti, Wanda
Spinello e Marco Damiani.
Enzo Caffarelli
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BANCO
DEL MUTUO SOCCORSO
Darwin!
- Ricordi (1972)
Contro
tutti coloro che fanno dell'album a concetto unico un paravento
per mascherare la propria carenza creativa specie sul piano dei
testi, e contro quelli cha pure in buona fede hanno denunciato
paurosi limiti in tal senso, in Italia ed all'estero, il Banco al
suo secondo album offre un'opera perfettamente compiuta che ad
ogni istante sa offrire prospettive convincenti, emozioni nuove, e
coinvolge l'ascoltatore ponendolo di fronte ai grandi dubbi della
vita con gusto semplice, intima necessità e squisita poesia.
La
celebrazione di un genio della scienza, l'inglese Charles Darwin,
padre dell'evoluzionismo moderno, non è che il pretesto per
riproporre in un mirabile affresco di colori l'eterno dramma
dell'esistenza. I musicisti hanno cercato di immedesimarsi nel
sentimento dell'uomo nel corso della sua evoluzione, ed ogni tappa
del processo storico trova simbolico riscontro nella vita
dell'individuo, idi ogni tempo.
Il
concetto di evoluzione biologica esprime il fatto che tutti gli
esseri viventi discendono, con più o meno vistose modificazioni
dovute all'adattamento all'ambiente, alla lotta per la
sopravvivenza ed alla riuscita degli individui più idonei, da
organismi preesistenti. L'uomo in particolare deriverebbe dalla
scimmia, ed è per questa asserzione che Darwin è il più delle
volte ricordato. L'evoluzione non esclude a priori l'opera
creatrice di Dio e nei suoi aspetti meno radicali non è affatto
inconciliabile con la dottrina cattolica. Il pensiero di Darwin fu
a lungo avversato e combattuto; in America alcune leggi, poi
abrogate, ne proibirono l'insegnamento nelle scuole. Forse per
questo, come un po' tutti i precursori della scienza, Darwin viene
scoperto ed amato dai giovani.
Nel
disco musiche e liriche si sviluppano in maniera organica, ma né
le une né le altre sono condizionate reciprocamente e fra loro,
cosicché ciascuno dei sette brani gode di una propria autonomia,
e potrebbe costituire un momento a se stante. Ma soprattutto non
ci sono edite enunciazioni della dottrina filosofica e
scientifica: non aride descrizioni storiche, non parole
pesanti, e forzatamente intellettuali, non citazioni rigorosamente
scientifiche. Soltanto un viaggio intimo nel mondo degli uomini
primitivi sapientemente ricreato con le atmosfere inquiete e
pregne della consapevolezza di una lunga ed estenuante guerra, la
lotta dell'uomo come di qualsiasi altro organismo per la
sopravvivenza, e la vanità di tutte le cose terrene, mirabilmente
e drammaticamente sintetizzata dalla profezia di "Miserere
alla storia": " Ma quanta vita ha ancora il tuo
intelletto se dietro a te scompare la tua razza?".
I
testi, scorrevoli e mai complicati, sono importanti da una cura
che a tratti può sembrare compiaciuta di una ricercatezza
formale, ma che mai scende in fumosi barocchismi. Il gusto per
l'immagine ariostesca, cara a Francesco Di Giacomo, giù
esemplificata nei testi del primo album, e non soltanto per la
riesumazione dell'Ippogrifo, torna puntualmente e possente, specie
in alcuni tratti (- Informi essere il mare vomita, sospinti a
cumuli su spiagge putride... - o - Alto,arabescando, un alcione
stride sulle ginestre e sul mare... - da "Evoluzione").
Ma il punto più notevole da sottolineare è la struttura
squisitamente armonica del testo, il rigido e mai forzato rispetto
per la metrica, l'inserimento della parola tanto nei riffs serrati
quanto nelle strutture melodiche a più ampio respiro.
Senza
ombra di dubbio il Banco va considerato il più italiano ed il
più meridionale dei nostri gruppi d'avanguardia, perché ha
saputo anteporre il sentimento alla ragione ed ha rispettato gli
altri fondamenti imprescindibili dal gusto e dalla cultura
tipicamente latina e mediterranea del nostro paese, rielaborandoli
attraverso un linguaggio modernissimo.
Così
mentre gli Osanna e la Premiata stanno mostrando come in Italia si
possa essere tecnicamente più preparati dei colleghi inglesi e
contemporaneamente gettano le basi di un pop nostro ma
internazionale, il Banco si muove su altro versante ed è lontano
da qualsiasi modello straniero. In altri termini se Premiata ed
Osanna vogliono riconquistare il pubblico che sinora ha seguito
soltanto i gruppi stranieri. il Banco potrebbe avere la funzione
di recuperare coloro rimasti legati ancora alla canzonetta. E
questo non va ascritto a demerito del gruppo, perché il prodotto
non è affatto commerciale nel senso deteriore della parola: è
semplicemente universale, capace di raggiungere tutti perché
massaggio dettato dal cuore, e come tale frutto della più nobile
arte.
Confrontato
con il primo album, "Darwin!", oltre ad una generale
maturazione di idee e di esecuzioni, offre un maggiore impegno a
livello di composizione e di arrangiamenti. La liricità e
l'organicità sono cresciute, e Francesco "Big" trova la
sua più completa realizzazione vocale.
"Evoluzione",
il pezzo più lungo, musicalmente ripropone la struttura dei
migliori episodi del primo album: ritmi tipici accompagnati dal
testo, e variazioni atipiche e fuggevoli, senza un definito tema
conduttore, e proprio per questo ricche di fascino e dense di
sorprese ad ogni riascolto. I ragazzi hanno confessato che parte
delle musiche sono state improvvisate in sala di registrazione:
ebbene nonostante questo mai il disco scade a livello di avventura
o di approssimazione, ma rimane saldamente nelle mani di musicisti
geniali che fanno di ogni parola, di ogni nota, perfino di ogni
pausa dell'arte e particolarmente della poesia.
Il
testo è una presentazione dei concetti darwinisti e la narrazione
dell'evoluzione organica dalla materia inorganica, e della
conquista da parte della specie viventi dei tre ambienti naturali
a disposizione, il mare inizialmente, la terraferma poi, il cielo
aperto infine. Non è una battaglia contro la religione, ma
semplicemente una demitizzazione della creazione biblica in senso
letterale. La stessa Chiesa del resto ha rifiutato il creazionismo
specifico allineandosi moderatamente con la dottrina
evoluzionista.
Armonie
e melodie si succedono nel pezzo in sviluppi semplici ma
imprevedibili, con una ricchezza interiore straordinaria.
Sensazioni ed emozioni che non vogliono mai essere sforzi di
abilità tecnica: e tutti gli strumenti trovano una propria
dimensione giusta, dalla chitarra tipica di Marcello Todaro,
all'organo di Vittorio Nocenzi ed al moog, per la prima volta
impiegato dal sestetto ma con originalità e funzionalità, al
piano di Gianni Nocenzi, che negli sviluppi melodici risente delle
formazione classicheggiante, complesso ma lineare e mai involuto.
"La
conquista della posizione eretta" è più cerebrale del
precedente. Il desiderio di descrivere esaurientemente il
paesaggio desolato delle origini si affianca alla ricerca di una
dimensione drammatica che fa da teatro all'affannosa conquista. Il
testo è breve e pregnante, due versi per inquadrare stupendamente
lo scenario, e quanto basta per descriver il tentativo. Nella sua
proiezione universale ed individuale la conquista della posizione
eretta simboleggia la continua lotta per la gloria e per il potere
nella società.
Come
altrove, ma di più in questo caso perché collocato in
conclusione, il cantato svolge un ruolo accentratore, cioè
riassume e dà senso al tutto, al contrario di numerosi altri
artisti italiani che non riescono ancora a soddisfare
diligentemente l'irrinunciabile esigenza di inserire le liriche
nelle musiche.
Forse
per questo motivo la successiva "Danza dei grandi
rettili" mi sembra meno significativa. E' un intermezzo
jazzato, abilmente ideato ed inserito al punto giusto, ma senza
eccessive pretese.
"Cento
mani e cento occhi" potrebbe essere al contrario l'episodio
più convincente, perché nell'impostazione dialogata,
nell'orientamento melodico, nelle interpretazioni vocali di
Francesco e di Vittorio, affiora il tentativo di riportare in un
linguaggio attuale elementi della tradizione popolare e
soprattutto lirica, notoriamente detestata dalla più giovani
generazioni perché priva di aggancio con la realtà. E'
l'embrione di una rock-opera, meglio di quanto gli stranieri
abbiano sin ora fatto. La necessità di una dimensione visiva è
stata comunque avvertita a tal punto dal Banco che, abbandonata
l'originaria idea di rielaborare una tragedia greca, i ragazzi
sono al lavoro per la sceneggiatura teatrale di
"Darwin!". E sarebbe un vero peccato che - come
annunciato - questo fosse l'ultimo album a concetto unico del
gruppo, perché ciò è radicato nelle loro possibilità.
Il
testo introdotto da un sintetizzatore descrive la primigenia
organizzazione tribale, la prima offerta di un "ritto"
ad un altro che non sia uno scambio di violenze: l'uomo è
combattuto fra l'unione che gli consente una vita più sicura e la
perdita della liberà, amletico dramma che si rinnova nella nostra
vita di ogni giorno.
"750.000
anni fa... l'Amore?" è il gioiello melodico della raccolta.
Il piano sottolinea con delicatezza gli accenti tragici del testo,
l'impotenza dello "scimmione senza ragione", consapevole
della sua bruttezza e della sua incapacità (-la mente vuole, ma
il labbro inerte non sa dire niente-), a possedere il "corpo
chiaro dai larghi fianchi". Con un sapore vagamente
leopardiano, Francesco ci regala una delle sua più struggenti
interpretazioni, soffermandosi, al di là della tipicità della
sua figura fisica, il primo grande personaggio vocale che la
nostra scena di gruppi d'avanguardia abbia prodotto.
"Miserere
alla storia", dal clima teso ed inquieto, con poche parole
declamate conclude la descrizione e fa da premessa alla
riflessione successiva. A cosa serve il progresso se la razza si
estingue? E- traslato sul piano individuale - quanto giova lottare
e soffrire per beni terreni se dietro ciascuno di noi è la morte?
"Ed
ora io domando tempo al Tempo ed egli mi risponde... non ne
ho!" è un episodio a parte, sia per la struttura musicale
che per il significato conclusivo dell'opera. Un valzerone
popolare, una fisarmonica il clavicembalo, il clarino ed il
cigolìo di una grande ruota che gira: è il tempo che
inesorabilmente stritola l'essere vivente. L'uomo moderno proprio
dal fenomeno dell'evoluzione acquista maggiore coscienza
dell'infinta vanità e del trasformarsi di ogni cosa. L'estrema
contraddizione è la ruota che gira senza perdere un colpo e la
musica che la accompagna, una giostra antica ola pedana di un
circo felliniano, con qual senso di malinconia infinita e
quell'ironia della vita che tutti questi amari simboli
rappresentano. La conclusione più giusta e più bella per questo
capolavoro del Banco: - Ah! ruota gigante, perché dunque mi fai
pensare se nel tuo tirare la mente poi mi frenerai -.
Enzo Caffarelli
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CLAUDIO ROCCHI
Volo magico n. 1 -
Ariston (1971)
Claudio Rocchi è il
cantautore più nuovo ed interessante che la scena italiana abbia
espresso da un anno a questa parte. Claudio è partito
contemplando ancora modelli nazionali e stranieri, come è in
pratica inevitabile oggi per un cantautore, ma ormai è riuscito
ad esprimere pienamente se stesso, a trovare un equilibrio
eccellente fra musiche e testi: le musiche molto scarne, incisive,
un piano leggiadro e creativo, una ritmica in sottofondo, due o
più chitarre a dialogare in primo piano; i testi chiari e
sintetici, provocanti, spesso sognanti, che comunque sanno darci
l'esatta immagine del Rocchi-uomo, stravagante pacifista
genuinamente ispirato ma utopista come tanti altri.
"Volo magico N.
1" è il secondo album di Rocchi, dopo "Viaggio", e
doveva originariamente essere doppio. Vi figurano parecchi nomi
dell'ambiente milanese che cominciano a farsi notare, come i
ragazzi del Pacco. Cito fra gli altri il piano di Eugenio Pezza, e
le chitarre di Alberto Camerini e Riki Belloni.
Claudio è dolce ed
intimista in brani come "La realtà non esiste" e
"Tutto quello che ho da dire"; il suo linguaggio si fa
più urlato ed esasperato nella lunga "Giusto amore". La
seconda facciata è occupata interamente dal pezzo che porta il
titolo dell'album, composizione eccezionale dall'atmosfera a
tratti pseudo-orientale, ma a base di semplici percussioni di
chitarre acustiche, e di cori sino all'entrata del mellotron e
della chitarra elettrica nella parte finale.
Molto belle le
parole, non riportate nella copertina, ma facilissimamente
comprensibili dalla limpida collocazione della voce nel sound del
disco. Ecco alcuni stralci: "...c'è sempre tempo per
cantare... poi puoi andare dove vuoi, poi puoi esser come vuoi,
poi puoi stare con chi vuoi poi puoi prendere o lasciare, poi puoi
scegliere di dare... ".
Mi piace soprattutto
"La realtà non esiste": "Quando stai mangiando una
mela, tu e la mela siete parte di Dio; quando pensi a Dio sei una
parte, di ogni parte niente è fuori da tutto; quando vivi tu sei
un centro di ruota, e i tuoi raggi sono raggi di vita; puoi girare
solo intorno al tuo perno o puoi scegliere di correre e andare;
quando dormi tu sei come una stella e il respiro è come fuori dal
tempo; quando ridi è come il sole sull'acqua, sai che farne della
vita che hai; quando ami tu ridono al tuo corpo quel che manca per
riempire un abbraccio; quando corri sai esser lepre e lumaca, se
hai deciso di arrivare o restare; quando pensi stai creando
qualcosa, l'illusione di chiamarla illusione; quando chiedi tu hai
bisogno di dare, quando hai dato hai realizzato l'amore...".
Enzo Caffarelli
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RACCOMANDATA
RICEVUTA RITORNO
(Per...) Un mondo di
cristallo - Fonit (1972)
Hanno esordito al
festival di Villa Pamphili a Roma, lo scorso anno, ed hanno
realizzato questo primo LP "Mondo di cristallo" i
ragazzi della Raccomandata Ricevuta Ritorno, ribattezzati per
semplicità RRR.
La storia del disco
è quella di un uomo che, tornato dopo un periodo imprecisabile di
tempo sulla terra, dopo un'avventura spaziale, ritrova il nulla, e
dall'unica rupe rimasta cerca di cogliere le motivazioni
dell'autodistruzione del genere umano, mentre con la memoria
recupera il suo individuale passato.
Per quanto concerne
le musiche, sarebbe fin troppo facile ribadire il consueto
discorso del rifiuto dell'hard rock, sostituito nell'orientamento
dei giovani gruppi italiani da un suono più dolce e di più ampio
respiro, in cui sono la chitarra acustica ed il pianoforte a
tessere le armonie.
Ma non è il caso di
parlare di "solite cose", perché gli RRR sono in
possesso di un'eccellente tecnica e palesano buone idee, sia nel
creare particolari atmosfere, che nelle esecuzioni in cui tengono
conto del jazz, non come modello assoluto di riferimento, ma in
certe pseudoimprovvisazioni, come nella parte conclusiva della
prima facciata dell'album ("Nel mio quartiere"): un sax
tenore ed un piano sorretti da un'incalzante ritmica, (basso e
batteria appaiono più che egregiamente) danno vita ad un episodio
di jazz moderno ben swingato, pulito ed elegante, a dimostrare la
preparazione musicale dei sei musicisti.
Naturalmente la
strumentazione è molto ricca, anche perché si tratta di un
sestetto. Ma non c'è uso di chitarra elettrica e di moog. Gli
schemi sono molto lineari e qualche volta, volutamente, si
ripetono, come quando la strofa vocale, su di un ritmo ossessivo e
sincopato, si snoda poi in un motivo frenetico e quasi
improvvisato. A differenza della formula crimsoniana di "21th
century schizoid man", prototipo di decine e decine di brani
in Inghilterra de in Italia, che mette a nudo l'incapacità degli
artisti italiani di inserire le parole in un contesto più
musicale, non in un semplice intervallo; nel caso degli RRR lo
schema non è generale, non vi sono parlati o recitativi per
risolvere il fastidioso problema, e perciò il difetto è minimo e
quasi impercettibile in un album molto ricercato e cerebrale, ed
assai ben registrato.
Fra i titoli,
"Su di una rupe", "Sogni di cristallo" e
"Nulla" spiccano sugli altri.
Enzo Caffarelli
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SAINT JUST
Omonimo - Harvest
(1973)
Anche il mercato
italiano pare maturo per sfornare una rivelazione. I Saint Just
sono tre ragazzi napoletani, di cui due, Robert Fix e Jane
Sorrenti, sorella del più celebre Alan, per metà inglesi.
Tentando di
esprimersi con un linguaggio veramente nuovo, e nello stesso tempo
di allinearsi con quegli artisti britannici che hanno riscoperto e
riattualizzato l'originario folk nazionale, i Saint Just compiono
la medesima operazione, scandagliando nella cultura italiana e
non, dei secoli scorsi, principalmente del Medioevo. In questo i
tre possono essere ricollegati, cpiù che a formazioni quali i
Pentangle o gli Steeleye Span, alla Third Ear Band, che essi
ringraziano espressamente sulle note di copertina.
Certe tematiche
meravigliosamente antiche non sono però che il pretesto per una
musica totalmente nuova, completamente acustica, con una
strumentazione ampliata da alcuni elementi di supporto.
Una nota particolare
merita Fix, i cui contralto e tenore mi ricordano il miglior Chris
Wood dei Traffic, e la voce di Jane, discepola del fratello
maggiore (anche se sostiene di essersi formata artisticamente in
maniera indipendente da Alan): ella alterna i toni con estrema
sicurezza e con indubbia tecnica, anche se non ancora con la
varietà e la flessibilità necessarie.
Ogni brano
meriterebbe un discorso particolare. Atmosfere rarefatte, pochi
tocchi sapienti di ciascuno strumento per creare momenti
affascinanti, una dolcezza pregna di contenuti appassionanti in
ogni dove, e canti ora indefinitamente malinconici ora convulsi.
Segnalo in particolare "Una bambina", in cui la voce
maschile è proprio quella di Alan Sorrenti, e il titolo omonimo
"Saint Just", cantato in lingua francese.
L'album necessita di
parecchi ascolti prima di essere compreso appieno ed apprezzato
quanto merita. Ma è eccezionale, specie considerando che il
gruppo è all'esordio, e s'impone immediatamente come uno degli
avvenimenti più nuovi e più interessanti della scena italiana.
Enzo Caffarelli
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OSANNA / LUIS E.
BACALOV
Preludio tema
variazioni canzona - Fonit (1972)
Luis Enriquez
Bacalov è lo stesso maestro che ha diretto e composto il
"Concerto grosso" dei New Trolls. Ma lo spunto e l'idea
dei questi "Preludio tema variazioni canzona" non sono
gli stessi. Intanto si tratta di una colonna sonora, dalla
pellicola "Milano calibro 9" di Fernando Di Leo con
Gastone Moschin e Barbara Bouchet. E poi gli Osanna hanno fatto
dell'album qualcosa di molto più proprio e personale, componendo
buona parte delle musiche, ed improntandole secondo le proprie
possibilità ed il proprio gusto, squisito e modernissimo, senza
troppe compiacente orchestrali, e senza risentire del suo
originario carattere di "colonna sonora".
Il discorso
artistico del gruppo napoletano ha sempre sentito la necessità, e
recentemente ancor più che agli inizi, di una corrispondenza
scenica, teatrale della propria musica. La ricerca di una
comunione artistica basata sul rapporto immagine-suono si risolve
per il momento nella realizzazione di questa colonna sonora,
lavoro in un certo senso anche di valore pionieristico, tenendo
conto che lavori del genere in Italia, al contrario di quanto
accade negli Stati Uniti ed in Inghilterra, non sono stati mai
affidati a formazioni di avanguardia. Una nuova conquista, un
nuovo passo avanti dunque.
Gli Osanna non
vogliono considerare questo album come il secondo atto
"ufficiale" della loro musica, ma piuttosto come
un'esperienza a parte, del tutto particolare. Viceversa
"Preludio tema variazioni canzona" si inserisce senza
difficoltà nel discorso artistico dei napoletani, lasciando loro
aperta ogni possibilità: il rock, le inflessioni e la ricerca
jazzistica soprattutto concentrata nei fiati di Elio D'Anna, il
recupero ancora piuttosto vago della poesia e della melodia
folklorica tradizionale specie napoletane, sono qui ancora
integri, anche se talora avvolti dalla potenza sinfonica
dell'orchestra di Bacalov.
Alcuni dei brani
sono cantati, in inglese. Gli Osanna dimostrano di essere anche
più maturati, e promettono veramente cose eccellenti per il
futuro. Intanto quest'album è sicuramente fra le più notevoli
colonne sonore composte in Italia.
Enzo Caffarelli |
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BATTIATO
Fetus - Bla-bla (1972)
E' un disco davvero
sorprendente questo "Fetus", considerato che il suo
creatore ed interprete proviene dai canali tradizionali del
discoestate e delle altre porcherie nostrane. Invece Franco
Battiato, ventisette anni, siciliano di nascita ma trapiantato a
Milano, proveniente dal cabaret e dal teatro, ora alla ribalta
anche per avere posato per una pubblicità che ha suscitato un
piccolo scandalo presso la redazione di un settimanale milanese,
ha cercato di maturare nuove esigenze espressive in ambienti assai
più stimolanti; ed è giunto in compagnia di un fantomatico
supergruppo denominato Frankenstein, autore di tutti i testi qui
contenuti all'etichetta (sic) Bla-bla.
"Fetus"
(con feto di due mesi sulla copertina molto bella, dovuta allo
studio al.sa.) utilizza essenzialmente musica elettronica,
cogliendo l'idea dell'uomo quasi in uno stato di sospensione nella
poesia dell'avventura esistenziale e del dramma futuro, fornendo
sensazioni - precisano le note accluse all'album - sino ad ora
sconosciute nell'orizzonte emozionale della musica.
Tutti i titoli,
"Una cellula", "Cariocinesi", "Anafase",
"Mutazione", ecc. sono presi in prestito dal linguaggio
biologico, e non è certamente un caso che proprio la biologia,
scienza fondamentale dei giorni nostri e ricca di meravigliose e
tremende prospettive per il domani si accoppi con l'elettronica,
altrettanto capace per la propria strada di portare a nuovi e
impensati vertici l'arte del suono,e nello stesso tempo capace di
ucciderla.
In questo disco
l'elettronica (soprattutto dovuta ad un sintetizzatore ARP) si
accoppia con melodie di stampo tradizionalmente italiano e ne
escono momenti piacevoli e davvero originali per la scena musica
italiana.
Enzo Caffarelli |
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CLAUDIO LOLLI
Aspettando Godot -
Columbia (1972)
E' piuttosto strano
come con un vasto patrimonio tradizionale e con tentativi così
numerosi, l'Italia abbia partorito negli ultimi dieci anni tanti
cantautori sufficientemente apprezzabili, ma un solo indiscutibile
genio e poeta, Francesco Guccini.
Ed è a Guccini che
Claudio Lolli si avvicina per formule musicali, per gli
arrangiamenti scarni e semplici (che qui divengono comunque
semplicistici) e per l'impegno ricercato dei testi. Con la
differenza che quanto in Francesco è riflesso, implicito e
pregnante di un provincialismo culturale che in fondo è proprio e
tipico di quasi tutti i grandi artisti del nostro paese, in
Claudio è denuncia esplicita e forzata, costantemente sull'orlo
del luogo comune e di quella protesta politica che fa di tanti
talenti degli uomini "impegnati" ma non degli artisti. E
quanto in Guccini è spontanea descrizione di moti del cuore e di
paesaggi naturali, in Lolli è frutto di esperienze personali
nelle quali la costante ricerca di un'assoluta sincerità merita
sicuramente una lode, ma risente qua e là di un notevole sforzo
espressivo.
Ciò non significa
affatto che il discorso artistico di questo giovane cantautore sia
sbagliato o, quel che peggio, sia assente. Tutt'altro. Solo che
non c'è bisogno di scomodare Guccini, come taluni hanno fatto,
per paragoni dai quali nessuno dei due può trarre giovamento
alcuno. In fondo Lolli è un personaggio estremamente sincero, e
come tale non va considerato secondo a nessuno: però forse non
basta essere se stessi per essere dei grandi artisti.
Claudio deve amare
profondamente Samuel Beckett se ha intitolato il primo brano e
l'intero album "Aspettando Godot". Oppure ha trovato
estremamente giusto, per ciò che complessivamente vuol dire con
questa sue esperienza discografica, la satira del commediagrafo
irlandese, per entrare nei panni un po' scomodi di Vladimiro e di
Estragone a confessare l'inutilità della propria esistenza
nell'attesa di qualche cosa di superiore. "Aspettando Godot"
è il brano più complesso e più valido dell'album, seguito a
ruota da "Borghesia", musicalmente un buono folk
italiano, con un quadro davvero tragico dei certa borghesia. poi
"L'isola verde" e "Angoscia metropolitana". Le
altre sembrano le poesie d'amore scritte nella prima giovinezza e
musicate con l'ombra di Luigi Tenco in mente.
Il tema fondamentale
resta l'inutilità della vita: il risultato cui, sfruttando i suoi
principi marxisti, Lolli giunge conseguentemente attraverso
un'amara ironia della vita con una continua, elementare ma
significativa, confessione.
Ciò che resta di
questo disco è l'analisi psicologica del personaggio, la vicenda
dell'"uomo" non in termini astratti e generali come
hanno fatto sinora troppi gruppi italiani con testi talora
infelici, ma composta con un mosaico di ricordi, impressioni e
sentimenti personali; e restano in mente i brani più belli, da
canticchiare scoprendovi magari, inaspettatamente, la problematica
che qualcuno di essi pone.
La strada è quella
giusta: ricordiamoci però che ci sono altri talenti da scoprire,
senza accontentarci di figure mediocri o di doppioni. Lolli non è
fortunatamente né l'uno né l'altro, ma non possiede neppure
l'altezza lirica e la maturità dei migliori. Un esordio in ogni
caso degno di menzione.
Enzo Caffarelli
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