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FESTIVAL DI VILLA PAMPHILI:
VERIFICA DEI COMPLESSI (E DEL LORO PUBBLICO)
di Maurizio Baiata e Marco Ferranti (dal "Ciao 2001" n. 24 del 18 giugno 1972)
Le ore una e mezzo del giorno 28 maggio scorso: sfinito, letteralmente morto di stanchezza, sono sotto la doccia. Eh sì! Ho proprio bisogno di un risanamento a livello fisico, altrimenti non mi addormenterei, ma continuerei ad avere addosso la polvere, la calca, il sudore, il calore, l'umidità ed i 10.000 Watts di Villa Pamphili. Ed i Watts annunciati e successivamente denunciati c'erano proprio tutti, ed entravano nel corpo, scomponevano le ossa, sembravano scorrere nel sangue in una sorta di lezione di vibrazioni che sarebbe stato difficile sopportare se non sorretti da tanto , ma tanto amore per la musica. Ed ora, sotto la doccia, nella calma e nella distensione di un momento di silenzio quasi magico, ripenso a quanto visto, ascoltato e provato nei tre giorni di festival, accanto alle migliaia di giovani, alle centinaia di bambini, alle occasionali vecchiette, a tutti i partecipanti alla festa. Ripenso a tutto l'accaduto e siccome il mio compito attuale prevede un esame concernente in modo particolare la musica ascoltata, mi sembra necessaria una premessa: innanzi tutto una notevole uniformità delle nuove proposte presentate, poi una dimesso entusiasmo da parte del pubblico, un pubblico non solo romano (quest'ultimo notoriamente freddo e "cattivello"), ma nazionale cha ha punteggiato in numerose occasioni e peccando fatalmente di gusto, la propria disapprovazione verso le vibrazioni musicali più diverse, strane ed a cui non tutti logicamente potevano essere abituati. L'ascolto prolungato della musica, quasi otto ore giornaliere, ha fatto sì che la voglia di novità e l'ascolto stesso fossero condizionati in parte dalla nostra "resistenza" per cui alcuni giudizi potranno anche apparire negativi, ma del buono, realmente, c'è stato e quest'articolo cercherà di dare un orientamento, se vogliamo postumo e quindi anche soggettivo delle proposte reali e concrete, delle conferme e delle delusioni evidenziate dalle formazioni. Mi sembra di poter dire che la prima giornata abbia riservato delle sorprese, prima fra tutte quella degli Hawkwind, gruppo inglese che però in questo caso direi non fa testo, sorprese sia negative che positive, che nel primo caso, possono essere state date da vari fattori contingenti quali l'intrinseca impossibilità da parte dei complessi di esprimersi compiutamente (una ventina di minuti a testa era il tempo loro concesso), la difficoltà di installare e registrare le strumentazioni, il disinteresse spesso del pubblico, o meglio di quella parte di esso che non so davvero per quale ragione partecipi a manifestazioni del genere. Fra le note maggiormente positive della prima giornata, vorrei segnalare i "Phorum Livii" ed il loro hard rock piuttosto "carico" ed aggressivo, che ha mostrato la buona preparazione del gruppo soprattutto nelle sezioni di background ritmico e nell'ottimo lavoro del chitarrista. Buoni anche i Flea on The Honey, che nella capitale godono di un discreto seguito; hanno dimostrato di aver assimilato la lezione bluesistica dei grandi (vedi Mayall) e quindi di aver operato un filtraggio di essa alla luce di una discreta carica ritmica di impronta chiaramente rockeggiante. Quasi sulla stessa linea il lavoro dei Fholks, ma con più larghi spazi all'improvvisazione ed a spunti ora jazzistici, ora classicheggianti: il complesso ha dimostrato l'affiatamento che, forse, una volta gli mancava e mi sembra sufficientemente pronto per un lavoro discografico di buon livello. Fra le parziali delusioni, sono costretto a ricordare l'esibizione del gruppo di Richard Benson (gruppo che fino all'ultimo istante sembrava in rotta con il suo leader): Richard e compagni, per quanto simpatici e volenterosi, hanno deluso come coralità e come bontà tecnica, soprattutto laddove Richard dimostrava di essere un buon chitarrista ed i suoi compagni lavoravano assolutamente per conto proprio, formando un qualcosa di piuttosto illogico, musicalmente parlando. Controverso anche il lungo spettacolo dei New Trolls, che hanno sciorinato, in un'ora ed un quarto di esibizione quasi tutto il loro repertorio (e fin qui va bene perché qualsiasi tipo di musica può piacere e non), ma dove forse hanno peccato, se mi è concesso, è stato nei lunghi assoli individuali, causati però da difficoltà tecniche e che escludevano un'esibizione corale del gruppo. Molto originali lo show di Folkaudo, il "cantamenestrello" (come egli stesso si definisce) che ha cantato "Shakidu", accompagnato dal suo inseparabile pupazzo. Il fine serata è stato allietato, questo è proprio il modo di dire giusto, dalla presenza degli Hawkwind, gruppo che ha favorevolmente impressionato larga parte del pubblico presente per quanto il loro non fosse un tipo di sound particolarmente facile ed immediatamente apprezzabile. Ma direi che con gli Hawkind è avvenuto il primo ed unico miracolo di Villa Pamphili, ho visto cioè tutta la gente ammutolita, chi per ragioni musicali, chi per "pruderie" personali, sembrare attonita alle proposte "spaziali" degli inglesi. Le definizioni che ho sentito dare del sound degli Hawkwind sono state le più disparate, ed anche in sede critica piuttosto autorevole, ma a me personalmente sembra che gli Hawkwind siano un gruppo di strumentisti eccellenti, primo fra tutti il bassista Dave Anderson, che ha assimilato la lezione degli Amon Duull appieno ed ora ne sfrutto le basi ritmiche originarie, quelle di "Phallus Dei" per intenderci, ma lavorandole con uno sviluppo ritmico chiaramente inglese, a metà strada fra le proposte pinkfloydiane ed il rock più aspro delle ultime e migliori leve. Il secondo, mi è parso il giorno forse più succoso spettacolarmente parlando, anche se non ha mostrato individualismi eccelsi, e si è mosso su di una costante uniformità musicale, nel complesso di buon livello, che ha raggiunto le sue punte più alte con il Banco del Mutuo Soccorso, gli Osanna ed i Van Der Graaf Generator. Fra le formazioni minori vorrei menzionare i Blue Morning, formazione davvero eccellente, in grado di tenere lo spettacolo con una notevole grinta ed una musicalità pulita e raffinata cui in Italia siamo difficilmente abituati: il loro è stato un momento jazzistico di ottimo livello, una parentesi fatta di vibrafono, basso, chitarra solista, batteria, organo e flauto (almeno così mi sembra), un tutto estrinsecante, un jazz molto viscerale, parzialmente influenzato, negli andanti, dagli ultimi lavori di Miles Davis e, in parte, dai Soft Machine. Buono anche il gruppo di Jimmy Mec, gruppo anch'esso fortemente jazzato, ma con più palesi venature di origine pop: ottimo il pianista del gruppo, forse influenzato troppo da Al Kooper. Mi sono anche piaciuti gli Osanna: la loro musica mi sembra notevolmente avanzata, l'uso dei mellotron e del sintetizzatore sempre coerenti e puliti, un insieme ritmico di ottimo livello. Forse carenti nel fattore della continuità, gli Osanna mancano in parte di una comunicativa che non può e non deve per loro scaturire dagli atteggiamenti plateali di cui ogni loro esibizione è fortemente impregnata: la loro musica merita di essere ascoltata e vissuta a livelli molto intensi e partecipi. Dei VDDG mi sembra inutile parlare diffusamente: unica nota, uno strepitoso Jackson (che una volta tanto non sembrava aver noie con il cervello elettronico del suo poliedrico sax) ed una splendida chiusura con l'epica "Theme One", forse a tratti canzonettistica, ma che, per la serata, è stata la cosa migliore detta dal gruppo, che prima aveva avuto non poche difficoltà con il reparto strumenti. Terzo giorno: il giorno delle conclusioni, del tirare le somme: il pubblico. 50.000 e più persone nel catino bollente di Villa Pamphili, ha ascoltato nel complesso un insieme musicale di livello inferiore ai precedenti, e questo non a causa della mancanza di nomi altisonanti, ma proprio per la carenza di un bontà totale delle creazioni ascoltate, che solo di rado si sollevavano dalla piattezza e dalla stanchezza del tutto. Buoni gli Hookfoot, decisamente migliori della serata al Piper, veramente ottimi i Trip, i quali mi sembra stiano lavorando nella giusta direzione (quella di Atlantide); infine buoni gli Osage Tribe, che hanno offerto dell'ottima musica. Eccellente anche l'esibizione de "La vecchia Locanda" che ha eseguito "Prologo", un brano particolarmente sottolineato dal violino, in cui si fondevano elementi della musica popolare e di quella classica. In definitiva tre giorni di musica che permettono di fare un punto sul tanto discusso panorama italiano: un arco musicale che si presenta forse un po' troppo monotono, ma, e adesso ne abbiamo avuto un'idea complessiva, ricco di spunti, e che, adeguatamente coltivato, potrà arrivare ad un insieme sincero ed autoctono, che in definitiva è la nostra più grossa aspirazione. Maurizio Baiata
Potrei iniziare questo articolo scrivendo che questo festival di Villa Pamphili ha veramente rappresentato un qualcosa di meraviglioso per tutti noi e sarei sincero, potrei anche esordire più amaramente parlando di un pubblico non ancora maturo e partecipe di questa musica, e potrei, andando avanti su questa linea, dire tante altre cose; ma indubbiamente sbaglierei perché un festival come questo è essenzialmente una cosa da viversi, lontana da ogni apprezzamento di critica musicale o di costume. E voglio proprio riviverlo, a beneficio della fantasia di chi non ci è stato o dei ricordi di chi lo ha diviso con tanti altri, lontano possibilmente da quel "mito di Villa Pamphili" che andrà già nascendo nelle storie degli hippies nostrani, vicino alla polvere, al sole, alla buona musica, al fracasso, alle facce amiche, ai volti stanchi di questi tre giorni troppo complessi e composti per essere giudicati.
GIOVEDI' Devo confessare che pur essendo un romano naturalizzato e come tale amando immensamente girare per la città a caccia delle sue bellezze questa parte di Villa Pamphili non l'avevo mai vista prima; è dunque da un lato la curiosità quella che mi spinge di prima mattina verso la sede del festival, ma dall'altro lato c'è la necessità di trovare una strada "tutta mia" che mi permetta di evitare gli impossibili ingorghi che per tre giorni soffocheranno tutta la zona: dopo qualche tentativo trovo infatti una piacevolissima stradine che tra la campagna e quartieri lontani arriva dritta ai cancelli e grazie alla quale io potrò permettermi di andare e venire come un signore. Ma nello spiazzo antistante l'enorme palco qualcuno mi ha già preceduto: sono le avanguardie di quei gruppi di giovani che dal giorni prima vanno popolando la città e sono, già stanchi e sudati, gli organizzatori. E a Pino Tuccimei, che ha profuso tutte le sue energie per organizzare questi meravigliosi tre giorni, ma il merito del successo ottenuto dal Festival di Villa Pamphili. Sul palco, c'è Eddy Ponti che già assapora il gusto della folla. E quando torno il pomeriggio, l'automobile carica di vari Caffarelli, la folla è già arrivata e si sta gustando le note della Strana Famiglia: e nel mio improvvisato programma la protagonista di questa prima giornata diventa proprio questa folla. Sembra quasi che la gente sia seduta seguendo un ordine ben prestabilito: sulla collina che sovrasta a sinistra il palco ci sono gli ultras, le sognanti comunità hippies, molte delle quali provviste di sacchi a pelo e tende danno l'idea di averne fatta di strada, davanti al palco sono seduti gli appassionati della musica, tutti quelli che amano viverla come fattore fisico, che si stordiscono, che si agitano,dietro, seduti, su provvidenziali coperte, i meno integrati, per la maggioranza ragazzi romani che si sono detti "annamo a vede" e che cominciano a provarci gusto, a sinistra e a destra del palco al di là di un fosso fangoso, oggetto di numerosi splash, e protetti da un boschetto i drittoni che si sono portati la ragazza: a cornice del tutto, chi scuotendo la testa, chi tappandosi le orecchie, sorridenti, curiosi o scandalizzati ma sempre sinceri, i cittadini romani, le madri con le carrozzine, i nonni con i ragazzini, i signori col cane. Non mancavano d'altronde le promiscuità: tra gli hippies sulla collina c'erano tre vecchiette dedite ai piaceri dell'uncinetto, e nel boschetto delle coppiette ho sorpreso un intero plotone di soldati. Niente di fuori posto in tutto ciò, ma tutto ciò il vero festival di Roma pop, anche il gruppo che salito sul palco all'insegna della pace indiana se ne va dopo aver lanciato in inglese dei non proprio pacifici apprezzamenti sui nostri antenati, anche il furto repentino del mantello che ricopriva le spalle a un forse spoglia ma certamente bruttissima ballerina degli Hawkwind. E proprio all'originale gruppo inglese spettava il compito di chiudere in bellezza questa prima simpatica e stancante giornata.
VENERDI' Ho ancora l'ultimo bocconi in bocca e sono già qui: ho fatto una gran corsa perché so che dietro il palco troverò dei vecchi amici; il caldo è veramente insopportabile ma non importa quando si gioca a calcio con Peter Hammill, Hugh Banton e David Jackson! Indubbiamente più che calcio è rugby e quando riesco ad uscirne fuori corro alla ricerca di un valido punto di appoggio: il punto si chiama Francesco, di professione e vocazione cantante del Banco del Mutuo Soccorso, indubbiamente un personaggio ma non tanto per certi facili attributi esteriori, quanto per la sincerità, e per la fiducia che anima tutto ciò che fa e che dice. Mi parla pieno di ammirazione per Hammill, che alle prove si è cantato da solo senza accompagnamento tutte le sue canzoni, indica Marcello, chitarrista del Banco, che sta girando tra i prati con la bellissima figlioletta in braccio, raggiante di felicità, poi mi prende un po' in giro infine leggero come un palloncino corre incontro ad Elio degli Osanna. Tra il napoletano un po' ricercato del sassofonista e il romano dissacrante di Big si tesse un discorso interessante sulla vita dei complessi, le difficoltà che può comportare la convivenza dei singoli componenti ma anche le enormi soddisfazioni a cui è possibile arrivare se si riescono a superare tutti gli ostacoli, il ruolo importante che giocano le mogli e le ragazze. Non è difficile comprendere che per gente come Elio o Francesco la presenza di tutti questi ragazzi, l'importanza del festival sono motivo di orgoglio personale; non sono lontani certi periodi di dure difficoltà e di umiliazioni artistiche ma la sensazione che ormai un periodo nuovo sia arrivato giustamente per tutti, e con questa certezza il desiderio di approfondire tutta una serie di discorsi, dalle tournée programmate dagli stessi complessi a un genere di spettacolo più globale, proprio sul modello degli stesso Osanna. Lascio i clan dei due gruppi e arrivo a quello dei Trip: Joe è ancora stordito per la presenza di un carro armato con il nome del gruppo che si erge sulla collinetta: indubbiamente il colpo, generato dalla fervida mente del Tuccimei è riuscito: ne parlano tutti i giornali, accennando ad "un vecchio carro armato inglese della prima guerra mondiale". Con maggiore orgoglio Joe mi mostra il pancone di comando per l'amplificazione (veramente ottima) che è il prototipo del modello che tra breve sarà dei Trip e anche del Banco. Lentamente sta calando la sera e, mentre Claudio Rocchi e le sue genti si apprestano a salire sul palco, il mio stomaco incomincia il suo canto di protesta (chiaramente per fame e non per Rocchi): è quindi provvidenziale l'invito di Maurizio Salvadori per una Van der Graaf-cena in un ristorante subito fuori dai cancelli, ove siamo accolti come marziani e subito relegati nell'angoletto buio. Si mangia (uno strano menù: pasta e ceci, spaghetti con le vongole, salame, porchetta e gelato) e soprattutto si beve; all'inizio i discorsi sono quasi seri, Peter parla del nuovo album che è in preparazione e che comprenderà numerosi pezzi, David accenna ai suoi sassofonisti preferiti e ai rapporti con il nuovo jazz inglese, Evans discute con Massarini di Fripp; ma dopo poco io e Hammill stiamo duellando con i coltelli, Jackson spiega a Ronnie che vuole suonare vestito da pescato, Banton tira salame e Guy dopo aver precisato che il mio articolo su di loro era bellissimo, confessa di non averci capito nulla. Torniamo appena in tempo per farli salire: intorno c'è una certa confusione, bandiere nordvietnamite, gente che spinge e ti mette le dita negli occhi; noto con preoccupazione che la mia auto è proprio tra i ragazzi più "caldi" e certi minacciosi carabinieri. Mentre sto facendo considerazioni di ordine strategico arriva il cantante dei Fholks con una ragazza che, vittima del freddo umido, sta parecchio male: sono le ultime note dei Van der Graaf quelle che salutano la mia partenza.
SABATO Sono così stanco che ho deciso di disertare il festival, tra l'altro devo trovare il tempo di fare questi due articoli altrimenti "qualcuno" mi licenzia; come potete vedere non sono stato licenzialo ma gli articoli hanno un che di frettoloso; naturalmente, infatti, mi sono trovato con Marozzi, Vittorio dei Trolls, Luisa delle Voci Blu e una ragazza venezuelana, una certa Ottolina, niente male. Villa Pamphili era di sabato pomeriggio molto mondana: c'è, come al solito avvinghiato alla povera Mara, Pino che da quando non è più batterista dei Trip vuole essere chiamato "signor Sinnone", c'è un po' meno capellone degli altri Mr. Bornigia (leggere Piper), Carlo Silvestro a stelle e a strisce con una notevole ragazza, tutta la stampa accreditata con Zampa in testa, qualche discografico più o meno panciuto. Non sono invece per niente mondani Eddy che sta scolandosi un fiasco di vino e Mauro Chiari, fotografo ufficiale del festival, che in tre giorni è riuscito sul palco a dare fastidio a tutti. I New Trolls si sono attendati, i ragazzi di "Quella Vecchia Locanda" se ne tornano dopo un ottimo spettacolo sulla collina tra gli hippies. Dave, il chitarrista di Godfather è in tranquilla compagnia della moglie e del figlio, c'è chi si perde i documenti, chi i figli, Eddy sul palco ha perso la voce e io tra la folla mi sono perso Caffarelli, Baiata e Ronnie. La festa sta per finire, finirà nei salti di quel demonio di Caleb Quaye; finiranno così i guari per gli organizzatori, le proteste dei denigratori e finalmente gli abitanti di Monteverde (quartiere prospicente Villa Pamphili) dormiranno sonni tranquilli: ed io con loro. Marco Ferranti
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