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UN JUMBO IN ARRIVO 

NELL'AEROPORTO DEL POP

di Manuel Insolera (da Ciao 2001 n. 51 del 24 dicembre 1972)

 

 

C'era una volta un signore, che lavorava come talent-scout o "producer" presso una casa discografica milanese, ed era sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, ma si accontentava anche di trovare gente che suonasse dignitosamente un repertorio sulla scia dei maggiori gruppi angloamericani del momento.

Un giorno gli capitarono dei ragazzi che eseguivano un musica sul tipo po-jazzistico: alla Chicago, per intenderci. Ma lo sguardo, le orecchie e l'attenzione di qual signore si focalizzarono su uno soltanto di costoro: il bassista, per la precisione. Era questi un tipo misteriosissimo, dal viso impenetrabile perché sommerso da un foltissimo e inestricabile intreccio di barba e lunghissimi capelli: unici elementi a prima vista distinguibili della sua personalità erano un paio di minuscoli occhiali e una voce potentissima, originale e grintosa.

 Questa appartiene ad Alvaro Fella, detto "Jumbo". In quattro e quattr'otto, Alvaro viene scritturato e costretto ad incidere dischi assurdi, tra i quali una ennesima versione di "Summertime" (1), di cui egli ora si vergogna moltissimo.

Ma il destino evidentemente pensava che "Jumbo" meritasse di meglio: avvenne infatti che il produttore passò ad altra casa dicografica, e di tutti i suoi "protetti" gli fu permesso di portarsene via uno soltanto: non c'è quasi bisogno di dire, credo che Alvaro fu il prescelto. Messo a suo agio da un ambiente disteso e amichevole, "Jumbo", di solito afflitto da quella riprovevole e rara malattia che si chiama modestia, timidamente un giorno confessa che giù da gran tempo scrive pezzi propri, accompagnandosi alla chitarra acustica, che ha cominciato a preferire al basso. Questi famosi pezzi, ascoltati, si rivelano più che buoni, tanto da far apparire interessante l'idea di creare un gruppo tecnicamente all'altezza per eseguirli in modo nuovo e originale.

In poco tempo, viene organizzata una formazione piuttosto in gamba: Alvaro chiama con sé i vecchi amici Vito Balzano, Batterista, e Sergio "Sabuel" Conte, organista e pianista, che già avevano suonato con lui per moto tempo; a questi si aggiungono il bassista Aldo Gargano, il flautista e armonicista Dario Guidotti e il chitarrista Daniele Bianchini, i quali dimostrano di sapersela cavare perfettamente, nonostante la loro giovane età.

I ragazzi si scelgono il nome di Jumbo, dal soprannome di Alvaro: in effetti, la loro musica appare costruita e sviluppata intorno alla sua voce rauca, forte addirittura negroide, in certe occasioni, ma a che capace di toccare inflessioni più dolci e contemplative.

Un altro elemento fondamentale della musica dei Jumbo sono i testi ,ancora dovuti all'estro di Alvaro Fella, che partendo spesso dalla descrizione di un quadro sociale o da un situazione umana generalizzata, scavano più nel profondo, scoprendo le angosce e la solitudine che si celano dietro la facciata. In particolare, Alvaro sembra colpito dalla situazione umana dell'arrivista, di chi vuole sfondare ad ogni costo, dimenticandosi di tutti i buoni sentimenti, primi fra tutti l'amore, la fratellanza, l'amicizia. Ma Alvaro scopre i risvolti più segreti, facendoci vedere l'arrivista umanamente solo e nudo, magari di fronte alla morte, quando il successo o mezzo successo conquistato non gli serve più, e accanto a lui non ha nessuno: né la presenza di un donna, né quella di un amico, né quella magari di un bambino che gli voglia bene.

Pur stando insieme da soli sette mesi, i Jumbo hanno realizzato ben due L.P., e si son fati conoscere partecipando agli ultimi festivals pop o accompagnando in tournée diversi gruppi stranieri.

Il primo disco, chiamato semplicemente "Jumbo", può senza dubbio essere diviso in due pareti: la prima, comprendente tre canzoni, che si rifà direttamente a schemi battistiani, sia nella musica che nelle situazioni descritte dai testi; la seconda, invece, già più matura e personale, che comprende i rimanenti sei pezzi. Si notano particolarmente: "Dio è", una ballata sulla futilità della gloria contrapposta alle semplici e fondamentali aspirazioni dell'animo; "Artista", bozzetto di un fantoccio in balia della pubblicità; ancora "Che senso ha", sull'impotenze e la degradazione che suscita la ruffianeria.

Musicalmente, il disco stenta a trovare una precisa collocazione, alternando momenti piuttosto hard ad altri più intimisti e acustici, ammorbiditi dal flauto o dall'armonica o da un piano sufficientemente lirico: si hanno allora costruzioni che assumono sapori di ballata o recuperano scarne atmosfere blues.

Gli stessi ragazzi, comunque, consideravano questo primo disco come una necessaria preparazione: mentre lo registravano, infatti, giù pensavano al secondo, immagazzinando idee e spunti e cominciando ad abbozzare nuove intelaiature armoniche.

Il nuovo album è uscito in ueste ultime settimane, e si chiama "DNA", che, come ben sanno i malcapitati che studiano chimica a scuola o dall'università, è la formula dell'acido desossiribonucleico, dal quale prende origine la vita stessa...

Si nota subito come i ragazzi abbiano maturato espressivamente, raggiungendo una dimensione personale che si colloca in un posto abbastanza preciso nel quadro della rinascita del nuovo pop italiano, anche se non si può in questo caso parlare di avanguardia in senso stretto. La dimensione acustica ha preso il sopravvento sulla parte più dura, che resta per lo più a fare da sfondo o in funzione di background destinato a sottolineare qualche particolare sensazione.

Questa nuova tendenza trova conferma nelle intenzioni del sestetto, che ci ha confermato di voler continuare su questa strada. Il recupero di atmosfere blues si è fatto più interiore, e bellissimo è l'uso dell'armonica, che nessun altro gruppo italiano ha finora adottato. Branco anche "Samuel", comunque più convincente quando cesella al piano, che all'organo. Resta un eccessivo e un po' troppo manieristico abuso del flauto, che a volte, specialmente in alcuni duetti con le chitarre, crea un'atmosfera che riecheggia troppo da vicino i Jethro Tull specialmente di "Aqualung".

Le composizioni sono ancora di Alvaro, che padroneggia sempre meglio la sua interessantissima voce, punto focale delle esecuzioni, e la sua vena poetica nella creazione dei testi. Molto bella è "E' brutto sentirsi vecchi", uno degli episodi più autentici del disco, pervasa di commozione e lirismo; interessante anche la tragica "hai visto" sulla fine del mondo, risolta da Alvaro in tonalità distorte e strascicate; infine la "Suite per il sig. K". divisa in tre momenti, che occupa l'intera prima facciata dell'album. Il sig. K è l'arrivista di professione, cha alla fine si ritrova davanti al nulla: il terzo memento, una rielaborazione della "Dio é" del primo disco, agita davanti alla grigia figura di K una vaga speranza di redenzione.

A questo punto, un piccolo consiglio personale ai Jumbo: ragazzi, rivedete l'impianto di amplificazione che usate negli spettacoli dal vivo: mi sembra che acutizzi e distorca troppo i suoni, rendendo certi passaggi piuttosto indistinti.

Se, poi, verrà raggiunto un definitivo equilibrio e le scelte musicali si saranno ulteriormente precisate, vedremo senz'altro il Jumbo volare in alto.

                                                                                                                                                                           Manuel Insolera

                                                                                                                                                                    Foto di Ennio Antonangeli

 

 

Ciao 2001