Materiali / Articoli |
LA TRADIZIONE "IN VOLO"
di Giorgio Rivieccio (da Ciao 2001 n. 17 del 28 aprile 1974)
Ormai, per diventar un complesso italiano affermato, pare che sia indispensabile cantare in inglese e incidere a Londra o nell’Oxfordshire con tecnici britannici. Poco importa se poi tutto quello che rimane di italiano sia il nome del gruppo: l’importante è l’essere riusciti a lasciarsi alle spalle la sottocultura e la sotto-tecnica italiane, che non possono certo essere all’altezza di alcuni discorsi così impegnativi che necessitano, per la loro realizzazione, di ambienti, culture e tecniche ben diversi da quelli che il nostro misero paese può offrire. Tutto questo, inoltre, contribuisce anche in modo determinante all’idea di nazione sottosviluppata che gli inglesi si sono formati dell’Italia, se, a quanto pare, qui da noi non si riesce neanche ad incidere decentemente un disco. Fortunatamente, però, il virus di queste “febbre inglese” non ha contagiato tutti: c’è ancora chi crede che portando avanti un discorso personale completamente privo di influssi esteri, avvalendosi del nostro immenso patrimonio culturale e musicale, si possa combinare qualcosa di molto buono, dimostrando contemporaneamente come anche i nostri tecnici conoscano il banco di registrazione. Con tali presupposti si è formato “Il Volo”, un nuovo gruppo nato dallo scioglimento della Formula Tre, e che vede riuniti Alberto Radius (chitarra), Gabriele Lorenzi (Eminent, moog), Vince Tempera (piano, piano elettrico), Mario Lavezzi (chitarra), Gianni Dall’Aglio (batteria) e Bob Callero (basso) sotto l’ala protettrice di Giulio Rapetti, alias Mogol. Idee e realizzazione , quindi assolutamente originali, che affondano le radici in tutto il retroterra musicale e popolare italiano, vera espressione di qualcosa di personale e di sentito (che è poi la caratteristica peculiare della nostra musica), e che si avvalgono delle diverse esperienze dei sei, in ognuno dei quali si avverte la presenza di differenti matrici musicali: Radius, rockeggiante, a cui si devono le parti più sostenute e gli assoli di chitarra, Lorenzi, classico per eccellenza, autore di tappeti di Eminent, ricercatore di soluzioni armoniche, Tempera, di provenienza jazzistica, pieno di estro e brio, nei suoi fraseggi al piano Fender, divenuto ormai componente indispensabile nell’organico di un complesso, Lavezzi, che ha curato in massima parte le melodie, forte di lunghe esperienze in questo campo. Dato che il disco vuole essere italiano al cento per cento, è stata data grandissima importanza alle parti melodiche, riducendo piuttosto quelle strumentali in funzione di queste, e non viceversa, come avviene oggi per la maggior parte dei brani. Per questo fatto, il disco ci ha sorpresi non poco, abituati come eravamo all’ascolto di lunghe frasi strumentali, con brevi parti vocali sovrapposte, quando queste poi non mancavano del tutto. La linea del discorso musicale scorre fluida, in tutti i brani dell’LP, è come fosse un unico tema, rivoltato e messo a nudo nelle infinite sue sfaccettature, punteggiato dal piano. Sottolineato dalle tastiere, narrato dalla chitarra, dalla voce e spesso anche dalla stessa batteria, che nell’ultimo brano, “Sinfonia delle scarpe da tennis”, fa addirittura la parte del leone costruendo, insieme al piano, l’intera tessitura musicale. Anche i testi sono a tema unico: realizzati dall’infaticabile penna di Mogol, rappresentano l’evoluzione dell’uomo, esteriormente come civilizzazione progressiva, interiormente invece come graduale presa di coscienza di se stesso, con conseguente rifiuto della condizione attuale di schiavitù nei confronti della società e ricerca di un nuovo orizzonte. A nostro parere, la parte più discutibile di tutto il disco è rappresentata proprio dai testi, ermetici al punto giusto. “Il fatto che sia stato Mogol, cioè non uno di noi, a scriverli, non deve far pensare però che si tratti di versi prefabbricati su cui abbiamo dovuto adattarvi un motivo - ci spiega Mario Lavezzi – perché la genesi delle musiche e dei testi è avvenuta contemporaneamente da parte nostra e da parte sua, al Mulino (ex mulino di campagna, ora adibito ad abitazione di Giulio e a sala di incisione), come è già avvenuto tempo fa per la “Grande casa” della Formula Tre. Si tratta anche questa volta di esperienze in comune, tradotte in musica da parte nostra, e in parole da parte sua”. Chiuso questo capitolo, ci siamo addentrati in discorsi riguardo ai motivi che hanno spinto Il Volo a muoversi in questa direzione, svolgendo un tipo di ricerca che tende a rivalutare una cultura nazionale, una tradizione musicale e che potrebbe portare ad una importantissima svolta nell’ambito del rock italiano, ormai anglicizzato fino alla nausea. “Perché si dovrebbe ignorare il bagaglio culturale, classico e popolare, che ognuno di noi si porta dietro, disprezzarlo a favore di un’imitazione del mondo inglese?” – ora sono Alberto e Gabriele che parlano – “ Senza negare l’importantissimo contributo degli americani e degli stessi inglesi nel campo della tecnica, sarebbe ora di far conoscere anche quello che siamo capaci di fare noi italiani, imporre un discorso personale, che potrebbe essere accettato benissimo. Se Santana non riecheggiasse nei suoi brani lo spirito del mondo latino-americano, sarebbe uno dei tanti chitarristi-imitatori, ma la sua forza è proprio nel rendere universali con la sua arte quelle matrici folkoristiche del suo paese. “E questo comporta una rivalutazione della melodia, del canto. Da Rossigni alla musica napoletana la melodia è stata sempre un punto fermo nella evoluzione musicale italiana, una sua importantissima caratteristica”. Per quanto riguarda Vince, abbiamo notato come si sia inserito perfettamente nell’insieme del gruppo, dopo anni di attività solistica e di sessions. In particolar modo, la sua presenza si è rivelata di fondamentale importanza: i suoi accordi secchi, i fraseggi jazz, le dissonanze sostengono meravigliosamente le parti melodiche, quelle più marcatamente rock, gli assoli quasi “cantati” della chitarra di Alberto; un piano ritmico, quasi percussivo. Identico discorso per Gianni: anche lui è approdato al Volo dopo anni di sessions, anche ha avuto modo di maturarsi nel jazz, anche lui ha contribuito alla stesura dei brani del disco (là dove Tempera si è rivolto più agli arrangiamenti, Gianni ha vestito invece i panni d’autore; sua è “Sonno”, il pezzo di apertura della seconda facciata che è uno dei più belli dell’album). Infine vorremmo spendere due parole riguardo alla registrazione, che ci è sembrata, a dir poco, ottima. Oltre ad aver fatto uso di un banco di registrazione frea i più perfezionati (un Dolby per canale, eco ritardato e simili), grazie a perfezionatissimi apparati giunti appositamente dall’Inghilterra e all’ingegno di Radium (lo chiamano “l’alchimista”) non è difficile riscontrare nel disco delle sonorità nuovissime, ottenute in massima parte filtrando la chitarra, tanto da riuscire, con questa, a riprodurre anche il suono di campane. E tutto questo, a Milano. Giorgio Rivieccio
|