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IL BALLETTO DI BRONZO

VISIONI DI UNA COMPOSIZIONE

di Maurizio Baiata  (da Ciao 2001 n. 33-34 del 10 settembre 1972)

 

 

Ci stiamo riuscendo, lentamente ma con fermezza andiamo finalmente affrancandoci dalla vita insulsa di riflesso e di riverenza nei confronti degli stranieri. Lo scrollarsi di dosso il lavoro altrui, nella fattispecie gli insegnamenti esteri, è stato sempre il nostro tallone d’Achille, la castrazione monotona e ripetitiva dei tentativi più disparati che i nostri artisti portano avanti ormai da qualche anno, e mediante i quali si cercano vie intentate, suoni e colori che non debbano necessariamente ricondursi al lavoro già da altri intrapreso.

Accanto alle formazioni oggi affermate, ma non a furor di popolo, piuttosto riconosciute dagli intenditori e, se vogliamo, dalla critica, collocherei senza il minimo dubbio questo Balletto di Bronzo, formazione che già qualche anno fa si fece notare positivamente, seppure con un diverso organico.

Oggi i quattro ragazzi del Balletto hanno a loro attivo un primo album, recentemente pubblicato, quantunque frutto di un lavoro di registrazione ormai risalente a parecchi mesi fa e forse superato dagli stessi ultimi intendimenti musicali del gruppo.

Il commento a quest’opera davvero interessante, il colloquio avuto con Vito Manzari, bassista del gruppo, mi forniscono i dati essenziali per un discorso che vorrei fare, in un contesto, fra l’altro che non offre poi tantissima voglia di farlo spesso e con piacere.

Ma il Balletto di Bronzo è un’eccezione, come forse altre due o tre possono oggi trovarsi in Italia, e merita davvero la nostra attenta considerazione; un invito, quindi, all’ascolto di “YS” e ad una maggiore considerazione nei confronti di quelle formazioni nostrane che lavorano seriamente.

Cominciamo con l’esame dell’album, cui alternerò poi a tratti le considerazioni personali di Vito e quelle del sottoscritto, entrambe come al solito da prendere solo in misura indicativa. Innanzitutto ci troviamo di fronte ad un album “concept” secondo una particolare visione di un’opera che, ai fini di una maggiore compiutezza e logicità totale, necessita di un canovaccio di testi, in pratica di una storia che faccia vivere, nelle parole, le visioni di una composizione cromatica musicale.

Accanto a questa, notiamo la presenza di altre costanti ricorrenti: una visione coristica che non ha riscontro in altre proposte del settore, il succedersi di quadri compositivi apparentemente slegati, ma sottilmente intessuti della stessa trama di tempi e di battute, momenti di improvvisazione che sfruttano sapientemente giochi modulatori ora jazzistici ora classicheggianti, infine numerosi accenni alla dodecafonia, ma che vedremo più in particolare fra poco.

La grama di tutta l’opera viene esplicata nei versetti iniziali: “La voce narrò, all’ultimo che sul mondo restò, la vera realtà – E poi comandò di andare tra i suoi a dire la verità e il gioco iniziò”, momento versificatore dell’allucinante ed onirico viaggio che il protagonista compie in un mondo ormai non più suo, perché dominato da una morte fisiologica, conseguenza di chissà quale guerra o morbo, da cui è miracolosamente scampato. Nel cammino fra macerie naturali e psicologiche il nostro protagonista riuscirà, forse, a scoprire sé stesso, ma, Diogene moderno, resterà vittima del silenzio e del buio eterni. Niente belle favole o melense atmosfere amorose, dunque, piuttosto la consapevolezza di una transitorietà naturale che “YS” nella sua brevità compostivi, restringe, ma non costringe, al connubio parole musica. Vediamo come:

I momenti introduttivi sono frutto della collaborazione fra organo e celeste, strumento questo che ricorda come tonalità il vibrafono, ma da cui si distacca come versatilità d’impiego e piacevolezza d’armonia: la parte strumentale è completata da veloci stacchi di moog, e da allucinanti sequenze coristiche, retaggio evidente di insegnamenti dodecafonici propri soprattutto di Schoenberg e della sua scuola delle “dodici note”.

Vito mi precisa come questo concetto di musica d’avanguardia (per quanto possa essere propria la definizione) derivi da un allargamento dell’improvvisazione a livello di espressione personale, dove si cerchi di superare le barriere restrittive e standardizzate della musica più abituale: la necessità di atmosfere che definirei più comuni, come nei passaggi più salienti di “Primo Incontro”, fa sì che al cromatismo illogico e cruento dei momenti precedenti si sostituisca una ricerca più usuale, regolata in pratica dall’uso del mellotron e del sintetizzatore, con contrappunti notevoli nella chitarra e nel pianoforte. La batteria, nel frattempo, viene a costituire un mondo estremamente personale, che in pratica fa da guida all’ascolto dell’intero album assieme alla voce di Gianni Leone, che è fra l’altro l’ottimo keyboardista della formazione, voce che però non convince totalmente e che rischia, a tratti di spezzare l’unitarietà della composizione tutta. Se altri appunti è necessario fare, ricorderei l’uso innato in noi italiani di un lavoro solistico spesso esasperato per i vari strumenti: nel Balletto questo avviene solo tangenzialmente, ma avviene, e sarebbe forse un qualcosa da rivedere in sede di seconda incisione.

Molto maggiori i motivi di lode, comunque e soprattutto nella seconda facciata dell’album, la più interessante certamente, come sviluppo armonico e completezza di idee, ma anche a livello strumentale, data la parziale mancanza dei cantati, sostituiti da magnifici momenti coristici. Questa seconda parte viene introdotta da un mellotron dolce e sinfonico, cui però fanno riscontro i passaggi ossessivi della batteria ed i sincopati di un Hammond spesso al lavoro con un Echo Binson di sostegno e della chitarra, stranamente elaborata dal suo bravissimo possessore, Lino Ajello. Il mellotron, fra l’altro, è spesso regolato su tonalità meno epiche e sinfoniche del solito e si invola verso atmosfere flautistiche che non dispiacciono, ma che anzi vengono a corroborare i momenti più palesemente jazzistici che il Balletto persegue.

Ci sono difficoltà, a questo punto, per la descrizione di un album  che va evolvendosi continuamente, che tocca le più diverse strade compositive, che lascia quindi moltissime possibilità critiche e di godibilità, che in pratica un ulteriore e personale giudizio verrebbe a compromettere nel lettore-ascoltatore.

Ma la parte finale dell’album merita davvero un discorso approfondito, anche se ristretto. Da “Terzo Incontro ed Epilogo” si trae l’impressione di trovarsi di fronte ad una delle migliori nostre formazioni: forse la migliore per quanto riguarda il visionismo e la varietà armonica di questi prolungati ed allucinanti momenti di chiusura, con i quali torniamo inevitabilmente alla musica d’avanguardia. “Sfruttare queste tecniche così particolari ed apparentemente irrazionali, vuol dire la possibilità di accostamenti mai formali, mai fermi allo spazio breve ed alla irrisolutezza della musica necessariamente “finita”. La musica che se ne trae, viceversa, è infinita, naturalmente in un contesto di spazialità e di totalità che un disco deve rispettare”. Questa le parole di Vito in proposito: di mio vorrei dire che le idee del Balletto di Bronzo, vanno, è vero, a confluire in un contesto giù ampiamente sfruttato, ma ancora tutto da scoprire e godere, quale quello della composizione a dodici note, elettronica e pura, con l’accostarsi a scuole e stili che fra l’altro hanno in compositori italiani dei validissimi rappresentanti, Per chi sa di chi stiamo parlando e voglia approfondire il discorso, mi pare ci sia un’assonanza con i primi tentativi di Penderecky, ma preferisco non addentrarmi in un contesto non del tutto mio e, dal Balletto, toccato solo in momenti musicali estremamente particolari.

Resta indubbio il fatto che “YS” e la sua conclusione soprattutto vengono a confermarci l’ottima preparazione di una formazione cui va il merito notevole di aver creato una “composizione” nell’accezione più valida del termine, le cui visioni allucinanti, spaziali, formali ed informali, lascio ora al piacere ed alla sensibilità di quanti sperano in un futuro musicale fatto davvero di idee nuove.

                                                                                                                                                                       Maurizio Baiata

 

 

Ciao 2001