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ALAN SORRENTI
UNA VENTATA DI "ARIA" NUOVA
di Marco Ferranti (da Ciao 2001 n. 33-34 del 27 agosto 1972)
La prima volta che vidi Alan fu in un lussuoso appartamento dove ci avevano invitato un po’ tutti per farci sentire e conoscere questa nuova figura della musica italiana: lo trovai giustamente un po’ fuori posto, circondato da tanta interessata attenzione, timido ma nello stesso tempo con il volto aperto che tradiva le origini partenopee. Ma, se la persona mi era subito sembrata sincera e simpatica, quella che non riuscivo bene a compenetrare era la sua arte: indubbiamente mi meravigliava una simile estensione vocale, l’improvviso e vario alternarsi delle tonalità, ma il tutto mi sembrava relegato a una concezione astrusa, quasi formale, una di quelle tipiche manifestazioni artistiche che per la loro in compenetrabilità finiscono con l’essere bollate con un “originale” quanto mai vuoto e ambiguo. Con queste idee per la mente sono arrivato al primo appuntamento di Alan con la gente; la reazione violenta del pubblico, il microfono rotto eppure in quel mondo pieno di caos, basato su tanti controsensi, quando tutte quelle strane volontà sono sembrate materializzarsi, allora, come la mente di Alan, anche la mia era “piena di viti cacciaviti e chiodi”. Tutto ad un tratto sono entrato nel mondo di Alan, ne ho avvertito il canto dolce, il pianto amaro delle ironie, delle favole moderne che ci riportano ai lontani e preziosi simbolismi, tutta la strana e suadente comunicativa universale, la sete esistenziale. E il giorno dopo tra la folla che applaudiva quel canto provocatorio e tridimensionale c’ero anch’io, ormai convinto. Strana bestia musicale quella italiana, animata dai complessi che perlopiù tendono ad appoggiarsi su moduli stereotipati, ci regala queste figure sole, questi singoli uomini cui è affidato il compito di portare avanti le concezioni più interessanti, originali e avanzate: Francesco Guccini che vive di quel culto sensibilissimo del provincialismo che fece grandi tanti nostri artisti dai poeti ai registi, Franco Battiato vulcanica eruzione chimica che fonde nelle melodie consuete la linfa dell’elettronica, e ora questo Alan Sorrenti che impersona l’alienato, l’uomo reale di questo universo odierno. Alan Sorrenti ha detto un giorno: “ora voglio fare un disco”; e ha iniziato, con la massima libertà a registrare. Poi la sua sensibilità musicale gli ha suggerito un nome: Jean Luc Ponty; con tutti i suoi bagagli è così partito per Parigi e dopo poco eccolo in sala di registrazione a dettare con il favoloso violino di Jean Luc. Prima di ogni giudizio critico sorge questa immagine dell’artista nuovo, di consueti limiti espressivi tecnici, artistici frantumati per far coincidere il più possibile la musica, il canto con l’uomo. Come per accusare l’aguzzino nulla è più vero della voce vera e terribile della sua vittima, così per cantare del mondo di oggi nulla è meglio della voce di un suo figlio vivo e vero, attraversato da tutte le passioni, le paranoie, il primitivo senso del mistero di ogni cosa, il profondo senso dell’autocritica e il contrastante egocentrismo: e Alan Sorrenti è tutto questo, come tutto ciò è la sua musica. Un disco veramente unico quest’ “Aria”, nel tempo stesso scorrevole e unito come un fiume, e studiato e cesellato come un mosaico; la costruzione strumentale non ha davvero precedenti, con le infinite variazioni crea per la voce incredibile di Alan spazi vastissimi, pieni di suggestioni e atmosfere ora rarefatte, sognanti bucoliche, ora nervose, opprimenti. Quasi tutti hanno detto che la voce di Alan è uno strumento, un meraviglioso strumento duttile e originale come pochi altri: mi sembra invece che la concezione del cantautore vada di molto oltre questa predisposizione naturale. Si tratta invece di ricollegarsi a quel discusso e non certo nuovo discorso che vuole il suono delle parole intonato al sentimento espresso; la vecchia figura onomatopeica che tanto ha dato da fare a poeti e cantori; ma Alan ha invece scoperto ad esempio che la parola “aria”, a seconda di come uno la canta, può divenire bufera, vento, sospiro. Così, spesso dette con inusitata dolcezza o con inconsueta asprezza, urlate o quasi parlate, le parole delle sue poesie ci dipingono questo creato, denso di sogni, immagini duramente realistiche abbinate a intuizioni fantastiche, magici momenti fiabeschi che succedono alle frasi comuni dette ogni giorno. E se con la retorica esistenziale di alcuni minuti ci chiedessimo il perché di questo disco, di questo mondo affascinante, vorrei rispondere con Alan: “perché io credo / perché amo la vita / amo la gioia / perché io piango / perché io rido / ed il sasso che trovi per terra / quel sasso ti ama / e una voce che trovi per terra / quella voce ti ama / e io amo…” Marco Ferranti
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