Freccia-sx4.jpg (2157 byte)    L'UOMO CHE NON C'ERA
Anno 2001 - Titolo originale The man who wasn't there - Durata 116 - Origine USA - Regia Joel Coen – Attori: Billy Bob Thornton (Ed Crane) - Frances Mcdormand (Doris Crane -), Michael Badalucco (Frank Raffo), James Gandolfini (Big Dave Brewster), Katherine Borowitz (Ann Nirdlinger), Ted Raimi (Boven), Jon Polito (Creighton Tolliver), Scarlett Johansson (Birdy Abundas), Tony Shalhoub (Freddy Riedenschneider), Richard Jenkins (Walter Abundas), Christopher Kriesa (Persky), Brian Haley (Krebs), Nicholas Lanier (Tony) - Soggetto Ethan Coen e Joel Coen - Sceneggiatura Ethan Coen e Joel Coen - Il film è stato Palma d'oro a Cannes per la miglio regia
Trama
Nell'estate del 1949 in una piccola città della California del Nord, Ed Crane, un barbiere assai scontento della propria vita, spera di poterla cambiare quando, scoperto il tradimento della moglie, decide di ricattare l'amante. Nonostante la sua mancanza di scrupoli, però, le cose andranno in maniera diversa perchè l'amante di sua moglie viene trovato ucciso.
Il cinema dei fratelli Coen
L'impressione che ha lo spettatore nel vedere i film dei fratelli Coen, Joel ed Ethan (Arizona junior, Fratello, dove sei? Mister Hula Hoop), è che essi giochino col cinema, che vogliano divertirsi, che vogliano giocare coi generi, in questo caso il genere noir (Il postino suona sempre due volte di Tay Garnet - La fiamma del peccato di Billy Wilder), un genere tra il poliziesco e il thriller. C'è quindi il pericolo da parte dello spettatore di sottovalutare il cinema dei due fratelli, un cinema ironico, distaccato, che sembra solo un gioco. "Che cosa dirà mai il loro cinema?" "Ha qualcosa da dirci al di là del piacere della storia, della costruzione, della genialità dei movimenti di macchina?" Se il cinema dei f.lli Coen è un gioco, occorre fare una riflessione su che cosa è il gioco. Se guadiamo attentamente il gioco dei bambini, ci accorgiamo che non c'è niente di superfluo: il gioco del bambino è sempre tremendamente serio. All’adulto il gioco sembra un’attività superflua, legata al tempo libero. Ma nei giochi del bambino c'è tutta la gravità e la serietà della vita. Spesso c'è anche il rapporto con la morte. Ad esempio, il gioco del nascondino è un gioco in cui in realtà il bambino scarica le proprie angosce e insieme felicemente le supera. In alcune varianti del gioco del nascondino (in Calabria e in Spagna, per esempio) il bambino "preso" deve cadere per terra e fare il morto (un morto che poi, alla fine del gioco risorgerà gioiosamente). Per convincerci che nel gioco c'è una serietà, una gravità che non c'è in altre azioni della vita basta pensare come nel mondo antico si definiva il gioco. In sanscrito, la lingua più antica del mondo, la parola che indicava il gioco indicava anche il gioco del cielo con le onde del mare; in un dialetto indiano la parola indicante gioco indicava anche i gesti dell'amore (oggi si direbbe, petting); in arabo la parola giocare definisce il gioco dei bambini, ma significa anche "dio che sorride agli uomini". Quindi nel gioco, da sempre, c'è solennità e gravità. I f.lli Coen fanno la stessa operazione. Per gli spettatori più distratti essi giocano semplicemente col cinema. In questo film prendono il modello del cinema degli anni '40 e apparentemente sembra che ci giochino. Ma, come nel gioco dei bambini c'è serietà, sacralità, come se si trattasse di una liturgia, così nel cinema dei Coen il gioco ha una sua profondità.
Un uomo senza qualità
Al di là della sua storia, della sua trama, L’uomo che non c’era diventa una riflessione sulla condizione umana, sulla condizione umana più derelitta. Il protagonista di questa storia, il barbiere, è un "uomo senza qualità" - per rubare il titolo di uno dei romanzi più grandi del 900 - "L’uomo senza qualità" di Robert Musil -, cioè un uomo passivo, un uomo che non sceglie, che non decide, che si lascia vivere. Allora questo film è sì un'acrobazia, un gioco, un grande esercizio di cinema, ma è anche una riflessione sul vivere, sul destino, sull’anonimato. Ed Crane sembra un uomo che nella sua pochezza (allucinante, angosciosa, assurda) esce da un romanzo di Kafka. Diventa un personaggio simbolo, che ci parla e ci invita in qualche modo a riflettere. Occorre quindi guardare questo film andando dentro le pieghe del racconto, cercando di cogliere dentro l’ironia la riflessione sul vivere, sul senso, sul significato del vivere. A di là del suo carattere ironico e a volte grottesco, L’uomo che non c’era è un film doloroso. Ci mostra un uomo qualunque, un uomo medio per il quale non sembra esserci alcun spiraglio di speranza. È un uomo morto. Infatti sua è la voce del narratore, che è un po’ come quella di Lester Burnham in American Beauty (un uomo già morto che racconta la sua storia). Però in American Beauty Lester Burnham alla fine trova una sua redenzione, una sua salvezza: anche lui è un uomo qualunque che trova poi nella morte una specie di espiazione e di redenzione. In questo film invece c'è la storia di un uomo qualunque (si pensi all'insistenza con cui ci si dice che è "un barbiere ..."), di un uomo grigio, anonimo, "senza qualità", appunto. La sua voce fuori campo che accompagna questa storia è una voce dell'al di là in qualche modo, è una voce che viene dal paese della morte. Appena il nostro barbiere partecipa in qualche modo all'esistere (l'illusione dell'affare, quello dei 10.000 dollari per il lavaggio a secco) si trova dentro ad un ingranaggio, dove non determina nulla, ma è determinato dagli eventi e dal carattere sovrastante degli eventi. Viene in mente, vedendo questo film un romanzo di Camus degli anni '60 Lo straniero. Anche in quel romanzo c'è un omicidio senza movente, un omicidio perchè fa caldo, un omicidio perchè i personaggi sono sopraffatti dagli eventi. un po' quello che capita ad Ed Crane. A ben guardare Ed Crane è un assassino per caso, non ha la statura del vero assassino. Questo uomo qualunque non ha proprio nessuna dimensione etica, nè positiva, nè negativa. L'unica possibilità di speranza che sembra avere questo personaggio così grigio, l'unico barbaglio di speranza è la giovane pianista, che ci ricorda un’altra ragazzina, quella del finale de La dolce vita di Fellini. Anche lì c’è un'altra storia di un uomo medio, il paparazzo Marcello Mastroianni, che cerca la fama che non può raggiungere e che alla fine di una notte brava vede una ragazzina, Valeria Ciangottini. Il film chiude proprio su questa ragazzina, come se anche a questo personaggio, così notturno, possa apparire all'orizzonte una speranza. Anche in questo film accade qualcosa del genere, ma tutto finisce, non solo con la caduta dell'illusione della carriera di pianista (che suona Beethoven, la stessa musica che ci accompagna per tutto il film), ma ha anche con un epilogo volgare, osceno, banale, che poi è la causa dell’incidente e del coma, al risveglio del quale Ed Crane viene incriminato e poi condannato alla sedia elettrica.
Bianco, nero e grigio
Il film è in uno splendido e sgargiante bianco e nero, come se fosse un film della fine degli anni '40, inizi degli anni '50. Ha grandi qualità di scrittura, specie nel gioco della luce e delle ombre. Non ci sono nel film inquadrature prevedibili, ogni inquadratura è un’invenzione, una ricerca. Di pregnante significato è l’uso negli interni del gioco luce, ombra, grigio, che in realtà è il codice del genere noir. Ma qui che cosa sta a dire quel gioco della luce e dell'ombra e del grigio, dove il viso del protagonista non è mai in piena luce? Sta a simboleggiare l'ambiguità della natura umana. Il protagonista è un personaggio che non appartiene alla schiera dei cattivi, nè ha la dimensione eroica; è un personaggio che abita la penombra, che abita il chiaroscuro che definisce la natura umana proprio come natura dell'ambiguità, dove la virtù o l’apparente virtù sta nell’estraniamento, nel silenzio. In mezzo a tanto grigio, l'unico bianco è l'immagine surreale, una ricostruzione quasi onirica, della sedia elettrica, dove almeno la morte sembra portare un po' di chiarezza dentro un’esistenza che è sostanzialmente grigia, sostanzialmente

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