Freccia-sx4.jpg (2157 byte)     La tregua
La tregua di Primo Levi
Primo Levi nasce a Torino nel 1919 e muore nella stessa città suicida nel 1987. Nel 1944, assieme ad altri ebrei, Primo Levi venne deportato dai nazisti nel campo di concentramento di Auschwitz. Ritornato in Italia alla fine del 1945, sentì l’esigenza di raccontare l’esperienza sofferta perché altri potessero prendere coscienza attraverso il suo ricordo dell’orrore che forze subumane possono scatenare in qualsiasi momento. Prese corpo, così, nel 1947 Se questo è un uomo (incentrata sull’annientamento della dignità umana, prima che della vita, perpetrato nei Lager) , al quale seguì nel 1963 La tregua, che di quel primo romanzo può essere considerato la continuazione. Il romanzo La tregua è il libro della leggerezza, della liberazione, dello smarrimento dopo la tragedia e della successiva leggerezza; è il libro dei sepolti vivi, salvati all’ultimo istante Racconta la storia movimentata, variopinta, struggente di una non più sperata libertà. L’autore vi racconta la sua lunga odissea attraverso l’Europa, alla fine della seconda guerra mondiale, dopo essere scampato ad Auschwitz. I paesi straziati, le città ancora nel caos, la gente che fa la fame, tentando di tornare alla vita normale. Il viaggio di ritorno ha inizio nelle nebbie del Lager di Auschwitz e si dipana attraverso il mercato clandestino di Cracovia, il campo di raccolta e smistamento di Katowice in Polonia, le tradotte bibliche e zingaresche dell’Armato Rossa, una Russia ridente e tragica, picaresca ed epica.
La tregua è il racconto di un viaggio di mesi che poco alla volta consente ai suoi protagonisti (un gruppo di deportati italiani - assieme a loro polacchi, tedeschi, ceki, francesi, greci, ebrei e non ebrei - liberati dai Russi ) di riadattarsi alla vita. In una gioiosa confusione si trovano mescolati eroi e traditori, contadini e ladri, saggi e anormali: uomini che sulle strade dell’Europa centrale riscoprono, sorpresi, la vita e il mondo, di cui fa parte anche la non dimenticata arte di arrangiarsi.
Il giovane protagonista, Primo, fa di questa piena esperienza di vita un’occasione per una osservazione partecipe, ma non priva di ironia, di situazioni grottesche, comiche persino. Il lungo viaggio di ritorno di Primo verso l’Italia è duplice: quanto più, tappa dopo tappa, riscopre cose positive, come il proprio corpo, l’amicizia, l’amore, tanto più gli riaffiorano alla mente i ricordi del Lager in tutta la loro lancinante tragicità. Eppure, grazie a questo cupo controcampo, più limpida ed emozionante riaffiora la vita. Così all’inizio nel Lager liberato, Primo, stupito e sorpreso, è quasi muto, incapace di reagire. Con il Greco lo vediamo scoprire la fragilità del suo essere intellettuale. Al campo di Katowice riscopre la tensione amorosa, ma anche un gelo interiore che non riesce a sciogliere, un desiderio che non sa divenire parola e gesto. Ma poi Primo capisce che è giusto ridere, ridere per rinascere e per portare a casa la pelle. Allora lo vediamo imitare la gallina o aggirarsi disinvolto nel mercato dove è riunito tutto il mondo a scambiarsi cose e a dimenticare la guerra. Ed è qui che riscopre finalmente la sessualità e il corpo. Ma è anche da questo momento che Primo trova dentro di sé la coscienza dolorosa ma lucida della propria condizione di privilegiato, rispetto a coloro che si sono perduti. Così, una volta giunti alla stazione di Monaco, trova la forza di rivendicare per sé e per le altre vittime il risarcimento della vergogna.
Ritornato a casa ritrova la gioia della vita quotidiana, dei piccoli gesti di sempre, che però non sono più la "normalità", ma un attimo magico, miracoloso sospeso come una "tregua", tra una tragedia e un’altra che prima o poi tornerà a bussare alla porta. Alla fine di questo viaggio, nel mondo e dentro di sé, Primo comincia a scrivere. Scrive per testimoniare l’onore e la dignità strappata, scrive per i tanti non scampati che non potranno più farlo, per ricordare e fare ricordare.
La tregua, cui allude il titolo del racconto di Levi è dunque il tempo necessario per poter riassaporare la gioia di vivere dopo l’atroce prova dei Lager, è il tempo che chi ha vissuto quelle atroci prove impiega per riappropriarsi dell’anima che gli è stata strappata insieme alla libertà e alla dignità. Ma è un tempo che l’autore sente precario e insicuro.
Il film La tregua
La tregua è (o dovrebbe essere) la traduzione in immagini del racconto di questo viaggio di mesi che poco alla volta consente ai suoi protagonisti di riadattarsi alla vita.
Il film è giunto sul grande schermo dopo dieci anni di difficile gestazione. Rosi (autore di altri film di ricostruzione storica-documentaristica: si ricordi Salvatore Giuliano e Cristo si è fermato ad Eboli, anche questo tratto dal romanzo omonimo di Primo Levi) è arrivato a realizzare il suo progetto anche per merito del regista Martin Scorsese che ha convinto il produttore ad aiutare Rosi nella difficile impresa di tradurre in immagini il bel libro di Primo Levi.. È stato sempre il regista Martin Scorsese a raccomandare a Rosi John Tuturro, quale protagonista del film. Il film è stato girato in Ucrania, dove è stato possibile ricostruire le condizioni ambientali del dopo guerra.
Il cinema e l’olocausto
Il cinema ha narrato spesso la Shoah (=Olocausto, termine ebraico che significa catastrofe). Anche un regista che fino ad allora aveva narrato solo fiabe, come Steven Spielberg, con Schindler’s List narra l’olocausto. Anche registi italiani come Pontecorvo con Kapò , la Cavani con Il portiere di notte hanno narrato la Shoah. La Shoah dei film è sempre una ricostruzione del passato inadeguata. Sono molto più veritieri i film/documentari girati dai vincitori al loro arrivo nei Lager, perché mostrano il vero orrore di quei luoghi, la verità.. Si tratta di immagini irraggiungibili. Una nota curiosa: tra gli operatori che filmarono quegli orrori trovati nei Lager dai vincitori c’era anche Alfred Hitchcock.
Comunque sia i film sull’Olocausto sono il film della memoria, sono film creati affinchè l’uomo non dimentichi. Dopo Auschwitz l’uomo non è più quello di prima; l’uomo moderno (quello che nasce con Giotto e Dante) è morto ad Auschwitz. Sino a che il sole illuminerà la terra gli uomini produrranno violenza (la violenza è un istinto cieco, uno forza oscura che permea l’uomo) ma la Shoah non è il frutto di una civiltà barbara, è il frutto di una civiltà che ha prodotto Kant, Hegel, Bach, Beethoven, è il frutto della civiltà della ragione. Ora l’occidente è in una fase di ricostruzione di un nuovo umanesimo. Ma la ricostruzione sarà possibile solo se non si dimentica. La civiltà dei consumi vuole dimenticare; ci sono stati perfino degli intellettuali che hanno tentato di negare l’esistenza di Auschwitz. Ma la ricaduta nell’orrore è sempre in agguato. Basti pensare a quello che accade nei Balcani in questi giorni.
"Primo è un chimico che diventa scrittore perché non si dimentichi" dice Daniele nel racconto di Levi La tregua. E questa è stata la missione di Levi sopravvissuto. Ma Primo non ha tollerato che si dimenticasse, non ha tollerato la vergogna della perdita della memoria ed è morto suicida (come molti sopravvissuti ai campi di concentramento).
Alcune note critiche al film
.Da un punto di vista strettamente cinematografico La tregua non è una grande opera: Rosi lo ha fatto per insegnare e per questo il film risulta troppo didascalico e mostra troppo evidentemente l’intenzione pedagogica (Un esempio: La cartina che mostra il girovagare dei superstiti, dei sopravvissuti (da Auschwitz a Torino).
Il film avrebbe dovuto descrivere lo smarrimento doloroso che è stata la prima reazione di Levi di fronte alla ritrovata libertà. Nella prima sequenza in cui avrebbe dovuto descrive che l’incubo era finito Rosi non riesce a tradurre l’orrore passato, la gioia per la libertà. Nel film poi non si avverte il senso dell’ingiustizia per essere sopravvissuti, presente invece nel racconto di Levi. Non viene reso bene il lungo estenuante ritorno. In tutto il film del resto Rosi spesso per rendere i concetti e i sentimenti espressi da Levi è costretto ad usare le sue parole e metterle in bocca ai protagonisti. Ricorre alla parola per l’insufficienza delle immagini. D’accordo non era facile tradurre in immagini il racconto di Levi, ma questo non è cinema; qui l’immagine è al servizio della parola e non viceversa, cioè deve essere protagonista non avere bisogno delle parole
Specie nella parte centrale poi la tensione narrativa si smorza e e il tono scade, specie quando entrano in scena le macchiette prese in prestito dalla commedia all’italiana Gli sketch del romanaccio, del siculo, del napoletano, del greco con le sue battute e con comico corteo delle sue donne che si avviano a ritornare in Grecia, per non parlare del pasticciaccio da romanzo di appendice i cui è protagonista Galina sono tutte situazioni che stridono in un film che vuole essere drammatico e sono cosa ben diversa dalla partecipe ironia, dalle descrizione del grottesco e delle situazioni comiche operata da Levi nel suo racconto.
Sono invece da apprezzare le ultime due sequenze: quella dell’arrivo alla stazione di Monaco, quando Primo scopre la stella che aveva ancora sul petto e il tedesco si inginocchia per chiedere perdono; e l’ultima, quella del ritorno a Torino, una Torino nuda, deserta, quella dell’arrivo a casa (un abbraccio composto, tipicamente ebreo ai parenti) e della solitaria colazione (la rosa che simboleggia la madre; il pane spezzato come se fosse l’eucarestia). In queste due ultime sequenze la parola cede il posto alle immagini e sono le immagini che descrivono lo strazio, la solitudine
Il film ad ogni modo ha un significato che è espresso nelle sequenze iniziati, quando i prigionieri si tolgono la casacca con la stella e il numero di matricola per gettarla nel fuoco. Primo non la brucia, la vuole conserva per non dimenticare. Daniele, l’amico ammalato, la brucia. Nel prosieguo del racconto Daniele si mostra aggressivo ( si ricordi l’episodio della donna che "aveva mangiato il pane dei nazisti"), mentre Primo (che spesso ricorda anche con dei significativi flashback l’orrore passato) si mostra più umano e disposto al perdono. Il regista con questo vuol dire che la memoria, il ricordo ci aiuta ad essere buoni. Chi dimentica invece è aggressivo. Solo verso la fine Daniele comprende e diviene anche lui più mite: quando comprende l’importanza della memoria (Dio ha voluto che tu sopravvivessi perché tu potessi raccontare..). Rosi voleva proprio fare questo: far ricordare, fare in modo che i giovani non dimentichino. In questo è riuscito. Il film si chiude significativamente con la frase che Levi ha scritto all’inizio del racconto Se questo è un uomo., che anche noi proponiamo alla meditazione dei lettori.

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