1. Ci danno un sentimento di continuità (cosa che oggi a noi manca e manca soprattutto ai nostri figli). È importante capire che facciamo parte di una storia, che la continuiamo e la consegniamo a qualcuno.
2. Ci danno poi un secondo sentimento: il sentimento di appartenenza; sentiamo che i personaggi di queste storie “appartengono a…” Anche questo sentimento pochi di noi hanno; ci sentiamo slegati, spesso abbandonati. Ecco allora nascere la fierezza di appartenere a qualcosa, a una famiglia, ad un popolo, ad una cultura. Questo sentimento ha un gran peso nella costruzione della nostra identità. Indipendentemente dalle loro qualità estetiche di queste storie ci fanno bene da un punto di vista psicologico: Questi sono quei film da cui usciamo un po’ più forti
La saga familiare o romanzo
familiare è per sua natura vicino al feuilleton.
Anche La meglio gioventù fa parecchie incursioni nel melodramma.
Per questo dobbiamo capire, perdonare il regista per avere inserito soprattutto
nella seconda parte alcuni momenti forti del racconto, alcune scene madri.
Queste sono inevitabili dentro un racconto che copra quarant’anni, dentro una
storia familiare, dove paternità e maternità di mischiano e si intrecciano.
Però dobbiamo dare atto a Giordana che, pur dovendo pagare questo dazio al
cinema dei fazzoletti, della commozione, del pianto, e quindi dovendo concedere
molto al melodramma, lo abbia fatto con molta misura, nonostante qualche
sbavatura, come quella dell’apparizione finale del fratello morto. Per avere
la prova della misura con cui Giordana ha usato con misura il melodramma, si
pensi ad una delle scene-madri più importanti all’inizio della seconda parte:
la donna di Nicola va a vedere la bambina di nascosto al museo. Questa scena
finisce col diventare una delle più belle del film:, perché l’emozione è
stemperata dalle inquadrature degli animali mostruosi e si risolve
nell’incrocio dei due sguardi; in questo
tutta una modalità che è ben lontana dal melodrammatico di stampo
televisivo, da telenovela. Un’altra scena
madre resa con essenzialità è quella che descrive il dolore, la rabbia
della madre per il suicidio del figlio: la ferocia del dolore della madre
espressa da movimento delle mani che prendono i libri, li piegano e li buttano
per terra. E nient’altro.
Un’altra considerazione va fatta, quella sul lieto fine. Alla fine tutte le
coppie si mettono al posto giusto, i poli positivi si ricongiungono. I grandi
romanzi popolari, specialmente la saga familiare (come Davide Cop3erfield,
ed anche i nostri Promessi Sposi) devono contenere una positività,
devono essere propositivi; l’ottimismo del film non deve essere visto come una
consolatoria ricerca del tutto va bene, ma ha un valore ben augurale. La frase
che Nicola dice alla figlia dubbiosa sull’incontro con la madre (“Sei
felice? Allora questo è il momento di essere generosi”) è l’elogio del
bene che toglie al lieto fine il
carattere deteriore del finale scontato e banalmente ottimista. Non per niente
il film è seminato di bambini (Ricordate quando Nicola riceve la lettera che
gli annuncia la perdita della madre?): Anche il cinema del neorealismo che
nasceva dalle macerie della guerra era popolato di bambini, proponeva a
quell’Italia piagata, sconnessa l’immagine dell’infanzia, non per far
passare una visione ottimistica della realtà, ma per dare
agli spettatori un messaggio ben augurale, di apertura al futuro, di
promessa. Questo non è un ottimismo sul presente;
qui lo sguardo del regista si volge
verso il futuro. È una speranza.
Molto pregevole è la sceneggiatura specialmente per come dipana la storia, per
come questa prenda sempre più corpo mano a mano che i fatti si snodano. Parte
sottovoce, poi a poco a poco la regnatela dei fatti si accumula secondo un
preciso disegno. Basta pensare all’evoluzione dei due genitori, che
all’inizio sembrano due macchiette che stanno nel fondo della storia, poi
vengono fuori come personaggi di un
grande spessore umano.
Questo film è molto ricco di storia del cinema italiano. Ricorda nella sua
struttura il film Novecento di Bertolucci, che racconta la prima parte del
‘900. Ma c’è una differenza: quel film
che terminava col 25 aprile era raccontato come un’epica, mentre questo
film è raccontato come un racconto lirico; questo è un film raccontato
sottovoce, quello era un film gridato; quello usava colori
splendidi e luminosi anche quando descrive gli anni bui della guerra;
questo è narrato con l’uso di colori opachi,
pallidi, tristi (anche quando la storia è ambientata in Sicilia). Vedendo
questo film ci viene in mente La famiglia di Scola, un atro film che
attraversava 80 anni di storia dell’Italia, Così ridevano di Amelio
(l’ambientazione a Torino, il tema della rivalità tra fratelli)
Per concludere una osservazione sul personaggio di Giorgia. Ha una grande
funzione simbolica: nel suo venire alla luce e alla guarigione così
faticosamente, come se vivesse una piccola resurrezione è da vedere il simbolo
dell’Italia: un’Italia ammalata che si avvia faticosamente e con molte
incertezze alla guarigione, che si risolleva, che esce dalla confusione e dal
caos per acquistare una sua identità. Giorgia
poi è anche lo spirito del racconto: è lei che apre la storia
trascinandosi dietro i due fratelli; è lei che la chiude alludendo alla foto
scattata dalla ragazza di Matteo e
intitolata “Quando Matteo era Nicola”, ricongiunge così i due fratelli in
una unica dimensione positiva