Freccia-sx4.jpg (2157 byte)      Il pianista

Scheda

Titolo originale:  Le pianiste - Nazione:  Francia/Germania/Polonia/Gran Bretagna - Anno:  2002 - Durata: 2h 28' - Genere:  Drammatico - Regia:  Roman Polanski - Cast:  Adrien Brody, Thomas Kretschmann, Julia Rayner, Jessica Kate Meyer.

Trama:

Varsavia, 1939. Wladislaw Szpilman (Adrien Brody), brillante pianista polacco di religione ebraica, sta eseguendo in diretta radiofonica un notturno di Chopin quando i nazisti invadono la Polonia. Il concerto si interrompe e da quel momento, in una spirale crescente di angoscia e terrore, Szpilman viene prima confinato nel ghetto, poi segnato con la stella di Davide sul braccio e infine inserito nelle liste dei deportati. Grazie alla collaborazione di un ufficiale tedesco (Thomas Kretschmann), l’artista sfugge al lager, trovando rifugio fra le rovine di una capitale diroccata e spettrale. Soltanto la liberazione, sette anni più tardi, porrà fine alla sua disperata cattività. Restituito ad un’esistenza finalmente normaleCommento di Croci

Commento

L’incontro di Roman Polanski, regista polacco, classe 1933, con la Shoa è un incontro inevitabile, dato che i suoi genitori sono morti entrambi nel ghetto. Tutto il cinema di Roman Polanski, anche quando fa il poliziesco, anche quando fa i film giocati sull’intrigo psicologico è di fatto una riflessione sul male, sulla tragedia di vivere; tutto il suo cinema è attraversato dalle domande. “che cos’è il male? Da dove viene il male? Qual è il rapporto tra l’uomo e il male?” Egli si interroga sul male anche da un punto di vista personale e quindi non può non fare i conti anche col male della storia. Il film richiama Spielberg  ("La lista di Schindler. Spielberg certo fa una grande operazione di attualizzazione della memoria, ma deposita la memoria nella fiaba (il cappotto rosso della bambina: Capuccetto Rosso nella pancia del lupo); inizia coi colori, i colori poi si spengono e si riaccendono nel finale. Qui è l’inverso: all’inizio c’è una Varsavia in bianco e nero e alla fine il bianco e nero di una tastiera; in mezzo  c’è il colore: la rievocazione le passato. Ma la scelta che fa Polanski  - che parte da un’autobiografia, l’autobiografia di un pianista polacco, Wladyslaw Szpilman, uno dei grandissimi della musica del 900 - è una scelta cronachistica. Polanski non concede nulla all’emozione e allo spettacolo; non cerca, a differenza di Spielberg,  i simboli; lascia che la cronaca parli con la sua essenzialità la sua secchezza. Spesso ci appaiono delle date ed anche queste ci dicono della scelta  cronachistica di Polanski: un racconto secco, essenziale che a volte ci sembra vada anche troppo rapidamente dentro il racconto; ma in realtà segue le cadenze del tempo, le cadenze della cronaca. Così nasce un testo che ha una sua essenzialità, un a sua solennità. Nel finale, quando il protagonista resta da solo, noi vediamo una Varsavia spogliata, quasi surreale; forse il film indugia troppo sul tema della solitudine e dello sradicamento. Il regista fa sì che noi non ci identifichiamo col protagonista; noi non dobbiamo essere il suo cuore, le sue emozioni, ma il suo sguardo. Attraverso Szpilman, Polanski vuole darci una testimonianza, la sequenza dei fatti nella loro brutalità e basta. Quando andiamo al cinema rischiamo di vedere il racconto in un quadro di finzione.  Ricordo che in greco la parola testimonianza si dice martoria, cioè martirio. Difatti noi assistiamo ad una spoliazione. Szpilman è un uomo che all’inizio è celebre e famoso e poi viene progressivamente ridotto all’osso.

ROMAN POLANSKI

Nato in Francia da genitori ebrei polacchi, ritorna in Polonia con la famiglia alla vigilia della II Guerra Mondiale. Qui i suoi genitori vengono arrestati e deportati in un campo di concentramento, dove la madre morirà. Il piccolo Roman scampa alla persecuzione nazista rifugiandosi presso alcune famiglie cattoliche fino alla fine della guerra. Verso la fine degli anni 50, dopo una serie di prove attoriche a teatro e al cinema, talvolta sotto la direzione di grandi maestri come Andrzej Wajda, debutta nel cortometraggio, dimostrando una vocazione all'introspezione psicologica e al black humor che ricorrerà nella sua produzione successiva. Il suo esordio nel lungometraggio è del 1962 con Il coltello nell’acqua, che riceve il consenso unanime della critica. Nel 1964 è a Parigi dove conosce Gerard Brach, lo sceneggiatore con cui scrive altri due film importanti, Repulsion e Cul de sac, rispettivamente Orso d’Oro e d’Argento al Festival di Berlino. Nel 1968 dirige il suo capolavoro, Rosmary’s Baby, e sposa l’attrice Sharon Tate, conosciuta l’anno prima sul set di Per favore non mordermi sul collo. Nel 1969 una tragedia sconvolge la vita del regista: la moglie, incinta di otto mesi, viene brutalmente uccisa da un gruppo di seguaci di Charles Manson mentre si trovava nella sua villa sulle colline di Hollywood. Distrutto dall’avvenimento, Polanski ripara in Europa e soltanto nel 1974 prende parte ad una produzione americana, dirigendo Chinatown. Il successo della pellicola sembra aprirgli le porte di Hollywood, ma il regista deve lasciare il paese a causa di guai con la giustizia. Dopo aver preso la cittadinanza francese, prosegue la sua carriera in Europa, girando film come Tess, Frantic e Luna di fiele. Dal 1989 è sposato con l’attrice francese Emmanuelle Seigner dalla quale ha avuto due figli. Dopo il Leone d’Oro alla carriera, ricevuto al Festival di Venezia del 1993, ha girato La nona porta e, infine, Il pianista.

Dopo più di quarant’anni, grazie anche alla drammatica autobiografia del pianista polacco Spzilman, l’ormai quasi settantenne regista decide di tornare in Polonia, per realizzare il suo film più personale, denso di ricordi dolorosi e drammatici, anche se non propriamente autobiografico. Il film della memoria.

Wladyslaw Szpilman

Wladyslaw Szpilman era nato Sosnowiec, vicino Varsavia, nel 1911. La sua passione per la musica, inculcatagli anche dal padre violinista, lo aveva indotto a studiare pianoforte fin da bambino, sotto la guida di due professori allievi di Franz Liszt. A vent’anni era andato a perfezionarsi a Berlino, presso l’Accademia di musica, avendo già composto un concerto e parecchie sonate per piano e orchestra. Nel 1935, al suo rientro, era stato assunto alla radio polacca, mentre Hitler era già salito al potere e la paura della guerra aveva già raggiunto Varsavia. Nell’estate del ’39 solo pochi ottimisti irriducibili nutrivano l’illusione che la presa di posizione della Polonia avrebbe trattenuto Hitler dall’invadere il paese. Fino a tutto agosto il ghetto ebraico non era stato ancora creato e Wladyslaw viveva in una centrale strada della città, insieme con le due sorelle, un fratello e i genitori. Ma, il 1° settembre il risveglio fu brusco ed avvenne al minaccioso rumore di alcune esplosioni. Nel giro di pochi giorni i tedeschi giunsero alle porte di Varsavia. Dopo un primo momento di caos, i cittadini organizzarono una prima difesa, scavando trincee intorno alla loro città per impedire l’avanzata dei carri armati. Ma, l’artiglieria tedesca ormai cannoneggiava Varsavia, dalla periferia al centro. Il 23 settembre di quell’anno il giovane pianista si esibì per l’ultima volta ai microfoni della stazione radio di Varsavia. Con una determinazione pari solo alla sua bravura, il musicista ebreo raggiunse a fatica la sede radiofonica ed attaccò con la forza della disperazione il "Notturno" in Do diesis Minore di Chopin, tra il frastuono dei proiettili. Qualche ora dopo radio Varsavia cessò le sue trasmissioni. Dopo quattro giorni la città si arrese ai tedeschi, non senza aver lasciato ventimila morti lungo le strade. Presto cominciarono le prime retate di ebrei. Seguirono a ruota i decreti contro le famiglie ebraiche. Era solo l’inizio. Di lì a poco venne fatto l’obbligo agli ebrei di munirsi di braccialetti contrassegnati dalla stella di Davide. Subito dopo una zona di Varsavia fu destinata a ‘Distretto ebraico’: furono costruite delle mura per poterla chiudere, e vi furono ammassati più di mezzo milione di ebrei. Il 1940 si affacciò all’orizzonte recando nuovi decreti repressivi, come quello che annunciava l’obbligo per gli ebrei di lavorare due anni in campi di concentramento, al fine di "ricevere un’educazione sociale appropriata’": sarebbe così stata cancellata la loro natura di ‘parassiti’. I cancelli del ghetto vennero chiusi, lasciando centinaia di famiglie, le cui case non sorgevano entro i confini fissati, senza un tetto.

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