Gangs
of New York
Titolo originale: Gangs of New York - Nazione:
Usa/Germania - Anno: 2002 -
Genere: Drammatico - Regia:
Martin Scorsese - Cast: Leonardo
DiCaprio, Cameron Diaz, Daniel Day-Lewis, Liam Neeson, Henry Thomas, John C.
Reilly, Jim Broadbent
Trama:
Nella New York della seconda metà del 1800, Amsterdam Vallon (Leonardo
Di Caprio) vuole sfidare Bill Poe (Daniel Day-Lewis) per vendicarsi della morte
del padre da lui ucciso.
Commento
Si tratta di un film noir (gangsteristico) che ambisce di essere epico.
Scorsese è un regista magniloquente che ama il discorso grande. C’è il tema
della paternità e vi è in maniera
forte e nostalgica, come se l’America fosse qualche cosa di strappato via
dall’Europa e invocasse un ricongiungimento, una figura paterna, una guida,
una meta. Vi è
i rapporto tra noir e la tragedia greca: il dramma familiare che diventa
dramma collettivo che coinvolge tutti che chiama a sé la storia. Vi è
il guardare alle origini non più con innocenza, non più come mitopiesi
come il western (Ford – Omero) che reinvesta le origini belle dell’America,
perché il noir rivolta questo mito, questa poetica: le origini non sono
innocenti, le origini sono contaminate; c’è una specie di peccato originale
che sta alla base della società, della cultura, della civiltà (Eschilo,
Sofocle). Sembra volerci dire che non è possibile fondare nessuna civiltà se
non sul tema del sacrificio; infatti questo film è un film sacrificale.
Scrosese, tra i grandissimi del cinema americano; possiamo accostargli solo
Altman e Spielberg. Però Scorsese ha due cose che mancano sia ad Altman, che a
Spielberg: ha il senso della “politica” (questo è un film politico, perché
racconta la nascita della polis, della città, di New York, di una cultura, di
una civiltà); è un italo-americano, legato al tema dell’immigrazione,
dell’appartenenza, delle radici, della difficoltà di farsi “altro”
rispetto al luogo da dove si viene, il suo essere italo americano porta nel suo
cinema una componente religiosa: Scorsese è un regista “cattolico”, anche
se questo termine applicato alla crudeltà, alla violenza che attraversa questo
film può sembrarci un termine che annacqua questa violenza.
Non possiamo dimenticarci che il cristianesimo è la religione del
sacrifico, è in qualche modo la religione della croce. Scorsese è un regista
che ha saputo raccontare la contemporaneità (spesso il suo cinema ha raccontato
l’oggi), ma ha saputo raccontarci molto bene anche il passato (L’età
dell’innocenza: Scorsese, guarda indietro, 20-30 dopo l’ambientazione di
questo film, guarda a come nasce la nuova borghesia).
Quello che ci sconcerta, soprattutto nella prima parte è il mondo a cui
ci sembra di partecipare, attraverso la forza evocativa delle immagini (Scorsese
ha un grande senso della profondità delle immagini, il suo è un cinema di
forte evocazione visiva) è un mondo preistorico. Veramente il confine tra
storia e preistoria, tra violenza barbarica dell’orda e la storia, come
momento o tentativo di comporre questa violenza di dare una soluzione pacifica,
veramente questo confine è così labile, così fragile? È una domanda che ci
riguarda da vicino, attuale e ci ammonisce che possiamo ripiombare (abbiamo
celebrato pochi giorni fa la Giornata della memoria) nell’orrore, possiamo di
colpo ritrovarci barbari. Dentro a questo grande affresco che S. costruisce
facendo appello al melodramma (un melodramma ottocentesco, che racconta infatti
l’ottocento, come L’età dell’innocenza che infatti inizia proprio in un
teatro in cui si canta un’opera lirica). Il film è giunto al pubblico
amputato; all’origine durava 219 minuti (dura “solo” poco meno di 3 ore,
tre ore dense, forti, implacabili). S. ha detto che non ha “subito” tagli,
che i tagli li ha definiti lui. Però stando attenti all’andamento del
racconto, ci si accorge che il film è un po’ dispnoico, qua e là manca di
respiro. È un capolavoro mancato; il film è una grande cattedrale, ma ha una
strutturazione un po’ rigida, un po’ sincopata, come se avesse dentro dei
buchi.
Si tratta del film più pessimista della cinematografia di Scorsese. Pessimismo
sulla storia americana: la violenza come luogo della fondazione, come negazione
dell’innocenza delle origini. Ogni mitologia americana viene spazzata via da
questo film, che chiaramente in America non ha avuto nessuna popolarità, perché
è il più lontano possibile dal sogno americano. Pessimismo antropologico,
sulla natura umana, l’affermazione sull’impossibilità per la natura umana
di non essere violenta. Scorsese è
cattolico, ma si dovrebbe parlare di un cattolicesimo di tipo giansenista, cupo,
bieco. Questo film è attraversato da molti segni religiosi, ma ognuno di questi
segni sembra impotente, il sacrificio, la violenza sembrano inevitabili. La
violenza ha un valore generativo? La città, la cultura, la civiltà forse dopo
questo massacro, dopo questo bagno, dopo questa specie di battesimo al rovescio
potrà in qualche modo rigenerarsi? Quindi
un pessimismo che dall’America va fuori. Il film cresce molto nel finale,
nella battaglia finale, dove c’è un montaggio alternato, alla
Eizenstein de La corazzata Potemkin (a ricordacelo è quel leone che viene
inquadrato nella casa del polito potente, le navi che sparano sulla folla).
L’omaggio al grande regista russa sta lì a ricordaci che la storia
dell’America deve essere ricondotta allo storia dell’uomo, alla storia del
pianeta terra.
Questo film è un riflessione seria, non riuscita del tutto da un punto di vista
cinematografico: Di Caprio non ha la statura tragica dell’antagonista; il film
girato a Cinecittà, presenta una ricostruzione un po’ felliniana, un po’
onirica.
È legittima anche una lettura psicanalitica: i sotterranei, le caverne, i
cunicoli fanno pensare all’inconscio.
C’è il tema della vendetta; c’è il tema di un padre impossibile, di una
paternità che non trova il suo soddisfacimento e la sua realizzazione. La cosa
più difficile è trovare nel film un elemento di luce, che dovrebbe essere un
segno del rifiuto di quel pessimismo così totalitario e radicale di cui si è
detto e c’è, unico, ed è quello
che apre e chiude il film,: il segno delle candele, che accompagna tutto il film
dal ballo delle candele alle luci sulle tombe del finale,
l’unico segno della pietà, dove si riconosce ancora l’umanità,
l’umanità del vivo e del morto, il segno più bello
e più poetico in mezzo a tanta violenza, prepotenza, il segno che sembra
dirci che l’umanità sopravvive, resiste anche alla barbarie.