Freccia-sx4.jpg (2157 byte) I cento passi  
Regia: Marco Tullio Giordana. Sceneggiatura: Claudio Fava, Monica Zappelli, Marco Tullio Giordana.. Interpreti: Luigi Lo Cascio (Peppino Impastato), Luigi Maria Burruano (Luigi Impastato), Lucia Sardo (Felicia Impastato), Paolo Briguglia (Giovanni Impastato), Tony Sperandeo (Gaetano Badalamenti), Pippo Montalbano (Cesare Manzella), Ninni Bruschetta (il cugino Anthony), Paola Pace (Cosima), Gaspare Cucinella (lo zio Gasparo), Lorenzo Randazzo (Poppino da piccolo), Luigi Billeci (Giovanni da piccolo), Lene Guthormsen (Thèresa), Simona Cavaglieri (Felicetta) . Durata: 114'. Origine: Italia, 2000.

Il film, che è già reperibile in videocassetta, è stato candidato, senza successo, dall’Italia per l’assegnazione degli Oscar 2001.

I cento passi corrispondono alla distanza che separa la casa di Cinisi (Palermo} nella quale Giuseppe /Peppino Impastato abita con la famiglia, da quella del boss mafioso Tano Badalamenti, organizzatore dei maggiori traffici di droga fra Sicilia e mercato internazionale negli anni settanta. Figlio di un mafioso subalterno, il giovane Impastato, dopo aver conosciuto un militante del Partito Comunista che fa il pittore, diventa attivista politico nello stesso partito per poi, negli anni successivi al '68, assumere posizioni più autonome e critiche. Fonda una radio, dalla quale lancia accuse e sberleffi alla mafia e al suo boss (chiama Cinisi Mafiopoli e Badalamenti Tano seduto), trasmette musica americana e raccoglie attorno a se un gruppo di giovani di tendenze libertarie. Tutto ciò gli aliena il padre e lo costringe ad andarsene di casa. Quando, nella primavera del 1978, decide di presentarsi alle elezioni comunali per la lista di Democrazia Proletaria, il padre è morto in un incidente da qualche mese. Lo stesso giorno nel quale viene trovato il cadavere di Aldo Moro nel centro di Roma, Peppino muore dilaniato dall'esplosivo sui binari della ferrovia vicino a Cinisi. Le autorità accrediteranno la tesi di un suicidio indotto da delusioni esistenziali e politiche, ma già dal funerale si capisce che la madre Felicia, il fratello Giovanni e i compagni di lotta non si faranno intimidire.

Marco Tullio Giordana, 50 anni, ha cominciato a fare cinema nel 79. Nei film precedenti ha sempre mostrato poca misura. Il suo era un cinema ideologico che toccava temi anche scottanti, come il 68, il terrorismo, la morte di Pasolini (Maledetti vi amerò, 80 - La caduta degli angeli ribelli, 81 - Notti e nebbie, 84 - Appuntamento a Liverpool, 88 - La domenica specialmente, 91 - Pasolini un delitto italiano, 95). Ma ogni volta che ha toccato questi temi Giordana lo ha fatto con molta enfasi. Invece in questo film trova una misura deliziosa.
Ogni volta che il film viene proiettato, alla fine, il pubblico scoppia in un applauso spontaneo e sincero. Perchè? Il pubblico, per merito del regista, entra dentro il tessuto spirituale di questa storia.
Si tratta prima di tutto di una storia vera. Impastato muore nel 1978, lo stesso giorno del ritrovamento del cadavere di Moro. Alcuni fatti e personaggi del film (Badalamenti, Rostagno, la contestazione, il movimento giovanile degli hippy, ecc.) sono entrati nelle cronache calde e intense di quegli anni. In quel contesto la storia del giovane Impastato andò via un po' anonima, ma si tratta di una pagina della storia italiana, una pagina importante. Alla fine degli anni Sessanta a Cinisi, un piccolo paese siciliano, la mafia domina e controlla la vita quotidiana, oltre agli appalti per l'aeroporto di Punta Raisi e il traffico della droga. Peppino, figlio di un piccolo mafioso locale, entra nel vortice della contestazione piegandola, con originalità, alle esigenze locali e riesce a contrapporsi ad uno dei fenomeni più sotterranei, più inquinanti, più balordi della nostra storia, della nostra società. Quindi innanzi tutto il film è una pagina di storia e la storia è di per sè educativa quando riesce a dirci: "Non dimenticate! Se dimenticate, vi allontanate da voi stessi, dalla vostre radici."
Ma rievocando questa storia, che è una storia di un uomo di sinistra, non c'è nel regista nessuna enfasi ideologica, non c'è apologia politica. Se lo si guarda con gli occhiali dell'ideologia I cento passi con la chiusura sulle bandiere rosse e i pugni chiusi del funerale di Impastato, potrebbe sembrare un film di propaganda. Ma quelle bandiere rosse ben presto si scolarono nel bianco e nero dello stupendo finale, quasi a volerci dire che la lotta a quel complesso fenomeno che passa sotto il nome di mafia non appartiene a una 'parte'. Falcone e Borsellino non erano certo uomini di sinistra, ma il loro impegno e il loro sacrificio sono universalmente noti.
Giordana e i suoi sceneggiatori non hanno voluto però fare solo un film "di mafia". Hanno voluto mostrare una persona che lotta anche contro se stessa e le proprie radici. C'è nel film la voglia di descrivere il senso umano della storia, di mostrarci la psicologia esemplare di questa figura umana, di questo ragazzo. Il regista ci rende partecipi, con equilibrio, ma con lucidità, degli affetti, dei rapporti e delle relazioni di questo ragazzo - specie quelli tra lui e la madre - dei suoi conflitti con il padre, del rapporto con il fratello. Allora una storia di mafia diventa un'occasione per riflettere su questi sentimenti. Parte del merito di questo risultato è della sceneggiatura, una sceneggiatura a sei mani (ci hanno lavorato in tre: : Claudio Fava, Monica Zappelli, Marco Tullio Giordana) che è riuscita a costruire una storia che ha la solidità e la profondità del racconto dell'800, quando raccontare una storia non voleva dire rimanere alla superficie, ma andare dentro il cuore stesso delle vicende.
Questo film, ad di là della nobile ricostruzione di un periodo tanto importante della nostra storia, è innanzi tutto, nonostante il suo finale tragico, una toccante poesia della giovinezza, è un inno alla giovinezza restituita, un'elegia alla sua libertà, alla sua insofferenza, alle sue intemperanze e quindi alla sua creatività. Certo in Peppino ci sono anche le utopie e gli idealismi, ma Peppino è consapevole della battaglia che sta combattendo. Pochi attimi prima del violento scontro col padre ("Onora il padre!") stava leggendo Don Chisciotte che è un personaggio che ha la consapevolezza che la sua battaglia è una battaglia ideale e vana: Questo non cambierà niente; lui continuerà a vivere la pienezza della sua giovinezza, anche se sa benissimo che morirà. Peppino è un ragazzo radicale nelle sue convinzioni, ma solare, di una coerenza semplice e pura. In una delle poche sequenze all'aperto del film Peppino e il suo amico sul monte guardano dall’alto la bellezza del mare e del paesaggio. Quel panorama è l'emblema del rinnovamento, il simbolo della pulizia morale e della santità laica. I due amici non fanno in quel momento discorsi sulle antinomie bene - male , giusto – ingiusto, ma parlano della bellezza e Peppino dice: " importante la bellezza: da quella scende giù tutto il resto" Ecco, questa è la pedagogia del bello, che non si sposa mai col male; il bello è sempre buono; il male è sempre fisiologicamente, necessariamente brutto e nero. Non per niente, nel buio generale che prevale quasi sempre in questo film Peppino è sempre inquadrato nella luce, la luce dell’innocenza e del bene.
Certo al centro c'è Peppino con la sua radicalità, la sua solarità, la sua coerenza, la sua onestà, ma il film salva tutti i personaggi. Si pensi alla figura della madre.
L'intensità del rapporto tra madre e figlio raggiunge il suo apice nella sequenza del garage, quando i due, in uno straordinario momento di intimità, leggono a due voci una poesia di Pasolini dedicata a sua madre: "Q difficile dire con cuore di figlio ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio, tu sei l’unica al mondo che sa del mio cuore ciò che è stato sempre prima di ogni altro amore. Per questo devo dirti ciò che è orrendo conoscere . ma tu sei una madre e il tuo amore è la mia schiavitù.f . Felicia in quel momento, vestita di nero nell’oscurità col solo volto dolorosamente illuminato, ci appare come Maria e Peppino come Gesù, lei una vera madre addolorata, lui l'ecce homo, il cui corpo, come in un quadro di Caravaggio, nel buio del garage è investito da una luce tragicamente bella.
Il film salva anche la figura paterna. Luigi non può essere diverso da quella che è, condizionato com'è dalla cultura in cui vive. Luigi Impastato è un piccolo mafioso, ma è anche un genitore. Pensiamo al prologo del film con quel bambino che recita la poesia. Quanta e quale è la fierezza commossa di suo padre, che, sarà pure un piccolo mafioso, ma mostra, con la scelta delle poesia (L’infinito di Leopardi) da far recitare al figlio durante un raduno mafioso, una indubbia nobiltà d’animo. Quel padre che, costretto dai codici mafiosi a certi comportamenti, in una terribile sequenza, caccia via il figlio gridando disperato "Onora il padre! Onora il padre!", è lo stesso – lo scopriranno dopo la sua morte i figli - . che raccoglie con grande amore e con segreta gelosia tutte le memorie del figlio in una scatola, anche quello che lui apparentemente era costretto a proibirgli: i suoi volantini e gli articoli contro la mafia. Il rapporto di Peppino col padre ha altri momenti toccanti. Come dimenticare il loro ultimo colloquio nella pizzeria, la sera della uccisione del padre? I due, inquadrati ognuno tra le gambe di due sedie capovolte, sembrano mostrare le due facce di questa vicenda: la solitudine del padre oppresso dai sofferti e pesanti condizionamenti mafiosi e la risoluta ostinazione, tutta giovanile, di Peppino di non sopportare, di non volere sopportare quella condizione.
Il film salva e rispetta anche la figura del fratello che si nobilita e si riabilita nella sequenza in cui, dopo avere urlato dalla finestra, in modo provocatorio: "Tano è un mafioso", si avventa su Peppino gridando "Pure io voglio fare l’eroe. Pure io lo so fare." L’intensità del rapporta tra i due fratelli sta tutta in quella inquadratura che, dopo il litigio, mette in primo piano le loro mani che si incrociano e si avvinghiano in una disperata tensione d’amore. 

   Freccia-su.jpg (2534 byte)