Per dire quel che in me tu sei, mi è forza confrontarti
- congiungendo le cose rilevasi di esse la verità profonda -
col dolore accettato, con quel modo più alto
d'intendere l'uguale del dolore: l'allegria.
Il dolore è il frutto naturale degli anni,
la forma con cui il tempo attraverso di noi passa
e a volte, nella sua orma continua, nella sua pioggerella,
come un'ala, picchia un'improvvisa disgrazia.
Ma dolce è il dolore, perché la sua lingua benigna
svela la nostra pura sostanza umile, dove
siamo uno stesso amore abbandonato ed orfano,
tiepida e buona argilla, una rassegnazione.
... Anche tu sei il frutto del tempo, e l'intima sua luce,
come se l'esser vivi si facesse parola in te.
Quando tu mi appari, come innanzi a un patimento,
comprendo la mia verità, m'accuso e mi perdono.
E così mi fai palpare e rispettare le mie frontiere,
come il più chiaro dolore, o parlare d'un defunto.
Con il tempo nel tuo volto, già posseggo e considero
il mio passato e il mio futuro, e tutto il loro dolore.
Hai il sapore medesimo del dolore quando è buono;
dell'accettazione muta con cui le pene divengono
carne della nostra carne, sostanza ed alimento;
di quella luce più fonda che dà la tristezza.
E sei anche la gioia, l'unica allegria,
quel cielo distante che sta al fondo di tutto,
quel paese di luce che a volte si sospetta
dietro le cose, quasi sia un destarsi.
L'allegria, che non è nemica della tristezza,
ma il guardare più lungi, socchiudendo le palpebre,
e indovinare il simbolo dell'essere; è lo stupore
che brucia le parole, e le cambia in silenzio.
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