MESSAGGIO
DI SUA SANTITÀ
GIOVANNI PAOLO II
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
GIORNATA MONDIALE
DELLA PACE

1° GENNAIO 2002

NON C' È PACE SENZA GIUSTIZIA
NON C' È GIUSTIZIA SENZA PERDONO

1. Quest'anno la Giornata Mondiale della Pace viene celebrata sullo sfondo dei drammatici eventi dell'11 settembre scorso. In quel giorno, fu perpetrato un crimine di terribile gravità: nel giro di pochi minuti migliaia di persone innocenti, di varie provenienze etniche, furono orrendamente massacrate. Da allora, la gente in tutto il mondo ha sperimentato con intensità nuova la consapevolezza della vulnerabilità personale ed ha cominciato a guardare al futuro con un senso fino ad allora ignoto di intima paura. Di fronte a questi stati d'animo la Chiesa desidera testimoniare la sua speranza, basata sulla convinzione che il male, il mysterium iniquitatis, non ha l'ultima parola nelle vicende umane. La storia della salvezza, delineata nella Sacra Scrittura, proietta grande luce sull'intera storia del mondo, mostrando come questa sia sempre accompagnata dalla sollecitudine misericordiosa e provvida di Dio, che conosce le vie per toccare gli stessi cuori più induriti e trarre frutti buoni anche da un terreno arido e infecondo.

È questa la speranza che sostiene la Chiesa all'inizio del 2002: con la grazia di Dio il mondo, in cui il potere del male sembra ancora una volta avere la meglio, sarà realmente trasformato in un mondo in cui le aspirazioni più nobili del cuore umano potranno essere soddisfatte, un mondo nel quale prevarrà la vera pace.

La pace: opera di giustizia e di amore

2. Quanto è recentemente avvenuto, con i terribili fatti di sangue appena ricordati, mi ha stimolato a riprendere una riflessione che spesso sgorga dal profondo del mio cuore, al ricordo di eventi storici che hanno segnato la mia vita, specialmente negli anni della mia giovinezza.

Le immani sofferenze dei popoli e dei singoli, tra i quali anche non pochi miei amici e conoscenti, causate dai totalitarismi nazista e comunista, hanno sempre interpellato il mio animo e stimolato la mia preghiera. Molte volte mi sono soffermato a riflettere sulla domanda: qual è la via che porta al pieno ristabilimento dell'ordine morale e sociale così barbaramente violato? La convinzione, a cui sono giunto ragionando e confrontandomi con la Rivelazione biblica, è che non si ristabilisce appieno l'ordine infranto, se non coniugando fra loro giustizia e perdono. I pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare forma dell'amore che è il perdono.

3. Ma come parlare, nelle circostanze attuali, di giustizia e insieme di perdono quali fonti e condizioni della pace? La mia risposta è che si può e si deve parlarne, nonostante la difficoltà che questo discorso comporta, anche perché si tende a pensare alla giustizia e al perdono in termini alternativi. Ma il perdono si oppone al rancore e alla vendetta, non alla giustizia. La vera pace, in realtà, è « opera della giustizia » (Is 32, 17). Come ha affermato il Concilio Vaticano II, la pace è « il frutto dell'ordine immesso nella società umana dal suo Fondatore e che deve essere attuato dagli uomini assetati di una giustizia sempre più perfetta » (Costituzione pastorale Gaudium et spes, 78). Da oltre quindici secoli, nella Chiesa cattolica risuona l'insegnamento di Agostino di Ippona, il quale ci ha ricordato che la pace, a cui mirare con l'apporto di tutti, consiste nella tranquillitas ordinis, nella tranquillità dell'ordine (cfr De civitate Dei, 19, 13).

La vera pace, pertanto, è frutto della giustizia, virtù morale e garanzia legale che vigila sul pieno rispetto di diritti e doveri e sull'equa distribuzione di benefici e oneri. Ma poiché la giustizia umana è sempre fragile e imperfetta, esposta com'è ai limiti e agli egoismi personali e di gruppo, essa va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati. Ciò vale tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale ed anche internazionale. Il perdono non si contrappone in alcun modo alla giustizia, perché non consiste nel soprassedere alle legittime esigenze di riparazione dell'ordine leso. Il perdono mira piuttosto a quella pienezza di giustizia che conduce alla tranquillità dell'ordine, la quale è ben più che una fragile e temporanea cessazione delle ostilità, ma è risanamento in profondità delle ferite che sanguinano negli animi. Per un tale risanamento la giustizia e il perdono sono ambedue essenziali.

Sono queste le due dimensioni della pace che desidero esplorare in questo messaggio. La Giornata Mondiale offre, quest'anno, a tutta l'umanità, e in particolar modo ai Capi delle Nazioni, l'opportunità di riflettere sulle esigenze della giustizia e sulla chiamata al perdono di fronte ai gravi problemi che continuano ad affliggere il mondo, non ultimo dei quali è il nuovo livello di violenza introdotto dal terrorismo organizzato.

Il fenomeno del terrorismo

4. È proprio la pace fondata sulla giustizia e sul perdono che oggi è attaccata dal terrorismo internazionale. In questi ultimi anni, specialmente dopo la fine della guerra fredda, il terrorismo si è trasformato in una rete sofisticata di connivenze politiche, tecniche ed economiche, che travalica i confini nazionali e si allarga fino ad avvolgere il mondo intero. Si tratta di vere organizzazioni dotate spesso di ingenti risorse finanziarie, che elaborano strategie su vasta scala, colpendo persone innocenti, per nulla coinvolte nelle prospettive che i terroristi perseguono.

Adoperando i loro stessi seguaci come armi da lanciare contro inermi persone inconsapevoli, queste organizzazioni terroristiche manifestano in modo sconvolgente l'istinto di morte che le alimenta. Il terrorismo nasce dall'odio ed ingenera isolamento, diffidenza e chiusura. Violenza si aggiunge a violenza, in una tragica spirale che coinvolge anche le nuove generazioni, le quali ereditano così l'odio che ha diviso quelle precedenti. Il terrorismo si fonda sul disprezzo della vita dell'uomo. Proprio per questo esso non dà solo origine a crimini intollerabili, ma costituisce esso stesso, in quanto ricorso al terrore come strategia politica ed economica, un vero crimine contro l'umanità.

5. Esiste perciò un diritto a difendersi dal terrorismo. E un diritto che deve, come ogni altro, rispondere a regole morali e giuridiche nella scelta sia degli obiettivi che dei mezzi. L'identificazione dei colpevoli va debitamente provata, perché la responsabilità penale è sempre personale e quindi non può essere estesa alle nazioni, alle etnie, alle religioni, alle quali appartengono i terroristi. La collaborazione internazionale nella lotta contro l'attività terroristica deve comportare anche un particolare impegno sul piano politico, diplomatico ed economico per risolvere con coraggio e determinazione le eventuali situazioni di oppressione e di emarginazione che fossero all'origine dei disegni terroristici. Il reclutamento dei terroristi, infatti, è più facile nei contesti sociali in cui i diritti vengono conculcati e le ingiustizie troppo a lungo tollerate.

Occorre, tuttavia, affermare con chiarezza che le ingiustizie esistenti nel mondo non possono mai essere usate come scusa per giustificare gli attentati terroristici. Si deve rilevare, inoltre, che tra le vittime del crollo radicale dell'ordine, ricercato dai terroristi, sono da includere in primo luogo i milioni di uomini e di donne meno attrezzati per resistere al collasso della solidarietà internazionale. Alludo specificamente ai popoli del mondo in via di sviluppo, i quali già vivono in margini ristretti di sopravvivenza e che sarebbero i più dolorosamente colpiti dal caos globale economico e politico. La pretesa del terrorismo di agire in nome dei poveri è una palese falsità.

Non si uccide in nome di Dio!

6. Chi uccide con atti terroristici coltiva sentimenti di disprezzo verso l'umanità, manifestando disperazione nei confronti della vita e del futuro: tutto, in questa prospettiva, può essere odiato e distrutto. Il terrorista ritiene che la verità in cui crede o la sofferenza patita siano talmente assolute da legittimarlo a reagire distruggendo anche vite umane innocenti. Talora il terrorismo è figlio di un fondamentalismo fanatico, che nasce dalla convinzione di poter imporre a tutti l'accettazione della propria visione della verità. La verità, invece, anche quando la si è raggiunta — e ciò avviene sempre in modo limitato e perfettibile — non può mai essere imposta. Il rispetto della coscienza altrui, nella quale si riflette l'immagine stessa di Dio (cfr Gn 1, 26-27), consente solo di proporre la verità all'altro, al quale spetta poi di responsabilmente accoglierla. Pretendere di imporre ad altri con la violenza quella che si ritiene essere la verità, significa violare la dignità dell'essere umano e, in definitiva, fare oltraggio a Dio, di cui egli è immagine. Per questo il fanatismo fondamentalista è un atteggiamento radicalmente contrario alla fede in Dio. A ben guardare il terrorismo strumentalizza non solo l'uomo, ma anche Dio, finendo per farne un idolo di cui si serve per i propri scopi.

7. Nessun responsabile delle religioni, pertanto, può avere indulgenza verso il terrorismo e, ancor meno, lo può predicare. È profanazione della religione proclamarsi terroristi in nome di Dio, far violenza all'uomo in nome di Dio. La violenza terrorista è contraria alla fede in Dio Creatore dell'uomo, in Dio che si prende cura dell'uomo e lo ama. In particolare, essa è totalmente contraria alla fede in Cristo Signore, che ha insegnato ai suoi discepoli a pregare: « Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori » (Mt 6, 12).

Seguendo l'insegnamento e l'esempio di Gesù, i cristiani sono convinti che dimostrare misericordia significhi vivere pienamente la verità della nostra vita: possiamo e dobbiamo essere misericordiosi, perché ci è stata mostrata misericordia da un Dio che è Amore misericordioso (cfr 1 Gv 4, 7-12). Il Dio che ci redime mediante il suo ingresso nella storia e attraverso il dramma del Venerdì Santo prepara la vittoria del giorno di Pasqua, è un Dio di misericordia e di perdono (cfr Sal 103 [102], 3-4.10-13). Gesù, nei confronti di quanti lo contestavano per il fatto che mangiava con i peccatori, così si è espresso: « Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori » (Mt 9, 13). I seguaci di Cristo, battezzati nella sua morte e nella sua risurrezione, devono essere sempre uomini e donne di misericordia e di perdono.

La necessità del perdono

8. Ma che cosa significa, in concreto, perdonare? E perché perdonare? Un discorso sul perdono non può eludere questi interrogativi. Riprendendo una riflessione che ebbi già modo di offrire per la Giornata Mondiale della Pace 1997 (« Offri il perdono, ricevi la pace »), desidero ricordare che il perdono ha la sua sede nel cuore di ciascuno, prima di essere un fatto sociale. Solo nella misura in cui si affermano un'etica e una cultura del perdono, si può anche sperare in una « politica del perdono », espressa in atteggiamenti sociali ed istituti giuridici, nei quali la stessa giustizia assuma un volto più umano.

In realtà, il perdono è innanzitutto una scelta personale, una opzione del cuore che va contro l'istinto spontaneo di ripagare il male col male. Tale opzione ha il suo termine di confronto nell'amore di Dio, che ci accoglie nonostante il nostro peccato, e ha il suo modello supremo nel perdono di Cristo che sulla croce ha pregato: « Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno » (Lc 23, 34).

Il perdono ha dunque una radice e una misura divine. Questo tuttavia non esclude che se ne possa cogliere il valore anche alla luce di considerazioni di umana ragionevolezza. Prima fra tutte, quella relativa all'esperienza che l'essere umano vive in se stesso quando commette il male. Egli si rende allora conto della sua fragilità e desidera che gli altri siano indulgenti con lui. Perché dunque non fare agli altri ciò che ciascuno desidera sia fatto a se stesso? Ogni essere umano coltiva in sé la speranza di poter ricominciare un percorso di vita e di non rimanere prigioniero per sempre dei propri errori e delle proprie colpe. Sogna di poter tornare a sollevare lo sguardo verso il futuro, per scoprire ancora una prospettiva di fiducia e di impegno.

9. In quanto atto umano, il perdono è innanzitutto un'iniziativa del singolo soggetto nel suo rapporto con gli altri suoi simili. La persona, tuttavia, ha un'essenziale dimensione sociale, in virtù della quale intreccia una rete di rapporti in cui esprime se stessa: non solo nel bene, purtroppo, ma anche nel male. Conseguenza di ciò è che il perdono si rende necessario anche a livello sociale. Le famiglie, i gruppi, gli Stati, la stessa Comunità internazionale, hanno bisogno di aprirsi al perdono per ritessere legami interrotti, per superare situazioni di sterile condanna mutua, per vincere la tentazione di escludere gli altri non concedendo loro possibilità di appello. La capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura più giusta e solidale.

Il perdono mancato, al contrario, specialmente quando alimenta la continuazione di conflitti, ha costi enormi per lo sviluppo dei popoli. Le risorse vengono impiegate per sostenere la corsa agli armamenti, le spese delle guerre, le conseguenze delle ritorsioni economiche. Vengono così a mancare le disponibilità finanziarie necessarie per produrre sviluppo, pace, giustizia. Quanti dolori soffre l'umanità per non sapersi riconciliare, quali ritardi subisce per non saper perdonare! La pace è la condizione dello sviluppo, ma una vera pace è resa possibile soltanto dal perdono.

Il perdono, strada maestra

10. La proposta del perdono non è di immediata comprensione né di facile accettazione; è un messaggio per certi versi paradossale. Il perdono infatti comporta sempre un'apparente perdita a breve termine, mentre assicura un guadagno reale a lungo termine. La violenza è l'esatto opposto: opta per un guadagno a scadenza ravvicinata, ma prepara a distanza una perdita reale e permanente. Il perdono potrebbe sembrare una debolezza; in realtà, sia per essere concesso che per essere accettato, suppone una grande forza spirituale e un coraggio morale a tutta prova. Lungi dallo sminuire la persona, il perdono la conduce ad una umanità più piena e più ricca, capace di riflettere in sé un raggio dello splendore del Creatore.

Il ministero che svolgo al servizio del Vangelo mi fa sentire vivamente il dovere, e mi dà al tempo stesso la forza, di insistere sulla necessità del perdono. Lo faccio anche oggi, sorretto dalla speranza di poter suscitare riflessioni serene e mature in vista di un generale rinnovamento, nei cuori delle persone e nelle relazioni tra i popoli della terra.

11. Meditando sul tema del perdono, non si possono non ricordare alcune tragiche situazioni di conflitto, che da troppo tempo alimentano odi profondi e laceranti, con la conseguente spirale inarrestabile di tragedie personali e collettive. Mi riferisco, in particolare, a quanto avviene nella Terra Santa, luogo benedetto e sacro dell'incontro di Dio con gli uomini, luogo della vita, morte e risurrezione di Gesù, il Principe della pace.

La delicata situazione internazionale sollecita a sottolineare con forza rinnovata l'urgenza della risoluzione del conflitto arabo-israeliano, che dura ormai da più di cinquant'anni, con un'alternanza di fasi più o meno acute. Il continuo ricorso ad atti terroristici o di guerra, che aggravano per tutti la situazione e incupiscono le prospettive, deve lasciare finalmente il posto ad un negoziato risolutore. I diritti e le esigenze di ciascuno potranno essere tenuti in debito conto e contemperati in modo equo, se e quando prevarrà in tutti la volontà di giustizia e di riconciliazione. A quegli amati popoli rivolgo nuovamente l'invito accorato ad adoperarsi per un'era nuova di rispetto mutuo e di accordo costruttivo.

Comprensione e cooperazione interreligiosa

12. In questo grande sforzo, i leader religiosi hanno una loro specifica responsabilità. Le confessioni cristiane e le grandi religioni dell'umanità devono collaborare tra loro per eliminare le cause sociali e culturali del terrorismo, insegnando la grandezza e la dignità della persona e diffondendo una maggiore consapevolezza dell'unità del genere umano. Si tratta di un preciso campo del dialogo e della collaborazione ecumenica ed interreligiosa, per un urgente servizio delle religioni alla pace tra i popoli.

In particolare, sono convinto che i leader religiosi ebrei, cristiani e musulmani debbano prendere l'iniziativa mediante la condanna pubblica del terrorismo, rifiutando a chi se ne rende partecipe ogni forma di legittimazione religiosa o morale.

13. Nel dare comune testimonianza alla verità morale secondo cui l'assassinio deliberato dell'innocente è sempre un grave peccato, dappertutto e senza eccezioni, i leader religiosi del mondo favoriranno la formazione di una pubblica opinione moralmente corretta. E questo il presupposto necessario per l'edificazione di una società internazionale capace di perseguire la tranquillità dell'ordine nella giustizia e nella libertà.

Un impegno di questo tipo da parte delle religioni non potrà non introdursi sulla via del perdono, che porta alla comprensione reciproca, al rispetto e alla fiducia. Il servizio che le religioni possono dare per la pace e contro il terrorismo consiste proprio nella pedagogia del perdono, perché l'uomo che perdona o chiede perdono capisce che c'è una Verità più grande di lui, accogliendo la quale egli può trascendere se stesso.

Preghiera per la pace

14. Proprio per questa ragione, la preghiera per la pace non è un elemento che « viene dopo » l'impegno per la pace. Al contrario, essa sta al cuore dello sforzo per l'edificazione di una pace nell'ordine, nella giustizia e nella libertà. Pregare per la pace significa aprire il cuore umano all'irruzione della potenza rinnovatrice di Dio. Dio, con la forza vivificante della sua grazia, può creare aperture per la pace là dove sembra che vi siano soltanto ostacoli e chiusure; può rafforzare e allargare la solidarietà della famiglia umana, nonostante lunghe storie di divisioni e di lotte. Pregare per la pace significa pregare per la giustizia, per un adeguato ordinamento all'interno delle Nazioni e nelle relazioni fra di loro. Vuol dire anche pregare per la libertà, specialmente per la libertà religiosa, che è un diritto fondamentale umano e civile di ogni individuo. Pregare per la pace significa pregare per ottenere il perdono di Dio e per crescere al tempo stesso nel coraggio che è necessario a chi vuole a propria volta perdonare le offese subite.

Per tutti questi motivi ho invitato i rappresentanti delle religioni del mondo a venire ad Assisi, la città di san Francesco, il prossimo 24 gennaio, a pregare per la pace. Vogliamo con ciò mostrare che il genuino sentimento religioso è una sorgente inesauribile di mutuo rispetto e di armonia tra i popoli: in esso, anzi, risiede il principale antidoto contro la violenza ed i conflitti. In questo tempo di grave preoccupazione, l'umana famiglia ha bisogno di sentirsi ricordare le sicure ragioni della nostra speranza. Proprio questo noi intendiamo proclamare ad Assisi, pregando Dio Onnipotente — secondo la suggestiva espressione attribuita allo stesso san Francesco — di fare di noi uno strumento della sua pace.

15. Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono: ecco ciò che voglio annunciare in questo Messaggio a credenti e non credenti, agli uomini e alle donne di buona volontà, che hanno a cuore il bene della famiglia umana e il suo futuro.

Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono: questo voglio ricordare a quanti detengono le sorti delle comunità umane, affinché si lascino sempre guidare, nelle loro scelte gravi e difficili, dalla luce del vero bene dell'uomo, nella prospettiva del bene comune.

Non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono: questo monito non mi stancherò di ripetere a quanti, per una ragione o per l'altra, coltivano dentro di sé odio, desiderio di vendetta, bramosia di distruzione.

In questa Giornata della Pace, salga dal cuore di ogni credente più intensa la preghiera per ciascuna delle vittime del terrorismo, per le loro famiglie tragicamente colpite, e per tutti i popoli che il terrorismo e la guerra continuano a ferire e a sconvolgere. Non restino fuori del raggio di luce della nostra preghiera coloro stessi che offendono gravemente Dio e l'uomo mediante questi atti senza pietà: sia loro concesso di rientrare in se stessi e di rendersi conto del male che compiono, così che siano spinti ad abbandonare ogni proposito di violenza e a cercare il perdono. In questi tempi burrascosi, possa l'umana famiglia trovare pace vera e duratura, quella pace che solo può nascere dall'incontro della giustizia con la misericordia!

Dal Vaticano, 8 dicembre 2001

GIOVANNI PAOLO II°

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PALERMITI: IL PAESE 'ARCOBALENO

Siamo ragazzi di tutta la terra e vogliamo cambiare il mondo.
Com'è adesso non ci piace. E' pieno di cose belle ma troppe persone soffrono per la fame, per la guerra, per un colore della pelle diverso, perché il forte vuole schiacciare il debole. Il nostro pianeta è pieno di cose belle ma sempre più pieno di rifiuti e l'aria è sempre più inquinata e l'acqua è sempre più sporca.
Vogliamo un mondo più giusto e più umano, senza divisioni tra i popoli, tra bianchi, neri, gialli e scuri, tra ricchi e poveri, tra giovani e anziani. Noi vogliamo costruire un mondo più pulito, dove l'inquinamento non fa diventare gialle le foreste e marrone l'acqua, dove c'è spazio per tutti i colori e per tutta la gente.
Vogliamo vivere in pace. Non ci piace vivere in un mondo con la guerra, perché è stupida e pure chi ha vinto, soffre e ha sempre paura. E vogliamo dire a tutti che è più importante salvare la terra che avere tanti soldi. Ed è meglio una maglietta e un paio di scarpe in meno, che permettere che i bambini in tante parti del mondo lavorino come schiavi.
Siamo amici di tutti, anche di quelli che nessuno vuole vicino. Siamo amici degli anziani, perché non è giusto che stiano sempre soli. Siamo amici di quei bambini che chiamiamo "diversi", perché sono come noi, pure se non sanno correre o parlare. Siamo amici degli stranieri, di quelli che vogliono rimandare a casa loro, anche se una casa certe volte non ce l'hanno. Siamo amici della natura, amici veri, non quelli che bruciano i boschi e sporcano il mare.
Siamo tanti, ma non siamo tutti uguali. Siamo di tanti colori e di tutte le età, ma non per farci la guerra. Ci impegniamo a crescere assieme e a non lasciare che persone violente rubino l'infanzia ai bambini.
Sembra difficile ma è facile. Siamo capaci di farne di tutti i colori. Bianco: puliamo il Mondo. Rosso: amicizia e solidarietà. Giallo: il sole che ci unisce. Verde: l'erba su cui giocare. Blu: come la notte che non deve fare più paura a nessuno. Sono i colori del futuro. Sono i colori di Dio.
E' il paese dell'arcobaleno.
Buon Natale e Buon Anno a tutta la Comunità. I ragazzi del Catechismo (Scuola Elementare e Media Palermiti)

(Messaggio inviato a tutti i palermitesi domiciliati e sparsi nel mondo).

(Il testo è della Comunità Sant'Egidio- Roma).

IL GRIDO DI MARIA

"non c'è pace, non ci può essere pace, se ci affidiamo alle bombe, alle armi, alla guerra, all'odio, alla vendetta…".
Gesù, ancora una volta, ci dà la gioia di gustare il NATALE. Prepariamoci a farci guidare dalla Luce per giungere a Betlemme e "Adorare un Bimbo avvolto in fasce" e ascoltare il coro degli Angeli "Gloria a Dio nell'alto dei cieli e Pace in terra agli uomini che Egli ama".
AVVENTO - NATALE = AMORE - PACE.
Maria, Mamma della Luce, ci Illumini e ci dia Coraggio per essere Uomini e Donne di Amore e di Pace.
Le Generazioni presenti e future ci chiameranno "BEATI".

I Ragazzi e le Ragazze del Catechismo alla Comunità.
Palermiti 02.12.2001


MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II
    PER LA CELEBRAZIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

   1° GENNAIO 2003

      PACEM IN TERRIS:
      UN IMPEGNO PERMANENTE


      1. Sono trascorsi quasi quarant'anni da quell'11 aprile 1963, in cui Papa Giovanni XXIII pubblicò la storica Lettera enciclica Pacem in terris. Si celebrava in quel giorno il Giovedì Santo. Rivolgendosi «a tutti gli uomini di buona volontà», il mio venerato Predecessore, che sarebbe morto due mesi più tardi, compendiava il suo messaggio di pace al mondo nella prima affermazione dell'Enciclica: «La pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell'ordine stabilito da Dio» (Pacem in terris, introd.: AAS, 55 [1963], 257).

      Parlare di pace ad un mondo diviso

      2. In realtà, il mondo a cui Giovanni XXIII si rivolgeva era in un profondo stato di disordine. Il XX secolo era iniziato con una grande attesa di progresso. L'umanità aveva invece dovuto registrare, in sessant'anni di storia, lo scoppio di due guerre mondiali, l'affermarsi di sistemi totalitari devastanti, l'accumularsi di immense sofferenze umane e lo scatenarsi, nei confronti della Chiesa, della più grande persecuzione che la storia abbia mai conosciuto.

      Solo due anni prima della Pacem in terris, nel 1961, il « muro di Berlino » veniva eretto per dividere e mettere l'una contro l'altra non soltanto due parti di quella Città, ma anche due modi di comprendere e di costruire la città terrena. Da una parte e dall'altra del muro la vita assunse uno stile differente, ispirato a regole tra loro spesso contrapposte, in un clima diffuso di sospetto e di diffidenza. Tanto come visione del mondo quanto come concreta impostazione della vita, quel muro attraversò l'umanità nel suo insieme e penetrò nel cuore e nella mente delle persone, creando divisioni che sembravano destinate a durare per sempre.

      Inoltre, proprio sei mesi prima della pubblicazione dell'Enciclica, mentre a Roma si era da pochi giorni aperto il Concilio Vaticano II, il mondo, a causa della crisi dei missili a Cuba, si trovò sull'orlo di una guerra nucleare. La strada verso un mondo di pace, di giustizia e di libertà sembrava bloccata. Molti ritenevano che l'umanità fosse condannata a vivere per tanto tempo ancora in quelle precarie condizioni di « guerra fredda », costantemente sottoposta all'incubo che un'aggressione o un incidente potessero scatenare da un giorno all'altro la peggior guerra di tutta la storia umana. L'uso delle armi atomiche, infatti, l'avrebbe trasformata in un conflitto che avrebbe messo a repentaglio il futuro stesso dell'umanità.

      I quattro pilastri della pace

      3. Papa Giovanni XXIII non era d'accordo con coloro che ritenevano impossibile la pace. Con l'Enciclica, egli fece sì che questo fondamentale valore - con tutta la sua esigente verità - cominciasse a bussare da entrambe le parti di quel muro e di tutti i muri. A ciascuno l'Enciclica parlò della comune appartenenza alla famiglia umana e accese per tutti una luce sull'aspirazione della gente di ogni parte della terra a vivere in sicurezza, giustizia e speranza per il futuro.

      Da spirito illuminato qual era, Giovanni XXIII identificò le condizioni essenziali per la pace in quattro precise esigenze dell'animo umano: la verità, la giustizia, l'amore e la libertà (cfr ibid., I: l.c., 265-266). La verità - egli disse - sarà fondamento della pace, se ogni individuo con onestà prenderà coscienza, oltre che dei propri diritti, anche dei propri doveri verso gli altri. La giustizia edificherà la pace, se ciascuno concretamente rispetterà i diritti altrui e si sforzerà di adempiere pienamente i propri doveri verso gli altri. L'amore sarà fermento di pace, se la gente sentirà i bisogni degli altri come propri e condividerà con gli altri ciò che possiede, a cominciare dai valori dello spirito. La libertà infine alimenterà la pace e la farà fruttificare se, nella scelta dei mezzi per raggiungerla, gli individui seguiranno la ragione e si assumeranno con coraggio la responsabilità delle proprie azioni.

      Guardando al presente e al futuro con gli occhi della fede e della ragione, il beato Giovanni XXIII intravide ed interpretò le spinte profonde che già erano all'opera nella storia. Egli sapeva che le cose non sempre sono come appaiono in superficie. Malgrado le guerre e le minacce di guerre, c'era qualcos'altro all'opera nelle vicende umane, qualcosa che il Papa colse come il promettente inizio di una rivoluzione spirituale.

      Una nuova coscienza della dignità dell'uomo e dei suoi inalienabili diritti

      4. L'umanità, egli scrisse, ha intrapreso una nuova tappa del suo cammino (cfr ibid., I: l.c., 267-269). La fine del colonialismo, la nascita di nuovi Stati indipendenti, la difesa più efficace dei diritti dei lavoratori, la nuova e gradita presenza delle donne nella vita pubblica, gli apparivano come altrettanti segni di un'umanità che stava entrando in una nuova fase della sua storia, una fase caratterizzata dalla « convinzione che tutti gli uomini sono uguali per dignità naturale » (ibid., I: l.c., 268). Certo, tale dignità era ancora calpestata in molte parti del mondo. Il Papa non lo ignorava. Egli era tuttavia convinto che, malgrado la situazione fosse sotto alcuni aspetti drammatica, il mondo stava diventando sempre più consapevole di certi valori spirituali e sempre più aperto alla ricchezza di contenuto di quei «pilastri della pace» che erano la verità, la giustizia, l'amore e la libertà (cfr ibid., I: l.c., 268-269). Attraverso l'impegno di portare questi valori nella vita sociale, sia nazionale che internazionale, uomini e donne sarebbero diventati sempre più consapevoli dell'importanza del loro rapporto con Dio, fonte di ogni bene, quale solido fondamento e supremo criterio della loro vita, sia come singoli individui che come esseri sociali (cfr ibid.). Questa più acuta sensibilità spirituale, il Papa ne era convinto, avrebbe avuto anche profonde conseguenze pubbliche e politiche.

      Davanti alla crescente consapevolezza dei diritti umani che andava emergendo a livello sia nazionale che internazionale, Giovanni XXIII intuì la forza insita nel fenomeno ed il suo straordinario potere di cambiare la storia. Quel che avvenne pochi anni dopo soprattutto nell'Europa centrale ed orientale ne offrì la singolare conferma. La strada verso la pace, insegnava il Papa nell'Enciclica, doveva passare attraverso la difesa e la promozione dei diritti umani fondamentali. Di essi infatti ogni persona umana gode, non come di beneficio elargito da una certa classe sociale o dallo Stato, ma come di una prerogativa che le è propria in quanto persona: «In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona, cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili» (ibid., I: l.c., 259).

      Non si trattava semplicemente di idee astratte. Erano idee dalle vaste conseguenze pratiche, come la storia avrebbe presto dimostrato. Sulla base della convinzione che ogni essere umano è uguale in dignità e che, di conseguenza, la società deve adeguare le sue strutture a tale presupposto, sorsero ben presto i movimenti per i diritti umani, che diedero espressione politica concreta a una delle grandi dinamiche della storia contemporanea. La promozione della libertà fu riconosciuta come una componente indispensabile dell'impegno per la pace. Emergendo praticamente in ogni parte del mondo, questi movimenti contribuirono al rovesciamento di forme di governo dittatoriali e spinsero a sostituirle con altre forme più democratiche e partecipative. Essi dimostrarono, in pratica, che pace e progresso possono essere ottenuti solo attraverso il rispetto della legge morale universale, scritta nel cuore dell'uomo (cfr Giovanni Paolo II, Discorso all'Assemblea delle Nazioni Unite, 5 ottobre 1995, n. 3).

      Il bene comune universale

      5. Su di un altro punto l'insegnamento della Pacem in terris si dimostrò profetico, precorrendo la fase successiva dell'evoluzione delle politiche mondiali. Davanti ad un mondo che stava diventando sempre più interdipendente e globale, Papa Giovanni XXIII suggerì che il concetto di bene comune doveva essere elaborato con un orizzonte mondiale. Ormai, per essere corretto, il discorso doveva far riferimento al concetto di «bene comune universale» (Pacem in terris, IV: l.c., 292). Una delle conseguenze di questa evoluzione era l'evidente esigenza che vi fosse un'autorità pubblica a livello internazionale, che potesse disporre dell'effettiva capacità di promuovere tale bene comune universale. Questa autorità, soggiungeva immediatamente il Papa, non avrebbe dovuto essere stabilita attraverso la coercizione, ma solo attraverso il consenso delle nazioni. Si sarebbe dovuto trattare di un organismo avente come «obiettivo fondamentale il riconoscimento, il rispetto, la tutela e la promozione dei diritti della persona» (ibid., IV: l.c., 294).

      Non sorprende perciò che Giovanni XXIII guardasse con grande speranza all'Organizzazione delle Nazioni Unite, costituita il 26 giugno 1945. Egli vedeva in essa uno strumento credibile per mantenere e rafforzare la pace nel mondo. Proprio per questo espresse particolare apprezzamento per la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo del 1948, considerandola «un passo importante nel cammino verso l'organizzazione giuridico-politica della comunità mondiale» (ibid., IV: l.c., 295). In tale Dichiarazione infatti venivano fissati i fondamenti morali sui quali avrebbe potuto poggiare l'edificazione di un mondo caratterizzato dall'ordine anziché dal disordine, dal dialogo anziché dalla forza. In questa prospettiva, il Papa lasciava intendere che la difesa dei diritti umani da parte dell'Organizzazione delle Nazioni Unite era il presupposto indispensabile per lo sviluppo della capacità dell'Organizzazione stessa di promuovere e difendere la sicurezza internazionale.

      Non solo la visione precorritrice di Papa Giovanni XXIII, la prospettiva cioè di un'autorità pubblica internazionale a servizio dei diritti umani, della libertà e della pace, non si è ancora interamente realizzata, ma si deve registrare, purtroppo, la non infrequente esitazione della comunità internazionale nel dovere di rispettare e applicare i diritti umani. Questo dovere tocca tutti i diritti fondamentali e non consente scelte arbitrarie, che porterebbero a realizzare forme di discriminazione e di ingiustizia. Allo stesso tempo, siamo testimoni dell'affermarsi di una preoccupante forbice tra una serie di nuovi «diritti» promossi nelle società tecnologicamente avanzate e diritti umani elementari che tuttora non vengono soddisfatti soprattutto in situazioni di sottosviluppo: penso, ad esempio, al diritto al cibo, all'acqua potabile, alla casa, all'auto- determinazione e all'indipendenza. La pace richiede che questa distanza sia urgentemente ridotta e infine superata.

      Un'osservazione deve ancora essere fatta: la comunità internazionale, che dal 1948 possiede una carta dei diritti della persona umana, ha per lo più trascurato d'insistere adeguatamente sui doveri che ne derivano. In realtà, è il dovere che stabilisce l'ambito entro il quale i diritti devono contenersi per non trasformarsi nell'esercizio di un arbitrio. Una più grande consapevolezza dei doveri umani universali sarebbe di grande beneficio alla causa della pace, perché le fornirebbe la base morale del riconoscimento condiviso di un ordine delle cose che non dipende dalla volontà di un individuo o di un gruppo.

      Un nuovo ordine morale internazionale

      6. Resta comunque vero che, nonostante molte difficoltà e ritardi, nei quarant'anni trascorsi si è avuto un notevole progresso verso la realizzazione della nobile visione di Papa Giovanni XXIII. Il fatto che gli Stati quasi in ogni parte del mondo si sentano obbligati ad onorare l'idea dei diritti umani mostra come siano potenti gli strumenti della convinzione morale e dell'integrità spirituale. Furono queste le forze che si rivelarono decisive in quella mobilitazione delle coscienze che fu all'origine della rivoluzione non violenta del 1989, evento che determinò il crollo del comunismo europeo. E sebbene nozioni distorte di libertà, intesa come licenza, continuino a minacciare la democrazia e le società libere, è sicuramente significativo che, nei quarant'anni trascorsi dalla Pacem in terris, molte popolazioni del mondo siano diventate più libere, strutture di dialogo e di cooperazione tra le nazioni si siano rafforzate e la minaccia di una guerra globale nucleare, quale si profilò drasticamente ai tempi di Papa Giovanni XXIII, sia stata efficacemente contenuta.

      A questo proposito, con umile coraggio vorrei osservare come l'insegnamento plurisecolare della Chiesa sulla pace intesa come «tranquillitas ordinis» - «tranquillità dell'ordine», secondo la definizione di Sant'Agostino (De civitate Dei, 19, 13), si sia rivelato, alla luce anche degli approfondimenti della Pacem in terris, particolarmente significativo per il mondo odierno, tanto per i Capi delle nazioni quanto per i semplici cittadini. Che ci sia un grande disordine nella situazione del mondo contemporaneo è constatazione da tutti facilmente condivisa. L'interrogativo che si impone è perciò il seguente: quale tipo di ordine può sostituire questo disordine, per dare agli uomini e alle donne la possibilità di vivere in libertà, giustizia e sicurezza? E poiché il mondo, pur nel suo disordine, si sta comunque «organizzando» in vari campi (economico, culturale e perfino politico), sorge un'altra domanda ugualmente pressante: secondo quali principi si stanno sviluppando queste nuove forme di ordine mondiale?

      Queste domande ad ampio raggio indicano che il problema dell'ordine negli affari mondiali, che è poi il problema della pace rettamente intesa, non può prescindere da questioni legate ai principi morali. In altre parole, emerge anche da questa angolatura la consapevolezza che la questione della pace non può essere separata da quella della dignità e dei diritti umani. Proprio questa è una delle perenni verità insegnate dalla Pacem in terris, e noi faremmo bene a ricordarla e a meditarla in questo quarantesimo anniversario.

      Non è forse questo il tempo nel quale tutti devono collaborare alla costituzione di una nuova organizzazione dell'intera famiglia umana, per assicurare la pace e l'armonia tra i popoli, ed insieme promuovere il loro progresso integrale? È importante evitare fraintendimenti: non si vuol qui alludere alla costituzione di un super-stato globale. Si intende piuttosto sottolineare l'urgenza di accelerare i processi già in corso per rispondere alla pressoché universale domanda di modi democratici nell'esercizio dell'autorità politica, sia nazionale che internazionale, come anche alla richiesta di trasparenza e di credibilità ad ogni livello della vita pubblica. Confidando nella bontà presente nel cuore di ogni persona, Papa Giovanni XXIII volle far leva su di essa e chiamò il mondo intero ad una più nobile visione della vita pubblica e dell'esercizio della pubblica autorità. Con audacia, spinse il mondo a proiettarsi al di là del proprio presente stato di disordine, e ad immaginare nuove forme di ordine internazionale che fossero a misura della dignità umana.

      Il legame tra pace e verità

      7. Contestando la visione di coloro che pensavano alla politica come ad un territorio svincolato dalla morale e soggetto al solo criterio dell'interesse, Giovanni XXIII, attraverso l'Enciclica Pacem in terris, delineò una più vera immagine dell'umana realtà e indicò la via verso un futuro migliore per tutti. Proprio perché le persone sono create con la capacità di elaborare scelte morali, nessuna attività umana si situa al di fuori della sfera dei valori etici. La politica è un'attività umana; perciò anch'essa è soggetta al giudizio morale. Questo è vero anche per la politica internazionale. Il Papa scriveva: «La stessa legge naturale che regola i rapporti tra i singoli esseri umani, regola pure i rapporti tra le rispettive comunità politiche» (Pacem in terris, III: l.c., 279). Quanti ritengono che la vita pubblica internazionale si esplichi in qualche modo fuori dell'ambito del giudizio morale, non hanno che da riflettere sull'impatto dei movimenti per i diritti umani sulle politiche nazionali e internazionali del XX secolo, da poco concluso. Questi sviluppi, che l'insegnamento dell'Enciclica aveva precorso, confutano decisamente la pretesa che le politiche internazionali si collochino in una sorta di «zona franca » in cui la legge morale non avrebbe alcun potere.

      Forse non c'è un altro luogo in cui si avverta con uguale chiarezza la necessità di un uso corretto dell'autorità politica, quanto nella drammatica situazione del Medio Oriente e della Terra Santa. Giorno dopo giorno e anno dopo anno, l'effetto cumulativo di un esasperato rifiuto reciproco e di una catena infinita di violenze e di vendette ha frantumato sinora ogni tentativo di avviare un dialogo serio sulle reali questioni in causa. La precarietà della situazione è resa ancor più drammatica dallo scontro di interessi esistente tra i membri della comunità internazionale. Finché coloro che occupano posizioni di responsabilità non accetteranno di porre coraggiosamente in questione il loro modo di gestire il potere e di procurare il benessere dei loro popoli, sarà difficile immaginare che si possa davvero progredire verso la pace. La lotta fratricida, che ogni giorno scuote la Terra Santa contrapponendo tra loro le forze che tessono l'immediato futuro del Medio Oriente, pone l'urgente esigenza di uomini e di donne convinti della necessità di una politica fondata sul rispetto della dignità e dei diritti della persona. Una simile politica è per tutti incomparabilmente più vantaggiosa che la continuazione delle situazioni di conflitto in atto. Occorre partire da questa verità. Essa è sempre più liberante di qualsiasi forma di propaganda, specialmente quando tale propaganda servisse a dissimulare intenzioni inconfessabili.

      Le premesse di una pace durevole

      8. C'è un legame inscindibile tra l'impegno per la pace e il rispetto della verità. L'onestà nel dare informazioni, l'equità dei sistemi giuridici, la trasparenza delle procedure democratiche danno ai cittadini quel senso di sicurezza, quella disponibilità a comporre le controversie con mezzi pacifici e quella volontà di intesa leale e costruttiva che costituiscono le vere premesse di una pace durevole. Gli incontri politici a livello nazionale e internazionale servono la causa della pace solo se l'assunzione comune degli impegni è poi rispettata da ogni parte. In caso contrario, questi incontri rischiano di diventare irrilevanti e inutili, ed il risultato è che la gente è tentata di credere sempre meno all'utilità del dialogo e di confidare invece nell'uso della forza come via per risolvere le controversie. Le ripercussioni negative, che sul processo di pace hanno gli impegni presi e poi non rispettati, devono indurre i Capi di Stato e di Governo a ponderare con grande senso di responsabilità ogni loro decisione.

      Pacta sunt servanda, recita l'antico adagio. Se tutti gli impegni assunti devono essere rispettati, speciale cura deve essere posta nel dare esecuzione agli impegni assunti verso i poveri. Particolarmente frustrante sarebbe infatti, nei loro confronti, il mancato adempimento di promesse da loro sentite come di vitale interesse. In questa prospettiva, il mancato adempimento degli impegni con le nazioni in via di sviluppo costituisce una seria questione morale e mette ancora più in luce l'ingiustizia delle disuguaglianze esistenti nel mondo. La sofferenza causata dalla povertà risulta drammaticamente accresciuta dal venir meno della fiducia. Il risultato finale è la caduta di ogni speranza. La presenza della fiducia nelle relazioni internazionali è un capitale sociale di valore fondamentale.

      Una cultura di pace

      9. A voler guardare le cose a fondo, si deve riconoscere che la pace non è tanto questione di strutture, quanto di persone. Strutture e procedure di pace - giuridiche, politiche ed economiche - sono certamente necessarie e fortunatamente sono spesso presenti. Esse tuttavia non sono che il frutto della saggezza e dell'esperienza accumulata lungo la storia mediante innumerevoli gesti di pace, posti da uomini e donne che hanno saputo sperare senza cedere mai allo scoraggiamento. Gesti di pace nascono dalla vita di persone che coltivano nel proprio animo costanti atteggiamenti di pace. Sono frutto della mente e del cuore di «operatori di pace» (Mt 5, 9). Gesti di pace sono possibili quando la gente apprezza pienamente la dimensione comunitaria della vita, così da percepire il significato e le conseguenze che certi eventi hanno sulla propria comunità e sul mondo nel suo insieme. Gesti di pace creano una tradizione e una cultura di pace.

      La religione possiede un ruolo vitale nel suscitare gesti di pace e nel consolidare condizioni di pace. Essa può esercitare questo ruolo tanto più efficacemente, quanto più decisamente si concentra su ciò che le è proprio: l'apertura a Dio, l'insegnamento di una fratellanza universale e la promozione di una cultura di solidarietà. La «Giornata di preghiera per la pace», che ho promosso ad Assisi il 24 gennaio 2002 coinvolgendo i rappresentanti di numerose religioni, aveva proprio questo scopo. Voleva esprimere il desiderio di educare alla pace attraverso la diffusione di una spiritualità e di una cultura di pace.

      L'eredità della «Pacem in terris»

      10. Il beato Giovanni XXIII era persona che non temeva il futuro. Lo aiutava in questo atteggiamento di ottimismo quella convinta confidenza in Dio e nell'uomo che gli veniva dal profondo clima di fede in cui era cresciuto. Forte di questo abbandono alla Provvidenza, persino in un contesto che sembrava di permanente conflitto, non esitò a proporre ai leader del suo tempo una visione nuova del mondo. È questa l'eredità che egli ci ha lasciato. Guardando a lui, in questa Giornata Mondiale della Pace 2003, siamo invitati ad impegnarci in quei medesimi sentimenti che furono suoi: fiducia in Dio misericordioso e compassionevole, che ci chiama alla fratellanza; fiducia negli uomini e nelle donne del nostro come di ogni altro tempo, a motivo dell'immagine di Dio impressa ugualmente negli animi di tutti. È partendo da questi sentimenti che si può sperare di costruire un mondo di pace sulla terra.

      All'inizio di un nuovo anno nella storia dell'umanità, è questo l'augurio che mi sale spontaneo dal profondo del cuore: che nell'animo di tutti possa sbocciare uno slancio di rinnovata adesione alla nobile missione che l'Enciclica Pacem in terris proponeva quarant'anni fa a tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Tale compito, che l'Enciclica qualificava come «immenso», era indicato nel «ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell'amore, nella libertà». Il Papa precisava poi di riferirsi ai «rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche, da una parte, e, dall'altra, la comunità mondiale». E concludeva ribadendo che l'impegno di «attuare la vera pace nell'ordine stabilito da Dio» costituiva un «ufficio nobilissimo» (Pacem in terris, V: l.c., 301-302).

      Il quarantesimo anniversario della Pacem in terris è un'occasione quanto mai opportuna per fare tesoro dell'insegnamento profetico di Papa Giovanni XXIII. Le comunità ecclesiali studieranno come celebrare questo anniversario in modo appropriato durante l'anno, con iniziative che non mancheranno di avere carattere ecumenico e interreligioso, aprendosi a tutti coloro che hanno un profondo anelito a «superare le barriere che dividono, ad accrescere i vincoli della mutua carità, a comprendere gli altri, a perdonare coloro che hanno recato ingiurie» (ibid., V: l.c., 304).

      Accompagno questi auspici con la preghiera a Dio Onnipotente, sorgente di ogni nostro bene. Egli, che dalle condizioni di oppressione e di conflitto ci chiama alla libertà e alla cooperazione per il bene di tutti, aiuti le persone in ogni angolo della terra a costruire un mondo di pace, sempre più saldamente fondato sui quattro pilastri che il beato Giovanni XXIII ha indicato a tutti nella sua storica Enciclica: verità, giustizia, amore e libertà.

      Dal Vaticano, 8 Dicembre 2002.
      GIOVANNI PAOLO II                                       


Lettera dei Vescovi Calabresi in occasione delle Elezioni Regionali ...

IL VANGELO della speranza per la nostra terra di Calabria, oggi.

Carissimi,
1. Continuando le nostre riflessioni sulle situazioni di difficoltà nelle quali da sempre si dibatte la nostra Calabria, anche nell'approssimarsi delle votazioni per il rinnovo del Governo Regionale, abbiamo pensato bene, come Pastori, accogliendo le giuste istanze della nostra gente, indirizzarvi, come già promesso, una lettera.
Essa vuole essere, per tutti, un richiamo ad un sussulto di speranza in questa terra di Calabria.
Quale speranza? Quella che "non delude", che non è un sogno, ma una esperienza di vita. La "speranza viva" è Cristo in noi, il Cristo della Risurrezione, il vero Signore di ogni futuro genuino (cfr. 1 Pt. 1,3).
2. Perché questo richiamo? Anzitutto perché nessun uomo può vivere senza speranza. Sentiamo di dover uscire da tante delusioni, frutto delle nostre presunzioni o di inganni persistenti che ci mortificano.
La Calabria che pure è terra di cultura, di forza morale, ci pare stia attraversando un periodo di stanchezza e senta l'esigenza di guide vere, di segnali e motivazioni per un chiaro, pur se faticoso, cammino storico.
3. A chi ci rivolgiamo? A tutti i credenti in Cristo ed a tutti quelli che, pur se in disagio o assenza di fede, cercano vie di verità e di giustizia, e, spesso, con sofferta sincerità.
Parliamo quindi, anzitutto, alle nostre comunità cristiane, al presbiterio, alle famiglie religiose, alle parrocchie.
Nessuna assenza, nessuna paura della storia in noi: se così fosse, perderebbe valore il segno della presenza di Cristo nella nostra vita.
Dobbiamo superare una religiosità intimistica, devozionalistica, moralistica che si rifugia nel "sacro", che giudica il mondo, distaccandosi da esso, che vive, talvolta, la presunzione dell'essere giusti, disprezzando gli altri (cfr. Lc 18,9).
C'è bisogno di una evangelizzazione seria che educhi ad una esperienza di fede pensata ed impegnata, aperta alle attese e alle inquietudini dell'oggi.
Sappiamo che la nostra Chiesa Calabra, madre di santi e luogo di tanta fede paziente e dignitosa, ha bisogno di essere, oggi, immessa creativamente nei travagli della storia e mostrarsi segnale di speranza, facendo fecondare i germi del Vangelo.
4. Ci rivolgiamo, poi, a quanti hanno il dovere di "costruire l'uomo": la famiglia, la scuola, le università, gli operatori della cultura e della multimedialità, l'associazionismo, anche non ecclesiale, perché abbiano, nei loro metodi diversi, molta attenzione all'uomo, ai bambini, agli adolescenti, ai giovani perché possano nascere nuove generazioni, non manipolate o massificate, ma aperte ai valori e capaci di sacrifìcio.
Nei giovani c'è tanta potenzialità e ci sono tante attese. Ci pare, però, che manchino loro guide e modelli credibili. Apriamo i giovani alla speranza perché, anche con il loro impegno, si crei un cammino vero per la nostra storia.
5. Un ulteriore motivo di questa lettera è costituito dalle prossime consultazioni elettorali per il nuovo Governo e Consiglio Regionale, perché la Regione divenga anch'essa segnale di speranza e casa-specchio dove vengano interpretate le varie attese e dove si aprano nuove prospettive.
6. Vorremmo essere voce dei Calabresi, soprattutto dei poveri e degli ultimi ed ancora degli emigrati e degli immigrati. Cosa, allora, chiediamo agli uomini del Governo e della Legislazione Regionale? Ci permettiamo di offrire una riflessione indicando due piste: una qualitativa e una operativa.
7.La riflessione qualitativa ribuarda lo "stile di governo" e tale stile nasce da un'etica della politica. La gente vuole tre cose ineludibili, la progettualità, l'eticità e la risposta celere:
o una progettualità a lungo e breve termine;
o un'eticità da parte dei responsabili del governo, che li mostri misurati nei compensi, trasparenti nei comportamenti e nell'ascolto e nelle attenzioni del cittadino. La gente si scandalizza di tanti esosi stipendi e sperperi, mentre c'è chi stenta a vivere. La gente si lamenta della burocrazia che rallenta, se non spegne, ogni richiesta;
o una puntualità e celerità nelle risposte. La politica, che è ricerca del bene comune, è un'alta forma di carità. Ma politica vuol dire che non devono esserci più favori da concedere bensì diritti da rispettare. È ovvio che quanto diciamo per la Regione vale anche per le Province, i Comuni e tutti gli Uffici in cui si amministra il bene comune. Eticamente affermiamo che evadere la progettualità, l'eticità e la risposta celere, è "'peccato"contro l'uomo e significa spegnere la speranza.
8. La riflessione operativa rinvia ad alcune istanze concrete da realizzare con tale "stile di governo".
o La famiglia. La Regione attivi sempre più delle politiche familiari in favore dei giovani e dei soggetti più deboli, come gli handicappati, gli anziani e gli immigrati, aiutando anche a rispettare il valore del giorno della festa e del riposo.
o II lavoro. La drammatica mancanza di lavoro nella nostra Regione è motivo di grande preoccupazione e perciò occorre mettere in atto con assoluta priorità le condizioni di uno sviluppo possibile, sostenibile dentro una progettualità ben pensata.
o La sanità. Il Calabrese ha diritto di curarsi nella sua terra. Riconosciamo che sono stati fatti passi in avanti, ma è necessario un progetto globale, non lobbistico, ma attento al territorio ed alla diversità delle patologie.
o La scuola. Il mondo della scuola e della formazione abbia una particolare attenzione, anche con lo snellimento nella costruzione di scuole modernamente attrezzate, per una scuola che regga alla sfida dei tempi in qualità di offerta e sia anche funzionale all'inserimento nel mondo del lavoro. Eguale attenzione si ponga alle scuole paritarie, nel rispetto della libertà delle scelte educative.
o Le infrastruture. Urge un piano chiaro sulla viabilità, sulle ferrovie, perché senza tali itenerari siamo come corpo senza arterie e, certamente, senza cammino. Il porto di Gioia Tauro, riteniamo, debba realmente incidere sul nostro sviluppo globale.
o La crescita culturale e la valorizzazione del patrimonio artistico. La Regione deve operare in modo tale che la Calabria non sia conosciuta e citata, ingiustamente, sempre per la "ndrangheta" ma che sia apprezzata per i suoi valori, i valori della sua storia e delle sue ricchezze memoriali.
o II turismo. Sentiamo che questa è una delle grandi prospettive, se si immette in queste vie: cultura dell'accoglienza, superamento della periodicità, attenzione a forme nuove ed itinerari più significativi. C'è, anche, su questo settore, da perseguire, un intelligente turismo religioso:artistico, popolare e folklorico.
o L'agricoltura. Tenendo presente la naturale vocazione della nostra terra non bisogna abbandonare l'agricoltura, anzi bisogna saper razionalizzare le nostre produzioni e farle entrare nei circuiti economici, soprattutto incoraggiando i prodotti biologici e tipici.
o L'industria e l'artigianato. Auspichiamo un modello di sviluppo, finalmente realizzato non con megaprogetti ma con molte piccole e medie imprese, specie familiari, che facciano diventare la Calabria come "un giardino dai tanti fiori". Un modello di sviluppo che porti ad una economia diffusa su progetti possibili. Si superi la difficoltà di accesso al credito, registrata con sofferenza, dalle imprese calabresi.
o II Mediterraneo. Conta, ancora, far sì che la Calabria, prua aperta sul Mediterraneo, non sia più luogo di consumo o portatrice di pochi prodotti, ma una testa di ponte verso il Medio-Oriente e l'Africa. L'Europa dovrebbe investire di più in questa terra per farla uscire dalla perifericità, perché diventi, in concreto mano aperta sul Mediterraneo che la bacia e la timbra di tanta storia. Allora veramente la Calabria, per l'intelligenza di chi progetta e guida, potrà crearsi un futuro migliore.
9. Precisiamo che questa parte della nostra lettera non vuole essere una invasione di campo, ma solo l'eco di quanto ascoltiamo dalla nostra gente, per essere, nel nostro ruolo di guide spirituali dei Calabresi, compagni di viaggio e voce morale per una sinergia nuova, che ci aiuti ad uscire dalla chiusura puritana delle diversità e permetta un incontro fecondo nel dialogo per il possibile che è intuito da tutti e che deve essere riflettuto, studiato e servito da chi ci conduce e ci interpreta.
10. Concludendo, siamo certi che la speranza, cui ci siamo con forza riferiti, è pienamente possibile. Ribadiamo che non è un sogno, ma la potenzialità doverosa da scoprire e servire.
Il Dio della speranza ci stimoli a comunione d'intenti e ci fortifichi tutti rendendoci attenti alle sorprese del possibile che è, poi, la semina della speranza perché rifiorisca fiducia e si pongano le condizioni di uno sviluppo integrale e solidale.
Con animo amico e benedicente.
13 Febbraio 2005

Prima Domenica di Quaresima
I VESCOVI DELLE CHIESE DI CALABRIA