La
Stagione di unta Terra
Varrà
la pena metterla insieme un'antologia che dia conto, per pagine
ed
immagini, della fortuna non solo recente in letteratura, pittura
e, da ultimo,
fotografia delle Crete senesi. E un paesaggio che subito conquista:
calcinoso
e avaro, ma mutevole e perfino dolce nella cangiante alternanza
dei toni,
privo di limiti identificabili, piuttosto simile ad un mare geologico
fermo per
sempre. Suscita inquietudine, induce alla fantasia, consiglia
l'indugio che
scopra la minima vibrazione di colore o indaghi la tessitura
irregolare evidenziata
da linee e solchi, crepe e cretti. A tratti le biancane s'infittiscono
drammaticamente, quindi le colline divengono lunghe e appena
accennate,
come onde che vogliano placarsi, d'improvviso spunta un alberello
a dichiarare
disperazione e solitudine. Le case, rare e isolate, sembrano
battelli
prossimi al naufragio. La dimensione è giusto quella,
registrata dai versi di
Mario Luzi, di un ''mare aperto '' : i lividi cocuzzoli che di
tanto in tanto si
moltiplicano rimandano la figura di ''un calvario di guglie cinerine
'' qualcosa
di stranamente sacro. Sfondo di anacoreti, si direbbe, più
che di agricoltori.
La distesa delle Crete fa tutt'uno con l'anima di Siena, anche
se si
oppone nettamente al miraggio di una città distinta con
orgoglio dalla
campagna difficile che le sta intorno. Se c'è un paesaggio
naturalmente
gotico, spirituale e severo, è questo, e come tale risuona
nelle testimonianze
più alte: si pensi al Serqio di Romano Bilenchi (nel Conservatorio
di Santa
Teresa) che scruta l'orizzonte di quella campagna come un limite
da valicare,
con un senso inesplicabile di liberazione: "Era una liberazione
scrutarne il
pallido grigiore dall'alto delle colline. A distanza di alcuni
chilometri, le crete
sembravano il margine di un deserto, promettevano visioni esotiche
avventure singolari simili a quelle degli uomini vestiti nelle
fogge più
strane dei quali parlava un vecchio libro riccamente illustrato".
Aggirarsi per le Crete dovrebbe essere un dovere per chiunque
intenda
penetrare lo stile di Siena e capire up po' il retroterra del
suo splendore.
Già Guido Piovene lo notò con puntualità:
"Lasciata Siena, ci dovremmo fermare
nella sua provincia. E girare in questo paesaggio, dove l'amenità
toscana è
ridotta ad un velo, perchè la creta vi mette un riverbero
livido; e a tratti
diviene scoperta, quando la vegetazione muore . Girare vuol dire
non darsi
una meta, abbandonarsi a quel senso di spaesamento che ammutolisce
tipico
dei territori senza coordinate o delle metropoli prive di identificabilità.
L'itinerario è obbligato a farsi pellegrinaggio, l'andare
a mutarsi in contemplazione.
La realtà rugosa e materiale si svapora in realtà
allucinata e folgorante.
Carlo Betocchi dagli spalti di Montalcino, ripensando ai giorni
dell'assedio
e alla caduta di Siena è trascinato in un tempo estatico:
"Noi vedevamo,
di quella virtù, una residua ricchezza, quasi un atteggiamento,
un assiduo
medioevo che una mano superstite tesse in filigrana dorala: e
ascoltavamo
la cantilena della bella parlata senese; e guardavamo la veridica
tristezza
dell'affilato, irreale crinale dei calanchi".
Se le Crete infliggono un senso di pena lo fanno con dolcezza,
con soavità.
Francesco Arcangeli, a conclusione di un suo viaggio colmo di
memoria
figurativa, approda alla distesa delle Crete: " E poi vengono
le crete, azzurre,
grige. Infinite: poveramente, soavemente squallide".
Se rammentano le Crete, l'epoca di lontane battaglie Io fanno,
come
suggeriscono i versi di Carducci, con un riverbero funesto: "e
pe 'l tristo deserto/
de le crete maligne/ un fioco suon correa/ come sospir di battaglier
morenti".
Assediate da troppa letteratura le Crete non ce la fanno mai
a presentarsi
per quello che sono: accendono d'acchito l'immaginazione, rinviano
tanti
luoghi della cultura visiva di ogni visitatore che desideri accostarsi
a Siena e alla sua civiltà con minima cognizione di causa.
Il pellegrino delle Crete dovrebbe essersi soffermato, in Pinacoteca,
davanti ad alcune tavole che serbano l'immagine di questo vasto
territorio da
scoprire col disordine di un girovagare senza fini . Sono visioni
in cui la
sterminata landa a sud della città si presenta in interpretazioni
personalissime
e, talvolta, fa poco più che da pretesto ad uno scenario
irreale: e l'irrealtà par
come conquistata per via di ostinato, sognante ripensamento di
quel tratto
di campagna dura e scostante.
L'impressione colta di Emilio Cecchi sintetizza pienamente lo
scambio
sorprendente tra pittura e paesaggio che colpisce ed affascina:
"Assai spesso,
- scrive - nelle 'crete' verso Arbia ed Asciano, sembra di trovarsi
dentro un
paesaggio di Duccio, con quei monticelli nudi, cenerosi, stampati
del negro
intaglio metallico di un cespo di foglie, dominali dal ventaglio
d'un alberello
che impercettibilmente oscilla e crepita nel silenzio del cielo,
frastagliati di
profonde erosioni che sembrano i cabalistici diagrammi d'una
scrittura geologica".
Ma, a parte Duccio o il Pietro Lorenzetti della Pala del Carmine
(quei
monaci pregano e attingono l'acqua tra monti che riecheggiano
da vicino il
paesaggio familiare delle Crete), si guardi la predella in cinque
scomparti di
Bartolo di Fredi con l'Adorazione dei Magi o il Sant'Antonio
battuto dai
diavoli del Sassetta, dalla Pala del l'Arte della lana, o il
San Girolamo del
Maestro dell'osservanza, in ginocchio davanti ad un ammansito
leoncino.
I monticelli biancastri e nudi su cui si posa una città
turrita non sono altro
che le Crete fatte paesaggio dell'anima, restituite secondo canoni
fantasiosi
ma non al punto da bruciare l'originaria impressione.
Il San Girolamo orante di Sano di Pietro è sovrastato
anch'egli da
monticelli conici oltre i quali si affacciano torri potenti di
difesa e così
nel Polittico di Scrofiano il San Biagio con gli uccelli benedice
al riparo
di una piccola altura, misurata sul Santo e gli alberi fanno
largo ad
ondulazioni brulle e aride. Un castello che potrebbe essere una
serrata
città si stacca solitario di fronte ad una campagna ispida.
Nessun dipinto, forse, come la Madonna dell'umiltà di
Giovanni di
Paolo sublima Ia bizzarria geometrica delle Crete elevandola
a puro sogno.
La varietà delle coltivazioni dà luogo ad una scacchiera
su cui con ritmo regolare
sorgono coni bianchi a perdita d'occhio. In primo piano, sullo
sfondo, una
città murata si adagia su un monte più alto e scabroso
degli altri. Il paesaggio
è visto a volo d'uccello e si dispone su un orizzonte
circolare, protegge la
Madonna ed al tempo stesso la colloca su un territorio inevitabilmente
familiare eppure reso astratto e del tutto ideale. Ecco lo scambio
ricorrente
tra fedeltà ad una terra scrutata in ogni particolare
e visionarietà tesa e
drammatica. Anche da quando dovette dipingere la Biccherna con
il San
Girolamo, Giovanni di Paolo non riuscì a fare a meno di
una scenografia
incentrata sullo stacco meraviglioso tra una dimora povera, costruita
con
parsimoniosa eleganza, ed un lontano monticiattolo punteggiato
di alberelli
tanto simile al motivo che sovrastava la Madonna famosa.
A seguire la fortuna pittorica delle Crete si giunge fino ai
nostri giorni e
s'incontra l'opera di Dario Neri, il pittore tra i contemporanei
che più di tutti
ha esaltato, con incessante passione, un universo ruvido e luminoso,
in cui la
natura si manifesta in forma d'arte e l'arte si piega sulla natura
per trarne
motivi e risorse, colori e fremiti, segni impalpabili e toni
imprevedibili.
Una situazione del genere non poteva che suscitare un interesse
enorme
presso i fotografi, magari originando qualche inevitabile equivoco.
Le suggestioni che derivano da uno scenario così eccezionale
forniscono
immediatamente l'estro per la bella fotografia, quella che celebra
o crede di celebrare
il suo riscatto dall'ossequio veristico dell'obiettivo cogliendo
atmosfere o luci
o spazi fuori l'orizzonte delle percezioni consuete.
Non sono certo mancati autori - tra i primi nomi che vengono
in mente
Pepi Merisio e Gianni Berengo Gardin - che si sono confrontati
con l'apparizione
delle Crete in spirito d'umiltà, armati della meticolosa
pazienza che
chiedono. Ma quanti sono i fotografi che hanno prescelto Ia strada,
dopo
tutto assai facile, dell'effettaccio di presa immediata o, più
semplicemente,
della pittoricità carpita in un attimo e proposta come
immagine totale e definitiva?
Marcello Stefanini che ama la fotografia documentaria, l'indagine
che
va a fondo oltre ciò che si scorge a prima vista, ha scelto
un periödo e si è
prefisso di cogliere il paesaggio delle Crete nel tempo della
semina, entro
un arco delimitato di settimane. Così un territorio che
offre una gamma sterminata
di varianti è sottoposto ad un occhio microscopico, quasi
ad una scommessa.
Anche in un arco minimo di giorni la terra delle Crete muta e
tanto
più quanto più si osservino dettagli neppur percettibili
alla vista.
Il cretto più minuto e la biancana alta come il mucchietto
di sabbia che un
ragazzino improvvisa sulla spiaggia si alternano a vedute d'insieme,
dove le strade,
accennate, sembrano sprofondare; di tanto in tanto affiora qualche
lama d'acqua,
laghetti artificiali come esiguo ristoro ad una sete antica,
mai soddisfatta.
Il cielo è cinereo e s'accorda con i toni della terra,
la terra si fa uniforme
e potrebbe essere cielo. Un olmo selvatico, l'avena movimentano
prospettive
insolite. Gli attrezzi meccanici hanno lascialo incisi segni
recenti,
emergenti reperti preistorici. Le linee di un paesaggio grafico
per eccellenza danno
vita ad un linearismo capriccioso, a scansioni strane, ad un'impaginazione
sempre nuova.
A volte le biancane si sfanno come biacca bagnata ed assumono
la forma di
gigantesche mummie calcinose. I prati hanno la vibrazione di
un tessuto di seta.
Domina un pulviscolo d'oro, un rosa di carne, un tenero verde
che vela un turgore
timido, appena fecondato. La ricerca non è propriamente
estetica e vuole anzi
dimostrare che proprio per via di scientifica osservazione si
perviene ad una
coscienza del paesaggio intera e rapita:in grado di cogliere
il bello nella tenue
minima insorgenza presenza dei toni e il vero nella delle vegetazioni,
nelle ferite o nelle macchie, impronte innaturali lasciate chi
sa da chi.
Se l'occhio del fotografo rinvia alle prove della grande pittura
è per
l'inevitabile pittoricità di una campagna che è
stata da sempre all'origine di
fantasie e visioni e non riesce ad essere soltanto se stessa,
materialità fin
troppo sezionabile e comprensibile. "Anche la terra lavorata
di fresco, e
senza squillo - ha notato Cesare Brandi per la Toscana - è
la terra d'ombra
dei pittori, o la terra di Siena, appunto, un'ocra giallognola
ma non gialla, o
rossastra ma non rossa, come in Provenza, ad esempio, o in Sicilia".
Le immagini delle Crete che Marcello Stefanini ci consegna, raffinate
e
sapienti senza essere calligrafiche e facili preziose senza indulgere
a tagli
rovinosi, sobrie e pur mosse dall'amore che si nutre per le pieghe
di un volto
o il respiro di un corpo, capaci di suggerire senza scivolare
in astrazione
elaborata, desiderose di testimoniare la concretezza e la fragilità
miracolosa
di una campagna fatta di luce e colore, chiedono non solo studio
e salvaguardi
di un paesaggio straordinario e ogni giorno di più sovvertito
da tecniche
disinvolte e brutali. Indicano con sommessa eloquenza un bene
insostituibile
da proteggere con ogni sforzo e con mezzi e norme non sperimentati
ancora,
ma necessari se si vuole che le Crete sopravvivano, che Ia loro
varietà
misteriosa, invenzione della natura e fatica dell'uomo, cura
e abbandono, continui
ad esistere perentoria come le stagioni, mutevole che se ne può
cogliere solo un
frammento: l'obiettivo lo ferma in una luce zenitale per sfidare
oblio o cancellazione.
brano
tratto da: Bell'Italia
Montaperti,
colle della sanguinosa battaglia (1260) vinta dai Senesi e dai
fuorusciti sui Fiorentini, cui prese Parte Dante che l'immortalò
nella commedia
( "Lo strazio e il grande scempio, / che fece l'Arbia colorata
in rosso...'' );
Malamerenda un nome,un ammonimento, oggi soltanto due case e
un cartello,
che ricorda la beffa ferale ( 1331 ) consumata ai danni dei Tolomei,
trucidati
a tradimento dai Salimbeni, che avevano invitato gli antichi
avversari ad un convivio
di rappacificazione. Ecco le due porte invisibili che si aprono
sul microcosmo
lunare delle Crete di Siena, la prima che porta ad Asciano, l'altra
lungo la valle
dell'Arbia, seguendo la Cassia. Siamo ai margini di una plaga
singolare, anomala
per la Toscana in parte desertica, aspra, misterica, scarsamente
popolata.
Risultato di un cataclisma che provocò un'ingressione
del mare nelle terre emerse
del periodo del Pliocene, un milione e mezzo di anni fa, le spettrali
Crete sono
state meta, dal Medioevo a oggi, di artisti, poeti e pittori,
affascinati
dalla tragica, mutevole bellezza del paesaggio: basta che il
cielo sia oscurato
da una nube perché i colori delle ''biancane'' della zona
di Poggiosodo si alterino.
Ed è sufficiente un acquazzone per veder mutare la forma
delle collinette candide
a pandizucchero, e gonfiarsi quelle tondeggianti, icosiddetti
"mammelloni".
Un grande spettacolo naturale va in scena tutto l'anno con programmi
sempre
diversi, un atto ogni Stagione: la primavera, splendente ovunque,
non è la stagione
più eccitante per le Crete che in parte si coprono di
verde; l'estate, riarsa,
si accende di gialli abbaglianti; d'autunno le argille si abbrunano
con le piogge;
l'inverno assume colori irreali, la terra brulla, grigia, ferita
dalle continue
erosioni, compone un quadro apocalittico da carestia medievale.
A visitare questo angolo toscano che sa di Far West non sono
tanto gli italiani,
quanto i tedeschi, gli austriaci, gli olandesi che scrutano,
fotografano,
e poi magari tornano, per assicurarsi casa, bellezza e pace.
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