LE RECENSIONI
DEI FILM ED ALTRO
A CURA DEL PROFESSORE CAPOZZI
ELENCO FILM E ARTICOLI
CHI E' IL MINISTRO GELMINI
LA MINISTRA
GELMINI E LA SCUOLA.
Non si può negare che la Ministra della
Pubblica Istruzione Maria Stella Gelmini non si stia dando da fare.
Anche, e più del Ministro Brunetta, si sta attivando al massimo grado ,
pur se in modi comunicativamente composti, cioè meno “spottati” del
collega della Funzione Pubblica, ma decisamente più determinati
nell’“azzannare alla gola” quella che definiscono la politica di
sprechi che generazioni di politicanti comunisti hanno perpetrato sulla
scuola a sbafo dei contribuenti. Ma chi è e che vuole? Lombarda, ha
superato l’esame di Procuratrice Legale a Reggio Caloria, nonostante gli
attacchi agli insegnanti del sud, perché nella sua città subì
sfortunatamente una bocciatura. Politica di lungo corso, tosta e
determinata, è una grande portatrice di voti: legata al Governatore
della Lombardia Formigoni, proviene come lui dalle file di Comunione e
Liberazione, la grande organizzazione laica di matrice
cattolico-ecclesiale che fiancheggia, pur se autonomamente, la compagine
berlusconiana. Tanto forte e capillarmente diffusa politicamente, quanto
influente, ricco e potente è diventato soprattutto in Lombardia (ma non
solo) il suo “braccio economico”, che è “La Compagnia delle Opere”, una
sorta di mega-associazione di cooperative, imprese, società finanziarie,
alcune in grado di gestire grandi commesse edilizie e complessi
affidamenti nella gestione privatistica o in “project management” della
sanità cosiddetta pubblica. Tanto forte e importante che, proprio a
Legnano, vicino Milano, una vera e propria cittadella ospedaliera, ha
realizzato un’alleanza strategico-affaristica, con l’Opus Dei, l’altra
potente organizzazione del mondo cattolico, tanto influente che è stata
eretta in Prelatura Personale (cioè un Vescovo senza Diocesi
territoriale). A mio avviso, è alla luce di questi dati che meglio
comprendiamo la portata politica delle sue proposte: anzi, si delinea
con chiarezza un piano strategico. E nemmeno è casuale infatti che abbia
iniziato dalle Scuole Primarie. L’abolizione del Modulo Educativo, cioè
dei tre insegnanti che sostituiscono il Maestro unico, ci è stata
spacciata come misura per riequilibrare l’”eccesso” di spesa che
costerebbe all’erario. Né è stata dato non dico una giustificazione
teorico-pedagogica, che sarebbe “pretendere” che un’avvocatessa
imparasse un pò di rudimenti di pedagogia, visto che dirige il Ministero
dell’Educazione….; ma nemmeno si è tentato di “indorare” la pillola con
una qualche sia pur labile indicazione a riguardo. Ci è stata solo
sbandierato, con una ripetitività che sa di arroganza, il limite di
bilancio. In realtà la modularità della didattica nella primaria era un
grosso impaccio per le scuole private, la cui maggioranza sono
religiose; molte sono presenti nella organizzazione economica che fa
capo a “Comunione e L.”. Era un costo aggiuntivo elevato, perché si
pagavano tre docenti invece che uno. Così si spiana ulteriormente e
meglio la strada alla moltiplicazione delle Scuole Paritarie, cioè
private, sostenute dallo Stato, incrementandone i contributi a suo
carico. Da notare, poi, che la Gelmini, non ha mai fatto un qualche
riferimento positivo o un atto di difesa della funzione della scuola
pubblica, che deve garantire l’accesso a tutti, non solo ai poveracci. E
nemmeno ha mai parlato, sia pure per accenni, dell’eccellenza della
nostra scuola primaria, che è un modello organizzativo pedagogico
italiano studiato e apprezzato all’estero: anzi, per la verità, la
Ministra Moratti, sua predecessore, talvolta citava e ascoltava
pedagogisti, filosofi. La Gelmini sembra che navighi in un mare di
nullità: non sa, non cita; parla solo di bilancio. Si compiace di essere
una non intellettuale. La sua ignoranza, vera o strumentale che sia, è
culturalmente inaccettabile ed evidenzia pochezza politica. Subito dopo
la Gelmini ha toccato, dopo la “base”, il vertice dell’istruzione: la
struttura universitaria. Pur dando affermazioni giuste, circa l’inutile
e controproducente moltiplicazione di corsi di laurea e di insegnamenti,
spesso espressione di interessi clientelari politici localistici e/o di
cordate familiari accademiche, le ha usate in maniera brutalmente
provocatoria, formulando un attacco a tutta l’Unversità statale, alla
sua funzione di ricerca e di formazione che, in una società avanzata e
complessa, è imprescindibile. Siccome il suo Capo, Silvio Nostro, aveva
promesso quel demagogico taglio dell’Ici sulla prima casa per tutti
(anche ai casolari di lusso di campagna), dalla coperta dei fondi a
disposizione ha “tirato” dall’Università, limitandone i fondi. E lei,
invece di razionalizzare la spesa, renderla più efficace, “giù” ad
attaccare “l’eccesso” di spesa degli atenei, che in realtà non esiste,
in quanto c’è stata a politica di riduzione dei fondi decisa da Berl. In
realtà, negando i fondi, si limita l’ampliamento dell’utilizzo di
ricercatori; ovvero si blocca il turn over accademico. E’ una politica
che fa di ogni erba un fascio, non aiuta a individuare le vere zone di
spreco, d’inefficienza: anzi le incrementa, perché limita la
possibilità di ricambi generazionali. Ma la ciliegina sulla torta è la
volontà di rendere le Università delle Fondazioni, ovvero privatizzate e
“aperte” a interventi finanziari. E’ chiaro che è un regalissimo non
solo alle industrie, che avranno la possibilità di attingere a serbatoi
di giovani da formare, a costi relativamente contenuti, al meglio
possibile, e secondo le loro più strette e specifiche esigenze; ma anche
all’Opus Dei che nell’ambito universitario e dell’alta qualificazione, è
fortemente già presente. E le altre facoltà non “baciate” dalla fortuna
(tipo quelle umanistiche e di diritto)? O faranno letteralmente la fame,
o saranno iperesclusive scuole di formazione espressamente create da
potenti (neomedievali) corporazioni professionali.
GOMORRA
“GOMORRA”
di MATTEO GARRONE; ITA,08. 5
storie d’ ‘O Sistema tra Secondigliano e il Litorale Domitio:
Totò, tredicenne, da ragazzo di salumeria diventa adepto e strumento di
un’esecuzione; due balordi che vogliono fare come “Scarface”; Ciro, un
impiegatuccio del crimine preso in mezzo alla faida di Scampìa; un
cinico e accattivante piazzatore di rifiuti tossici industriali; un
sarto di griffes false che dà lezioni di haute couture ai cinesi.
Dall’omonimo testo di R.Saviano, come ha detto il regista, il film ha
inteso coglierne “il clima, le immagini, le dinamiche”. E’ stato
progettato dal produttore D.Procacci, di “Fandango film”, che comprò i
diritti cinematografici del libro ancor prima che fosse pubblicato: il
che getta luce ulteriore su questo personaggio interessante e poliedrico
dell’attuale cinema italiano. D’altronde sarebbe stato impossibile
sintetizzare un’opera tale: quindi la scelta di “drammaturgizzare”
alcuni spunti ivi presenti, sia pur in forma di accenni, è da
considerarsi felice e ampiamente riuscita. Il film non è un
documentario. E’ un’opera di grande risalto stilistico. Il regista è
anche cosceneggiatore del film insieme allo stesso Saviano, U.Chiti,
M.Gaudioso, che ha collaborato anche ad altri suoi film, ed altri. Ha
elaborato una ricerca formale molto sofisticata, in cui il ricorrere
alla camera “a spalla”, non è solo un vezzo per farlo sembrare “vero”,
ma per farci entrare nel cuore dell’umanità disumanizzata di queste
persone già morte ancor prima di essere colpite in uno dei tanti episodi
di ammazzamenti reciproci. Essi sono figure che accettano
consapevolmente di vivere solo come cani rabbiosi, senza darsi alcuna
ragione o perché. Il regista non dà alcuna spiegazione morale, osserva
con attenzione, senza supponenza o distacco emotivo, i fatti che sono
sotto gli occhi di tutti: l’unico che è in grado di allontanarsi, è il
giovane collaboratore di Servillo, lo fa perché è uno “normale” che
credeva di avere ottenuto un lavoro come tanti. In realtà lo sguardo del
regista, che ricorda quello di F.Rosi, mette in luce il degrado
complessivo che è, insieme, causa ed effetto dello strapotere della
Camorra: la visione delle “Vele” di Secondigliano, non è solo squallida,
è titanicamente allucinante; ha un impatto emotivo sulla nostra fantasia
che la rende unica. L’uso del montaggio assai elaborato fa emergere il
talento complessivo degli attori: G.Imparato sospeso tra paura e ignavia
esistenziale; S.Cantalupo, il sarto che vede nei cinesi una possibilità
di staccarsi dalla schiavitù; M.Nazionale, accorata ma lucida madre. Ma
soprattutto T.Servillo che dà le sembianze fintamente simpatiche al
peggior perfido del film, l’inquinatore.
IL MELO
PUCCINI,
IL MELO’ E UN FILM.
Quest’anno si celebra il 150enario
della nascita del grande compositore, avvenuta a Lucca, ma celebrato
soprattutto nella “sua” Torre del Lago, sulla Versilia, dove eresse
stabile residenza dal 1891 fino al 1924, anno della sua morte. Giacomo
Puccini, compositore sempre amatissimo dl pubblico, ha avuto una
contrastata fortuna critica; egli stesso era un personaggio dalla vita
privata movimentata. Soprattutto nei confronti delle varie donne, al cui
fascino non seppe resistere. Dai tratti fisici piacevoli, gran
conversatore e uomo di mondo, Puccini, confortato anche dall’enorme
successo anche economico del suo teatro, non si sottraeva a diverse
appassionate ammiratrici, come la musicologa e cantante lirica inglese
Sybil Beddington-Seligman, affascinante e affascinata dal compositore
italiano, quantunque sposata; o la bavarese Josephine Von Stengel;
oppure ancora come la “tosta” e spregiudicata Giulia Manfredi, da cui
ebbe un figlio. Come anche fece scandalo la sua relazione con una
diciottenne sua entusiasta fan, conosciuta come Corinna. Da dire che il
Puccini era sposato con Elvira Bonturi, che era stata sua amante prima
che rimanesse vedova. Ma l’episodio più clamoroso fu il suicidio di una
giovane cameriera di casa Puccini, Doria, cugina di Giulia Manfredi,
accusata ingiustamente di essere l’amante del suo datore di lavoro. Fu
condannata, per istigazione al suicidio, la terribile Elvira, la cui
gelosia non dava tregua. Fu una storia piuttosto misteriosa, dai
contorni anche sordidi, perché non mancarono ricatti operati nei
confronti del Maestro da parte di più persone legate all’ambiente
familiare, tra cui la figlia di primo letto di Elvira, e, forse, la
stessa Giulia M. Insomma, un bel brogliaccio, fatto apposta per un film.
Che infatti è in preparazione, diretto e sceneggiato da Paolo Benvenuti,
dal titolo “Puccini e la fanciulla”. Il regista, però, non è un
corrivo autore di fiction, ma un intellettuale, austero e rigoroso
ricercatore di immagini e atmosfere narrative. Ed è anche di Pisa:
quindi non lontano dalla Versilia, e dalla memoria locale della leggenda
pucciniana che ha avuto come scenari quei posti. Ma c’è un mistero
pucciniano? E non voglio riferirmi, se non marginalmente, al tormentato
e oscuro episodio del suicidio, ma al complesso della sua vita. Ritengo
che la risposta vada cercata nel fatto che la sua emotività fu come
sommersa dalle “ragioni” profonde della sensibilità femminile; il suo
esserne indifeso lo metteva in relazione profonda col loro mondo. Il suo
complicato rapportarsi alle donne lo fa sperimentare su se stesso la
forza dei sentimenti, la loro apparente linearità, ma incontenibile
potenza. Come si possa essere vittime di questa medesima componente. La
fece divenire una vera e propria dimensione esistenziale. La riportò,
trasformandola in cifra stilistica-espressiva, tutt’intera nella sua
musica. A mio avviso fu lui il vero inventore di quella modalità
linguistica moderna che oggi chiamiamo “Mélò”. La parola proviene da
“Melodramma”, la cui invenzione risale al seicento; ma la cui messa a
punto come codice e genere musicale appartiene alla cultura del
settecento, e trovò la massima e più sistematizzata espressione
nell’ottocento italiano (soprattutto Verdi; ma anche Giordano, Rossini,
Bellini ecc.) ed europeo (Strauss, Bizet, ecc.). Puccini, nel tardo
ottocento si sottrasse con decisione sia all’influenza verista che
decadente; e quantunque vi siano tracce dell’uno e dell’altro indirizzo,
elaborò uno stile musicale molto personale. Egli non fu compreso dai
critici del tempo, perché “sembrava” tradizionale, ma non seguiva Verdi
né Rossini. Addirittura vi fu chi lo paragonò al tardo romanticismo
deteriore di poeti, allora di gran voga come il Prati e l’Aleardi, ma di
scarsa qualità, trovandolo stucchevole. Invece, quale fu il genio
pucciniano? Egli costruì delle opere di rigorosa struttura sia sinfonica
che librettistica: era lo stesso Puccini che dava precisissime
indicazioni ai suoi pur bravi e famosi librettisti, Luigi Illica &
Giuseppe Giocosa, coi quali costruì diversi capolavori. Come anche fu
importante la funzione di Giulio Ricordi, l’editore, ma anche, diremmo
oggi, co-produttore del suo teatro, che lo sostenne sempre, non solo
economicamente, ma anche amicalmente e culturalmente. Puccini non solo
dava spazi ai sentimenti, ma rendeva il suo dire musicale-parlato
strettamente funzionale all’esplicitazione totale di quegli stessi. E
per sentimenti è da intendersi proprio il senso “dell’amore in sé”,
senz’alcun’altra mediazione: quella manifestazione che è a un passo dal
diventare sdolcinata e/o gratuita, ma, per il controllo rigoroso
dell’espressività, coglie il diapason dell’emotività giusto al limite, e
non va oltre. Basti pensare ai “Solo” di “Madame Butterfly” , o
al rigore della tessitura psicologica di “Manon Lescaut”. Ed è
l’industria del cinema hollywoodiano che ha meglio reintepretato e resa
universale questa declinazione di genere comunicazionale : basti pensare
ad autori come Douglas Sirk, e al suo cinema “larger than life”
(“più grande della vita”).
IL DIVO
“IL DIVO”
di PAOLO SORRENTINO; ITA,08.
1992: ultime scene del crepuscolo del “Divo Giulio” per eccellenza, il
sette volte Premier Andreotti, alla vigilia delle elezioni per la
Presidenza della Repubblica, da lui ambitissima. Gli verrà preferito
Oscar. L. Scalfaro, con Tangentopoli incombente e per lui i vari
processi per mafia. A Cannes 08, insieme a “Gomorra” insignito
del “Grand Prix”, il film di Sorrentino ha ottenuto il “Premio della
Giuria”. I due film sono molto complessi e visceralmente legati alla
realtà italiana; ma sono riusciti ad affrontarla con stile originale. Il
pericolo del film su Andreotti, è che sarebbe stato facile andare sul
grottesco o sul comico senza volerlo, essendo il personaggio di una
complessità ed enigmaticità unica. Il regista napoletano, anche
sceneggiatore, si è posto di fronte al “mistero” Andreotti con puntiglio
di ricerca documentaria, ma anche con la voglia di esprimere un giudizio
complessivo. Non è stato nicodemico. Ha chiaramente preso posizione,
però non in modo moralistico. L’ha fatto scaturire da una serrata
documentazione storica e politica sul fare, suo e quello della sua
corrente; e di come la strategia era volta ad un unico titanico
obiettivo: il potere; ottenerlo, conservarlo e preservarlo. Il “divo”
così chiamato sottovoce nei salotti, si è dato delle giustificazioni
etico-filosofiche circa il “male di cui si è dovuto servire per ottenere
un bene maggiore”, lui cattolicissimo, con tipica logica controriformata;
ma è una logica che riassume, non banalmente, il suo operare che si
serve della mafia, dei vari Servizi di non specchiata democraticità. Ma
il regista non ne fa un mostro. L’ambiguità, il cinismo, la bassa
strumentalizzazione, anche nel corso della prigionia di A.Moro, sono
osservate fino alla soglie della sua personalità. Di fatto risultano
come penetrate dal silenzio di una notte fonda, più che una semplice
nebbia, che su di sé, sulle sue ragioni, Andreotti ha saputo produrre, e
in cui sembra immerso e protetto. Egli combatte con energia le accuse
sulla sua mafiosità; dalle quali non è stato riconosciuto innocente, ma
ne è uscito indenne solo perché prescritte. Il regista costruisce,
grazie allo straordinario protagonista, T.Servillo una personalità
misteriosa, la cui apparente immobilità, è lo specchio appannato di
un’anima fortemente dilaniata, che si agita col forsennato deambulare
notturno fino a sfinirsi; che è attanagliato dalle emicranie. Ma che non
cede nulla all’esterno: nemmeno alla sua adorata consorte, che
all’improvviso,come uscendo da un sogno, di domanda: ma chi è veramente
costui?, che nulla concede all’affetto e al “fervore umano”, come disse
A.Moro dalla prigionia in una lettera.
IL RESTO DELLA NOTTE
“IL RESTO DELLA NOTTE”
di FRANCESCO MUNZI; ITA,08.
Torino: una domestica rumena allontanata da una ricca casa, perché
sospettata di furto, innesca una vicenda, con incontri tra immigrati e
locali balordi, dagli esiti drammatici. Il regista è autore di una
convincente opera prima, “Saimir” (05), anch’essa sulle tematiche
dei migranti. Alla sua seconda, pure scritta da lui, dimostra un
controllo narrativo, sia in sede di scrittura che di direzione globale
davvero notevole. E’ un film corale. Ha una storia che è l’elemento
unificatore, ma trova il tempo e l’energia narrativa per illustrare in
modi scarni ed efficaci, attraverso l’attenzione ai i vari personaggi
che ne sono coinvolti, altri spaccati di vita. Il film prende l’avvio da
una ricca casa, isolata in collina: e lì si chiude, in un perimetro
descrittivo di ferrea funzionalità. Questa circolarità fa pensare al
grande regista Krzysztov Kieslowski, anche se gli intenti sono del
tutto diversi. Mentre il polacco metteva in evidenza i conflitti
riguardanti la dimensione profonda dell’umanità, spesso in una tensione
di compressa spiritualità, Munzi, coglie il dramma dell’inadeguatezza
del vivere, in una dimensione che è si anch’essa esistenziale, ma che si
confronta con la concretezza invasiva della modernità globalizzata. Con
la sua falsa idea di ricchezza diffusa, genera una violenza che c’impone
di fare nostri elementi di consumo di cui non abbiamo realmente bisogno,
anche se ci sono imposti. E questa origina l’aggressività contro gli
altri e contro noi stessi, o l’infelicità continua, la disperazione, gli
stati d’ansia. Tale è il senso dell’opera, affidato al dire del prete
all’inizio del film, da cui la ricca padrona di casa, sola, egoista e
infelice, scappa. Tuttavia all’intento morale non corrisponde, per buona
sorte del film, alcun moralismo o edificante buonismo. Gli eventi, e le
impressioni che ci danno dei personaggi che li attuano, si susseguono
nella loro fatale scansione, in cui il mal-fare convive con sinceri
sentimenti cui non sanno dar voce se non in modi estremi, spesso
autodistruttivi, come fa il padre del bambino. Ma verso di loro non c’è
giudizio, ma uno sguardo che si eleva dalla momentaneità, anche se
colpevole e perfino falsa, e cerca di vedere più a fondo in queste
anime, nella loro precarietà di migranti in un contesto difficile; ma
anche i nostrani sono tutti, senza eccezione alcuna, scombussolati dal
vivere, che subiscono. Questa “lontananza”, che non è distacco o
indifferenza verso il “male di vivere”, è, invece, a mio avviso, uno
sguardo registico molto più maturo e profondo: perché, come R.Bresson,
scava nel cuore e fa riemergere le correnti profonde della solidarietà,
prima nascoste.
LA MUMMIA 3
“LA MUMMIA-LA TOMBA DELL’IMPERATORE
DRAGONE” di ROB COHEN;
USA, 08. Ad 11 anni dall’interevento in Egitto, Rick e sua moglie
conducono un’esistenza tra gli agi: è il loro figlio Alex, armai
ventenne, che ha lo stesso spirito del padre. Insieme affronteranno il
redivivo imperatore cinese e la sua invincibile armata di terracotta
alla conquista del mondo. A sei anni dal II, nel III episodio di “La
Mummia”, è rimasto solo il protagonista, l’ironico B.Fraser, dei primi
due e il simpatico cognato snob J.Hanna. Mentre è cambiato il regista,
che non è più S.Sommers, che ne era anche sceneggiatore; ma soprattutto
non c’è più la pimpante, ma con un sottofondo di finezza inglese, R.
Weisz, la moglie, sostituita da M. Bello, altrettanto tosta, ma meno
elegante. Però “la barca va”, e lo spettacolo funziona. Nel senso che il
regista chiamato, ha svolto bene la mansione affidatagli. Rick non era
un banale epigono di Indiana Jones. Il suo fare iperdinamico riprendeva
l’ironia del personaggio spielberghiano, ma si concentrava assai più sul
còtè fantastico, enucleando dei personaggi “cattivi” e di coantagonisti,
su cui si condensava una certa qual forza espressiva. Nei primi c’era il
riuscito personaggio Imhotep, l’attore sudafricano A.Vosloo e la sua
torrida storia d’amore con Anck-Su-Namun, la bellezza conturbante e
potente presenza scenica di P.Velazquez . Qui, inquadrato da un
antefatto ambientato un millennio di anni A.C., c’è l’ambizioso
Imperatore Han, che aspira a conquistare il mondo anche grazie alle
Forze Oscure; ma ne è impedito dalla “Strega buona”, che vuole
vendicarsi di Han, perché le ha ucciso il marito. E si tratta di due
acclamati divi cinesi internazionali, Jet Li e Michelle Yeoh, di grande
incisività, che danno ai loro personaggi un indubbio carisma. Inoltre il
regista ne cura con particolare efficacia visiva la “presentazione”.
Perciò, quando avviene lo scontro tra i protagonisti e i vilains di
turno, non è solo un atteso scontro con fasci di effetti speciali, ma
una partita che ha dei presupposti; si lascia pertanto seguire con
partecipata attenzione. Vi è poi nel film un gioco di ricercati rimandi.
Il primo è la ricostruzione di Shangri-La, la mitica città nascosta tra
le montagne himalayane, dove c’è la Fontana dell’Eterna Giovinezza,
ricostruita con cura grafica e fascinazione molto poetiche: ricorda il
capolavoro pacifista “Orizzonte Perduto” (37) di Frank Capra, lì
ambientato. Lo scontro, con dei veloci ma divertenti gags, tra i
guerrieri ex terracottari e l’armata degli scheletri, è un richiamo a
“L’Armata delle Tenebre” (92) di Sam Raimi, geniale ripresa, a sua
volta, dei primi cartoni della Walt Disney; come anche gli Yeti sono un
omaggio al cinema horror degli anni 40.
BURN AFTER READING
“BURN AFTER READING-A PROVA DI SPIA”
di JOEL & ETHAN COEN; USA, 08.
Ozzie è uno spompato agente CIA licenziatosi. Un suo memoriale va nelle
mani di una coppia di istruttori di aerobica, che tentano di ricattarlo.
Ma inizia una sarabanda tra loro, la CIA, i Russi, mogli e mariti
fedifraghi. Nonostante che facciano parte del main stream hollywoodiano,
avendo vinto pure un Oscar, bisogna dire che il cinema di questi
fratelli terribili non è assimilabile a quei valori rassicuranti cui ci
hanno abituato gli Usa. Qui c’è una critica sferzante, assolutamente
senza appello, sull’incapacità da parte della “Company” di gestire una
qualche grana. Anzi: più vogliono mettere delle toppe, più creano altri
casini. Alla fine è meglio che i vari soggetti vadano come meglio
credono, facendo a meno del loro operato. Qui “sembra” un film di
spionaggio; ma è solo la cornice. In realtà c’è uno spaccato al vetriolo
su segmenti della società americana: tutti tradiscono tutti; soprattutto
nell’ambito familiare. La famiglia è una specie di gabbia, dove tutti,
appena possono, cercano di scappare. Ma in cui non c’è la minima
solidarietà con chi diviene debole o s’impoverisce: subito lo si tiene
lontano, come un appestato. Soprattutto, deve stare lontano dai soldi
della coniuge: perché è evidente che i soggetti forti sono le donne. Non
solo sono più decise e determinate, e fanno meno chiacchiere rispetto ad
un problema, prendendo esse saldamente in pugno l’iniziativa; ma possono
essere più ciniche e cattive di questi maschioni narcisisti che giocano
alla guerra senza avere la minima idea di dove si possa andare a parare.
Non a caso, nel film, sono le uniche che sopravvivono, ottenendo, se non
la felicità e l’amore, almeno la possibilità di ottenere quanto
desiderato. Il film va avanti come una commedia nera, sovvertendo, con
cinica, allegra e anarchica anticonvenzionalità narrativa, ogni nostra
aspettativa sui “buoni” e i “cattivi”. Lì si mostra che sono tutte
persone stupide: ma è una stupidità collettiva; addirittura, di
un’intera nazione. Perché tutti si intromettono in ruoli che non sono
propri, a partire dalla Cia che dovrebbe difenderli dalle “minacce
estere” e non sa nemmeno affrontare il singolo caso di un suo agente. E’
chiara la critica al modo balordo con cui la Compagnia ha affrontato le
gravi crisi del nostro secolo: Iraq e Al Qaeda in primis. E’ questo il
terzo titolo della trilogia della stupidità, tutti interpretati da
G.Clooney. E’ uno “Sciocchezzaio” di articolata complessità, che
coinvolge e sconvolge l’intera vita sociale americana: come nel
capolavoro flaubertiano “Bouvard e Pécuchet”, è la somma della
società che è tirata in ballo, perché la stupidità è il vero contagio,
la sua cultura di base.
BERLUSCONI, “DIVO “ POPOLARE.
Tra le tante caratteristiche della
tempestosamente esuberante personalità del nostro Presidente del
Consiglio, c’è il suo profondo, viscerale legame che sa creare con le
masse di coloro che accettano il suo fare e seguono il suo dire. Egli
ama profondamente “essere amato” dalle masse festanti: avverte, come in
una specie di ebbrezza, la contiguità fisica di questo legame. Figura
molto complessa, sicuramente dotato di una notevole energia
intellettuale e personale, mostra il suo carisma in modi non affettati.
Egli comunica fondamentalmente se stesso: è “lui stesso” il messaggio da
far passare. In realtà il suo è un calcolo preciso. Così facendo,
esprime la “sua” politica che non ha bisogno del partito tradizionale.
Invece, la politica berlusconiana è un fare che si adegua alla logica
degli share televisivi: egli cerca il consenso su di sé, sulla sua
persona, non la vittoria di un programma. Che egli non ha. Anzi
apertamente rifiuta tutti i riti della politica tradizionale. Nessuno
mai l’ha sentito fare apprezzamenti o semplici riferimenti all’attività
di organi dello stato diversi da quelli dove LUI è presente, eletto dal
”suo” popolo, come ad esempio la Corte Costituzionale. Anzi, se fosse
per lui, egli riscriverebbe la Carta Costituzionale, ponendo se stesso,
come iniziatore di un nuovo corso storico: farebbe come Putin. Perciò,
ad esempio, non ha mai riconosciuto la fondazione storica della
Repubblica: e non è senza ragione che mai una volta che abbia parlato di
Antifascismo, o di Resistenza. Questi eventi non sono cianfrusaglie
storiche, ma sono alla base della creazione stessa della Repubblica, ne
sono i fondamenti. E se lo fa, o è per sminuirne la portata, perché,
per lui, l’unica legittimazione di “tutte” la Istituzioni dello stato è
il voto plebiscitario: non riconosce che la struttura dello stato ha
bisogno di bilanciamento di poteri; oppure è per attaccarli: come nella
sua furiosa, costante, ossessiva diatriba contro la magistratura. Ha
solo interessi. Il consenso è totalmente staccato dal successo di alcune
determinate politiche: egli le cambia, come si cambia l’abito ( che sono
sempre dei “completini” Caraceni). La Lady di Ferro,la Conservatrice
Thatcher, premier inglese per 12 anni, era latrice di una logica
politica: apprezzabile o meno, era la personificazione di una modalità
precisa, coerente e attesa. Silvio è un Re. Il suo Programma ha aspetti
di pura demagogia: come l’annullamento dell’Ici; ma c’è poi la
ministressa Gelmini che vuole tagliare a tutti i costi sulla scuola; o
Brunetta che vuole fare prigionieri nelle loro stanze i poveri statali,
senza che combinino nulla di diverso da prima. Quindi questa dovrebbe
essere una severità iper-liberista, in nome della spietata logica
meritocaratica. Mentre poi la cordata di salvataggio dell’Alitalia è
un’accolita di “amici”, nuovi e storici di B. che aspettano di mettersi
a banchettare sulle spoglie della nostra ex-Compagnia di bandiera, senza
spendere un centesimo, con i debiti a carico dello stato. Oppure la
messa dell’esercito nelle strade, che ha una funzione più coreografica
che altro: a Napoli stanno nelle zone bene, già sotto vigilanza;
o il reato (ora, su precisa richiesta della UE, abolito per i cittadini
comunitari) di ingresso clandestino, senza che si accompagni una
politica seria di programmazione dei flussi di manodopera
extracomunitaria necessaria, in talune zone, all’economia del nostro
paese. Si parla di sicurezza: ma poi si vuole limitare fortemente la
facoltà dei magistrati inquirenti di ordinare le intercettazioni
telefoniche. Senza queste tutti, ma proprio tutti, i reati di corruzione
non sarebbero mai stati scoperti: è questo che vuole B., l’impunità per
reati che potrebbero lambire la sfera della politica, degli interessi
della Casta? Con ciò abbassando il livello della guardia antimafiosa. Né
si parla di sveltire i processi, investendo soldi nell’amministrazione
della giustizia; invece si dà addosso ai magistrati, dai quali il B. è
il “più perseguitato”. Si parla di attribuire una maggiore autonomia
d’investigazione alla Polizia Giudiziara, non rendendo “immediata” la
notitia criminis al magistrato, com’è ora. Il che vuol dire che
avremo tre polizie e più (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di
Finanza, Guardie Forestali, Polizia Penitenziaria), che obbediranno alle
logiche dei politici che controllano i rispettivi Ministeri di
appartenenza: col risultato che l’azione investigativa non sarà più in
mano alla Magistratura ma sarà fortemente filtrata dai vari interessi in
campo. Come si vede, sono segnali operativi contraddittori, che non
rimandano a nessun programma specifico. Ma a due disegni: uno più
evidente, l’altro meno. Il più visibile è che Silvio Nostro, e tutti i
suoi, procede sempre come in un grande spot senza fine: tutti annunci
mirabolanti, che lo mettono alla ribalta in modi continuativi;
soprattutto rassicuranti e taumaturgici. “Ecco che è arrivato il Premier
che ha tolto per miracolo la munnezza dalle strade”. Purtroppo Prodi non
ha avuto la stessa acuta, doverosa sensibilità rispetto alla gravità
dirompente di questo schifo. L’altro piano, inconfessabile, è che siamo
di fronte ad un golpe permanente.
GLI USA E NOI DOPO IL CRACK FINANZIARIO.
Il crack che si è abbattuto
sull’insieme del sistema bancario-finanziario Usa è di un’ampiezza
gravissima e senza precedenti. Da dove è nato? Dall’esposizione
debitoria delle banche rispetto ai crediti concessi al consumo: in
particolare ai mutui erogati ai comuni cittadini, senza garanzie di
sorta: i cosiddetti “Sub Prime”. Cioè: la gente andava
nelle banche, nelle finanziarie chiedeva un prestito consistente per
acquistare casa, anche a costi medio-alti, e queste glielo davano senza
fare particolari inchieste sulla solvibilità dei richiedenti.
Chiaramente era un prestito ipotecario: nel senso che l’unico “pegno”
era la l’ipoteca sulla casa stessa. In un periodo di costo del denaro,
cioè con un tasso di sconto, tenuto basso ; con uno spread, l’interesse
che la banca chiedeva sulla singola operazione, relativamente non esoso,
ecco che si era creato un giro di “allegra” circolazione di contanti
nominale, cioè tutta e solamente a debito, senza
che vi fosse, nella sottostante economia reale, una
produzione-circolazione di merci e di servizi collegata. Le case erano
offerte sul mercato a prezzi crescenti, perché erano sorrette da una
crescente domanda. Era una vera e propria giostra. Ma tutta fasulla.
Essa era di fatto incentivata dal sistema finanziario-bancario,
nell’indifferenza del Governo Federale, che non è mai intervenuto. Ma
qui gioca l’ideologia iper-liberista della Presidenza Bush “o’
piccirillo”: lui e i suoi sodali Cheney (da molti considerato la
vera testa pensante della Presidenza)-Rumsfeld-Wolfovitz, impegnati a
trovare nemici adeguati allo sforzo bellico nella cui industria avevano
consistenti interessi personali, davano un profilo molto basso alla
Governance dell’economia. E trovavano sponda politica nel responsabile
precedente della FED, la potente autorità bancaria centrale Usa,
D.Greenspain: da lui dipendeva la decisione sul costo del denaro. Gli
Usa, giova ricordare, è l’unico paese al mondo il cui debito pubblico,
i “Treasure Bond”, è pagato non dalla circolazione interna alla
nazione, ma da tutto il mondo. Ciò perché il dollaro è la moneta
principe degli scambi mondiali, è dovunque accettato, e ci sono riserve
di dollari,a trilioni, presso tutte le nazioni: la più alta quantità è
in Cina, ad esempio. Qualche economista americano, in particolare
l’ebreo-iraniano Nouriel Roubini, docente alla New York
University, aveva avvertito che era tutto un pericoloso bluff: come da
noi lo stesso Padoa-Schioppa, il Ministro prodiano dell’Economia, aveva
messo in guardia sull’eccezionale incertezza che gravava su questi
scambi drogati. Ma, mentre da noi c’era stata attenzione a queste voci,
in Usa erano stati tacciati di “Pessimismo antipatriottico”, dagli
stessi “Organi di Controllo” finanziario sul credito, e fatti oggetto di
campagne di stampa irridenti. Da quegli “Organi”, poi, emanazione delle
stesse società finanziarie che in teoria, avrebbero dovuto controllare.
Quindi è successo ciò che c’era da aspettarsi: il basso tasso del
credito ha fatto rialzare, in termini nominali, il costo del petrolio.
Perché i produttori di petrolio alzavano il prezzo per recuperare la
svalutazione in termini reali del dollaro. Ciò ha portato un potente
fattore d’inflazione e d’impoverimento nell’economia reale del paese. E
molti, che avevano il mutuo, senza contare tutti gli altri indebitamenti
da, per esempio, Carte di Credito a Debito, non ce l’hanno fatta più a
pagarlo. A questo punto, la giostra si è interrotta, e ha invertito il
senso. La gente non paga i debiti: le banche si prendono le case
ipotecate, che devono essere rimesse in vendita. Siccome le case sono
tantissime, messe all’asta tutte insieme, ecco che il mercato
immobiliare crolla miseramente, e tutto quanto ad esso collegato. Nel
frattempo, le banche & simili si erano inventate una gran furbata:
avevano venduto e rivenduto tutti questi debiti, creando delle
obbligazioni speciali, chiamate “strutturate” (“Structurated Bond”),
che, sulla carta, avrebbero dato lucrosi interessi. Queste erano state
messe in vendita da primari istituti finanziari, da importanti banche
d’affari e commerciali, e “buttate” in modi truffaldini anche nei Fondi
Pensione: ovviamente generando cospicue commissioni a tutti quelli che
le vendevano, in totale malafede. Finchè i debiti venivano onorati, gli
interessi rispondevano al titolo: ma appena si è andati ”nei verbi
difettivi”, ecco che quelle obbligazioni, “Junk Bonds” (Titoli
spazzatura) si sono rivelate per quelle che erano:carta straccia.
Un’immane truffa ai danni dei risparmiatori. E da qui è scoppiata
l’apocalisse. Si è generato un corto circuito di sfiducia che ha
travolto alcune banche; ma le avrebbe travolto tutte: perché
tutte “ci avevano dato dentro” a queste truffe legali. La gente, in
preda al più classico panico, ha cercato di tornare in possesso della
propria liquidità, conservata presso le banche: e ciò ha peggiorato la
crisi di sfiducia. A questo punto lo Stato federale, sullo scorcio del
Settembre 08, ha deciso di accollarsi tutti i crediti in sofferenza
presso le banche, salvandole dal fallimento: se questo fosse realmente
avvenuto, avrebbe creato una terrificante crisi a livello mondiale, per
un micidiale effetto domino. E avverrà con un esborso di 700mila
miliardi di dollari: ma credo che si arrivi a superare il trilione di
dollari. Una tale quantità di denaro in circolo non può che abbassare,
nel breve periodo, il tasso d’interesse, quindi il valore del dollaro:
per cui, nel mentre si rivaluterà l’euro, crescerà il costo del
petrolio. Ciò porterà all’effetto combinato, per noi, di stagnazione,
perché si ridurranno le possibilità di sviluppo per l’alto costo del
denaro; e di inflazione, perché il petrolio farà crescere i prezzi.
PARIGI
“PARIGI” di CEDRIC KLAPISCH;
FRA, 08. A Parigi,
Pierre, giovane ballerino è in procinto di affrontare una rischiosa
operazione. Inchiodato in casa, accudito dalla sorella, osserva le vite
dei suoi vicini. Il regista non è nuovo a opere corali, da lui stesso
sceneggiate, sia in “interni” familiari che di casuale aggregazione
giovanile: come nel divertente “L’appartamento spagnolo” (02),
tra l’altro con lo stesso protagonista R.Duris. Come anche in opere che
mettevano in rilievo la vita di un singolo quartiere parigino, come
nella riuscita opera prima “Ognuno cerca il suo gatto” (96). Nel
presente film l’ottica si è allargata all’intera città, “letta” con uno
sguardo amorevole, ma non priva della consapevolezza che, nella vita
quotidiana, sconforti, delusioni e perfino drammi, si svolgono con la
stessa leggerezza di storie a lieto fine, o aperte, in ogni caso, alla
speranza. Il protagonista vede il suo destino come ad un passaggio
pericoloso: ed è colui che ha meno cose da raccontare; però è una
presenza avvolgente, nel senso che filtra e fa da “commento vivente”
alle storie nel loro insieme . Esse nascono nella casualità più totale:
e il regista, complessivamente, è riuscito a trattenere
quest’impressione collettiva di freschezza. Quella che mi ha più
colpito, e che da sola potrebbe dare valore al film, vede come
protagonista l’attore F.Luchini, un maturo prof universitario che non
solo tradisce la sacralità incartapecorita della ricerca storica
universitaria per darsi alla divlugazione tv, e lo fa solo per soldi; ma
s’innamora come un ragazzino della bellissima studentessa, che pur
cedendo alla sua corte, ha ben altro per la testa. E’ ricco di
sensibilità, dalle più intense manifestazioni d’amore, come quando si
esibisce in un esilarante numero di ballo “anni 60”, alla più scoperta
disillusione. Ma accetta il dato con grande dignità, e composta
sofferenza. Intensa, ma meno accattivante, è la riscoperta dell’amore
operata, grazie anche alle spinte del fratello che accudisce, nel
personaggio di J.Binoche, attrice di grande carisma. Tanto più tale,
perché recita in sottotono: qui si vede la grande intelligenza delle
attrici francesi, che sanno essere perfettamente in parte, con umorismo
e bravura anche quando non fanno le E.Duse. Così anche valide sono le
vicende che hanno come oggetto i vari operai del mercatino: in
particolare gli incontri tra l’ex moglie di uno di loro e il collega del
marito. Il regista tratteggia anche personaggi del milieu operaio: e lo
fa con una certa ruvida veridicità. Meno convincente è l’incontro di
costoro con le indossatrici. Mentre assai azzeccati sono quei “pezzi”
d’Africa proposti, che ormai fanno parte integrante del quadro
metropolitano.
TEX HA 60 ANNI.
Il 30 settembre 1948, per la prima
volta andò nelle edicole il fumetto “Tex”. Al modico prezzo di L.15, il
suo formato era a striscia rettangolare, come uscivano molti altri
fumetti per ragazzi: “Capitan Miki”, “Il Grande Blek”,
“Kinowa”, ecc. Esso si presentava sempre con la vivace e
accattivante copertina a colori, caratterizzata dal logo che è rimasto,
felicemente, identico negli anni fino ad oggi. Formato che è stato
trasformato in quello “a quaderno”, con cui esce ancora oggi, circa una
decina di anni dopo. Il creatore del personaggio, autore di gran parte
delle storie è stato il suo editore Gian Luigi Bonelli; mentre
l’idea grafica, gli spazi visuali e tutti i disegni erano del
leggendario Aurelio Galleppini, in arte Galep.
Insieme hanno dato vita ad un sodalizio che è durato tutta la vita. Oggi
è il figlio, Sergio Bonelli Editore, continuatore, col suo nome,
dell’attività del padre: egli stesso è tra i disegnatori ed autori delle
storie del personaggio. Personalmente preferivo i sopra tre
citati. Tuttavia leggevo “con deferenza” Tex. Voglio dire: rispetto al
West favolistico di Capitan Miki o i grandi boschi di Blek Macigno, e il
suo 700 così poco attendibile, c’erano dei dati di Tex che colpivano fin
da subito: la sua dimensione spazio-visuale e il modo di trattare gli
Indiani. Le sue gesta erano per lo più ambientate nelle zone
semidesertiche del New Mexico, dell’Arizona e spesso le paludi della
Louisiana. Non i grandi spazi, quella vasta zona centrale degli Usa
compresa tra le due coste, che è chiamata “il Grande Cielo”, che fu
anche titolo di un classico romanzo, anzi il capolavoro della
letteratura western di A.B.Guthrie, e del film eccellente trattovi di
Howard Hawks del 52. Non gli scenari che vedevano come protagoniste le
grandi “nazioni” guerriere come i Lakota o i Cheyennes, che hanno fatto
l’epopea del grande cinema western; ma quelli caratterizzati da popoli
forse meno bellicosi, ma portatori di una civiltà culturale più
avanzata, in generale, come i Seminole e i cosiddetti Pueblos; oppure
specialmente nella elaborazione delle tematiche religiose come i
Navajos-Hopi. Popoli che, peraltro, anche grazie ad un livello più
elaborato di coscienza identitaria, non solo guerriera, hanno saputo
meglio resistere ai processi di massificazione-distruzione operata dagli
Yankees. Scenari per lo più poveri di vegetazione: dove però le insidie
erano ancora più pericolose e inaspettate. Inoltre, in questa apparente
monotonia esteriore, dal punto di vista visuale, “uscivano” tratti moto
affascinanti di narrazioni misteriose, se non addirittura esoteriche,
che sconvolgevano quella linearità, con rimandi a sottili interpunzioni
horror e talvolta fantasy. Ma tutto ciò avveniva sempre con grane
equilibrio narrativo. Tale da non mettere mai in discussione l’asset
strategico del fumetto. Anzi: era fatto in modo che questa aria di
arcano, che aleggiava tra i misteri del deserto, confliggesse
felicemente con la solida, ma non stolida, struttura diegetica del
“personaggio” Tex. Essa era aperta, umana, assolutamente onesta, ma
guardinga, curiosa e con un profondo senso dello scetticismo, che voleva
andare a fondo alle cose senza farsi travolgere dalle apparenze e/o
dalle varie bardature di tipo superstizioso e/o simil-religioso con cui
si ammantavano bel altre volontà. Naturalmente, queste cose, quando ero
ragazzino, non le coglievo con la presente concisione: però avvertivo la
sua differenza rispetto agli altri. Egli aveva grande simpatia per gli
indiani: li rispettava e ne era rispettato; accoglieva elementi di
civiltà e di comportamento da loro, che poi “passava” a suo figlio Kit.
Anche se non si sbrodolava in declamazioni retoriche e ideologiche (che
tra l’altro il pubblico di noi ragazzini non avrebbe capito) e in
atteggiamenti esteriormente sinistrorsi di aperta critica ai bianchi, il
suo fare concreto se ne discostava nella pratica: e ciò allora “passava”
molto più incisivamente nella nostra fantasia e andava a fare parte
integrante della parte di formazione attiva e, di fatto critica,
affidata a ciò che non era scolastico: come oggi, nel positivo, i
Simpson. Perché il nostro rapporto con Tex e similari, era settimanale:
costante, rituale, immancabile: come la Messa. La nostra passeggiata
all’edicola era un momento di pura gioia collettiva: perché poi questi
fumetti ce li scambiavamo con golosa, gelosa, reciproca curiosità,
insieme alle chiacchiere e agli apprezzamenti ad essi relativi. Le sue
vicende erano piuttosto elaborate e spesso prevedevano strutture
psicologiche non banali. Siamo quindi in presenza di un prodotto
letterario complessivamente in sé valido: a prescindere dal fascino
della memoria identitaria e dell’amarcord. Il vero problema è la
difficoltà che la cultura “alta” ha avuto nell’accogliere questa che è
oggi è chiamata “Letteratura Disegnata”, non più, spregiativamente,
“fumetto”. Nella cultura anglosassone la chiamano “Graphic Novel”. Ha
prodotto riconosciuti Maestri e capolavori, che hanno reinventato
classici del fumetto popolare americano degli anni 30 e 40 come
“Superman”, “Batman” , creandone nuovi. Da questi il cinema Usa sta
arraffando a piene mani. Niente di tutto ciò avviene da noi. Vi sono
stati maldestri tentativi: Diabolik, ad esempio –escludendo, però, il
capolavoro “Totò Diabolicus” di Steno del 62…-; e perfino un
“Tex e il Signore degli abissi” con Giuliano Gemma di Duccio Tessari
dell’ 85. Ma l’unico film che ha cercato di creare un solido e creativo
spazio visuale-narrativo ispirandosi a un fumetto italiano è stato
“Dellamorte/Dellamore” di M.Soavi del 94, tratto da Dylan Dog.
“IL MATRIMONIO DI
LORNA” di LUC & JEAN-PIERRE
DARDENNE; FRA-UK, 08.
Lorna è una ragazza albanese che
per avere la cittadinanza belga, sposa un drogato: ma ai suoi capi serve
vedova, per poter sposare poi un russo e dare a lui la cittadinanza.
Invece, la ragazza aiuta il marito a uscire dall’eroina. I due registi
belgi ci hanno abituati da tempo ad un cinema che affronta la realtà
attuale: specie quella più spinosa e ricca di conflitti. Bisogna dire
che col tempo essi “fotografano” sempre di meno, nel senso che il loro
cinema non è più tanto a tesi, in cui è presentata la solita sbobba
buonista; anzi sempre di più è ricco di implicazioni individuali,
complesse trasformazioni psicologiche; però senza perdere di vista i
problemi da cui avevano preso le mosse. Lorna all’inizio, più che
cinica, è fortemente motivata a prestarsi, per soldi, al finto
matrimonio: ha il sogno di coronare il suo intenso amore per un
connazionale con l’acquisto di un locale in cui lavorare insieme,
affrancandosi da tutta la miseria patita. Quindi lei sa cos’è l’amore e
la dedizione. Ha la capacità di avvertire l’angosciosa disperazione del
suo finto marito: in qualche modo se ne fa carico. E nel farlo si
trasforma: fa in modo che il suo grido la penetri profondamente. Non è
propriamente amore, ma una dimensione di solidarietà tanto intensa, da
farla interagire con lui: fino al dono d’amore del suo corpo. Nel far
ciò prende anche consapevolezza dell’abisso di solitudine in cui lei
viveva: anche quello che riteneva il “grande amore” si rivela per un
ometto, “povero dentro”, e suoi soci dei mostri. A lei non resta che
coltivare un sogno, una fantasia risarcitoria per quel suo marito che
non è riuscita a salvare: che in lei vive suo figlio. Vero? non vero?:
tutto è lasciato nell’ambiguità, nella sfera della ricreazione onirica.
Come nel chiudersi nel rifugio al finale: una dimensione fantastica
diversa dall’asciutto realismo fino a quel momento adottato, almeno
all’apparenza. Ma questa è la grandezza degli autori e del film:
riuscire a trasferire lo sviluppo drammatico in una zona diversa di
stile e di considerazione. l personaggi, in particolare la povera Lorna,
sono come attraversati da se stessi: il suo chiudersi nella fantasia
materna recupera una modalità di presenza che non è più materiale, ma di
spiritualità. Come già in “L’Enfant”, ci si ispira a R.Bresson,
il grande cineasta cattolico. Qui invece c’è un rarefarsi di stile più
originale: la narrazione è estremamente ellittica. Si passa da una fase
all’altra senza raccordi esteriori: è come s e tutto avvenisse “solo”
nell’anima di Lorna. Non c’è alcuna musica: solo qualche accenno nel
finale; sono rari perfino i rumori esterni: solo il bosco risuonerà di
cinguettii benauguranti
“THE MIST”
di FRANK DARABOND; USA,07.
In una pacifica comunità dell’America
profonda, vicina ad una Base dell’Esercito, da un’improvvisa, densa ,
minacciosa nebbia scaturiscono orrori innominabili. Tratto dal racconto
omonimo di Stephen King, è stato sceneggiato dallo stesso regista. Che
peraltro si è già misurato con opere tratte da King: “Le ali della
libertà” (94) e “Il Miglio Verde”(99), tutte e due di valore,
sono sue. E’ un artigiano di discrete qualità: caratterizza il suo
cinema in modi narrativamente solidi. Non ama gli abbellimenti esteriori
gratuiti ; non immette ricercatezze di montaggio che non siano
necessarie alla suspence o allo sviluppo della trama; non ricerca
complesse raffinatezze nelle psicologie: a lui interessa un cinema in
grado coinvolgere emotivamente, magari far riflettere, sempre sulla
scorta di personaggi e situazioni credibili. Qui, il suo confrontarsi
con l’orrore, è, a mio avviso, riuscito. Tiene sotto controllo lo
splatter: non c’è il compiacimento per lo sbudellame sanguinolento in
sé. Ce n’è un chiaro accenno, ma è utilizzato in modi funzionali. Egli
investiga più che sull’orrore stesso, sulle ripercussioni che questo
crea sugli uomini costretti alla coesistenza in uno spazio limitato che
contrasta visualmente con l’assoluto, pauroso nulla della nebbia. Per
quanto sia debitore al testo kinghiano, il regista è piuttosto efficace
nel descriverne i percorsi. C’è l’invasata religiosa, interpretata da
una bravissima e sperimentata Marcia Gay Harden, che, piano piano,
prende il sopravvento sul gruppo dei sopravvissuti, facendoli assumere
dei comportamenti collettivi, ispirati dalla sua fanatica
pseudo-religiosa concezione barbarica della paura, ancora più orrendi
delle creature fuori. Anzi: il film “gira” su questa trasformazione
collettiva, contestualmente alla descrizione dell’orrore in sé. Non
solo: si afferma che questa venuta non è accidentale, ma dovuta ai
soliti esperimenti scriteriati dell’Esercito, che si deresponsabilizza
delle sue conseguenze: i due temi si sommano in modi imprevedibili. Ma
il regista tiene sempre la barra al centro: non lascia che alcuno degli
aspetti prenda il sopravvento: in questa chiave, sono ben riusciti gli
effetti speciali. Howard Berger , Gregory Nicotero, che hanno lavorato,
tra gli altri, per Q.Tarantino e R.Rodriguez, al make-up, e Michael
Broom che le ha visivamente definite, sono i creatori delle varie
creature che affollano gli incubi del film. Essi sono artisti di grande
valore, di cui il regista si è servito senza stravolgere la complessità
dei temi messi in campo. Tuttavia, il finale avrebbe dovuto avere una
definizione tragicamente più incisiva, per essere credibile.
ARCHEOLOGIA & MUNNEZZA.
Al Museo Archeologico Nazionale di
Napoli, dal 16 0ttobre, e resterà aperta fino al19 Aprile 09, partirà la
Mostra “Ercolano, tre secoli di scoperte”. E’ un evento di
grande importanza culturale. Organizzata in un itinerario ragionato, non
solo vi saranno esposti i ritrovamenti archeologici operati negli ultimi
tre secoli, da quando s’incominciò a scavare; ma anche sarà presentata
la storia e l’evoluzione dei metodi e delle impostazioni, sia
tecnico-archeologiche che di ricerca e di confronto con gli Scavi. Nel
1711, il Principe d’Elboeuf, austriaco, ma dignitario della Corte
Borbonica, si calò in uno dei numerosi cunicoli di cui le guide e i
contadini locali favoleggiavano come “vie segrete”, in un misto di
superstizione, oscure reminescenze di culti pagani, mistificazione di
memorie tramandate in modi confusi, e iniziò le ricerche a Ercolano. Ciò
diede a Johann Joachim Winckelmann, il grande intellettuale, modo di
teorizzare, anche sulla base dei reperti pompeiani ed ercolanesi, una
nuova figuralità, una nuova modalità con cui riprendere e “aggiornare”
la cultura artistica greca e latino-classica che s’incominciava a
ritrovare e a guardare, avendola salvata dall’oblio plurisecolare. Era
un antico che diventava improvvisamente moderno: anzi, un gusto rivolto
al futuro, perché l’occhio al passato non era meramente
antiquario-arcadico, anche se aveva ascendenze in tal senso. Non era il
raccogliere e l’ammassare reperti per il gusto maniaco del collezionista
pippante, che se le cova con lo sguardo allucinato e la bocca in
salivazione per golosa bava di possesso. Ma la consapevolezza che questi
materiali, usciti come per miracolo dai detriti, dalle cave e dalle
secolari stratificazioni di monnezza, di degrado e di povertà dei
territori in cui si erano incistate in profondità, risorti letteralmente
dalla nuda terra, potevano trasformare il piatto, velleitario
immaginario del presente, in una visione che non solo evocava l’antico,
ma lo sostanziava di testimonianze reali, materialmente concrete: tra
l’altro riproducibili. Quindi l’antico diventava un reticolato di
coordinate con cui dal presente immaginare il futuro e lo sviluppo degli
spazi della nuova convivenza civile nelle città, adeguata a tempi di
grandi trasformazioni storico-sociali, come fu il tardo 700. Chiaramente
è un “uso” filosofico della classicità, che sarà storicamente ascritto
al neoclassicismo illuminista: poi alla base, segnatamente,
dell’immaginario coreografico con cui il potere napoleonico si
autorappresentava. Questo uso fu culturalmente molto proficuo. Al di là
della banale strumentalizzazione politica, diede vita ad un immaginario
collettivo, poi soppiantato da quello medieval-sentimentale del
Romanticismo, che definì un’intera epoca. E una riflessione di metodo,
che parte da quell’”uso”, può essere utile. Ed è l’analogia con i tempi
attuali che più mi sconcerta. L’Archeologia, la cui complessità
culturale ho appena appena scalfito, contiene in sè un elemento di
“Principio”, di “Inizio” presente nella radice della parola, che si
cela, come il “dio velato” degli antichi, nella prosaica, banale,
volgare munnezza. Esattamente quella che ci circonda. Che è presente
ancora oggi, nonostante l’auto-proclamato miracolo di Silvio Nostro,
massiccia e maleodorante, a presidiare i crocicchi, un po’ fuori Napoli.
Da cui siamo invasi. Ma da cui, soprattutto, siamo metaforicamente
ricoperti, e che tende a stratificarsi. Anche se non è principalmente
questa la ragione dell’innalzamento del livello del terreno, è evidente
che la stessa terra, sotto forma di detriti, diventa immondizia e vi
coinvolge tutti gli altri rifiuti. La trasformazione dei rifiuti in
sostanze naturali, dovrebbe essere il processo fisiologico, tale da
accompagnare il nostro ciclo biologico: ma non è così. I rifiuti sono
diventati una minaccia per la stessa sopravvivenza dell’umanità. Il 79
dopo Cristo, anno dell’eruzione pliniana, cioè catastrofica e
dissolutrice, del Vesuvio, fu un evento circoscritto. Noi stiamo
rischiando di fare un 79 “perpetuo” ed espanso, non più limitato ad un
singolo territorio e momento temporale, se non si inverte il circuito
autodistruttivo in cui ci stiamo avviando, mettendo in essere le
politiche centrali e istituzionali e i comportamenti diffusi adeguati.
Però noi continuiamo a vivere in questa dimensione inquinata. Non solo
cerchiamo di assumere comportamenti collettivi più consapevoli, più
critici e positivamente trasformativi rispetto all’”emergenza
quotidiana”, ma ci siamo già attrezzati a trasformare in energia
culturale positiva il nostro malessere. Oltre che nel cinema (“Gomorra”,
ad es.), anche il nostro rapporto con l’Archeologia può ispirare e
rinforzare questa consapevolezza. Considerare i rifiuti come una sorta
di “dimensione parallela”, un universo sotterraneo in cui scavare, e
farvi emergere forme alternative tali da trasformare le visioni non solo
della monnezza, ma del mondo. Lo scavarvi può essere reale: volendo
estremizzare (e provocare), chissà quante testimonianze materiali utili
a certificare i punti di sutura dei vari passati col presente, vi
possono essere: riuscire a intravedere i vari “cominciamenti” di
situazioni e di trasformazioni storiche e di comportamenti. Ma può anche
essere un approccio riflessivo, volto a ricostruire un passato, magari
prossimo, ma che già sembra preistoria, che ha perso i connotati della
contemporaneità, e non riesce a divenire memoria. Sono molti gli sforzi
creativi di artisti, storici civili e del pensiero, intellettuali, in
forma singola e collettiva, mirati su queste problematiche.
“WALL-E”
di ANDREW STANTON; USA,08.
Wall-E è un robottino lasciato su una Terra abitata non più dagli umani,
ma dalla munnezza, che egli diligentemente continua a raccogliere e a
serrare in balle, con cui costruisce delle torri. Finchè arriva,
scaricata da una nave spaziale, una robotttina, Eve. Il titolo, e nome
del protagonista è l’acronimo di Waste Allocation Load Lifted-Earth (Class),
ovvero un robot raccogli-spazzatura. Egli è solo su una Terra desolata,
dove l’unico panorama sono queste terrificanti Torri fatte di balle
addossate l’una sull’altra. E’ uno spettacolo apocalittico. Vi sono
delle tempeste di sabbia, create dallo stesso inquinamento; ma tutto è
immobile come in un eterno coma della natura. L’unica nota vivente è
questo essere che, come un soldatino, minuto su una vastità sconfinata,
continua imperterrito e sferragliante il suo lavoro, incurante delle
difficoltà e del contesto. Il centro del film è basato su di lui. Questa
figura, immaginata dal regista e dal produttore John Lasseter, fin dal
94, è, nonostante le apparenze, strutturata con un alto livello di
sofisticata immaginazione. Il team Lasseter & Co, è fatto di persone che
collaborano in modi sinergici. La complessità non è principalmente
disegnativa, e nemmeno delle numerosissime citazioni filmiche che egli
“attraversa” e rivitalizza, spesso con elegante ironia, sempre con
grande disinvoltura, in una tecnica digitale arrivata a punte di grande
precisione e accuratezza di dettagli realistici. Ma è la concezione del
personaggio ad essere in sé originale. Il Robottino è un’allegoria
dantesca della crisi cui l’umanità sta andando incontro se non cambia
radicalmente strada, rispetto alla gestione dei rifiuti. Essi possono
alterare in modi irreversibili le stesse condizioni di sopravvivenza
dell’intera umanità. E ciò è detto non dall’”estremista” MIchael Moore,
o dal “liberal” Al Gore, ma da un prodotto di una Company quotata in
borsa. E soprattutto in modi artisticamente di una poeticità intensa e
delicata. Wall-E è tutto giocato in una dimensione di totale ambiguità:
sembra un bambino; come la metafora del primitivo roussoiano che scopre
e affronta la solitudine e i sentimenti nella loro primalità, con tutta
la ricchezza e l’intensità di chi si accosta ad un universo mai
esplorato, che lo sorprende per la forza del suo ingenuo coinvolgimento.
Ma è anche un adolescente, pieno di delicatezza e di amorevole empatia
per la robottina Eve (acronimo di Extraterrestrial Vegetation Evaluator).
Eppure, tutte queste caratteristiche rimangono profondamente inscritte
nel suo essere un robottino da munnezza, gestito con coerenza grafica e
tematica degna della teoria auerbachiana della Figura in Dante.
“L’UOMO CHE AMA”
di MARIA SOLE TOGNAZZI; ITA, 08.
Un quarantenne a confronto con due storie d’amore: ambedue portatrici di
sofferenza; ma anche di intensa vitalità. Sfasato sul piano temporale,
pone due diversi aspetti, dello stesso “uomo che ama”: è un paradosso
narrativo, che però è l’originalità del film. La storia con la Bellucci,
pur sviluppandosi temporalmente prima, viene trattata dopo che il film
descrive, con impietosa precisione analitica tutte le sfumature di
sofferenza che Roberto, lasciato da Sara, affronta. La credibilità dei
suoi stati d’animo è assicurata dall’interpretazione vibrante che ne dà
Pierfrancesco Favino: sono colti dei passaggi che lasciano impietriti
per la sofferenza che evocano. Tuttavia, è una descrizione che rischia
di girare su se stessa, come un riuscito saggio di bravura, però di
fatto monocorde: in cui non c’è sviluppo narrativo. Ed è infatti in sé,
a mio avviso, la parte più debole del film. Ma la regista, con lo
spezzare i piani temporali, e facendo terminare il film con la storia
più complessa , fa sì che l’essere lasciato, su cui si è sviluppata la
prima parte, sia non il finale, ma l’inizio. In questa prospettiva, con
una vera e propria furbata narrativa, l’andamento diviene più mosso e
più incisivo. Anche perché assumono ruoli meglio definiti personaggi
come il fratello gay, che invece chiarisce meglio il rapporto col suo
fidanzato, le motivazioni della sua storia personale e di coppia;
assumono un ruolo più ricco di umanità e di diventano maggiormente
credibili i genitori e la loro casa sul lago D’Orta. Anzi, questo
splendido panorama viene utilizzato con validi effetti di straniamento
poetico. Si vede che la regista vi è molto legata. Il rapporto con la
bellissima Bellucci, è rivissuto anche qui con numerose sfumature. La
metafora dell’insonnia, come spia del malessere di coppia, appare
riuscita, nello svolgere il ruolo di controcanto rispetto all’apparente
comportamentalità superficiale idilliaca. Ed è funzionale rispetto al
prendere coscienza del disamore, che, sempre in Roberto, avviene in modi
sottili, non enfatizzati: ma per questo portatori di più acuta
sofferenza. Però questa volta coinvolgenti non maggiormente lui ma la
donna : qui bisogna dire che le sottolineature che ne dà la Bellucci
sono estremamente credibili, nel loro essere così misurate, quasi
sottotraccia, ma intensissime. Adeguata è la tonalità con cui è
fotografata (da A.Catinari, usatissimo dal nostro migliore cinema
attuale) la città di Torino: non caotica, a suo modo partecipe del
dolore incrociato dei protagonisti: ma in cui prevale il senso del
freddo, della lontananza e dell’insignificanza individuale rispetto
all’insostenibilità dei sentimenti.
LA
DEFLAZIONE ATTUALE.
La crisi economica attuale, partita
dagli Usa, si sta avvitando in tutto il mondo, e segnatamente in Italia,
in una spirale di recessione-deflazione. Che vuol dire? Che la scarsità
di credito bancario, oppure la difficoltà di accedervi, sta
interrompendo il trend di sviluppo dell’economia. La difficoltà di
produrre e di mantenere i prezzi sul mercato induce le industrie a
produrre di meno: quindi s’instaura il circolo vizioso per cui
producendo di meno, si produce ancor meno, perché il mercato non riesce
ad assorbire le merci prodotte. Abbiamo avuto un ricorso alla CIG (Cassa
Integrazione Guadagni) che è aumentato del 70% rispetto allo stesso
periodo dell’anno scorso: un aumento preoccupante. Siamo entrati in fase
di recessione “classica”: cioè un non-aumento del PIL, il prodotto
interno lordo, che misura l’insieme delle merci e servizi prodotti
dall’Italia. La stessa diminuzione dell’inflazione (cioè l’aumento solo
monetario del costo delle merci) ne è la spia. Ed è scesa perché i
prezzi delle materie prime, che “importavano” sulla nostra economia
forti fattori inflazionistici, sono tutti scesi. Però, attenzione: il
fatto che il costo del petrolio sia sceso non ha solo aspetti positivi,
ha anche risvolti negativi. Innanzitutto perché è la spia del fatto che
è in atto una recessione mondiale: producendosi di meno, si ha meno
richiesta di energia. E ciò comporta, con l’abbattimento della domanda,
la discesa del prezzo, perché la produzione petrolifera è in eccesso
rispetto a quella. Scendendo oltre una data soglia, rende antieconomico
il ricorrere a fonti alternative ecologiche: ed anche la progettazione e
la ricerca in tal senso vengono scoraggiate. Ma l’inflazione attuale
scende perché per mantenere la quantità di merci sul mercato tale da non
bloccare completamente la produzione, si abbassano i prezzi. E questo si
“avvita” su un altro aspetto ancora più allarmante: il fenomeno della
deflazione. Questo termine nasce come negazione dell’inflazione, ma ha
una portata non più ciclica, ma strutturale, quindi pericoloso per
l’economia. Che significa? Che un’economia sana, in realtà, deve sempre
portare con sé, nel suo sviluppo, un aumento, pur se minimo,
dell’inflazione. E’ nella logica stessa dello sviluppo che l’aumento del
PIL, cioè della produzione di beni e sevizi, faccia crescere la massa
monetaria, cioè la quantità di denaro, messa in circolo dalle Banche,
necessaria ad investire, ristrutturare, incrementare la produzione, il
commercio e gli scambi, sostenerne i crediti all’export e al consumo,
ecc.: è un vero e proprio circuito virtuoso. Se invece della
non-inflazione, cioè dell’aumento minimo dell’inflazione, c’è la
deflazione, ovvero la riduzione percentuale dei prezzi nominali di merci
identiche da un una anno all’altro, che è successo nell’economia reale
del paese? Che si è messa in moto una spirale verso il basso. Che non
solo si produce meno, quindi aumentano i cassintegrati, disoccupati; ma
che chiudendo le fabbriche, le banche erogando meno crediti, perché
l’economia depressa è poco propensa a investire, a indebitarsi, e a
rischiare, ecc., la massa monetaria diminuisce. Diminuendo la
produzione, circolazione e lo scambio, è l’economia complessiva, non
solo del “sistema paese”, ma anche di ogni singolo cittadino, che
s’impoverisce in termini reali. Tutto costando meno, perde valore ogni
investimento operato: casa, terreni, patrimoni; mentre i debiti, quelli
a tasso fisso, non scendendo in relazione al tasso deflattivo, aumentano
in termini di valore reale: e si è quindi doppiamente più poveri. E’
questo lo scenario della crisi del 1929; e ciò è successo anche per un
lungo periodo in Giappone, per quasi tutti gli anni 90, in relazione
allo scoppio della bolla speculativa immobiliare, colà prodottasi alla
fine degli anni 80. Per ora vi sono solo segnali in Italia: ma la
politica governativa non sembra orientata in modo tale da coglierli e
rispondervi. Giusto per fare un esempio: l’affaruccio Alitalia, tale per
la cordata della CAI, costerà all’Erario (cioè a noi) almeno 1,500-1,700
mlrd di €: cioè l’ 1% del nostro PIL. E’ una cifra che oggi, con questi
chiari di luna, è uno sperpero scandaloso, perché vendendo tempo fa, ad
Air France lo stato se “la cavava” con un 300 mln di €. I 1200-1400 mln
potevano servire a creare tutti quegli ammortizzatori sociali necessari
ad affrontare questa crisi. I lavoratori precari, infatti, saranno i
primi ad essere “segati”, senza che lo stato abbia realizzato quella
“rete” necessaria a rendere non drammatica la loro condizione. Tale
sicuramente per loro, ma anche per tutti noi, perché è solo
dall’immissione di massicce dosi di liquidità che la crisi può essere
affrontata. Così anche i tagli strombazzati dalla Riforma Gelmini, la
137, vanno in senso diametralmente opposto alle necessità di questa
congiuntura: sono di 8 mlrd di €, quelli che si ottengono dalla
riduzione dei moduli alle primarie; ma si incrementa in modi
esponenziali il precariato perenne nella scuola. Anche qui la domanda da
porsi è: se invece di questa controriforma si fosse venduta l’Alitalia
ad Air France? Mentre nessuna portata ammortizzatrice ha avuto
l’abolizione dell’ICI, perché i soldi necessari a questa misura
demagogica, saranno tolti all’Università, alla ricerca: creando anche
qui ulteriori forme di disoccupazione e quindi d’impoverimento
collettivo.
“SI PUO’ FARE”
di GIULIO MANFREDONIA; ITA, 08.
Anni 80, Milano. Nello è un sindacalista esiliato in una cooperativa di
malati mentali. Animato da spirito imprenditoriale e democratico, crea
per sé e gli altri un lavoro vero, non assistenziale, tra incomprensioni
e drammi. Il film, ispirato a più storie vere, poi condensate in una
sola estremamente emblematica, ha una forte valenza civile, perché
difende, contro ogni revisionismo autoritario filo-manicomiale, la Legge
Basaglia, la famosa “180”, varata nel 78; così chiamata in onore di
Franco Basaglia, il grande psichiatra che la teorizzò. Prevedeva
l’abolizione del Manicomio coatto, e l’affidamento dei “matti” a servizi
specializzati d’Igiene Mentale, che, tranne poche eccezioni, come queste
contemplate nel film, non si sono mai seriamente voluti creare. Ma la
bellezza del film è che non sposa in astratto una nobile causa, ma la
cala in una riuscita storia corale, in cui l’illustrazione del disagio
psichico, non edulcorato o macchiettistico, va di pari passo non solo
con la riuscita individuazione di caratteri, ma anche con il comunicare
delle vibrazioni sentimentali ed emotive non banali. La sceneggiatura,
molto abile, di un giovane sceneggiatore molto attivo nel recente cinema
a sfondo giovanile, Fabio Bonifacci, fa proprio nella sostanza un dato
su cui ha riflettuto Eugenio Borgna, un altro grande psichiatra di
scuola basagliana: che spesso i malati nascondono enormi energie
creative che sono come “il crepuscolo nascosto” ricoperto dalla intensa
sofferenza, che proprio la grande sensibilità ha attivato. Ed è dalla
fantasia lasciata libera di questi pazienti che nasce la bellezza,
unica, non omologabile, dei loro manufatti di parquet. Qui è tutto il
film. Ma la conduzione registica è attenta a calibrare il dato spesso
umoristico, con la grande leggerezza e rispetto di tocco, nel registrare
i cambiamenti delle singole patologie. Il tutto in una vicenda che
riesce a svilupparsi in modi credibili, allorché la coop si apre al
mondo. Emerge ad esempio, in pochi ma efficacissimi tratti di
sceneggiatura, senza enfasi strappalagrime, ma diritto al cuore, il
dramma dell’oppressione familiare, che porta il povero Gigio al suo
destino. Il regista ha trovato in Caludio Bisio il suo degno
complice-protagonista. La sua interpretazione è assolutamente,
genialmente in bilico tra senso degli affari, uso efficace delle
democrazia praticata, cazzimma, cinismo e anche co-follia; come anche
tra sensibilità e senso e rispetto della sofferenza, che egli impara a
riconoscere, e lo matura. Ricostruita senza eccessi di retorica, pur se
con povertà di mezzi, l’atmosfera della “Milano da bere” di quegli anni
rampanti pre-tangentopoli.
“QUANTUM OF SOLACE”
di MARC FOSTER; USA-UK, 08.
James Bond è alle prese con una misteriosa organizzazione mondiale che
punta al controllo delle risorse idriche delle zone più povere dei
continenti. Ed è sempre in cerca di chi gli ha assassinato l’amata
Vesper. Al suo 22° episodio, ci si può domandare da dove tragga la sua
longevità e vitalità la saga dell’Agente 007. Indubbiamente è stato il
primo Bond, quello di Sean Connery , a lanciarne l’icona fulminante:
l’agente spietato ma elegante e grand tombeur, in un contesto, per
l’epoca, ipertecnologico; ma che non si prendeva completamente sul
serio: c’era sempre un filo d’ironia. Anche quando si affrontava la
guerra fredda, lo si faceva senza ideologia. Poi, finita la lotta
USA-URSS, e uscito di scena Connery, la serie ha trovato sempre dei
cattivi nuovi, dalle motivazioni sempre più sofisticate e meno scontate.
Spesso legate alle problematiche di più stretta attualità, tali da
condizionare l’intero pianeta. Qui si parla della risorsa acqua, che
sarà ancora più preziosa del petrolio. E di come ormai la gestione degli
affari ha perso ogni coloritura ideologica, perché generanti un fiume di
ricchezza per pochi, in grado di condizionare politiche di superpotenze,
colpi di stato di molti paesi, ecc. In questo scenario anche Bond è
cambiato. Egli non sembra avere più quell’aplomb d’eleganza molto old
british che era caratteristico di almeno due passati 007, R. Moore e
P.Brosnan: è diventato una macchina per uccidere, che sa essere
inesorabile, pur non essendo irragionevole. Qui la faccia del nuovo
Bond, l’attore Daniel Craig, non poteva essere più azzeccata. Più
marcatamente fisico, quindi meno dandy degli altri, ha in più una forma
di brutalità comportamentale che s’intuiva solo presente minacciosamente
in Connery. Tuttavia, grazie al contributo della sceneggiatura del
premio Oscar (06 con “Crash”) Paul Haggis, a tutti e due film con Craig,
ci si è maggiormente soffermati sull’aspetto umano del personaggio, però
sempre in modi contorti, non declamati. Nel precedente, “Casino Royale”
c’era la storia d’amore con Vesper (l’attrice E.Greene), che continua
anche nel presente film, in forma di vendetta; poi c’è lo strano
rapporto con la sua “capa” M, la grande attrice Judy Dench: esso ha un
andamento meno grottesco di come era alle origini. Evolve verso forme
strampalate di simil-maternage: ma non per questo meno credibili. Come
al solito l’azione è, fin dall’inizio, mozzafiato; le locations, di cui
due in Italia, sono di grande bellezza. C’è un elegante gioco di
citazioni interbondiane: ma è una forma di rispetto, non di cinefilia. I
titoli di testa (di Chris Baker e Pedro Barquin), come molto spesso
nella serie, sono dei capolavori di grafica.
“THE BURNING PLAIN.
IL CONFINE DELLA SOLITUDINE” di GUILLERMO ARRIAGA; USA, 08.
Benché sfalsata su più piani
temporali, è la vicenda di Sylvia, gestrice di un Restaurant alla moda
nella fredda Portland. Di quali atti, sofferenze e precedenti esperienze
incrociatesi attorno a lei, si è nutrito il suo disprezzo di sé. Esordio
alla regia di un grande sceneggiatore, in zona Oscar per “Babél”, di cui
conserva la stessa struttura narrativa. La sequenza iniziale è
importantissima, dal punto di vista narrativo: è di fatto il vero
raccordo che tiene insieme l’articolato del film; ma “avviene” nel
tempo ben prima dell’inizio reale della storia, che sembra essere dei
nostri giorni. In realtà sono ben quattro gli episodi del film. Abbiamo
quella della relazione adulterina, ma così ricca di tenerezza,
sentimento, umanità e passione, della madre, interpretata da una
splendida, commovente e splendente Kim Bansinger, e delle reazioni che
questa suscita nella figlia adolescente; quella dell’incontro tra
quest’ultima e il figlio dell’amante all’indomani della disgrazia che ha
fatto scoprire la tresca; la vicenda di Maria, una bimba in cerca di
madre; e poi quella di Sylvia, su cui si saldano e si concludono tutte.
Il regista ha dichiarato che immagina così la sue sceneggiature perché
egli “Racconta la vita com’è, senza darle un ordine, che nella realtà
non esiste mai”; però questa modalità, oltre ad essere un marchio di
stile, è uno strumento che gli permette di variare i piani psicologici
d’attenzione. In quanto i suoi personaggi, anche se biograficamente sono
gli stessi, vivendo una fase di sviluppo diversa, gli si permette
d’impegnarli in dialettiche differenti da una fase all’altra. Dando
spazio a quelle che sembrano a noi altre motivazioni, con intelligente
astuzia, espande e varia il motivo psicologico centrale. Perché poi
l’insieme, disegna un’organicità complessiva, nel mentre mette in ombra
alcune fragilità motivazionali, che pure affiorano quà e là: come ad
esempio, la fase finale del rapporto con la bambina. Beninteso: qui
siamo in presenza di un bel film; e queste mende non ne attenuano la
qualità complessiva. Perché è costruita una rigorosa, intensa, coerente
atmosfera psicologica interparentale: la radice del malessere viene
attribuita senza forzature alla necessità di fare i conti col passato.
Esso diventa memoria esistenziale attiva, su cui tutto sembra ruotare.
La necessità di porvi ordine, nel mentre vi si dà vita, può aprire alla
speranza, all’accettazione di sé, al cambiamento. Questo sforzo è fatto
da Sylvia (Charlize Théron): anzi tutti i raccordi partono da lei, da
impercettibili sfumature, da “increspature” della realtà presente,
l’uggiosa, grigia Portland.
BARACK OBAMA E LA
COMUNICAZIONE.
Un evento di portata storica, di cui
tutti siamo consapevoli, è la vittoria del candidato democratico alle
Elezioni Presidenziali Usa del 4-XI-08, che il Premier Silvio Nostro ha
definito “abbronzato”, con ineccepibile stupidità comunicazionale, ma
con un chiaro, arrogante messaggio politico. Ed è epocale, tale
vittoria, non solo per la società Usa, ma per il mondo, perché apre
nuovi orizzonti. Pur senza enfatizzare in senso “messianico”, quanto lui
possa realmente o voglia fare, nutrendo eccessive illusioni, un dato
assolutamente nuovo, di incredibile portata storica è come “incarnato”
nella sua stessa persona. Se la democrazia americana ha mostrato questa
vitalità (attentati e futuri “misteriosi incidenti” permettendo…),
portando alla Casa Bianca un uomo di colore, vuol dire che il “sistema
occidentale” ha in sé elementi di flessibilità politico-istituzionale. E
quindi è in grado di rispondere alla spaventosa crisi economica, partita
proprio dagli Usa, che sta coinvolgendo l’economia del mondo intero.
Vorrei riflettere su alcuni aspetti, relativi alla comunicazione, che
hanno caratterizzato l’evento. Egli si presenta alle Conferenze Stampa,
e ne ha fatte già tantissime, con uno stile assolutamente differente da
quello di Bush “o’ piccirillo”, ma anche dell’ex Presidente Clinton.
Mentre l’attuale Presidente ancora in carica, e che vi resterà fino al
prossimo 20 gennaio, era notoriamente restìo, e talvolta palesemente
insofferente ad incontrare i giornalisti, Obama li incontra “con faciltà”,
dando l’impressione di sapere esattamente, sempre, cosa dire; in grado
di soppesare ogni parola, non ha timore di essere spiazzato dai
giornalisti, che ascolta con concentrata attenzione, senza manifestare
mai il più piccolo segno di nervosismo: anzi appare sempre rilassato,
benché stanchissimo, e vigile contemporaneamente. Tutto il contrario di
Bush, e perfino della “concorrente” Hillary Clinton, a Obama
contrapposta nella dura lotta nelle Primarie presidenziali all’interno
del Partito Democratico. Bush più di una volta è stato beccato in
flagrante ignoranza, peggiore di quella di Ronald Reagan, in materie
delicate, anche d’importanza strategica; oppure è come se ne avesse
avuta una nozione vaga, o non si fosse proprio posto il problema delle
conseguenze dei suoi atti politici. Famoso fu il caso dell’annuncio, in
conferenza stampa, dell’aumento dei contributi ai coltivatori americani
per la produzione di soia e mais, da usare a fini energetici, per
limitare la dipendenza strategica dal petrolio arabo, venezuelano ecc.
Quando gli si prospettò che questa misura ne avrebbe fatto aumentare il
prezzo, con la conseguenza di rendere ancora più precario l’equilibrio
alimentare d’intere zone del mondo, lui fece una faccia stranita, come
se scendesse dalle stelle, senza rispondere. Insomma: non dava un
immagine rassicurante, nemmeno delle decisioni che dipendevano da lui; e
di cui, in teoria, sarebbe dovuto essere più che preparato. Non ha mai
affrontato, pur nel colmo della crisi, una sola conferenza sui temi
dell’economia: ha solo reso dichiarazioni Presidenziali: Si tratta di
temi su cui è lecito sospettare una più che grossolana ignoranza, perché
nessuno l’ha mai sentito parlare o conversare su di essi. Anzi, per la
verità, nessuno l’ha mai sentito parlare o conversare di alcunché. Le
sue conversazioni erano solo strettamente private. Ed era notoria la sua
profonda, viscerale idiosincrasia per gli intellettuali: lui, al
contrario, si beava della sua “ignorantità”; che lo rendeva “uguale”
all’americano medio, quella famosa e fantomatica figura di “Joe
l’idraulico”, simile alla “casalinga di Voghera “ di silviesca memoria,
dagli Uffici stampa compiacenti vagheggiata. Barack invece ha la
chiarezza espositiva del docente universitario americano: che, a
differenza di molti nostrani, non è verbosa o tecnicistica; né si
compiace di usare paroloni. La sua comunicazione comiziale, era
cristallina e diretta, in grado di smuovere i suoi pubblici. Peraltro
essa è stata gestita con un’accorta politica di crescendo: tutta
incentrata sul quel fortunato slogan “Yes, we can” (Si, lo possiamo
fare), che però è stato nel tempo poco precisato. Anzi, più d’un
osservatore ha rimarcato che Hillary aveva espresso su sanità, pubblica
istruzione, ricerca, posizioni più chiare e avanzate. Comunque, è una
parola d’ordine molto incisiva, un vero capolavoro di comunicazione
politica. Il suo team ha saputo coltivare e molto meglio usare internet:
la comunicazione è stata molto ben strutturata, organizzata, resa
pervasiva. I Repubblicani non hanno saputo contrapporre nulla: nemmeno
il “mago” Karl Rove, artefice delle due vittorie di Bush, ha saputo
cavarci qualcosa. Anzi, l’unica mossa azzeccata comunicazionalmente dei
“Rossi” (mentre i “Blu” sono i Democrats), è stata quella di non far mai
apparire in pubblico Bush, per dare più spazio alla differenziazione
operata da McCain, sulla Presidenza, pur se B. era dello stesso Partito.
“O’ Fra”, c’e’ a’ fa’ o’ piacere e’ t’ sta’ zitt’ e nun t’e’ a’ fa’
v’re’!”,gli hanno intimato; e lui da buon soldatino, ha abbozzato.
In verità è proprio questa, l’impressione che ci comunica: quella di un
solerte, anche se un po’ tardo esecutore di ordini, presi per lui; del
cui contenuto pare che si curi poco, perfino quando non li capisce.
Un’altra scelta assolutamente infelice è stata la candidata repubblicana
alla Vice-Presidenza, la Palin, Governatrice dell’Alaska. Ha dato subito
la sgradevole immagine della provincialotta piombata, dalla lontanissima
Anchorage (la capitale del suo Stato), nella metropoli, a godere del
budget illimitato messole a disposizione dal Partito, da lei, e dai suoi
familiari, sperperato in acquisti folli di articoli griffati. Costei,
una conservatrice rabbiosa e aggressiva, ha mostrato una mostruosa
ignoranza in storia e geografia, pure se su argomenti molto generali,
come la definizione di continente per l’Africa.
“UN ALTRO PIANETA”
di STEFANO TUMMOLINI; ITA, 08. Capocotta, spiagga del litorale romano, a giugno, mattina. Un ragazzo
gay e un gruppo di ragazze tra incontri e confronti passano la giornata
a mare. Questo film è un vero e proprio miracolo. Girato in digitale, e
nemmeno di qualità, tutto in esterni, con attori e tecnici che saranno
pagati dagli eventuali utili, è costato la “spaventosa” cifra di 970
euri: però funziona. Si fa vedere, e mostra una reale tensione
narrativa. E’ chiaro che è un prodotto di nicchia: ma va segnalato per
questo. Perché, senza alcuno sbattimento narcisistico, anche se con una
non estemporanea consapevolezza culturale, il regista-sceneggiatore ha
descritto delle persone vere, alle prese con conflitti di una
drammaticità non esagitata. Essa non è portata ad alcuna forzatura:
benché questa dimensione sia presente, essa è calata, con molta
intelligenza narrativa e verisimglianza, in un andamento che ha le
apparenze della normalità, se non della banalità. Il protagonista,
Salvatore, il ragazzo gay, si vive con un atteggiamento sospeso tra la
passività esistenziale, e un dolore di una perdita affettiva che l’ha
profondamente segnato, pur a distanza di tempo. L’attore, Antonio Merone,
che proviene da solide esperienze teatrali, nonché coautore della
sceneggiatura, gli ha dato un mix di spudoratezza fisica pasoliniana, di
fragilità e curiosità sentimentali, ma anche di rassicurante umanità di
fondo. Tutte caratteristiche evidenziate al meglio da una forte presenza
scenica. A lui fa da contraltare la presenza della ragazza, Daniela, che
sembra del tutto fuori posto. Anch’essa caratterizzata in modo svelto e
felice, appare incerta nel come porsi: ma questo è il frutto di un
riuscito gioco di sponda con l’altra, Stella, che, al contrario è
ciarliera, onnipresente e desiderosa di conoscere; o l’altra amica, che
vive sospesa nei suoi ricordi. La sceneggiatura riesce intelligentemente
a dare spazio a sfondi animati umani collettivi: anche se di gruppi di
pochi personaggi, sono continuamente compresenti, interagiscono e si
danno continuamente il giusto ritmo nel raccontarsi e scoprirsi. Però il
loro è un fare, non un dire teatrale. Essi sono accompagnati da una
riuscita ambientazione scenografica naturale, metafora di un rapporto
più intenso con se stessi, le memorie, le loro fantasie: aiuta a farli
uscire dal limbo del non-vivere, dà il coraggio di assumere delle scelte
che appaiono diverse dalle premesse che abbiamo viste poste: scelte che
risultano ancora più intense e sentite; come quella d’amore di Daniela e
Salvatore, molto tenera, che pare preludere ad un futuro aperto, in
grado di spezzare le ossessioni in cui sembravano serrati nel loro
“pianeta”.
“LA FIDANZATA DI
PAPA’” di ENRICO OLDOINI; ITA,
08. Barbara e Matteo, giovani
italiani, a Miami decidono di sposarsi: lei è in attesa di un foglio.
Esso nasce ma è nero. Rotto il sodalizio con De Sica, Boldi lavora in
proprio, lo stesso Boldi ne è produttore,
e d‘anticipo: come l’anno scorso,
ambientato alle Bahamas, il “cinepanettone”, cioè il filmone natalizio
comico che incassa, esce a novembre, sempre caratterizzato da locations
esotiche. Sicuramente gli conviene di più. Il film incassa: anzi, è uno
di quei punti fermi della programmazione invernale. E, siccome non è in
concorrenza con alcun altro film comico, è, per il cinema italiano, un
moltiplicatore di incassi, perché si sommano a quelli natalizi. Quindi
la scelta è stata giusta. Anzi conferma il dato per cui non esistono
date che farebbero incassare e altre no: dipende solo dal film. Ma com’è
? Qui scatta il dilemma del critico. A me non ha divertito, in generale,
anche se mi sono piaciuti gli interventi di Biagio Izzo: però ho visto
in sala il pubblico, specie dei bambini, sganasciarsi dalle risate; e
comunque, anche se non entusiasti, la gente non esprimeva dei commenti
malevoli. Quindi ritengo che l’operazione sia riuscita: il regista, un
“vecchio” volpone della commedia, ha sostanzialmente fatto centro. Anzi,
ha mostrato perfino delle ambizioni: egli non vuole essere ascritto alla
categoria del macellaio di bassa comicità. Vi sono delle citazioni che
annobiliscono il film. Ha fatto tentare, a Boldi e Salvi, il duetto
della “lettera” stile Totò & Peppino; ha usato, anche se non con la
stessa grazia, nel finale una citazione di “A qualcuno piace caldo”; e
prima da “Quando la moglie è in vacanza”, tutti e due di Billy Wilder,
con lo stesso abito bianco che si alza: solo che la bionda era…Biagio
Izzo, en travesti. Poi lo stesso si dà, inascoltato, delle lunghe
citazioni da Eduardo. Però i meccanismi non sono reinventati: le battute
sono grosso modo simili da un film ad un altro, variando di poco le
situazioni. Vi sono delle buone new entries: N. Frassica che ripropone
il suo sgangherato linguaggio: ma siccome lo fa con eleganza e senso dei
tempi, sembra quasi innovativo. C’è l’immissione di una zelighista: nel
personaggio di Luminosa, l’attrice Teresa Mannino, dà un taglio appena
appena sopra le righe. Ma risulta efficace e azzeccato, perché
distaccato e autoironico. Izzo ha i tempi giusti: ma tende a ripetere i
ruoli. La Ventura, che è ritornata al cinema, dopo una non dimenticata
débacle di diversi anni fa (nel 1996), mostra un grinta che le è
confacente. Trovo insopportabili e fuori tempo comico i Fichi d’India.
Simpatica e riuscita è la trovata del bimbo nero, col corredo di
spiegazioni date: ha in sé modalità culturali di apertura mentale.
TOPOLINO E LA CRISI.
Il 18 novembre 1928, esattamente
ottant’anni fa, nella sale americane uscì il corto d’animazione
“Steamboat Willie”, da noi chiamato “Mino e il vaporetto”,
perché il fascismo vietava nomi e titoli stranieri. Fu diretto, ideato e
disegnato da Walt Disney, con la collaborazione all’animazione del
grande Ub Iwerk, da allora in poi “creativo” tra i più dotati della
Disney Company. Willie poi divenne Mickey Mouse, e da noi, sempre per le
ragioni di sopra, Topolino. Questo personaggio ha avuto un’evoluzione
strana e piuttosto complessa. Tutt’ora vivente, le sue gesta, nate per
il cinema, successivamente hanno trovato nelle strisce disegnate la sua
piena espressione: fu comunque nel 30 che esse furono conosciute in
Italia, edite da Mondatori, che ne ebbe l’esclusiva. Scaduta la quale,
nel 1988, fu direttamente la casa americana a pubblicarla da noi. Ma la
cosa singolare è che l’apporto dei disegnatori e soggettisti italiani è
stato così particolare, che tutta la filiera internazionale della
pubblicazione ne è stata influenzata: Romano Scarpa, famoso disegnatore,
è stato equiparato ai grandi Carl Barks (che inventò Zio Paperone),
Floyd Gottfredson, che negli anni hanno sviluppato l’”Universo
Topolino”, che comprende una miriade di personaggi, tra cui Paperino,
Qui Quo Qua, Pippo ecc. Di fatto, sono i fumettisti italiani ad essere
tradotti nel mondo sotto il titolo di Topolino. Essi hanno
sostanzialmente mantenute intatte le caratteristiche di Mickey M., anche
se rendendole più “europee”: grande ottimismo, modi di fare spicci e
pratici, un’inguaribile tendenza al realismo, un profondo rispetto per i
valori tradizionali (il successo riconosciuto, le istituzioni, la
famiglia, ecc). Sono tutti modi di porsi che noi comunemente attribuiamo
all’”American way of life”. E’ stato via via paragonato al James Stewart
di “La vita è meravigliosa” (47) il film di Frank Capra, Spencer
Tracy di “La Città dei ragazzi” (38) di Norman Taurog; e perfino
all’Humphrey Bogart di “Casablanca” (42) di Michael Curtiz, in
seguito ad alcune strisce sulla II guerra mondiale e a fortunate
trasposizioni in fumetto “topolinese” di grandi romanzi, ma anche di
film di successo. Trasposizioni che erano inventate, con successo
planetario, proprio dai disegnatori-soggettisti italiani. Di tutte le
caratteristiche del personaggio è indubbiamente l’incrollabile
ottimismo, quella che più profondamente lo caratterizza. Del resto fu
proprio così che Disney, irlandese povero emigrante in Usa lo immaginò:
la quintessenza del modo di vivere americano. Non solo. Egli lo rese un
membro attivo e solidarmente partecipe della comunità che l’aveva
accolto, dandogli ricchezze e celebrità: la realizzazione vivente di
quel “Sogno americano”, di cui Topolino è un fautore ultraentusiasta. La
creazione del personaggio, e il suo successo, furono di pochissimo
precedenti alla crisi di Wall Street del 1929. Per ragioni non molto
diverse da quelle che hanno prodotto la sconvolgente crisi attuale, ci
fu, dall’avvitamento del credito bancario, una crisi a catena che
sconvolse l’economia finanziaria, prima, e, successivamente, l’intera
economia del paese, prostrandola in modi estremamente drastici. La
risposta, un piano organico di misure politiche ed economiche, il “New
Deal” roosveltiano, come si sa, fu un colossale piano di investimenti
statali, una severa regolamentazione sul credito, poi smantellata nel
corso delle Presidenze recenti, e un’accentuata politica economica
isolazionista: questa creò le basi del tragico sviluppo successivo
(Nazismo, Fascismo, Guerra ecc). Disney fu “chiamato” a dare il suo
contributo nel diffondere ottimismo. Egli rispose con entusiasmo.
Topolino fu l’antesignano dell”americano medio” che si rimbocca le
maniche, e senza tante ciance, si dà da fare nell’affrontare e risolvere
al positivo i problemi. I suoi interventi palesi, suoi e di tutti gli
altri personaggi (non a caso fu contrapposto allo sfigato Paperino il
“fortunato” Gastone, ecc), sono ispirati a questi modi di fare. Allo
stesso modo patriottico si comportò nel corso della II Guerra Mondiale,
in cui il personaggio di Topolino si adoperò per pubblicizzare il
colossale “Prestito di Guerra”, con cui gli Usa chiesero di finanziare
la loro discesa nella guerra antinazista. Anche se si sa che Disney, sul
piano personale era su posizioni culturali e politiche
ultraconservatrici ed era antisemita. Però anche per questo la casa
Disney è diventata quanto di più amatamente, profondamente americano ci
possa essere: si esporta tipo Coca-cola, McDonald’s, ecc., come uno dei
più caratteristici “gagliardetti” del pensiero unico della
globalizzazione. Ma è proprio per queste ragioni che oggi l’icona del
cartoon di Burbank (sede della Disney e del primo Parco a tema a lui
dedicato), non può essere utilizzata come il portabandiera della
ripresa, come lo fu nel 29. Quella odierna ha messo in crisi il sistema
complessivo delle relazioni economiche tra stati. Gli Usa hanno
approfittato del loro status di potenza unica, egemone della Terra, del
ruolo che aveva il dollaro come moneta di scambio, quindi una valuta
“obbligata”, per avvelenare i flussi finanziari dell’intero mondo con i
“pacchi” dei titoli strutturati, in cui erano camuffati crediti
inesigibili, sapendo che lo erano: una truffa cinica perseguita con
disprezzo delle conseguenze. A New York, lo sconfitto, mediocrissimo
Presidente uscente Bush o’ piccirillo, ha dovuto prendere atto che il
mondo è multipolare e dal G-8 si è passati al G-20. Come gli Usa, anche
Topolino si avvia ad un malinconico “Twilight” (crepuscolo; titolo di un
film di successo su adolescenti vampiri, metafora dell’attuale
difficoltà della società Usa…).
“CHANGELING” di
CLINT EASTWOOD; USA,08.
Los Angeles, 1928. Il piccolo
Walter Collins è rapito. La screditata e corrotta polizia della città
dice di averlo ritrovato: ma la madre non lo riconosce e ingaggia un
battaglia con la polizia, incaponitasi contro di lei. Il vecchio leone
ha fatto centro, ancora una volta. Da “Mystic River” (03) in poi,
ci sta dando una serie quasi ininterrotta di bellissimi film: tra cui
“Million dollars baby” (04) che gli ha fatto avere una cascata di
Oscar. Qui è una storia vera tipicamente americana, lo spunto di
partenza. Coma al solito, il regista “sembra” partire esponendo un
tradizionale apologo sull’energia del true american, quella
tipologia western dell’eroe solitario, in questo caso eroina, che
combatte come un David contro il Golia ritenuto invincibile della
polizia corrotta. E queste sono le tracce, su cui c’inerpichiamo
“appresso” al vecchio Clint: ci rendiamo conto invece che ci ha condotti
in tutt’altra parte. Così la mamma non “nasce” come un’eroina; è solo
una donna sola, semplice, ma non sprovveduta, che aveva fatto del figlio
il suo centro esistenziale. E’ disperata, attanagliata dall’angoscia di
non poter sapere che fine ha fatto suo figlio. Tutti i suoi
comportamenti evolvono da questo dato. L’interpretazione che ne dà
Angelina Jolie è perfetta, tutta interiorizzata: perfino il pianto
sembra represso. L’atmosfera incombente sulla città è di plumbea
costrizione: la pratica manicomiale contro i dissidenti non è solo dello
stalinismo sovietico, ma è anche della patria della democrazia. Il
regime poliziesco della città è supportato “all’interno” delle
istituzioni che dovrebbero rispettare la Costituzione: ma nei fatti la
stravolgono. Senza caricare il film, non è forse la prigione di
Guantanamo, dove sono ancora custoditi senza processo, e anche
sottoposti a torture, i supposti terroristi islamici, uno scorno per la
democrazia Usa? Il sornione Clint ce lo ricorda senza enfasi. La
narrazione adotta uno stile classico, dalla grande visualità d’insieme e
precisione storico-scenografica: abbondano i campi medi e lunghi, non
solo negli esterni, ma anche negli interni collettivi; l’uso epico del
Dolly (la macchina che guarda in movimento dall’alto), ecc. Tutti
strumenti tecnici il cui uso, in chiave stilistica, presuppone un
montaggio dai tempi non sincopati. Ciò fa sviluppare quelle riflessioni
psicologiche che stanno soprattutto a cuore all’autore. Come ad esempio
i capoccia e gli esecutori corrotti; o il killer, nella sua
caratterizzazione sospesa tra la follia infantile, la ferocia e la
cattiveria. La donna, in particolare, dopo la vittoria, nel tempo ha
un’evoluzione verso il convivere con la speranza e una nuova vita.
“GALANTUOMINI”
di EDUARDO WINSPEARE; ITA,08.
In un paesino alle porte di Lecce, Ada, Ignazio e Fabio sono dei
ragazzini amicissimi. Ognuno prenderà strade diverse: ma si
rincontreranno. Fabio è un tossico ; Ada una malavitosa; Fabio un PM. Il
regista, benché col cognome inglese, nato in Germania, dove ha studiato
cinema dopo essersi laureato a Firenze, è profondamente legato al
Salento, terra di Puglia che comprende più province. Lui, insieme ai
suoi sceneggiatori, A.Piva e A.Valenti, ed altri ancora, rappresentano
una vera e propria “Apulia wave”: un cinema che si nutre dell’attenzione
estremamente mirata alle problematiche della loro terra. In questo film,
in realtà ambientato negli anni 90, si parla, sotto le spoglie di una
torrida storia di passioni, della Sacra Corona Unita, la “quarta” mafia,
propria di quei territori; e l’unica ad essere stata quasi del tutto
sconfitta dallo Stato. Ma è un taglio di ricerca sociologica maturo,
perché non si sovrappone allo sviluppo dei personaggi; ma anzi, ne aiuta
a precisare le dinamiche psicologiche. Pur in un qualche modo “scritte”
fin dalla loro appartenenza sociale e familiare, le tensioni che si
creano tra loro, ne mutano radicalmente le linee attese. Lo scenario
sociale interseca felicemente le vicende individuali, con guizzi di
profonda e raffinata penetrazione chiaroscurale psicologica. La ragazza,
divenuta un boss della “Sacra”, situazione anomala nelle altre mafie, ma
in questa documentata più volte, mantiene sempre, insieme alla ferocia
necessaria a restare al suo posto, anche un costante briciolo di
umanità: come si vede sia nei rapporti col figlio, che in quella crisi
di pianto, quando il suo gregario, la consola paternamente. Ma è la
scelta dell’attrice Donatella Finocchiaro, premiata al Roma Fest 08, ad
essere valida. La sua “stordente sensualità” (V.Caprara), la fa
diventare anche indifesa, una specie di vittima predestinata della
passione per Fabio, come si vede nel sottofinale: essa, tenuta
sottotraccia dalle convenzioni e dalle vicissitudini, finalmente può
esplodere, lasciando i due dimentichi e come in balìa di questa. Ma i
destini riprendono i loro corsi. Siamo chiaramente dalle parti del
grande Mélò americano e francese degli anni 30 e 40: ma lo dico con
piena lode. Perché l’atmosfera psicologica delle scelte è costruita con
grande cura delle motivazioni, del loro lento ma ineluttabile
dispiegarsi: la sceneggiatura è ottima. E il regista sa costruire,
insieme al bravo direttore delle fotografia Paolo Carnera, il giusto
paesaggio visivo: anzi, la prolungata collaborazione tra i due, fa in
modo che ci sia come un trepido “respiro” cromatico su quelle terre e
città, da loro conosciute e profondamente amate.
POLITICA-SPETTACOLO:
LUXURIA & CARFAGNA.
La presenza e la vittoria di
Vladimir Luxuria, al secolo Wladimir Guadagno, nato nel 65 a Foggia, al
Reality “L’Isola dei Famosi” condotto da Simona Ventura su Rai
2, inducono alcune osservazioni sul rapporto tra politica e spettacolo.
Non intendo dire della “spettacolarità” della politica: ovvero di come
essa si ponga all’attenzione degli utenti/votanti, usando spesso degli
stessi modi della comunicazione mediatica che solitamente attribuiamo
allo spettacolo d’intrattenimento. Voglio invece soffermarmi
dell’intrusione che sempre più spesso fa direttamente nel mondo dello
spettacolo in quanto tale: cioè quando essa, i suoi personaggi, si
mettono a fare spettacolo, all’apparenza smettendo di fare i politici.
In realtà è spesso capitato che appartenenti allo spettacolo, la
Carfagna, la Mussolini, la Gardini, L. Barbareschi, la Carlucci, in un
momento della loro carriera, entrino nella politica. E così è capitato
all’On. Luxuria, eletto come Deputato indipendente di Rifondazione nella
passata, interrotta Legislatura. Evidentemente, c’è un legame di
prossimità molto immediato tra i due settori. E non solo per la semplice
ragione che la prevalenza nelle due attività è data dall’apparire: chi
vuole avere voti, deve meritarseli, non dicendo cose più valide di
quelle che dicono altri; no: ha più voti chi appare “più degli altri”.
Chi si fa notare più degli altri. Ma soprattutto c’è stato Silvio Nostro
che ha “rovesciato tutti i tavoli”, alla vigilia della presente, come di
tutte le altre Legislature, sparando i più mirabolanti annunci di
“felicità e ricchezza” per tutti, “abolendo” le tasse, l’Ici, ecc. E’
proprio lui la personificazione della Politica come Spettacolo infinito
e ininterrotto, fondato sul richiamo sulla sua persona, il “suo” fare,
le “sue” vittorie”, il “suo” Pdl, ecc. Molto di più di Ronald Reagan,
attore diventato Presidente degli Usa, che al suo cospetto è solo un
guitto ignorante. E tutti, specie i suoi, hanno cercato di adeguarsi.
Nello schieramento opposto vi sono politicanti di lungo corso: grigi e
brutti, interpretano il loro ruolo con assoluta pesantezza e
unilateralità, rispetto alla squillante lucentezza da lustrini che
imprime alla politica Silvio B. Vi sono però dei personaggi “fuori” dal
coro, come la Luxuria. Transgender, ha sempre caratterizzato la sua
attività in modi forti: portatrice di un messaggio di cambiamento
profondo nei costumi non solo sessuali, ma sociali rispetto
all’appartenenza di genere, ha sempre testimoniato con coerenza le sue
convinzioni. Esse l’hanno portata al Parlamento. Dove ha lavorato in
modi ineccepibili: la sua preparazione politica era solida, la sua
informazione puntuale. Presente e partecipe a tutte le votazioni
importanti al Parlamento, dava sempre prova di essere esattamente
documentata su ciò che faceva. L’esposizione dei suoi punti di vista,
anche in mezzo alle più atroci e banali polemiche sul suo status e le
sue scelte, appariva sempre misurate, mai isteriche, efficaci: sempre
sostenute intellettualmente e culturalmente. Ciò le fu sempre e
unanimemente riconosciuto: e non solo dai suoi, ma anche da osservatori
indipendenti, come la Mussolini, I.Pivetti, ecc. Fece scalpore il suo
alterco con la Gardini, all’epoca “portavoce” di Forza Italia, che si
isterizzò nel vederla frequentare il bagno delle donne: ma le sue
risposte furono tutte sul livello della testimonianza politica; e non
grossolane illazioni che, invece, caratterizzarono gli interventi contro
di lei. E questo suo comportamento si è manifestato anche nella sua
partecipazione allo Show della Ventura. La prima domanda che ci si è
posti è stata: ma perché vi ha partecipato? Io rispondo: perché no? Che
senso ha lo stesso porsi moralisticamente il dilemma? Le andava ed era
in grado di sostenere una sua coerenza di intellettuale e di militante
sociale (come ha fatto)? Si? E allora ha fatto più che bene. A
differenza, ad esempio, di un’attrice di stampo pippescamente
intellettuale, Domiziana Giordano, presente in una passata stagione del
gioco, Luxuria non disprezzava nessuno. Così se c’era da bisticciarsi o
difendersi lo faceva senza arroganza o sopracciò; non si faceva mettere
in testa i piedi da nessuno. Ma i suoi discorsi, oltre ad essere in
comprensibile italiano, avevano sempre un fondo di sostanza e di
significanza che tutte le altre nemmeno si sognavano. Non bastano tette
gonfie e labbra rifinite per essere donne: lei era molto più femminile
nella sua umanità di tutte quelle bonazze. Ha portato l’attestazione
vivente che si può essere persona umana, con il carico di problemi,
passione e utopie politiche, pur restando in mezzo alla banalità senza
farsene liquefare. Pur smagrita e stremata, ha mostrato che si può
“essere” pur nel mentre si “appare”: e il pubblico l’ha premiata. Non
posso non paragonarla all’escursione che ha fatto direttamente nello
spettacolo, la Ministra della Repubblica M.Carfagna. Sempre con
quell’aria spaventata e contemporaneamente arcigna, forse dovuta a
quegli occhi tenuti sempre tesi e spalancati, ha risposto alle domande
che la compìta Daria Bignardi le ha posto su La 7 in “Le Invasioni
Barbariche” del 21 NOV 08. Mostrando i gusti personali ha descritto
per lei preferibili le “quattro risate” che si fa col cinema di Boldi a
quello di Moretti (vincitore di prestigiosi premi internazionali). Ma,
forse, ciò ha detto in onore del fatto che si è definita, più che di
centro, risolutamente “anticomunista”, “superando” lo stesso Silvio che
attacca i “comunisti”: ma senza mai definirsi in alcun modo. A
definirsi, invece, “anticomunisti” negli anni 70, quando lei aveva poco
più di 10 anni, erano i fascisti. Ma oggi, dopo la caduta del Muro di
Berlino, avvenuta nell’89, cioè vent’anni fa, parlare ancora in questi
termini così rudemente retrò, mostra una carentissima consapevolezza
culturale e un legame con la complessità politica del presente, minimo
o inesistente.
“TWILIGHT” di
CATHERINE HARDWICKE; USA, 08.
Isabella, teen-ager introversa e
“ribelle dentro” capita in quel di Folks, Stato di Washington, la “più
piovosa città” degli States: incontra e s’innamora perdutamente di
Edward dalla bellezza oscura e misteriosa. E’ tratto dal I° volume,
omonimo, di una tetralogia di libri di Stèphanie Meyers, sulle vicende
di vampiri teen-ager, che sta avendo un successo paragonabile a quello
delle avventure di Harry Potter. Al botteghino il film sta ”scassando”:
sta avendo anche più del successo atteso. Sia la regia, che la valida
sceneggiatrice, Melissa Rosemberg, sono state molto attente a immergere
un’ardente, romantica, ben scandita storia d’amore tra adolescenti in
un’atmosfera di mistero e di consunzione fisica, quale è quella che si
configura attorno al Vampirismo. Non solo lo ritengo una delle più
intense metafore della contemporaneità: ma oggi ha un tratto quasi
profetico nell’idea di “crepuscolo” (la traduzione del titolo), che ben
si attaglia alle condizioni generali dell’attuale società occidentale e
Usa. La location della città, nel suo porsi cromaticamente sempre grigia
e piovosa, è quanto di più vicino si possa immaginare ad una notte senza
fine, in cui sono immerse le esistenze “normali” dei buoni cittadini,
che vivono in una marginalità esistenziale, a comune e condivisa , anzi
circondata e come controllata dai Vampiri “buoni”, che abitano, in una
casa luminosa sopra la città in collina. Anche gli Umani sono immersi
nel crepuscolo, eppure lo ritengono consuetudine. Come tra noi, anche
tra loro vi sono forti differenze di dimensioni individuali e
comunitarie: è un articolato, complesso Universo alternativo che convive
al nostro. La tendenza del Fantasy e dell’Horror attuale, non è più
quella di mettere in scena dei mostri, ma degli Universi narrativi
coesi, che hanno una loro completa credibilità, parallela a quella
“nostra”: tal che il nostro è un Multiverso, che comprende più
dimensioni coabitanti. Per la verità è la grande scrittrice Anne Rice
che con “Intervista col Vampiro”, e il ciclo che parte da quello,
ha iniziato a porre in evidenza la soggettività “umanizzata” dei
Non-Morti. Qui si continua e si approfondisce tale crinale tematico.
D’altra parte l’insolita caratterizzazione dark rende ancora più “unica”
la storia d’amore tra i due adolescenti splendidamente caratterizzati
dalle scelte di casting. Le due autrici del film hanno miscelato
furbamente il glamour col romanticismo, cogliendo molte sfumature esatte
di quel mondo giovanile. Scivolano agilmente dallo scenario
urbano-familiare a quello del selvaggio scontro, passando per un senso e
un uso non solo scenografico ma narrativo della dimensione naturale.
“NESSUNA VERITA’”
di RIDLEY SCOTT; USA, 08. R.
Ferris è un agente Cia sul campo tra Bagdad, Amman: la sua missione è il
capo dei terroristi islamici di quel settore; Ed Hoffman è il suo capo
che da dagli Usa lo dirige; pur configgendo, per via dei suoi e altrui
doppi, tripli giochi. Benché tratto da un romanzo di successo, di
D.Ignatius, e sceneggiato da uno dei più dotati di Hollywood, William
Monahan, cui si deve, tra gli altri, “The departed”, e montato dal
premio Oscar Pietro Scalia, il film arranca. Intendiamoci: è sempre un
film da vedere. Vi sono pagine da antologia, le sequenze tra le folle
urbane e d’azione ad es.; ma è la struttura narrativa che si è data,
fedele al libro, che deficita. Il conflitto tra la “ragione ragionante”
della politica strategica, che fa di ogni scontro parziale un tassello
di uno scontro generale, e quello del “sentimento ragionante”, che
appartiene a colui che vive in prima persona i conflitti, facendosene
coinvolgere, è troppo schematico e, dal punto di vista diegetico
(narrativo), irrisolto, perché affidato solo ai dialoghi: non diventa
azione e/o affabulazione filmica. Di Caprio, proprio perché riesce a
vedere le persone, non gli attori-burattini di quel teatrino collettivo
che è lo spionaggio, è, nonostante tutto, anche il più lucido e aperto:
ma è anche il più sacrificabile, perché il più esposto; perciò è, come
tutti gli altri della partita, “usato”. Scott, comunque, è
sufficientemente distaccato dai sentimenti nazionali americani, essendo
inglese, per non pensar male e non nutrire alcun’illusione sia
sull’esito della guerra in Irak, in particolare, che circa la gravità e
la continuità della minaccia terroristica di matrice islamica. E
comprende bene che, in questa situazione caotica, le ragioni di ogni
singolo “giocatore” sono solo all’apparenza simili alle altre alleate
nella strategia contro il terrorismo, perché ognuno “gioca” con proprie
regole, propri e particolari obiettivi. Il film si nutre di questa
consapevolezza: ma non riesce a trovare gli strumenti linguistici per
comunicarcela emotivamente. Ciò avrebbe richiesto un totale
rovesciamento di prospettiva; una maggiore continuità e concentrazione
drammatica, e non il continuo spezzettamento dell’azione che si svolge
su numerose e disparate locations, tutte bellissime, senza che ce sia
comunicata l’intima necessità per cui ciò debba accadere. Perciò il
regista ci presenta il conflitto come sottotraccia: la differenza
fisica, tra lo scattante e nervoso Ferris e la bolsaggine bulimica del
suo capo, Russell Crowe, non potrebbe essere più espressiva. Anzi tra i
due, il più bravo è, a mio avviso, l’attore australiano, che dà al
personaggio un’ombra paranoide di sottile cattiveria.
LA CRISI ECONOMICA E
LA POLITICA.
Oggi non sembrano esserci delle
sofferenze tali per cui le Banche italiane sarebbero dovute ricorrere ai
contributi straordinari messi a disposizione dello Stato, benchè in
modalità e con disponibilità di capitali mai del tutto chiarite.
Qualcuna si è trovata spiazzata da incauti acquisti all’estero di quelle
avvelenate “Obbligazioni Strutturate”, piene di inesigibili mutui
sub-prime Usa. Tali banche sono dovute ricorrere a parziali
ricapitalizzazioni (chiedere soldi per ripianare delle perdite “reali”
al proprio capitale), come l’Unicredit : ma è bastato il ricorso al
normale mercato finanziario. Il che implica un accettabile tasso di
credibilità, sia nei confronti della banca in oggetto, che del sistema
intero. Ed è appunto la credibilità la pietra angolare dell’intero
sistema creditizio. Però la crisi da finanziaria è diventata
dell’economia reale, e questa, nonostante il non del tutto negativo
andamento finanziario, di cui dicevo prima, ha coinvolto anche il
nostro paese; anzi, l’ha colpita in pieno. Come mai? Innanzitutto, il
“frutto avvelenato” della situazione prodottasi in relazione alla
“mancanza di fiducia” tra le varie Banche, si è manifestata anche da
noi, perchè ognuna della altre banche poteva fallire all’improvviso, per
cui la circolazione interbancaria dei capitali, necessaria
all’erogazione di prestiti, mutui ecc., è stata fortemente rallentata: è
stata chiamata il “Credit Crunch”. Il Tasso Euribor (il costo della
circolazione interbancaria in area euro) è stato molto più elevato dello
stesso tasso di sconto. Il costo di fatto alto e/o l’assenza dei
capitali da investire, era la spia di una situazione nazionale e
internazionale, molto fragile. La nostra, infatti, è, ed è sempre stata,
un’economia di trasformazione e di servizi: cioè, data la totale carenza
di materie prime e di energia, ha dovuto importarle sempre, per poi
“lavorarle”, e crearne dei manufatti, da rivendere, soprattutto nelle
aree “forti”, della Germania e Stati Uniti in particolare; come anche in
quei mercati arriva la nostra moda, le nostre griffes, ecc. Se il
mercato estero rallenta e quello interno non è in grado di sopperire al
calo, acquisendo le merci invendute all’estero, ecco che, come è
capitato, viene la crisi. Ai milioni di disoccupati in Usa, si
aggiungono le centinaia di migliaia di lavoratori in Cassa Integrazione
di tutte le grandi aziende italiane. Ma questi sono i “garantiti”: per
tutti i precari, a tutti i livelli, dai commessi dei negozi, i
call-center eternamente “in prova”, ai lavoratori (fasullamente) “a
progetto”, spesso di alto profilo formativo, c’è il nudo e crudo
licenziamento o il ricattatorio peggioramento delle condizioni. La crisi
è di così vasta portata, così profonda, così interattiva e
internazionale, che sta richiedendo, da parte degli Stati e di concerto
tra loro, delle politiche straordinarie. Tali da stravolgere tutto il
senso di quanto fatto finora: dal non-intervento dello Stato, in nome
della libera concorrenza tra aziende e contro il protezionismo, si sta
passando a quella che il Ministro dell’Economia Tremonti ha definito, ma
è un indirizzo che culturalmente non gli appartiene, l’”Economia Sociale
di Mercato”, per cui lo Stato è, in definitiva, il garante che il
mercato, che da solo non sta funzionando perché troppo anarchico e
preda del malfare di speculatori, assuma dei correttivi, che proteggano
la società nel suo complesso, cioè noi tutti. Ma passando dagli spot ai
fatti, che sta facendo Silvio Nostro? E’ da osservare, per prima cosa,
che Silvio B., a differenza di tutti, ma proprio tutti gli altri, anche
del suo Governo, la crisi la nega. Dice che se noi ne parliamo questa ci
prende; ma se compriamo tranquilli sul mercato, l’allontaniamo. La sua è
una giusta preoccupazione: se si ha fiducia, si rinforza la fiducia. Ma
come la mette lui, diventa ridicolo, e perde ogni credibilità. E perché,
poi, fare una Legge-Stralcio alla Finanziaria, già approvata, e che
quindi è un evento straordinario di per sè, se la situazione non fosse
fuori norma? Comunque questo intervento è poca cosa. Il Governo parla di
circa un centinaio di mlrd di € destinato a grandi opere
infrastrutturali: cosa giusta e utile, perché sarebbe in grado di
animare l’economia, se partissero da subito. Ma è una patacca: esse sono
fondi presenti in Leggi già stabilite e che richiedono svariati anni
per poter essere realmente avviate. Rimangono un 4 mlrd, poi portati a
6mlrd e mezzo di euri: ed è questa la cifra disponibile. Da qui è uscito
l’obolo della Social Card, che, come idea, non è male: ma è poco e
favorisce strati numericamente minimi della popolazione. Ma soprattutto,
come è stato detto, non incide a livello di macroeconomia nazionale: non
“smuove” la domanda interna. Così anche non si comprende come saranno
attuate le misure i favore delle sofferenze dei mutui e a chi saranno
rivolte. Meglio sarebbe stato con la detassazione della tredicesima, che
avrebbe animato i consumi, dando una botta di vita all’economia. Mancano
i fondi, o sono di piccola entità, ad una coerente e incisiva politica
degli Ammortizzatori Sociali, quelli che gli economisti del sito “lavoce.info”,
definiscono come la necessità di mutare, allargare e aumentare in modi
sostanziosi, l’indennità di disoccupazione a tutti i precari. Ma, si
risponde, non ci sono soldi. E’ ovvio che non ci siano, se la lotta
all’evasione fiscale è stata attenuata: il gettito dell’Iva, del II
semestre dello 07 (quindi prima della crisi) era significativamente
sceso, perché disapplicate alcune norme messe in essere dal Governo
Prodi. Ma principalmente Silvio Nostro vuole trasformare la presente
congiuntura straordinaria, in un’opportunità per mutare l’intero corso
economico, mettendolo sotto una sorta di sua tutela politica : sono
infatti stranamente aumentati i Fondi (Sacconi, Scajola, ecc.) messi a
disposizione di singoli Ministri e settori d’attività di loro
competenza, per operarvi a loro discrezione e sotto la loro direzione
strategica. E’ evidente inoltre, come si evince dalla riduzione dei
fondi agli incentivi a energie alternative, il desiderio di B. di
passare al Nucleare, disattendendo (anzi: strafregandosene) il
referendum popolare a suo tempo celebrato, vinto dai no: peraltro agendo
al contrario dell’intero capitalismo occidentale, volto agli
investimenti sull’ambiente.
“ULTIMATUM ALLA TERRA”
di SCOTT DERRICKSON; USA, 08.
Le civiltà aliene ci osservano e controllano. La Terra è stata
condannata: se Klaatu, loro ambasciatore, non sarà ascoltato, la
sentenza sarà eseguita. Remake dell’omonimo, mitico film del 51 del
grande ma misconosciuto Robert Wise, se ne differenzia in molti aspetti:
compresa l’assenza della frase-cult “Klaatu barada nikto”, con
cui l’alieno blocca il super robot Gort . Soprattutto il messaggio è
diverso. Mentre il film del 51 aveva un’impronta coraggiosamente
pacifista, in quanto, in una fase d’isteria collettiva della Guerra
Fredda tra il blocco occidentale e quello sovietico, apriva alla
speranza di una pace possibile (speranza peraltro non presente nel
racconto originale da cui fu tratto), qui prevale nettamente l’intento
ecologico. E’ la nostra incuria criminale che sta assassinando il
Pianeta. E sono molto più articolate le ragioni del rifiuto delle
massime autorità Usa ad ascoltare Klaatu: la rappresentante fa un
paragone storicamente fondato, allorché mette in evidenza che quando una
Civiltà superiore entra in contatto con una inferiore, questa è
spacciata: fa esempi del colonialismo dal 500 all’800, solo che questa
volta i “colonizzandi” siamo noi. Da qui la sua ferrea opposizione; e,
anche se lei vorrebbe trattare, il Presidente, ben in salvo da qualche
parte, le ordina di attaccare. Questo personaggio ha un’ampiezza e porta
una dialettica narrativa, affidata alla pluripremiata K.Bates, che
l’originale non aveva. E anche la figura dell’alieno è differente: alla
ieraticità, vagamente mistica di Michael Rennie, è sostituita la
fisicità asciutta e nervosa di Keanu Reeves. Egli è volutamente
impassibile, perché deve comminare una catastrofica condanna per
miliardi di persone; ma non è insensibile alla singola vita umana. Da
qui nasce la dialettica che lo riguarda. Egli si rende conto che è
proprio questa la “differenza”: i comportamenti collettivi, decisi dai
governanti, non rispecchiano quelle caratteristiche profonde degli
individui che noi definiamo, complessivamente, umanità; anzi ne sono la
negazione. E proprio nei momenti di crisi esse vengono prepotentemente
alla luce. Quindi, lo sviluppo del film, pur se accompagnato dai soliti,
ma non disprezzabili, mirabolanti effetti digitali, riafferma una sua
cifra intimistica, dando spazio, ad esempio, ai conflitti familiari tra
madre e figlio, e alle loro motivazioni. Il robot Gort ha una potenza
figurativa che supera il modello. Non solo è più credibilmente,
solidamente minaccioso, ma subisce delle metamorfosi stupefacenti: è
vero che vi sono “citati” diversi film, da “Terminator II” a “La
Mummia”; ma la coerenza visuale lo rende impressionante.
“STELLA”
di SYLVIE VERHEYDE; FRA,08.
Anni 70, Parigi: Stella ha 11 anni, figlia di albergatori di periferia,
entra in una scuola media “per ricchi”. La vede come un’opportunità per
la vita, nonostante le difficoltà ambientali e familiari. Presentato ai
“Venice Days” di quest’anno, mette in luce aspetti autobiografici della
regista, autrice del soggetto e dello script. E’ lei la bambina che si
aggira per il mondo, assetata di intelligenza, senza saperlo. Vive come
imbozzolata in un ambiente un po’ sul degradato, non privo comunque di
riferimenti affettivi; ed è costretta, per sopravvivere, a mostrare una
scorza di durezza che col tempo avrebbe potuto invadere la sua anima,
rendendola impermeabile ai sentimenti. La sua scelta di frequentare una
scuola fuori del quartiere sembra fuori contesto: ma, dopo un trimestre
fiacco, in cui semplicemente non esiste, come una scintilla che scatta,
prende gusto, grazie ad un’insegnate dotata di comunicativa, alla
Storia, e di lì prende consapevolezza di sé. L’aiuta un’amica di origine
ricca ed ebrea, anch’essa, un po’ “fuori”. E l’inizia al “vizio” della
lettura. C’è quella sequenza, bellissima, dell’acquisto del suo primo
libro: il suo fare è furtivo, come se rubasse, pur pagando; o, peggio,
s’infiltrasse in territori da cui si sentiva come intrusa, indesiderata:
in cui non “meritasse” di entrare. Mentre invece ella scopre di trovarsi
a suo agio: Balzac, M.Duras, sono come degli amici presenti. E che non
le fanno recidere le sue radici: i rapporti coi suoi genitori, vivi, ma
sentimentalmente confusi, e con la sua amichetta mezzo coatta nel
paesino dei suoi al nord, vengono semplicemente raccordati ad una
maggiore e più consapevole umanità in cui Stella esiste, “c’è” e
sceglie. Mi ha colpito questo livello di umanizzazione non moralistica
raggiunto con chiarezza e nei termini di una sensibilità
preadolescenziale. E’ molto difficile far convivere in una narrazione
autobiografica il senso affettuoso della memoria e quello della
formazione. Sono spesso elementi che si elidono a vicenda, perché non si
supportano vicendevolmente: l’indulgenza per sé e i personaggi del
proprio passato, potrebbe come offuscare la nitidezza delle motivazioni
un po’ meno evidenti, magari anche spietate su di sé e gli altri.
Bisogna dire, invece, che la regista ha fatto profondamente propria la
lezione del Truffaut dei “400colpi”: l’ha addirittura superato, perché
evita lo slancio lirico dell’indimenticabile finale di quel film; ne
crea un altro pieno d’affetto per l’amichetta coatta, che ricorda a noi
e a se stessa le sue origini che lei non rinnega, ma rivivifica. Se c’è
un film per quell’età è proprio questo, ricco di poeticità, di realismo
e d’intelligenza.
PS.
Poste queste premesse critiche,
condivise da tutti gli osservatori, non capisco le motivazioni per cui
la Commissione di Censura del Ministero ha posto il divieto ai minori
14anni: il che impedirà la circolazione del film nelle scuole. C’è la
sequenza di un tentativo di violenza pedofila, cui peraltro si sottrae
con decisione. Essa non è violenta e serve a descrivere le enormi
difficoltà della stessa sopravvivenza ambientale di Stella: quindi ha
una sua funzione narrativa. Allora perché hanno messo il divieto? Non è
che la causa sia il fatto che il film è distribuito dalla Sacher Film di
Nanni Moretti,verso cui il governo, Ministro Carfagna in testa, si è
detto pubblicamente ostile?
“IL DUBBIO”
di JOHN PATRICK SHANLEY; USA, 08.
Brooklyn 1964, nella scuola parrocchiale la Direttrice, una Suora
ipertradizionalista, pur all’indomani del Concilio, sospetta che il
Parroco abbia atteggiamenti ambigui rispetto ad uno studente di colore,
da lui protetto. E’ la puntuale messa in film del dramma teatrale
omonimo, diretto dallo stesso autore, anche da noi rappresentato in
questi giorni con la regia di S.Castellitto e con S.Accorsi, ritenuto
al top della bravura, nella parte del prete. Nel film è Ph. Seymour
Hoffman, candidato all’Oscar; mentre la suora è M. Streep, che dallo
scatenato musical “Mamma mia!” passa con estrema scioltezza ad una così
cupa caratterizzazione, anch’essa candidata all’Oscar. Un film di mostri
sacri? Si, e non solo. Nonostante la provenienza chiaramente teatrale,
esso dà forti emozioni; costruisce un’azione e un crescendo di tensione.
Anzi, la validità del film suggerisce un ulteriore elemento alla vecchia
discussione, nata si può dire con la nascita del cinema: il teatro può
essere cinema? Personalmente, ritengo che, anche in questa, l’unica
soluzione è “rovesciare il tavolo”. Il trasferimento in sede filmica del
gesto teatrale, fatto di parola/atto scenico, funziona se il tempo
narrativo è scandito, nella forme peculiari e/o reinventate (una volta
si sproloquiava di un misterioso “specifico filmico”) del linguaggio
cinematografico, attraverso, nel senso etimologico, di “profondamente
dentro”, la stessa parola. Il montaggio, la costruzione
dell’inquadratura, l’illuminazione, la scenografia, la coreografia, ecc.
devono servirsi della capacità attoriale di “essere”, essi stessi,
incarnazione di quanto pronunziano. Così è stata individuata, nel tempo,
un’altra forma di genere narrativo, quella “Teatrale”. Gli attori danno
una rappresentazione “strutturata e inglobata” del tempo storico
cornice della vicenda. Ed è ciò che fanno al meglio i tre del film, non
dimenticando la suorina giovane- testimone e “coro” della vicenda, la
sottilmente brava Amy Adams, alle prese di un’epoca assai difficile e
complessa quale erano gli anni 60. Sono citati due riferimenti
storici-chiave: l’assassinio di J.F.K. e il Concilio. In questo recinto
si dibatte un conflitto che va oltre le persone, ma le ingloba con tutta
la possibile complessità delle psicologie messe in campo, le ambiguità e
i dubbi. Gli scontri ideologici si basano su quelle individualità, non
solo sui messaggi che essi portano, e sono rivissuti con sofferenza.
Anzi, all’inizio si pone la sfera del dubbio come una matrice filosofica
di fondamentale accrescimento delle proprie consapevolezze razionali ed
emotive. In questo il film non ci dà alcuna facile certezza e pace.
“REVOLUTIONARY ROAD”
di SAM MENDES; USA-UK, 08.
Usa,1955. Frank e April sono
giovani coniugi che stanno imparando a gestire l’esistenza reale, grigia
e abitudinaria coi figli, il mutuo e il lavoro. Pensano di sfuggire alla
routine inventandosi un futuro “speciale” a Parigi. Tratto dal romanzo
omonimo di R.Yates, il progetto del film è stato del produttore Scott
Rudin, ma ha preso forma dopo che l’attrice Kate Winslett e suo marito,
il regista e coproduttore, l’hanno fatto proprio. Da notare la figura
di Rudin, producer importante di Hollywood, con l’occhio spesso rivolto
al cinema di qualità, nonché inglese: suo è il pluri-Oscar del 2008 “Non
è un paese per vecchi” dei Fratelli Cohen, ed anche l’acclamato “The
Queen. La regina” (06). C’erano rischi che il film poteva essere un
purpo: tratto da un romanzo, quindi molto dialogato, e narrativamente
statico, affidato ad un bravo regista (Oscar 2000 e 2003) che
sostanzialmente viene dal grande teatro inglese, con attori di assoluto
rilievo, quindi tendenzialmente portati all’autocompiacimento
recitativo. E invece, come in una magica alchimia, il film funziona.
Commuove, fa riflettere. Sono messe in scena le utopie velleitarie di
due giovani americani, pieni di aspirazioni senza direzioni precise,
affidate alla volontà giovanile di un’ipotetica trasformazione, che, di
fatto, fugge dalla realtà e non si confronta con essa. Sono dei “giovani
Holden”, una topica della letteratura e della cultura americana, che non
hanno superato l’adolescenza. E’ un processo di trasformazione
patologica che i due si rimpallano per un misto di incapacità di
guardarsi dentro, di dare pace a quel “vuoto di disperazione”, come è
detto nel film, che li attraversa nella vita quotidiana. Tra i due
sembra più il ragazzo acconciarsi con le modalità volute dalla società:
anzi, per puro caso, conosce il successo nel lavoro che gli dà la
sensazione di poter sfuggire all’angoscia della routine. E la sensibile
April sembra la vittima predestinata. In realtà è una struttura
drammaturgica molto complessa che non prevede “Salvati”, ma solo dei
diversamente “Sommersi”. Non esistono buoni o cattivi, ma solo dei
processi in atto osservati dal regista con vicinanza affettiva, molta
attenzione, spietata consapevolezza dei limiti reciproci. Il film si
basa sui due splendidi attori, ma anche sulle rapide figure di contorno:
come il folle (M.Shannon), sua madre (K.Bates). La Winslett e DiCaprio
sono maturi, attenti, ricchi di sofferte sfumature (quasi) senza vezzi.
La regia compie un lavoro di messa a fuoco scenografica e di montaggio
che esalta e “muove” la drammaticità delle situazioni dall’interno,
“giocando” con gli attori e i loro spazi, utilizzati al millimetro.
FIORELLO A CENA DA BERLUSCONI.
Nell’ultimo scorcio del gennaio
2009, ha fatto notizia l’invito del nostro Premier al popolare
cantante-fantasista Fiorello, che è stato accettato. Della cena poi
avvenuta, non si hanno successivi commenti o dichiarazioni, tranne
alcune battute di Fiorello, che, da par suo, ha sdrammatizzato e
ironizzato. Tuttavia “sotto” vi sono dei fatti ben concreti. Si sapeva
che lo show-man era in procinto di passare alla rete satellitare Sky,
con un ricco contratto. Infatti la rete satellitare vuole aprire una
parte del suo satellite alla tv di tipo “generalista”, quella che si
vede senza pagare, sorretta dalla sola pubblicità, chiamandola “Sky
Vivo”. Ma è contro la tv di Murdoch che è in corso una complessa e sorda
battaglia a tutto spiano, da parte di Berlusconi. Sky, forte dei suoi
attuali 4mln 700mila abbonati, è l’unico vero concorrente che può
impensierire i sonni di potenza del Cavaliere. Ormai la Rai, pur non
essendo formalmente la succursale di Mediaset, fa un programmazione che
non impensierisce le reti del Biscione: anzi le amplifica e le potenzia,
perché si adegua alle esigenze sue, non cerca, non sperimenta, non
programma strade diverse: reality contro reality; varietà al sabato sera
contro varietà; film contro film; ad un forte contenimento di spesa
nella tv milanese c’è un fortissimo contenimento rai,ecc. Si pensi
inoltre all’eclatante venuta della Defilippi a Sanremo: anche se
aggratis, essa di fatto rinforzerà ulteriormente la potenza mediatica di
questo personaggio, che è targata Mediaset, implementandone il già
potente valore aggiunto. Perché così funziona la gestione dell’immagine.
Anche nei confronti della tv del magnate australiano, il nostro Premier
ha invocato la “non italianità” di Murdoch, il proprietario di Sky,
della Fox e di un impero mediatico-editoriale che copre l’universo
mondo. L’ha fatto anche riguardo anche alla sciagurata vicenda Alitalia,
in cui, opponendosi alla sua vendita ad Air France, ha rifilato l’intero
”paccotto” delle perdite allo Stato, cioè a noi, e la polpa agli “amici”
suoi che poi ha definito “patrioti”; ma ha permesso alla stessa
Compagnia francese, con un esborso molto, ma molto inferiore rispetto a
quello che avrebbe pagato acquisendola, di impadronirsi delle tratte
internazionali, che sono la parte più succosa del business. Quindi c’è
da fare molta attenzione. D’altronde, Murdoch e Berlusconi erano amici,
fino a qualche anno fa. Infatti, come “due compari” pensavano che la
“spartizione” dell’etere in due sfere di competenza e d’interesse,
all’Australiano il Satellite, al nostro il terrestre, sia esso analogico
o digitale (la Rai non conta perché da tempo è “in quota” Mediaset),
avrebbe assicurato profitti altissimi per loro. Ma l’evoluzione sia
tecnologica che industriale ha un po’ scompaginato il quadretto che si
erano dipinti i due. Si è visto che, a parte la mediocre gestione di
Pier Silvio B., e del suo sodale Salem, che hanno infilato una serie di
errori strategici dopo l’altra, la tv “generalista”, cioè aggratis, è
roba da “vecchi” e poveracci, e col tempo avrebbe ceduto la sua
supremazia finanziaria a quella “Pay”, ben più remunerativa, con o senza
pubblicità (preferibilmente con). Allora che ti ha fatto il Cavaliere,
col fido Gasparri dell’omonima Legge? Ti manda tutti sul Digitale
Terrestre. Il segnale di questa tv arriva via etere terrestre, cioè via
antenna/decoder, ed è molto più compresso, perché digitale. Quindi:
molti più Canali, tra i quali alcuni “Pay”. Ed è la Mediaset Premium,
con cui avrebbe, se non fatto concorrenza, almeno rosicchiato un po’
dello strapotere Sky. A parte che la tv del Biscione si è impadronita,
con l’annuenza e/o il sonno della Rai di un numero spropositato di
canali, e paga un fitto irrisorio allo Stato (ma questa è la vecchia,
trita storia del conflitto d’interesse, ecc.: ma ke v’o’ dic’a’ ffa’?),
si sono rilevate delle controindicazioni molto serie dallo “Switch Off”,
avvenuto per ora in Sardegna e Val d’Aosta, cioè il passaggio completo
al digitale. Questo digitale, tanto strombazzato, si sta rivelando,
prima ancora di nascere già un “ferrovecchio”: tecnologie ingombranti,
rigide, costose, di fatto già superate. Si pensi che se si passasse
all’HDTV, cioè la tv ad alta definizione, che Sky già possiede col
minimo ingombro perché già presente sul Satellite, le frequenze, a causa
dell’enorme quantità di dati da trasportare, si ridurrebbero
drasticamente. Ma quel tipo là pensa “la notte per il giorno”: ha
cacciato l’idea di fare un Satellite diviso tra Rai-Mediaset , al 45%
ciascuno, il resto a Telecom e altri, il cui segnale verrebbe dato
gratis con un Decoder adatto, su cui mettere tutta la programmazione
generalista delle tv interessate, togliendola a Sky, dove si continuano
a vedere ancora oggi. E questo è parte della guerra che il Governo sta
muovendo al concorrente “personale” del suo Premier: prima con l’aumento
dell’IVA, da 10 al 20 %, tutto in una botta, poi con l’imposizione di
una tassa aggiuntiva del 25% sulla programmazione satellitare porno,
che, da sola, frutta il 10% del fatturato. E che ti fa Murdoch, non a
caso chiamato “Jaws” ( lo Squalo)? Sta cercando realizzare una furbata
ambiziosissima: impadronirsi della plancia di comando di Telecom, ovvero
accordarsi con Cesar Alierta il boss di Telefonica (la potente telecom
spagnola), che detiene il più consistente pacchetto azionario fuori
della Telco, la cordata italiana dei finanzieri di riferimento
nazionale. Ma che c’entra la Telecom? Moltissimo. Sia perché essa già
possiede la tv di Internet, “Alice”, e le tecnologie della Tv-Phone, in
futuro destinate a crescere in modi esponenziali. E poi perché la
telefonia potrebbe essere la soluzione di tutti i problemi, in quanto in
grado di realizzare la tanto agognata cablatura dell’intero paese. Ed è
la tv via cavo la soluzione che renderebbe inutile sia l’etere analogico
che quello digitale. Ma anche qui, con più che sospetto tempismo, il
Presidente Nostro, già incomincia a parlare di ”difesa del patrimonio
nazionale”, proponendo la divisione tra la Rete Telecom (le
infrastrutture fisse), da statalizzare, a cui eventualmente addossare le
spese della cablatura e i Servizi di Telefonia. E’ chiaro che una
Telecom così divisa sarebbe alla portata di un singolo operatore
nazionale: e quindi Mediaset se la papperebbe in un sol boccone,
diventando L’Operatore.
“MILK”
di GUS VAN SANT; USA, 08. Il
22 novembre 78, Harvey Milk, il primo politico istituzionale
dichiaratamente gay viene ucciso a San Francisco, insieme al Sindaco. Il
film ne narra la breve ma intensa stagione politica. “Un eroe della
storia politica Usa”, così lo definisce il regista. Ed è tale, senza
orpelli, senza enfasi, con una grande consapevolezza sociale e
personale. Politico intelligente, dotato di un senso attento delle
opportunità e della mediazione, ricco di umana sensibilità, aveva una
visione lungimirante, articolata e complessa della stessa battaglia a
favore dei diritti umani dei gay. Egli li inquadrava nella lotta
generale per i Diritti Civili, per la solidarietà con tutti gli altri
settori della popolazione deboli e discriminati: gli anziani, i bambini,
gli immigrati, i neri e gli ebrei. E anche la classe operaia: lui capì
che bisognava allearsi con quanti più strati possibili della
popolazione, facendo uscire i gay dal ghetto e dall’anonimato. E che
solo in questo modo poteva sconfiggere l’insidiosa campagna politica
portata avanti dai settori più reazionari dei politici
cristiano-tradizionalisti americani per far arretrare le condizioni di
esistenza stessa degli omosessuali nel paese. Crociata che trovò nel
volto della cantante con aspirazioni politiche, Anita Bryant, la sua
telegenica portavoce. Il regista costruisce in una visione di calviniana
leggerezza, un personaggio dal profilo molto elaborato. E lo fa insieme
all’attento sceneggiatore Dustin Lance Black, anche produttore, e,
soprattutto, all’attore protagonista Sean Penn, vibrantemente calato
dentro. Su lui incombe una premonizione di sacrificio estremo: che gli
fa però attraversare la sua esistenza come una testimonianza tesa tra
il mettere in pratica le sue convinzioni e l’annuncio utopico di una
speranza. Dimensione, questa, che oltre a non venirgli mai meno, pur in
mezzo alle più disparate difficoltà, arricchisce la sua umanità. Non lo
rende retoricamente urlante, ma più soffertamente semplice. Penn ha già
affrontato ruoli di politico schiacciato dal potere, che lo svuota e lo
trasforma una volta che l’ha assaporato (“Tutti gli uomini del re” di
S.Zaillian, 06): la differenza non poteva essere più marcata con Milk.
Il protagonista “vive” intimamente il movimento, ne è la
personificazione più efficace e generosa. Le sue ambizioni collimano con
quelle della sua Comunità. Il regista ne fa un esempio di virtù
politiche, ma non un santino, perché lo investe di una sottile
autoironia; ne coglie anche alcune fragilità, soprattutto nei rapporti
coi suoi partner. Ed eccelle nella ricostruzione della fase storica. Non
è il solito Biopic, ma una testimonianza sincera, viva e presente.
“DEFIANCE. I GIORNI
DEL CORAGGIO” di Edward Zwick;
USA,08. 1941: alla venuta dei
nazisti un gruppo di ebrei polacchi fugge e sopravvive nelle foreste
della confinante Bielorussa. La comunità, capitanata dai fratelli
Bielski, raggiungerà la cifra di 1200 persone. Il film è da vedere.
Narra di un episodio storico, tutto sommato secondario, ma significativo
della resistenza armata al nazismo: a combattere, per sopravvivere, sono
degli ebrei. Il film, tratto da un libro, affronta, anche se
tangenzialmente, le ragioni per cui gli ebrei si fecero scrupolo di
ribellarsi, ma di attendere. Naturalmente sottovalutando la fredda e
pianificata ferocia nazista: anche perché questa si presentò a tappe,
smascherandosi poco alla volta; quindi lasciando spazio a quelle
componenti sociali ebraiche, le più ricche, più inclini a sposare le
ragioni dell’autorità, qualunque essa fosse, con le quali e a cui
avevano convissuto ed erano sopravvissute per secoli. I Bielski erano
tutti contrabbandieri: quindi assolutamente malfidati verso qualunque
autorità legale; per istinto compresero la natura dei nazisti, non
nutrendo alcuna illusione di sorta. Essi erano ritenuti dei paria, e
fecero grande fatica a scalfire la diffidenza, nutrita nei loro
confronti dagli “anziani”, cioè i ricchi e influenti membri della
comunità, con i quali erano in aperto conflitto di classe. Il film ce li
presenta realisticamente come degli eroi “per caso”, quasi loro
malgrado. E crea delle dialettiche al loro interno. Anche se si regge
sulla sanguigna e prepotente presenza di Tuvià (Daniel Craig), il
protagonismo non si limita a questo riuscito personaggio. Mano a mano
che la narrazione si sviluppa emergono le personalità degli altri due:
Zus, il combattente assoluto che aderisce per breve tempo alla
resistenza sovietica, lo sperimentato e convincente Liev Schreiber; e il
più giovane dei tre, Azaev, forse il più deciso e realistico, l’attore
Jamie Bell, che dopo “Billy Elliot” ha trovato una performance adeguata
al suo talento. Ma tali differenziazioni funzionano perché risultano di
supporto alla messa in luce di sfaccettature nel personaggio complesso
di Tuvià. A mio avviso è la sceneggiatura il vero segno di qualità del
film. Essa scandisce con una chiarezza impressionante tutte queste
sollecitazioni riflessive; e lo fa senza che l’azione ne risenta
minimamente. E’ opera del redivivo Clayton Frohman, che dall’83 con il
bel “Sotto tiro” di Roger Spottiswoode, aveva fatto perdere le sue
tracce. La regia sostiene il percorso narrativo con soda efficacia
visuale, pur se senza respiro visionario.
“APPALOOSA”
di ED HARRIS; USA, 08. New
Mexico, 1882, due pistoleros, Virgil e Everett, vengono ingaggiati come
Sceriffi ad Appaloosa un paesotto funestato da un criminale. Tra i due
s’intromette una piacente vedova. Il regista, anche produttore e
cosceneggiatore è più noto come attore: ad esempio è stato l’onnipotente
e misterioso méntore di Truman nell’omonimo film. Qui invece, pur
interpretando un infallibile e incottuttibile bounty killer, di fatto si
fa menare per il naso da una vedovella arzilla e civetta, nonchè un po’
sullo zoccolesco. Molto più saggio, è il suo assistente: un roccioso, ma
umano e non insensibile Viggo Mortensen, che, anzi, pur parlando ancor
meno del suo datore di lavoro, è quello che capisce di più, prendendo le
scelte giuste. Il film appartiene al redivivo genere western, che sta
rivivacchiando. Pur non facendo sfracelli al botteghino, quanto a
gradimento del pubblico, mantiene una sua onesta rappresentatività. In
realtà, molti polizieschi e action movies odierni non sono che western
camuffati, in cui al posto dei cavalli ci sono le auto. Questo è il
genere Usa per antonomasia: è l’epica “primitiva” (come le Chansons de
Geste medievali), ma spesso raffinata, che “canta” la creazione della
stessa nazione, che si è edificata sulla visione dei valori di
quell’epoca. Ha avuto una vitalità figurale tanto forte che ha permesso
ad autori di altri paesi di utilizzarla come scenario allegorico, come
ha fatto il nostro Sergio Leone, di cui ricorre il 80enario della
nascita. Ma così facendo ne ha decretato la fine: solo che questo
crepuscolo è stato illuminato dai grandi capolavori di Sam Peckimpah
(“Mucchio Selvaggio” e altri). C’è stato lo sprazzo di puro genio di
Clint Eastwood (“Gli spietati”, 92, premio Oscar), ma anch’esso è un
film notturno. Harris ha fatto la scelta giusta. Egli ha narrato in
understatement: il suo è un tono semplice, che va diretto al nocciolo.
Non ha preso come scenario i grandi spazi, perché il suo orizzonte
visuale è più contenuto, o più mediocremente limitato. In fondo lo
sbattersi di quelle persone contro quel criminale è un fatto quasi
privato: non c’è nessuna particolare tensione etica. Le mosse narrative
sono lineari e quasi obbligate: l’azione ci è somministrata con
efficacia drammatica ed espressiva. Ma non c’è nessun ricerca di una
maestria nel montaggio, o di inusuali effetti drammatici. Questa
semplicità è però segno d’intelligenza. Perché ha costruito un film su
credibili psicologie: sua, del socio e del loro rapporto con la donna.
Noi assistiamo allo scontro di persone umane in un ambiente storico
determinato.
“AUSTRALIA”
di BAZ LUHRMAN; USA-AUSTRAL., 08.
1939: Lady Ashley prende possesso della tenuta del marito alle soglie
dell’Outback australiano. Conduce una mandria al porto, scontrandosi con
un altro grande allevatore e affronta l’invasione giapponese. Il
regista, anche produttore del film, ha inteso erigere, in forma di film,
un monumento alla nazione-continente che gli ha dato i natali. Come ad
altri famosi attori aussies sparsi nel mondo e presenti a Hollywood. Tra
cui i due protagonisti, N.Kidman e H.Jackman, che non deludono, quanto
alla presenza scenica e al glamour che ci si aspetta da loro. Anche se
fin troppo stereotipati: abbastanza ridicola è stata la scena della
doccia in pretto stile macho-pubblicitario di Jackman. Ma è nel
complesso che il film non funziona. Di fatto è come se fossero tre i
film in uno, ognuno non comunicante con l’altro. Il primo è il western
dei grandi spazi, incentrato sulla vicenda del trasferimento del
bestiame, ostacolato dal cattivo di turno, il bravo e carismatico
B.Brown e dai suoi sgherri, tra i quali è da segnalare il più fetente,
D.Wenham, e dell’incontro col protagonista. Sono decine i western
classici, a partire dal capolavoro “Il fiume rosso” di Howard Hawks
(48), direttamente citato, come anche lo è Sergio Leone, che parlano di
questo tipo di epopea. E qui è la parte più convincente, paradossalmente
più originale del film. Il senso del viaggio, come processo
trasformativo è reso in modi cinematograficamente impressionanti, con la
lettura degli spazi primigeni, incontaminati e sterminati di quel
continente; esso è un andare accompagnato dalla presenza dei nativi,
impersonati dalla misteriosa e ben caratterizzata figura di King George,
il conosciuto attore aborigeno David Gulpilil. Poi c’è il film
del’invasione dei nipponici: e qui siamo nettamente “dentro” “Via col
vento”. Il regista voleva mettere in evidenza la nascita dello spirito
australiano e del suo distacco dall’Inghilterra, il paese colonizzatore.
Il ragionamento storico è giusto: ma è poco compartecipato emotivamente.
Il terzo film è quello della “Generazione Rubata”, che è il titolo di un
bel film civile australiano sull’argomento, di Ph. Noyce, ma anche la
disgraziata e mai troppo deprecata politica (abolita solo nel 1992) di
distacco forzato dei figli meticci dalle madri aborigene. Essa è inoltre
la cornice narrativa del film, perché è narrato proprio da uno di questi
ragazzi, che ne è addirittura il coprotagonista. Le tre vicende si
ostacolano, non si concludono e restano narrativamente “appese”. Il film
ha comunque incontrato i suoi pubblici, ed è piaciuto per l’ampiezza e
la potenza dei sentimenti messi in campo; il piglio epico del regista è
sostenuto e credibile.
“SETTE ANIME”
di GABRIELE MUCCINO; USA, 08.
Ben è in cerca di sette persone da aiutare in modi radicali. Lo fa
perché è oppresso da un senso di colpa gravissimo, in seguito ad un
grave incidente cui è sopravvissuto. Il regista, pur italiano, è uno dei
pochissimi che è integrato nel cinema holywoodiano. Insieme a Will
Smith, ha creato un sodalizio creativo produttivo che è già al secondo
titolo, il primo è stato “La ricerca della felicità” (06): tutti e due
di grande successo. Subito dichiaro che a me il film è piaciuto. In
realtà è un’operazione “furba”. Voglio dire: non so se Muccino abbia
interesse ad essere ascritto all’èlite di auteurs che fanno i film per
compiacersene; per pochi selezionati spettatori. Credo invece che egli
sia un solido e talentoso professionista che fa i film che,
fondamentalmente, devono fra ritornare i soldi investiti, possibilmente
facendoci profitti. Nel cinema americano, hollywoodiano, non è nemmeno
concepibile una diversa modalità. Ed è partendo da queste coordinate,
che possiamo riflettere sul film. Esso appartiene ad un genere ben
identificato: quello mélò, magari di tipo estremo. Il regista, il
produttore e il giovane sceneggiatore, Grant Nieporte, hanno tutti
giocato a carte scoperte. Hanno creato un climax di situazioni che,
prendendo le mosse dall’insopportabile senso di colpa del protagonista,
passando per il progressivo coinvolgimento nella pur intensa storia
d’amore con la ragazza cardiopatica, arrivasse al finale che ne facesse
accettare le scelte. Queste hanno “rotto” con molta intelligenza
l’attesa dell’happy and tradizionale: ma hanno creato un’atmosfera
narrativa molto più appassionante. Gli spettatori sono stati spiazzati,
perché sono stati guidati in un tour emotivo molto più serrato: magari
un filo sopra le righe; ma sostanzialmente valido. Qui si vede il
talento collettivo e individuale degli autori, anche se soprattutto del
regista: aver portato a compimento un’operazione narrativa difficile, in
cui l’espressività è condotta implacabilmente a quel finale. E il fatto
che il film piaccia ai pubblici, da questa e d quell’altra parte
dell’Atlantico, è la riprova della sua riuscita. Ricordo molti anni fa
il film “Love Story” (70): pure fu accusato di essere un filmaccio che
faceva presa sul sentimentalismo più bieco, e che incassò. Invece oggi
appare un film solidamente fatto, coerente alle premesse poste ed
efficace. In “Sette a.” la narrazione è spedita, grazie ad
un’attentissima cura nei dettagli fondamentali di tipo realistico, come
la cura degli interni, della vita delle singole “anime” da salvare ecc.,
usati in modo dinamico. Ma è giustamente centrata sull’interpretazione e
la potente presenza scenica di Will Smith.
DA SERGIO LEONE UNA METAFORA SU NAPOLI.
Il 3 Gennaio 1929, cioè 80 anni fa,
nasceva il grande regista Sergio Leone. Però, essendo morto nell’aprile
89, è anche il ventennale della morte. Egli ha profondamente innovato
non solo il cinema italiano. Pur non ostentando nessuna particolare
caratura intellettuale, come invece l’avevano altri famosi auteurs
italiani a lui contemporanei, come Antonioni, Pasolini, Fellini, ecc.
aveva una potente visione del cinema, di ampio spessore epico e
narrativo; oltre che della vita, della politica e della società.
Paragonabile a quella di un Tolstoij, volendo fare un parallelo: un
genio ottocentesco della narrativa trapiantato nel cinema. Era figlio
d’arte, perché suo padre Vincenzo, che si firmava Roberto Roberti, era
un regista di media e apprezzata bravura, tra l’altro antifascista e che
sposò una cittadina italiana di origine ebrea. Quindi, Sergio magnava
pan’ e cinema. Tant’ è che, già ben addentro ai vari livelli di
lavorazione nel cinema, iniziò nel 59 (quindi quest’anno è anche il
cinquantenario del suo inizio attività…) a codirigere, non accreditato,
il film “Gli ultimi giorni di Pompei”, con Mister Muscolo, l’attore
americano Steve Reeves, allora sulla cresta del’onda, perché era stato
Ercole nel fortunato film “Le fatiche di Ercole” di Pietro Francisci
(58), che inaugurò, con un clamoroso botto d’incassi, il filone
mitologico, detto “sandalone” dai cinici cinematografari nostrani, ma peplum
movie in Usa. Avvenne che il regista Mario Bonnard dovette essere
affiancato e spesso sostituito per motivi di salute; mentre, nello
stesso anno aveva diretto la Seconda Unità del film americano “Ben Hur”
di William Wyler, con Charleton Heston, però girato a Cinecittà. In
particolare, a lui si deve la famosissima sequenza della corsa delle
bighe, e ne è suo anche il montaggio. Il polso di Leone fu notato:
cosicchè nel 61 potè dirigere il suo primo lungometraggio con l’attore
statunitense Rory Calhoun, “Il Colosso di Rodi”, che si rivelò, oltre
che ben fatto, anche piuttosto remunerativo. Anzi, il successo fu tale
che l’attore protagonista, avviato sul viale del tramonto, conobbe una
sia pur breve nuova stagione di carriera: e quando gli fu offerta la
parte di protagonista di “Per un pugno di dollari” (64), poco
riconoscentemente e molto stupidamente rifiutò. Leone andò in Usa e
proprio in tv vide un comprimario, poco importante, di una serie di
telefilm: Clint Eastwood. Lo scritturò e lo fece protagonista, non del
primo, ma sicuramente del più famoso film del filone western
all’italiana, ambientato in Spagna. Leone si firmò Bob Robertson, in
onore del padre, e sotto altro nome, vi recitò anche Gian Maria Volontè
(John Wells), nelle vesti di un terribile cattivo. “Per qualche dollaro
in più” (65), oltre a Volontè, Eastwood, vi partecipava anche un attore
americano, noto per lo più in parti di cattivo, decisamente in declino,
Lee Van Cleef, da Leone reclutato nel colmo di una crisi etilica.
Ripulito e disintossicato, rinacque in una carriera su tutte due le rive
dell’Atlantico. Volontè vi aggiunse una caratteristica di psicopatia che
lo rese ancora più inquietante nel suo ruolo di vilain. “Il Buono, il
Brutto, il Cattivo” (66), con Eastwood, Van Cleef ed Eli Wallach, chiude
la “trilogia del dollaro”. Questo è il film in cui prende forma una
delle componenti dello stile-Leone: la capacità di guardare le grandi
epopee sociali, qui la Guerra di Seccessione, con occhi irriverenti, ma
non distaccati, perfino con spunti della commedia all’italiana; nonchè
la magia del’arte di spezzare l’epicità con l’ironia e lo sberleffo,
senza far perdere il senso generale della narrazione, fluida, maestosa,
ricca: “massiccia”. In “C’era una volta il West” (71) prevale l’aspetto
epico: ovvero il senso storico sulle vicende individuali dei vari
personaggi, i cui drammi sono felicemente incastonati nella costruzione
delle ferrovia. Si celebra il West nel suo massimo punto di splendore,
quando si avvia al suo crepuscolo. In “Giù la testa” (71) il parallelo
tra la rivolta messicana di Pancho Villa e Zapata, con la lotta
irlandese dei primi del secolo, è una specie di omaggio al 68, a una
serie di ideali libertari, pacifisti, democratici che il regista
avvertiva come suoi. Ma il suo film più complesso è certamente “C’era
una volta in America” (84). Il rapporto tra la grande storia e le
vicissitudini personali dei tre personaggi, dipinge la storia di una
grande nazione, più per le suoi lati oscuri che quelli chiari; e di come
questa nazione sia diventata tale. Ma mette in luce gli aspetti della
memoria individuale, che si attorcigliano alle vicende pubbliche, ne
sono il contraltare. Il regista non perde mai di vista la consonanza
emotiva di questi due livelli. E’ uno dei capolavori assoluti
dell’intera storia del cinema. Leone ha prodotto i primi film di Verdone
e un western “Il mio nome è Nessuno” (73) di Tonino Valerii, imperfetto,
ma strano e non banale. Prima di morire stava preparando un film sulla
difesa di Stalingrado da parte delle truppe e del popolo russo dai
nazisti. E, come spesso capita nei grandi autori, vi ho trovato un
legame con il presente. In particolare con la deprimente attualità
politica partenopea. Sopra ho citato il film “Il buono, il brutto, il
cattivo”. Ebbene, i vari personaggi che si agitano sullo spettacolino
che la politica locale ci offre, ricorda quelli del film. E, un po’ come
in questo, tale spettacolo è sospeso tra grottesco, malaffare e banale
carrierismo un po’ minchione. Abbiamo, allo stato, un solo Cattivo, che
nel film aveva la scolpita faccia di Lee Van Cleef: qui c’ha quella un
po’ sbilunga dell’Avv. Alfredo Romeo, il proprietario del Gruppo omonimo
che, con la Global Service, voleva mettere le mani, corrompendo,
distribuendo favori e mazzette, ecc., sulla manutenzione dell’intera
città di Napoli. Poi abbiamo il Brutto, che nel film era il personaggio
di Eli Wallach: qui sono diversi, tra cui spicca la Sindaca, Rosa Russo
Jervolino. Ma ha la stessa dose di grottesco e di comicità più o meno
volontaria , pur essendo assolutamente onesta sul piano personale,
perché si ostina, con invidiabile tostaggine, a pensare che tutto
potrebbe tornare come prima, nonostante lo scandalo dei suoi assessori
in manette. Poi abbiamo il Buono (nel film Clint Eastwood), che è il
collettivo dei magistrati della Procura: essi hanno manifestato la
stessa dose d’ironia presente nel film chiamando l’inchiesta “Mangianapoli”.
LA GUERRA IN PALESTINA E LA CRISI ECONOMICA.
L’attacco scatenato da Tsahal
(l’esercito d’Israele) a sorpresa contro la Striscia di Gaza, abitata da
1mln e mezzo di palestinesi, nel dicembre 08, è un avvenimento di una
gravità politica eccezionale. Più di 400 i morti tra civili, la grande
maggioranza, e militari; senza contare i feriti e i danni. L’obiettivo
dichiarato di questa poderosa offensiva, chiamata “Piombo Fuso”, è di
distruggere le infrastrutture militari di Hamàs, il partito politico
filo-islamico che ha legittimamente, sotto l’occhio di osservatori
internazionali indipendenti, vinto le ultime elezioni politiche
legislative, con il 60% e passa dei suffragi. Hamàs non riconosce lo
Stato d’Israele: ma nemmeno il diritto degli ebrei ad avere un loro
Stato; ritiene che tutto il territorio ora israeliano sia stato usurpato
e sia da restituire ai legittimi abitanti palestinesi, da loro cacciati
fin dal 1948. E’ una pretesa irrealizzabile, che non tiene conto
dell’evoluzione storica e del fatto che sarebbe possibile un accordo
generale in cui i Palestinesi possano erigere un loro Stato in
Cisgiordania e, appunto, nella Striscia di Gaza, accanto a quello
d’Israele; e che, se non sarebbe pensabile il rimpatrio di tutti i
palestinesi sfollati, sarebbe possibile avere un congruo indennizzo. Ma
la condizione preliminare, essenziale, assoluta è il reciproco
riconoscimento. Invece c’è la reciproca demonizzazione. Si è creata una
situazione di totale immobilismo, in cui l’unica voce a parlare è quella
dell’odio reciproco, che ora si è vestito dei panni della religione. E
ciò è stato possibile anche grazie alla progressiva delegittimazione
politica della componente laica della società palestinese, un tempo
molto forte, perché la corruzione, la più vistosa, sfacciata possibile,
ne ha minato ogni credibilità: così è stato per Al Fatàh. Hamàs si
presenta come il Campione dei diritti del popolo palestinese, non solo
in chiave politica irredentistica, ma anche sociale. Ha fondato e
costruito scuole, ospedali, mense e alloggi per i poveri, un sistema di
solidarietà sociale, mentre i suoi bilanci sono trasparenti. Però la sua
componente autoritaria e intollerante stava progressivamente venendo
fuori, contrapponendosi, in nome di un’ortodossia religiosa fanatica,
alla società civile palestinese, che resta una delle più avanzate del
mondo arabo. Accerchiata da Israele, che ne sta precludendo ogni
elementare diritto umano di sopravvivenza materiale, la Striscia è
diventata un grande carcere a cielo aperto: sembra la realizzazione
concreta di quanto preconizzato in un famoso film di Carpenter
(ambientato però a Manhattan). Da qui vengono sparati dei tracchi
artigianali volanti, i missili Qassam, imprecisi, ma che fanno un bel
botto e se colgono, fanno male. Però non hanno bisogno di postazioni
particolari, e quindi non sono rilevabili dai satelliti, nè si possono
intercettare perché poco veloci, per cui i territori di confine
israeliani sono esposti a uno stillicidio obiettivamente insopportabile,
che avvalora l’idea e l’immagine di essere, loro, gli israeliani, sotto
assedio (pur se è il contrario): quindi moltiplica le paure e le
incertezze. Dà spazio alla compente oltranzista della politica e della
società israeliana, che vuole cavalcare la tigre dell’intolleranza
razzista antiaraba in generale e dello scontro, solo militare, totale e
radicale. Questa ha scatenato la guerra contro gli Hezbollàh filo-sciiti
iraniani del Sud del Libano, nell’estate 2006: ma, nonostante la
schiacciante superiorità, ha sostanzialmente perso. Non ha raggiunto
nessuno degli obiettivi che si era prefisso, né politici, la sua
delegittimazione; nè militari: non ha smantellato le sue strutture
militari e né ha liberato quei soldati prigionieri; e si è dovuta
ritirare in buon ordine. Ma ha rafforzato enormemente nel mondo arabo le
componenti politico-sociali, anche le più fanatiche, di tipo islamico, a
discapito di quelle laico-moderate. L’esperienza ha ulteriormente
dimostrato che l’opzione militare può essere aggiuntiva e di supporto a
scelte politiche, di tipo negoziale, ma non può sostituirle. Gli
strateghi israeliani ritengono di eludere queste obiezioni perché hanno
pianificato ogni singola fase. E c’è da credergli. Ma siccome non
occuperanno la Striscia, se ne dovranno andare. E dopo? Sarà tutto come
prima, anzi peggio di prima: gli odi ancora più irriducibili,
intolleranti, radicalizzati. E quali certezze strategiche avranno
raggiunto? Nessuna. Però si saranno fatte le Elezioni, previste al 10
febbraio 09, e la Livni, la tostissima Ministra degli Esteri,
considerata, insieme al Laburista Ehud Barak, Ministro della Difesa, gli
ispiratori di questa offensiva-carneficina, e sull’onda di essa, sarà
(forse) eletta Premier. Però, accanto a queste considerazioni politiche,
volendo essere cinici, dobbiamo dire che ha trovato, grazie alla guerra
in corso, un modo per combattere efficacemente l’attuale crisi economica
che sta attanagliando il mondo intero, che è soprattutto di circolazione
finanziaria. E ciò perché lo Stato può immettere considerevoli dosi di
liquidità nel sistema economico, in quanto, a parte i massicci
investimenti, che sono di natura strutturale (cioè protratti nel tempo),
nel settore militare, che però sono di punta e quindi molto concentrati,
e ben remunerativi nell’export, i 10mila soldati sul terreno devono
essere pagati: sono soldi che, spesi dalle famiglie in Israele, vanno ad
alimentare un circuito finanziario virtuoso tra domanda e offerta di
beni. E che quindi fa lavorare l’industria. Non solo: i soldati,
dovendo essere sostituiti nei vari impieghi civili che hanno
abbandonato, hanno creato occupazione aggiuntiva, quindi altri stipendi,
altra liquidità ecc. Come in un barbaro rito pagano, le centinaia di
morti e le migliaia di vittime della guerra sono crudelmente
sacrificate, sotto le ingannevoli e fantomatiche illusioni di una
irraggiungibile sicurezza, sull’altare della stabilità economica del
sistema.
“LA DUCHESSA”
di SAUL DIBB; UK-FRA-ITA, 08.
Sua Grazia Georgiana, Duchessa di Devonshire, uno dei casati più potenti
dell’Inghilterra del 700, ha contratto un matrimonio infelice. Amata,
invidiata è magistra elegantiarum: è lei che fa la moda. Ma ciò non le
evita di sottostare agli usi della società del tempo. E’ tratto dalla
biografia di Amanda Foreman “Georgiana”, e sceneggiato dallo
stesso regista. E’ una sfida difficile, il film in costume ambientato
nel 700, dopo il kubrickiano “Barry Lindon” e perfino dopo il “Marie
Antoinette” di Sofia Coppola, che, in sostanza, tenta nuove strade. Si
può cadere nell’oleografismo, per cui la cura sontuosa della
scenografie, è l’unica preoccupazione espressiva: e ciò diventa
stancante. Inoltre, il cinema inglese, che stupisce sempre per la sua
versatilità e duttilità di temi e storie da portare al cinema, ha
sviluppato anche, con i due “Elizabeth”, una non banale riflessione sul
potere sotto le spoglie anch’esse sfarzose del film in costume. Invece
il regista ha tentato una strada più modesta, ma più sua . Ha
attualizzato la vicenda storica di questa donna intelligente, colta, che
s’interessava attivamente di politica nella fazione Wigh, quella più
avanzata del Parlamento britannico, collocandola in quel preciso
contesto storico. Il film sceglie di scindere la passione amorosa per
uno dei suoi rappresentanti, situandola dopo la sua discesa in campo.
Mentre invertire la sequenza, avrebbe sminuito la donna. Però il film
non esagera su questo binario: è solo una donna disperata che non
vorrebbe perdere il senso della sua persona e femminilità, ma neanche
esporsi alle estreme conseguenze di una scelta radicale: essere chiamata
“Sua Grazia”, e vivere a quel livello, ha il suo fascino…L’attrice Keyra
Knightley dà un senso di altezzosa, complessa, ma fragile umanità, alla
donna: non è un mostro di sensualità (lo è di più la morbida Bess, sua
contraddittoriamente fedele amica); ma la sua resa scenica è forte. Però
il personaggio che, a mio avviso, convince di più è il marito, Ralph
Fiennes. La sua torpida umanità, scipitaggine è resa con forte
caratterizzazione: ma non è banalizzata. Si legge la cura del lavoro di
regia sulla sua complessità caratteriale, letta come il frutto di un
vero condizionamento psicologico, tipico della classe di appartenenza.
Lui, un qualche barlume di umanità ce l’avrebbe, ma, seppur affiora, è
rigidamente all’interno di quello steccato. Il film, bello da vedersi,
non ha raccolto il consenso unanime. A me ha persuaso per la resa di una
coerente atmosfera narrativa; a parte qualche caduta: un eccesso un po’
stucchevole di panorami e scenografie, ad es., e la considerazione che
resta un film di genere narrativo definito.
“NATALE A RIO”
di NERI PARENTI; ITA,08. Il
prof di etica, non tanto integerrimo, Patani, insieme all’attempato
bohémien Berni, capitano a Rio, insieme ai figli: ma in collocazioni
incrociate. Da qui gli imbrogli. Ci sino pure Linda e Fabio, innamorato
non corrisposto di lei. Il regista, anche sceneggiatore, si autopresenta
come uno ”stakanovista della cazzata”. Egli è l’”autore” indiscusso dei
“cinepanettoni”: perché è dal 2001 che, anno dopo anno, inanella dei
tortiglioni che stravincono al botteghino, specificamente nelle
festività natalizie. Voglio dire: non è semplicemente il tizio che si
trova a dirigere e a incassare; è riuscito a creare intorno a sé un team
che sa caratterizzare, nel bene e nel male, alcuni aspetti della società
italiana. Noi, oggi, non ci facciamo quasi caso, perché quei personaggi
ci appaiono talmente naturali, “intimamente” connessi col nostro
immaginario con cui ci disegniamo alcune storture dell’oggi, da
dimenticarci che sono delle fictions. Poco ci manca che riteniamo che
Christian De Sica sia proprio come appare sullo schermo: e non invece un
raffinato attore comico che dà vita alle situazioni più diverse con
glamour, ma anche piena adattabilità. La sua verve, va di pari passo con
la disinvoltura con cui, molto diversamente dal Boldi, sa variare con
impressionante sicurezza il paesaggio umano all’intorno, in cui si pone
e agisce con follia assoluta. E ricordiamo che proprio DeSica, fin dagli
anni 80, ha iniziato a disegnare in modi esagerati e grotteschi, ma
incisivi, i comportamenti tipici di alcuni strati della società. Ed è
sopravvissuto. Anzi, ha perfezionato un talento e una qualità di
osservazione sociale che si sono affinati nel tempo. E ha trovato, oggi,
in Massimo Ghini una spalla ideale: attore colto, sa essere duttile come
l’altro, con cui si mette d’istinto in sintonia di ritmi. Come nelle
“spiegazioni” con i figli sul finale: sono pagine di comicità contenuta,
ma portate avanti con elegante efficacia. Parenti sa, insieme al
“nostro” (perché Presidente del Napoli…) produttore, creare il film che
raccoglie in sé più elementi che richiamano il pubblico: l’esotismo
cromatico, quel po’ di simil-sesso, la caratterizzazione dei personaggi
e delle situazioni; ma non è mai gratuitamente volgare. Addirittura,
nella vicenda con la Hunzinker-DeLuigi, raggiunge una felicità narrativa
lieve. Già si è visto altrove che la coppia funzionava, ma qui, nella
misura in cui si è lasciato meglio spazio alla comicità sottile di De
Luigi, e della “spalla” Michelle, si sono raggiunti di ritmi da fiaba
comica, grazie anche alla presenza più ”fisica” di Paolo Conticini:
davvero un bel terzetto. E qui è opera di regia, nella visione generale
e particolare.
“MADAGASCAR 2. VIA
DALL’SOLA” di ERIC DARNELL,TOM
McGRATH; USA, 08. I soliti
malefici pinguini convincono i 4 amici dello zoo di New York (Alex il
leone, Marty la zebra, Melman la giraffa, Gloria l’ippopotamo) a
lasciare l’isola. Per errore atterrano nella Savana, dove Alex ritrova i
suoi. A tre anni dal primo la Dreamwork sforna il sequel: un’operazione
riuscita. Le idee di base, non solo grafiche, ma tematiche e riguardanti
le impostazioni dei personaggi, restano le stesse, ma hanno una
significativa evoluzione, assicurata dall’intervento in sceneggiatura di
Etan Cohen ( da non confondere con Ethan dei due Coen, con Joel), uno
dei più capaci. In effetti gli spunti narrativi nuovi sono numerosi. C’è
un antefatto che riguarda Alex: e siamo nettamente in zona “Re Leone”,
con il cattivo fratello del re, che nel suo untuoso, vigliacco ma
improvvido congiurare, risulta tra i più riusciti personaggi. Del
capolavoro del 94, l’intuizione più profonda è dello spazio visuale
della Savana: esso ha una caratterizzazione scenografica che fa da
cornice espressiva a tutte le sotto storie del film, e nastro
trasportatore con cui viaggiare nella nostra fantasia. In questo respiro
narrativo, il personaggio di Alex ha un’ulteriore caratterizzazione: in
effetti è un “giovane” emigrante che, catturato fuori della riserva,
portato ed “educato” a New York, si esprime facendo spettacoli, al
contrario di ciò che è la realtà dell’Africa: anche se vivono
all’interno di una riserva, quindi anch’essi protetti. C’è spazio in più
per i pinguini: essi diventano un collettivo irresistibile di tutto
rispetto, anche quando s’interfacciano con le scimmie-sindacaliste. Se
pure l’ispirazione lontana sono i disneyani Qui Quo Qua, si vede più
distintamente il ”passaggio” verso i grandi disegnatori Tex Avery e
Chuck Jones (quelli di Bug’s Bunny e famiglia). L’ispirazione che viene
da loro non è solo nel tipo di cromatismo adottato, ricco, ma più
marcatamente definito; ma nella caratterizzazione, più sul cattivo e
grottesco, che sulla beatificazione familistica. Folle, ancora più
apertamente, “gratuitamente”, cioè senza nessuna spiegazione aggiunta, è
la figura del re dei Lemuri: egli coinvolge i creduloni abitanti in un
rito che ha l’aspetto di una grande kermesse, ritratta con felice senso
della coreografia: non però quella ordinata della Disney, bensì
vitalmente incasinata. Anche gli adulti di New York, capitanati dalla
terribile vecchietta karateka, presente in accenno nel primo, hanno uno
sviluppo: essi, in nome della sopravvivenza rambesca nella natura,
alterano gravemente l’equilibrio ambientale: sono una minaccia per la
sopravvivenza dell’intera fauna, ed è una metafora su cui riflettere.
NATALE. UNA FANTASIA IN RACCONTO.
Genny si aggirava per le vie dello
shopping natalizio. Le solite, qui a Napoli. Ma il suo occhio non era il
solito. Il suo cuore non era il solito. Ricordava l’anno passato, che,
in fondo non era diverso dagli altri precedenti: più luci, più allegria;
soprattutto più serenità e soldi da spendere per sé. Però Benni glielo
aveva detto… ‘Ah ste donne’, pensava, ricomponendo nella fantasia il
volto di sua moglie mentre parlava, e scherzando, ma non troppo, proprio
a primavera, le diceva.: “Embé, a me m’pare che si sta appriparann’ a’
tempesta, cu’ l’economia…”. “Ma che stai dicenno?!”, le rispondeva, “Io
song’ ingegnere alla ricerca con la Motorola: tu stuort’o muort’ l’anno
scolastico l’e’ fatto….”. “Si, ma stu Governo lo vedo traballante… Prodi
o’ fann’ carè..E si car’ ven’ O’Cavaliere…E poi, ma nun e’ liegg’ e’giurnal’?…l’aumento
del petrolio vuol dire che si sta preparando una bolla speculativa, che
da qualche parte scoppierà: e nun sapimm’ dove…Questo m’ fa paura..”.
“Ma che ne sai tu?”. “Uhè bello i’ song’ economista, senza commercio,
aggiungeva ridendo, e sti cose e’ spieg’e’ guagliun’ a scola…”:. “E
capisc’no assaie se continui a parlare in dialetto, qui a Turìn..…” ,
sbottava ridendo, mentre prendeva la bambina, una volta per uno per
portarla, all’asilo nido vicino casa.”Scemo! io in classe toscaneggio…”,
lo salutava ridendo. E quell’eco, una risata fresca, pura come un
ruscello, restava nella sua fantasia anche dopo che era in strada, in
auto e in mezzo al traffico con la bambina accanto…Ma questo era l’anno
scorso. Ora, ora invece, stava a casa dei suoceri: ‘un prolungamento
delle vacanze’, aveva detto alle maestre dell’asilo: ma era perché
potevano risparmiare qualcosa, andare i giro per mercatini, che erano
con i prezzi più bassi e più vari di quelli di Torino. E poi dovevano
decidere cosa fare della casa col mutuo, ormai troppo alto, dopo la
perdita del suo posto per la chiusura del Centro di Ricerche Motorola, e
il fatto che lei a scuola, aveva fatto nemmeno un mese di supplenza fino
a dicembre. Avevano bisogno, come dei ragazzini, dell’aiuto di papà e
mammà, da tutte e due le parti, per rivendere e riacquistare, magari una
casetta più piccola, più in periferia…Ma preferiva non pensarci; ‘se ne
parla dopo Natale’ aveva detto, ‘ora godiamoci questi giorni di tregua e
di finta tranquillità’. Già: ma lui sapeva che era davvero finta, ‘sta
tranquillità’. Però un’ombra di sorriso lo stava sfiorando mentalmente,
perché, su una grossa bancarella al mercatino di Antignano aveva
comprato un libro, dalla bella copertina allegra, colorata, che faceva
presa in mezzo a tutta la paccottiglia, anche se il titolo non era del
tutto rassicurante, “Sopravvivere alla crisi economica. L’amore e la
famiglia come antidoto” di Gabrièl Graciàs Marcòs, edizioni
Feltrinazzi, seminuovo, 5 euri. ‘Allievo di Subiràn’, lo definiva la
pagina di risvolto di copertina, un ‘saggio dei due mondi’, come
Garibaldi: ma quello era ‘l’Eroe’ dei due mondi. Poi l’autore dal nome
strano: sospettava Genny che fosse fasullo, magari era un napoletano dei
Vergini, che aveva preso lo spunto da Marquez. ‘Mah , vai a sape’…’. Ma
lui l’aveva preso per via del titolo: parlava di crisi ma esprimeva
qualcosa cui da tempo stava pensando. Che se non era per la l’energia di
sua moglie, e della chiarezza con cui affrontava le cose, lui sarebbe
stato molto peggio. La sua Benni, Benedetta davvero…, la gravidanza
l’aveva ingrassata, un po’, ma l’aveva resa più vicina a lui, ‘come più
calda’ , più accogliente: ma più decisa e calma nelle cose che diceva.
Lui stava piangendo quasi, quando le aveva esposto il progetto di
passare le vacanze a casa, e tutto il resto: si sentiva umiliato, di
tornare a ‘quann’era guaglione’ a chiedere soldi. Ma anche lei aveva
pensato una cosa simile, e gliel’aveva detto guardandolo fisso e ferma
negli occhi, tenendogli le mani. Lui si ricorda perfettamente che quelle
lagrime che stavano arrivando, si erano trasformate da lagrime di
umiliazione, in lagrime di tenerezza e di comprensione, verso di lei. Si
abbracciarono e fecero l’amore: si sentirono come fusi in unica ondata
di affetto e di intimità, veramente felici. Entrò in casa col sorriso,
al ricordo di quella serata, che gli stava ancora stampato sulla faccia,
lo illuminava: sembrava un ebete. Benni l’aveva visto e l’impressione da
tirata, si distese in un’aria rilassata. “Perché ridi?”. “No non stavo
ridendo…”. “Ma che dici? Stai rirenn’ comm’ nu’ criatur’..”.Genny si
divertiva a sentirla passare dall’italiano corretto a frasi in
napoletano, soprattutto con lui. “Ti ho fatto un pensierino. Non è il
regalo di Natale: quello lo vedrai sotto l’albero…”. “Ah, si anche io te
ne ho fatto uno: tu e la bambina dormivate e sono scesa a fare un po’ di
spesa con mamma”. Entrarono nella stanza da letto: e contemporaneamente
tolsero la carta intorno ai due pacchetti natalizi. Si guardarono
sorpresi, ma non tanto, e scoppiarono a ridere, insieme e fino alle
lagrime: il libro era lo stesso.
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