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LE  RECENSIONI  DEI  FILM  ED ALTRO

A CURA DEL PROFESSORE CAPOZZI

ELENCO FILM E ARTICOLI

CHI E' IL MINISTRO GELMINI GOMORRA IL DIVO
IL MELO IL RESTO DELLA NOTTE LA MUMMIA 3
PARIGI BURN AFTER READING BERLUSCONI DIVO POPOLARE
GLI USA E NOI DOPO IL CRACK TEX HA 60 ANNI IL MATRIMONIO DI LORNA
MYST ARCHEOLOGIA E  MUNNEZZ WALL-E
L'UOMO CHE AMA LA DEFLAZIONE ATTUALE SI PUO' FARE
QUANTUM OF SOLACE THE BURNING PLAIN OBAMA E COMUNICAZIONE
UN ALTRO PIANETA LA FIDANZATA DI PAPA' TOPOLINO E LA CRISI
CHANGELING GALANTUOMINI POLITICA SPETTACOLO
TWILIGHT NESSUNA VERITA' CRISI ECONOMICA E POLITICA
ULTIMATUM ALLA TERRA STELLA IL DUBBIO
REVOLUTIONARY ROAD FIORELLO A CENA MILK
DEFIANCE APPALOOSA AUSTRALIA
SETTE ANIME SERGIO LEONE GUERRA IN PALESTINA
LA DUCHESSA NATALE A RIO MADAGASCAR 2
FANTASIA DI NATALE    

 

 

CHI E' IL MINISTRO GELMINI

LA MINISTRA GELMINI E LA SCUOLA.

    Non si può negare che la Ministra della Pubblica Istruzione Maria Stella Gelmini non si stia dando da fare. Anche, e più del Ministro Brunetta, si sta attivando al massimo grado , pur se in modi comunicativamente composti, cioè meno “spottati” del collega della Funzione Pubblica, ma decisamente più determinati nell’“azzannare alla gola” quella che definiscono  la politica di sprechi che generazioni di politicanti comunisti hanno perpetrato sulla scuola a sbafo dei contribuenti. Ma chi è e che vuole? Lombarda, ha superato l’esame di Procuratrice Legale a Reggio Caloria, nonostante gli attacchi agli insegnanti del sud, perché nella sua città subì sfortunatamente una bocciatura. Politica di lungo corso, tosta e determinata, è una grande portatrice di voti: legata al Governatore della Lombardia Formigoni, proviene come lui dalle file di Comunione e Liberazione, la grande organizzazione laica di matrice cattolico-ecclesiale che fiancheggia, pur se autonomamente, la compagine berlusconiana. Tanto forte e capillarmente diffusa politicamente, quanto influente, ricco e potente è diventato soprattutto  in Lombardia (ma non solo) il suo “braccio economico”, che è “La Compagnia delle Opere”, una sorta di mega-associazione di cooperative, imprese, società finanziarie, alcune in grado di gestire grandi commesse edilizie e complessi affidamenti nella gestione privatistica o in “project management” della sanità cosiddetta pubblica. Tanto forte e importante che, proprio a Legnano, vicino Milano, una vera e propria cittadella ospedaliera, ha realizzato un’alleanza strategico-affaristica, con l’Opus Dei, l’altra potente organizzazione del mondo cattolico, tanto influente che è stata eretta in Prelatura Personale (cioè un Vescovo senza Diocesi territoriale). A mio avviso, è alla luce di questi dati che meglio comprendiamo la portata politica delle sue proposte: anzi, si delinea con chiarezza un piano strategico. E nemmeno è casuale infatti che abbia iniziato dalle Scuole Primarie. L’abolizione del Modulo Educativo, cioè dei tre insegnanti che sostituiscono il Maestro unico, ci è stata spacciata come misura per riequilibrare l’”eccesso” di spesa che costerebbe all’erario. Né è stata dato non dico una giustificazione teorico-pedagogica, che sarebbe “pretendere” che un’avvocatessa imparasse un pò di rudimenti di pedagogia, visto che dirige il Ministero dell’Educazione….; ma nemmeno si è tentato di “indorare” la pillola con una qualche sia pur labile indicazione a riguardo. Ci è stata solo sbandierato, con una ripetitività che sa di arroganza, il limite di bilancio. In realtà la modularità della didattica nella primaria era un grosso impaccio per le scuole private, la cui maggioranza sono religiose; molte sono presenti nella organizzazione economica che fa capo a “Comunione e L.”.  Era un costo aggiuntivo elevato, perché si pagavano tre docenti invece che uno. Così si spiana ulteriormente e meglio la strada alla moltiplicazione delle Scuole Paritarie, cioè private, sostenute dallo Stato, incrementandone i contributi a suo carico. Da notare, poi, che la Gelmini, non ha mai fatto un qualche riferimento positivo o un atto di difesa della funzione della scuola pubblica, che deve garantire l’accesso a tutti, non solo ai poveracci. E nemmeno ha mai parlato, sia pure per accenni, dell’eccellenza della nostra scuola primaria, che è un modello organizzativo pedagogico italiano studiato e apprezzato all’estero: anzi, per la verità, la Ministra Moratti, sua predecessore, talvolta citava e ascoltava pedagogisti, filosofi. La Gelmini sembra che navighi in un mare di nullità: non sa, non cita; parla solo di bilancio. Si compiace di essere una non intellettuale. La sua ignoranza, vera o strumentale che sia, è culturalmente inaccettabile ed evidenzia pochezza politica. Subito dopo la Gelmini ha toccato, dopo la “base”, il vertice dell’istruzione: la struttura universitaria. Pur dando affermazioni giuste, circa l’inutile e controproducente moltiplicazione di corsi di laurea e di insegnamenti, spesso espressione di interessi clientelari politici localistici e/o di cordate familiari accademiche, le ha usate in maniera brutalmente provocatoria, formulando un attacco a tutta l’Unversità statale, alla sua funzione di ricerca e di formazione che, in una società avanzata e complessa, è imprescindibile.  Siccome il suo Capo, Silvio Nostro, aveva promesso quel demagogico taglio dell’Ici sulla prima casa per tutti (anche ai casolari di lusso di campagna), dalla coperta dei fondi a disposizione ha “tirato” dall’Università, limitandone i fondi. E lei, invece di razionalizzare la spesa, renderla più efficace, “giù” ad attaccare “l’eccesso” di spesa degli atenei, che in realtà non esiste, in quanto c’è stata a politica di riduzione dei fondi decisa da Berl. In realtà, negando i fondi, si limita l’ampliamento dell’utilizzo di ricercatori; ovvero si blocca il turn over accademico. E’ una politica che fa di ogni erba un fascio, non aiuta a individuare le vere zone di spreco,  d’inefficienza: anzi le incrementa, perché limita la possibilità di ricambi generazionali. Ma la ciliegina sulla torta è la volontà di rendere le Università delle Fondazioni, ovvero privatizzate e “aperte” a interventi finanziari. E’ chiaro che è un regalissimo non solo alle industrie, che avranno la possibilità di attingere a serbatoi di giovani da formare, a costi relativamente contenuti, al meglio possibile, e secondo le loro più strette e specifiche esigenze; ma anche all’Opus Dei che nell’ambito universitario e dell’alta qualificazione, è fortemente già presente. E le altre facoltà non “baciate” dalla fortuna (tipo quelle umanistiche e di diritto)? O faranno letteralmente la fame, o saranno iperesclusive scuole di formazione espressamente create da potenti (neomedievali) corporazioni professionali.

 

GOMORRA

“GOMORRA” di MATTEO GARRONE; ITA,08. 5 storie d’ ‘O Sistema tra Secondigliano e il Litorale Domitio: Totò, tredicenne, da ragazzo di salumeria diventa adepto e strumento di un’esecuzione; due balordi che vogliono fare come “Scarface”; Ciro, un impiegatuccio del crimine preso in mezzo alla faida di Scampìa; un cinico e accattivante piazzatore di rifiuti tossici industriali; un sarto di griffes false che dà lezioni di haute couture ai cinesi. Dall’omonimo testo di R.Saviano, come ha detto il regista, il film ha inteso coglierne “il clima, le immagini, le dinamiche”. E’ stato progettato dal produttore D.Procacci, di “Fandango film”, che comprò i diritti cinematografici del libro ancor prima che fosse pubblicato: il che getta luce ulteriore su questo personaggio interessante e poliedrico dell’attuale cinema italiano. D’altronde sarebbe stato impossibile sintetizzare un’opera tale: quindi la scelta di “drammaturgizzare” alcuni spunti ivi presenti, sia pur in forma di accenni, è da considerarsi felice e ampiamente riuscita. Il film non è un documentario. E’ un’opera di grande risalto stilistico. Il regista è anche cosceneggiatore del film insieme allo stesso Saviano, U.Chiti, M.Gaudioso, che ha collaborato anche ad altri suoi film, ed altri. Ha elaborato una ricerca formale molto sofisticata, in cui il ricorrere alla camera “a spalla”, non è solo un vezzo per farlo sembrare “vero”, ma per farci entrare nel cuore dell’umanità disumanizzata di queste persone già morte ancor prima di essere colpite in uno dei tanti episodi di ammazzamenti reciproci. Essi sono figure che accettano consapevolmente di vivere solo come cani rabbiosi, senza darsi alcuna ragione o perché. Il regista non dà alcuna spiegazione morale, osserva con attenzione, senza supponenza o distacco emotivo, i fatti che sono sotto gli occhi di tutti: l’unico che è in grado di allontanarsi, è il giovane collaboratore di Servillo, lo fa  perché è uno “normale” che credeva di avere ottenuto un lavoro come tanti. In realtà lo sguardo del regista, che ricorda quello di F.Rosi, mette in luce il degrado complessivo che è, insieme, causa ed effetto dello strapotere della Camorra: la visione delle “Vele” di Secondigliano, non è solo squallida, è titanicamente allucinante; ha un impatto emotivo sulla nostra fantasia che la rende unica. L’uso del montaggio assai elaborato fa emergere il talento complessivo degli attori: G.Imparato sospeso tra paura e ignavia esistenziale; S.Cantalupo, il sarto che vede nei cinesi una possibilità di staccarsi dalla schiavitù; M.Nazionale, accorata ma lucida madre. Ma soprattutto T.Servillo che dà le sembianze fintamente simpatiche al peggior perfido del film, l’inquinatore.

 

IL MELO

 PUCCINI, IL MELO’ E UN FILM.

    Quest’anno si celebra il 150enario della nascita del grande compositore, avvenuta a Lucca, ma celebrato soprattutto nella “sua” Torre del Lago, sulla Versilia, dove eresse stabile residenza dal 1891 fino al 1924, anno della sua morte. Giacomo Puccini, compositore sempre amatissimo dl pubblico, ha avuto una contrastata fortuna critica; egli stesso era un personaggio dalla vita privata movimentata. Soprattutto nei confronti delle varie donne, al cui fascino non seppe resistere. Dai tratti fisici piacevoli, gran conversatore e uomo di mondo, Puccini, confortato anche dall’enorme successo anche economico del suo teatro, non si sottraeva a diverse appassionate ammiratrici, come la musicologa e cantante lirica  inglese Sybil Beddington-Seligman, affascinante e affascinata dal compositore italiano, quantunque sposata; o la bavarese Josephine Von Stengel; oppure ancora come la “tosta” e spregiudicata Giulia Manfredi, da cui ebbe un figlio. Come anche fece scandalo la sua relazione con una diciottenne sua entusiasta fan, conosciuta come Corinna. Da dire che il Puccini era sposato con Elvira Bonturi, che era stata sua amante prima che rimanesse vedova. Ma l’episodio più clamoroso fu il suicidio di una giovane cameriera di casa Puccini, Doria, cugina di Giulia Manfredi, accusata ingiustamente di essere l’amante del suo datore di lavoro. Fu condannata, per istigazione al suicidio, la terribile Elvira, la cui gelosia non dava tregua. Fu una storia piuttosto misteriosa, dai contorni anche sordidi, perché non mancarono ricatti operati nei confronti del Maestro da parte di più persone legate all’ambiente familiare, tra cui la figlia di primo letto di Elvira, e, forse, la stessa Giulia M. Insomma, un bel brogliaccio, fatto apposta per un film. Che infatti è in preparazione, diretto e sceneggiato da Paolo Benvenuti, dal titolo “Puccini e la fanciulla”. Il regista, però, non è un corrivo autore di fiction, ma un intellettuale, austero e rigoroso ricercatore di immagini e atmosfere narrative. Ed è anche di Pisa: quindi non lontano dalla Versilia, e dalla memoria locale della leggenda pucciniana che ha avuto come scenari quei posti. Ma c’è un mistero pucciniano? E non voglio riferirmi, se non marginalmente, al tormentato e oscuro episodio del suicidio, ma al complesso della sua vita. Ritengo che la risposta vada cercata nel fatto che la sua emotività fu come sommersa dalle “ragioni” profonde della  sensibilità femminile; il suo esserne indifeso lo metteva in relazione profonda col loro mondo. Il suo complicato rapportarsi alle donne lo fa sperimentare su se stesso la forza dei sentimenti, la loro apparente linearità, ma incontenibile potenza. Come si possa essere vittime di questa medesima componente. La fece divenire una vera e propria dimensione esistenziale. La riportò, trasformandola in cifra stilistica-espressiva, tutt’intera nella sua musica. A mio avviso fu lui il vero inventore di quella modalità linguistica moderna che oggi chiamiamo “Mélò”. La parola proviene da “Melodramma”, la cui invenzione risale al seicento; ma la cui messa a punto come codice e genere musicale appartiene alla cultura del settecento, e trovò la massima e più sistematizzata espressione nell’ottocento italiano (soprattutto Verdi; ma anche Giordano, Rossini, Bellini ecc.) ed europeo (Strauss, Bizet, ecc.). Puccini, nel tardo ottocento si sottrasse con decisione sia all’influenza verista che decadente; e quantunque vi siano tracce dell’uno e dell’altro indirizzo, elaborò uno stile musicale molto personale. Egli non fu compreso dai critici del tempo, perché “sembrava” tradizionale, ma non seguiva Verdi né Rossini. Addirittura vi fu chi lo paragonò al tardo romanticismo deteriore di poeti, allora di gran voga come il Prati e l’Aleardi, ma di scarsa qualità, trovandolo stucchevole. Invece, quale fu il genio pucciniano? Egli costruì delle opere di rigorosa struttura sia sinfonica che librettistica: era lo stesso Puccini che dava precisissime indicazioni ai suoi pur bravi e famosi librettisti, Luigi Illica & Giuseppe Giocosa, coi quali costruì diversi capolavori. Come anche fu importante la funzione di Giulio Ricordi, l’editore, ma anche, diremmo oggi, co-produttore del suo teatro, che lo sostenne sempre, non solo economicamente, ma anche amicalmente e culturalmente. Puccini non solo dava spazi ai sentimenti, ma rendeva il suo dire musicale-parlato strettamente funzionale all’esplicitazione totale di quegli stessi. E per sentimenti è da intendersi proprio il senso “dell’amore in sé”, senz’alcun’altra mediazione: quella manifestazione che è a un passo dal diventare sdolcinata e/o gratuita, ma, per il controllo rigoroso dell’espressività, coglie il diapason dell’emotività giusto al limite, e non va oltre. Basti pensare ai “Solo” di “Madame Butterfly” , o al rigore della tessitura psicologica di “Manon Lescaut”. Ed è l’industria del cinema hollywoodiano che ha meglio reintepretato e resa universale questa declinazione di genere comunicazionale : basti pensare ad autori come Douglas Sirk, e al suo cinema “larger than life” (“più grande della vita”).

 

IL DIVO

“IL DIVO” di PAOLO SORRENTINO; ITA,08. 1992: ultime scene del crepuscolo del “Divo Giulio” per eccellenza, il sette volte Premier Andreotti, alla vigilia delle elezioni per la Presidenza della Repubblica, da lui ambitissima. Gli verrà preferito Oscar. L. Scalfaro, con Tangentopoli incombente e per lui i vari processi per mafia. A Cannes 08, insieme a “Gomorra” insignito del “Grand Prix”, il film di Sorrentino ha ottenuto il “Premio della Giuria”. I due film sono molto complessi e visceralmente legati alla realtà italiana; ma sono riusciti ad affrontarla con stile originale. Il pericolo del film su Andreotti, è che sarebbe stato facile andare sul grottesco o sul comico senza volerlo, essendo il personaggio di una complessità ed enigmaticità unica. Il regista napoletano, anche sceneggiatore, si è posto di fronte al “mistero” Andreotti con puntiglio di ricerca documentaria, ma anche con la voglia di esprimere un giudizio complessivo. Non è stato nicodemico. Ha chiaramente preso posizione, però non in modo moralistico. L’ha fatto scaturire da una serrata documentazione storica e politica sul fare, suo e quello della sua corrente; e di come la strategia era volta ad un unico titanico obiettivo: il potere; ottenerlo, conservarlo e preservarlo. Il “divo” così chiamato sottovoce nei salotti, si è dato delle giustificazioni etico-filosofiche circa il “male di cui si è dovuto servire per ottenere un bene maggiore”, lui cattolicissimo, con tipica logica controriformata; ma è una logica che riassume, non banalmente, il suo operare che si serve della mafia, dei vari Servizi di non specchiata democraticità. Ma il regista non ne fa un mostro. L’ambiguità, il cinismo, la bassa strumentalizzazione, anche nel corso della prigionia di A.Moro, sono osservate fino alla soglie della sua personalità. Di fatto risultano come penetrate dal silenzio di una notte fonda, più che una semplice nebbia, che su di sé, sulle sue ragioni, Andreotti ha saputo produrre, e in cui sembra immerso e protetto. Egli combatte con energia le accuse sulla sua mafiosità; dalle quali non è stato riconosciuto innocente, ma ne è uscito indenne solo perché prescritte. Il regista costruisce, grazie allo straordinario protagonista, T.Servillo una personalità misteriosa, la cui apparente immobilità, è lo specchio appannato di un’anima fortemente dilaniata, che si agita col forsennato deambulare notturno fino a sfinirsi; che è attanagliato dalle emicranie. Ma che non cede nulla all’esterno: nemmeno alla sua adorata consorte, che all’improvviso,come uscendo da un sogno, di domanda: ma chi è veramente costui?, che nulla concede all’affetto e al “fervore umano”, come disse A.Moro dalla prigionia in una lettera.

 

IL RESTO DELLA NOTTE

“IL RESTO DELLA NOTTE” di FRANCESCO MUNZI; ITA,08. Torino: una domestica rumena allontanata da una ricca casa, perché sospettata di furto, innesca una vicenda, con incontri tra immigrati e locali balordi, dagli esiti drammatici. Il regista è autore di una convincente opera prima, “Saimir” (05), anch’essa sulle tematiche dei migranti. Alla sua seconda, pure scritta da lui, dimostra un controllo narrativo, sia in sede di scrittura che di direzione globale davvero notevole. E’ un film corale. Ha una  storia che è l’elemento unificatore, ma trova il tempo e l’energia narrativa per illustrare in modi scarni ed efficaci, attraverso l’attenzione ai i vari personaggi che ne sono coinvolti, altri spaccati di vita. Il film prende l’avvio da una ricca casa, isolata in collina: e lì si chiude, in un perimetro descrittivo di ferrea funzionalità. Questa circolarità fa pensare al grande regista  Krzysztov Kieslowski, anche se gli intenti sono del tutto diversi. Mentre il polacco metteva in evidenza i conflitti riguardanti la dimensione profonda dell’umanità, spesso in una tensione di compressa spiritualità, Munzi, coglie il dramma dell’inadeguatezza del vivere, in una dimensione che è si anch’essa esistenziale, ma che si confronta con la concretezza invasiva della modernità globalizzata. Con la sua falsa idea di ricchezza diffusa, genera una violenza che c’impone di fare nostri elementi di consumo di cui non abbiamo realmente bisogno, anche se ci sono imposti. E questa origina l’aggressività contro gli altri e contro noi stessi, o l’infelicità continua, la disperazione, gli stati d’ansia. Tale è il senso dell’opera, affidato al dire del prete all’inizio del film, da cui la ricca padrona di casa, sola, egoista e infelice, scappa. Tuttavia all’intento morale non corrisponde, per buona sorte del film, alcun moralismo o edificante buonismo. Gli eventi, e le impressioni che ci danno dei personaggi che li attuano, si susseguono nella loro fatale scansione, in cui il mal-fare convive con sinceri sentimenti cui non sanno dar voce se non in modi estremi, spesso autodistruttivi, come fa il padre del bambino. Ma verso di loro non c’è giudizio, ma uno sguardo che si eleva dalla momentaneità, anche se colpevole e perfino falsa, e cerca di vedere più a fondo in queste anime, nella loro precarietà di migranti in un contesto difficile; ma anche i nostrani sono tutti, senza eccezione alcuna, scombussolati dal vivere, che subiscono. Questa “lontananza”, che non è distacco o indifferenza verso il “male di vivere”, è, invece, a mio avviso, uno sguardo registico molto più maturo e profondo: perché, come R.Bresson, scava nel cuore e fa riemergere le correnti profonde della solidarietà, prima nascoste.

LA MUMMIA 3

“LA MUMMIA-LA TOMBA DELL’IMPERATORE DRAGONE” di ROB COHEN; USA, 08. Ad 11 anni dall’interevento in Egitto, Rick e sua moglie conducono un’esistenza tra gli agi: è il loro figlio Alex, armai ventenne, che ha lo stesso spirito del padre. Insieme affronteranno il redivivo imperatore cinese e la sua invincibile armata di terracotta alla conquista del mondo. A sei anni dal II, nel III episodio di “La Mummia”, è rimasto solo il protagonista, l’ironico B.Fraser, dei primi due e il simpatico cognato snob J.Hanna. Mentre è cambiato il regista, che non è più S.Sommers, che ne era anche sceneggiatore; ma soprattutto non c’è più la  pimpante, ma con un sottofondo di finezza inglese, R. Weisz, la moglie, sostituita da M. Bello, altrettanto tosta, ma meno elegante. Però “la barca va”, e lo spettacolo funziona. Nel senso che il regista chiamato, ha svolto bene la mansione affidatagli. Rick non era un banale epigono di Indiana Jones. Il suo fare iperdinamico riprendeva l’ironia del personaggio spielberghiano, ma si concentrava assai più sul còtè fantastico, enucleando dei personaggi “cattivi” e di coantagonisti, su cui si condensava una certa qual forza espressiva. Nei primi c’era il riuscito personaggio Imhotep, l’attore sudafricano A.Vosloo e la sua torrida storia d’amore con Anck-Su-Namun, la bellezza conturbante e potente presenza scenica di P.Velazquez . Qui, inquadrato da un antefatto ambientato un millennio di anni A.C., c’è l’ambizioso Imperatore Han, che aspira a conquistare il mondo anche grazie alle Forze Oscure; ma ne è impedito dalla “Strega buona”, che vuole vendicarsi di Han, perché le ha ucciso il marito. E si tratta di due acclamati divi cinesi internazionali, Jet Li e Michelle Yeoh, di grande incisività, che danno ai loro personaggi un indubbio carisma. Inoltre il regista ne cura con particolare efficacia visiva la “presentazione”. Perciò, quando avviene lo scontro tra i protagonisti  e i vilains di turno, non è solo un atteso scontro con fasci di effetti speciali, ma una partita che ha dei presupposti; si lascia pertanto seguire con partecipata attenzione. Vi è poi nel film un gioco di ricercati rimandi. Il primo è la ricostruzione di Shangri-La, la mitica città nascosta tra le montagne himalayane, dove c’è la Fontana dell’Eterna Giovinezza, ricostruita con cura grafica  e fascinazione molto poetiche: ricorda il capolavoro pacifista “Orizzonte Perduto” (37) di Frank Capra, lì ambientato. Lo scontro, con dei veloci ma divertenti gags, tra i guerrieri ex terracottari e l’armata degli scheletri, è un richiamo a “L’Armata delle Tenebre” (92) di Sam Raimi, geniale ripresa, a sua volta, dei primi cartoni della Walt Disney; come anche gli Yeti sono un omaggio al cinema horror degli anni 40.

BURN AFTER READING

BURN AFTER READING-A PROVA DI SPIA” di JOEL & ETHAN COEN; USA, 08. Ozzie è uno spompato agente CIA licenziatosi. Un suo memoriale va nelle mani di una coppia di istruttori di aerobica, che tentano di ricattarlo. Ma inizia una sarabanda tra loro, la CIA, i Russi, mogli e mariti fedifraghi. Nonostante che facciano parte del main stream hollywoodiano, avendo vinto pure un Oscar, bisogna dire che il cinema di questi fratelli terribili non è assimilabile a quei valori rassicuranti cui ci hanno  abituato gli Usa. Qui c’è una critica sferzante, assolutamente senza appello, sull’incapacità da parte della “Company” di gestire una qualche grana. Anzi: più vogliono mettere delle toppe, più creano altri casini. Alla fine è meglio che i vari soggetti vadano come meglio credono, facendo a meno del loro operato. Qui “sembra” un film di spionaggio; ma è solo la cornice. In realtà c’è uno spaccato al vetriolo su segmenti della società americana: tutti tradiscono tutti; soprattutto nell’ambito familiare. La famiglia è una specie di gabbia, dove tutti, appena possono, cercano di scappare. Ma in cui non c’è la minima solidarietà con chi diviene debole o s’impoverisce: subito lo si tiene lontano, come un appestato. Soprattutto, deve stare lontano dai soldi della coniuge: perché è evidente che i soggetti forti sono le donne. Non solo sono più decise e determinate, e fanno meno chiacchiere rispetto ad un problema, prendendo esse saldamente in pugno l’iniziativa; ma possono essere più ciniche e cattive di questi maschioni narcisisti che giocano alla guerra senza avere la minima idea di dove si possa andare a parare. Non a caso, nel film, sono le uniche che sopravvivono, ottenendo, se non la felicità e l’amore, almeno la possibilità di ottenere quanto desiderato. Il film va avanti come una commedia nera, sovvertendo, con cinica, allegra e anarchica anticonvenzionalità narrativa, ogni nostra aspettativa sui “buoni” e i “cattivi”. Lì si mostra che sono tutte persone stupide: ma è una stupidità collettiva; addirittura, di un’intera nazione. Perché tutti si intromettono in ruoli che non sono propri, a partire dalla Cia che dovrebbe difenderli dalle “minacce estere” e non sa nemmeno affrontare il singolo caso di un suo agente. E’ chiara la  critica al modo balordo con cui la Compagnia ha affrontato le gravi crisi del nostro secolo: Iraq e Al Qaeda in primis. E’ questo il terzo titolo della trilogia della stupidità, tutti interpretati da G.Clooney. E’ uno “Sciocchezzaio” di articolata complessità, che coinvolge e sconvolge l’intera vita sociale americana: come nel capolavoro flaubertiano “Bouvard e Pécuchet”, è la somma della società che è tirata in ballo, perché la stupidità è il vero contagio, la sua cultura di base.

 

                                   BERLUSCONI, “DIVO “ POPOLARE.

    Tra le tante caratteristiche della tempestosamente esuberante personalità del nostro Presidente del Consiglio, c’è il suo profondo, viscerale legame che sa creare con le masse di coloro che accettano il suo fare  e seguono il suo dire. Egli ama profondamente “essere amato” dalle masse festanti: avverte, come in una specie di ebbrezza, la contiguità fisica di questo legame. Figura molto complessa, sicuramente dotato di una notevole energia intellettuale e personale, mostra il suo carisma in modi non affettati. Egli comunica fondamentalmente se stesso: è “lui stesso” il messaggio da far passare. In realtà il suo è un calcolo preciso. Così facendo, esprime la “sua” politica che non ha bisogno del partito tradizionale. Invece, la politica berlusconiana è un fare che si adegua alla logica degli share televisivi: egli cerca il consenso su di sé, sulla sua persona, non la vittoria di un programma. Che egli non ha. Anzi apertamente rifiuta tutti i riti della politica tradizionale. Nessuno mai l’ha sentito fare apprezzamenti o semplici riferimenti all’attività di organi dello stato diversi da quelli dove LUI è presente, eletto dal ”suo” popolo, come ad esempio la Corte Costituzionale. Anzi, se fosse per lui, egli riscriverebbe la Carta Costituzionale, ponendo se stesso, come iniziatore di un nuovo corso storico: farebbe come Putin. Perciò, ad esempio, non ha mai riconosciuto la fondazione storica della Repubblica: e non è senza ragione che mai una volta che abbia parlato di Antifascismo, o di Resistenza. Questi eventi non sono cianfrusaglie storiche, ma sono alla base della creazione stessa della Repubblica, ne sono i fondamenti.  E se lo fa, o è per sminuirne la portata, perché, per lui, l’unica legittimazione di “tutte” la Istituzioni dello stato è il voto plebiscitario: non riconosce che la struttura dello stato ha bisogno di bilanciamento di poteri; oppure è per attaccarli: come nella sua furiosa, costante, ossessiva diatriba contro la magistratura. Ha solo interessi. Il consenso è totalmente staccato dal successo di alcune determinate politiche: egli le cambia, come si cambia l’abito ( che sono sempre dei “completini” Caraceni). La Lady di Ferro,la Conservatrice Thatcher, premier inglese per 12 anni, era latrice di una logica politica: apprezzabile o meno, era la personificazione di una modalità precisa, coerente e attesa. Silvio è un Re. Il suo Programma ha aspetti di pura demagogia: come l’annullamento dell’Ici; ma c’è poi la ministressa Gelmini che vuole tagliare a tutti i costi sulla scuola; o Brunetta che vuole fare prigionieri nelle loro stanze i poveri statali, senza che combinino nulla di diverso da prima. Quindi questa dovrebbe essere una severità iper-liberista, in nome della spietata logica meritocaratica. Mentre poi la cordata di salvataggio dell’Alitalia è un’accolita di “amici”, nuovi e storici di B. che aspettano di mettersi a banchettare sulle spoglie della nostra ex-Compagnia di bandiera, senza spendere un centesimo, con i debiti a carico dello stato. Oppure la messa dell’esercito nelle strade, che ha una funzione più coreografica che altro: a Napoli stanno nelle zone bene, già sotto vigilanza; o il reato (ora, su precisa richiesta della UE, abolito per i cittadini comunitari) di ingresso clandestino, senza che si accompagni una politica seria di programmazione dei flussi di manodopera extracomunitaria necessaria, in talune zone, all’economia del nostro paese. Si parla di sicurezza: ma poi si vuole limitare fortemente la facoltà dei magistrati inquirenti di ordinare le intercettazioni telefoniche. Senza queste tutti, ma proprio tutti, i reati di corruzione non sarebbero mai stati scoperti: è questo che vuole B., l’impunità per reati che potrebbero lambire la sfera della politica, degli interessi della Casta? Con ciò abbassando il livello della guardia antimafiosa. Né si parla di sveltire i processi, investendo soldi nell’amministrazione della giustizia; invece si dà addosso ai magistrati, dai quali il B. è il “più perseguitato”. Si parla di attribuire una maggiore autonomia d’investigazione alla Polizia Giudiziara, non rendendo “immediata” la notitia criminis al magistrato, com’è ora. Il che vuol dire che avremo tre polizie e più (Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza, Guardie Forestali, Polizia Penitenziaria), che obbediranno alle logiche dei politici che controllano i rispettivi Ministeri di appartenenza: col risultato che l’azione investigativa non sarà più in mano alla Magistratura ma sarà fortemente filtrata dai vari interessi in campo. Come si vede, sono segnali operativi contraddittori, che non rimandano a nessun programma specifico. Ma a due disegni: uno più evidente, l’altro meno. Il più visibile è che Silvio Nostro, e tutti i suoi, procede sempre come in un grande spot senza fine: tutti annunci mirabolanti, che lo  mettono alla ribalta in modi continuativi; soprattutto rassicuranti e taumaturgici. “Ecco che è arrivato il Premier che ha tolto per miracolo la munnezza dalle strade”. Purtroppo Prodi non ha avuto la stessa acuta, doverosa sensibilità rispetto alla gravità dirompente di questo schifo. L’altro piano, inconfessabile, è che siamo di fronte ad un golpe permanente.

                                   GLI USA E NOI  DOPO IL CRACK FINANZIARIO.

    Il crack che si è abbattuto sull’insieme del sistema bancario-finanziario Usa è di un’ampiezza gravissima e senza precedenti. Da dove è nato? Dall’esposizione debitoria delle banche rispetto ai crediti concessi al consumo: in particolare ai mutui erogati ai comuni cittadini, senza garanzie di sorta: i cosiddetti “Sub Prime”. Cioè: la gente andava nelle banche, nelle finanziarie chiedeva un prestito consistente per acquistare casa, anche a costi medio-alti,  e queste glielo davano senza fare particolari inchieste sulla solvibilità dei richiedenti. Chiaramente era un prestito ipotecario: nel senso che l’unico “pegno” era la l’ipoteca sulla casa stessa. In un periodo di costo del denaro, cioè con un tasso di sconto, tenuto basso ; con uno spread, l’interesse che la banca chiedeva sulla singola operazione, relativamente non esoso, ecco che si era creato un giro di “allegra” circolazione di contanti nominale, cioè tutta e solamente  a debito, senza che vi fosse, nella sottostante economia reale, una produzione-circolazione di merci e di servizi collegata. Le case erano offerte sul mercato a prezzi crescenti, perché erano sorrette da una crescente domanda. Era una vera e propria giostra. Ma tutta fasulla. Essa era di fatto incentivata dal sistema finanziario-bancario, nell’indifferenza  del Governo Federale, che non è mai intervenuto. Ma qui gioca l’ideologia iper-liberista della Presidenza Bush “o’ piccirillo”: lui e i suoi sodali Cheney (da molti considerato la vera testa pensante della Presidenza)-Rumsfeld-Wolfovitz, impegnati a trovare nemici adeguati allo sforzo bellico nella cui industria avevano consistenti interessi personali, davano un profilo molto basso alla Governance dell’economia. E trovavano sponda politica nel responsabile precedente della FED, la potente autorità bancaria centrale Usa, D.Greenspain: da lui dipendeva la decisione sul costo del denaro. Gli Usa, giova ricordare, è l’unico paese al mondo il cui debito pubblico, i “Treasure Bond”, è pagato non dalla circolazione interna alla nazione, ma da tutto il mondo. Ciò perché il dollaro è la moneta principe degli scambi mondiali, è dovunque accettato, e ci sono riserve di dollari,a trilioni, presso tutte le nazioni: la più alta quantità è in Cina, ad esempio. Qualche economista americano, in particolare  l’ebreo-iraniano Nouriel Roubini, docente alla New York University, aveva avvertito che era tutto un pericoloso bluff: come da noi lo stesso Padoa-Schioppa, il Ministro prodiano dell’Economia, aveva messo in guardia sull’eccezionale incertezza che gravava su questi scambi drogati. Ma, mentre da noi c’era stata attenzione a queste voci, in Usa erano stati tacciati di “Pessimismo antipatriottico”, dagli stessi “Organi di Controllo” finanziario sul credito, e fatti oggetto di campagne di stampa irridenti. Da quegli “Organi”, poi, emanazione delle stesse società finanziarie che in teoria, avrebbero dovuto controllare. Quindi è successo ciò che c’era da aspettarsi: il basso tasso del credito ha fatto rialzare, in termini nominali, il costo del petrolio. Perché i produttori di petrolio alzavano il prezzo per recuperare la svalutazione in termini reali del dollaro. Ciò ha portato un potente fattore d’inflazione e d’impoverimento nell’economia reale del paese. E molti, che avevano il mutuo, senza contare tutti gli altri indebitamenti da, per esempio, Carte di Credito a Debito, non ce l’hanno fatta più a pagarlo. A questo punto, la giostra si è interrotta, e ha invertito il senso. La gente non paga i debiti: le banche si prendono le case ipotecate, che devono essere rimesse in vendita. Siccome le case sono tantissime, messe all’asta tutte insieme, ecco che il mercato immobiliare crolla miseramente, e tutto quanto ad esso collegato. Nel frattempo, le banche & simili si erano inventate una gran furbata: avevano venduto e rivenduto tutti questi debiti,  creando delle obbligazioni speciali, chiamate “strutturate” (“Structurated Bond”), che, sulla carta, avrebbero dato lucrosi interessi. Queste erano state messe in vendita da primari istituti finanziari, da importanti banche d’affari e commerciali, e “buttate” in modi truffaldini anche nei Fondi Pensione: ovviamente generando cospicue commissioni a tutti quelli che le vendevano, in totale malafede. Finchè i debiti venivano onorati, gli interessi rispondevano al titolo: ma appena si è andati ”nei verbi difettivi”, ecco che quelle obbligazioni, “Junk Bonds” (Titoli spazzatura) si sono rivelate per quelle che erano:carta straccia. Un’immane truffa ai danni dei risparmiatori.  E da qui è scoppiata l’apocalisse. Si è generato un corto circuito di sfiducia che ha travolto alcune banche; ma le avrebbe travolto tutte: perché tutte “ci avevano dato dentro” a queste truffe legali. La gente, in preda al più classico panico, ha cercato di tornare in possesso della propria liquidità, conservata presso le banche: e ciò ha peggiorato la crisi di sfiducia. A questo punto lo Stato federale, sullo scorcio del Settembre 08, ha deciso di accollarsi tutti i crediti in sofferenza presso le banche, salvandole dal fallimento: se questo fosse realmente avvenuto, avrebbe creato una terrificante crisi a livello mondiale, per un micidiale effetto domino. E avverrà con un esborso di 700mila miliardi di dollari: ma credo che si arrivi a superare il trilione di dollari. Una tale quantità di denaro in circolo non può che abbassare, nel breve periodo, il tasso d’interesse, quindi il valore del dollaro: per cui, nel mentre si rivaluterà l’euro, crescerà il costo del petrolio. Ciò porterà all’effetto combinato, per noi, di stagnazione, perché si ridurranno le possibilità di sviluppo per l’alto costo del  denaro; e di inflazione, perché il petrolio farà crescere i prezzi.

 

PARIGI

“PARIGI” di CEDRIC KLAPISCH; FRA, 08. A Parigi, Pierre, giovane ballerino è in procinto di affrontare una rischiosa operazione. Inchiodato in casa, accudito dalla sorella, osserva le vite dei suoi vicini. Il regista non è nuovo a opere corali, da lui stesso sceneggiate, sia in “interni” familiari che di casuale aggregazione giovanile: come nel divertente “L’appartamento spagnolo” (02), tra l’altro con lo stesso protagonista R.Duris. Come anche in opere che mettevano in rilievo la vita di un singolo quartiere parigino, come nella riuscita opera prima “Ognuno cerca il suo gatto” (96). Nel presente film l’ottica si è allargata all’intera città, “letta” con uno sguardo amorevole, ma non priva della consapevolezza che, nella vita quotidiana, sconforti, delusioni e perfino drammi, si svolgono con la stessa leggerezza di storie a lieto fine, o aperte, in ogni caso, alla speranza. Il protagonista vede il suo destino come ad un passaggio pericoloso: ed è colui che ha meno cose da raccontare; però è una presenza avvolgente, nel senso che filtra e fa da “commento vivente” alle storie nel loro insieme . Esse nascono nella casualità più totale: e il regista, complessivamente, è riuscito a trattenere quest’impressione collettiva di freschezza. Quella che mi ha più colpito, e che da sola potrebbe dare valore al film, vede come protagonista l’attore F.Luchini, un maturo prof universitario che non solo tradisce la sacralità incartapecorita della ricerca storica universitaria per darsi alla divlugazione tv, e lo fa solo per soldi; ma s’innamora come un ragazzino della bellissima studentessa, che pur cedendo alla sua corte, ha ben altro per la testa. E’ ricco di sensibilità, dalle più intense manifestazioni d’amore, come quando si esibisce in un esilarante numero di ballo “anni 60”, alla più scoperta disillusione. Ma accetta il dato con grande dignità, e composta sofferenza. Intensa, ma meno accattivante, è la riscoperta dell’amore operata, grazie anche alle spinte del fratello che accudisce, nel personaggio di J.Binoche, attrice di grande carisma. Tanto più tale, perché recita in sottotono: qui si vede la grande intelligenza delle attrici francesi, che sanno essere perfettamente in parte, con umorismo e bravura anche quando non fanno le E.Duse. Così anche valide sono le vicende che hanno come oggetto i vari operai del mercatino: in particolare gli incontri tra l’ex moglie di uno di loro e il collega del marito. Il regista tratteggia anche personaggi del milieu operaio: e lo fa con una certa ruvida veridicità. Meno convincente è l’incontro di costoro con le indossatrici. Mentre assai azzeccati sono quei “pezzi” d’Africa proposti, che ormai fanno parte integrante del quadro metropolitano.

 

 

                                               TEX HA 60 ANNI.

    Il 30 settembre 1948, per la prima volta andò nelle edicole il fumetto “Tex”. Al modico prezzo di L.15, il suo formato era  a striscia rettangolare, come uscivano molti altri fumetti per ragazzi: “Capitan Miki”, “Il Grande Blek”, “Kinowa”, ecc. Esso si presentava sempre con la vivace e accattivante copertina a colori, caratterizzata dal logo che è rimasto, felicemente, identico negli anni fino ad oggi. Formato che è stato trasformato in quello “a quaderno”, con cui esce ancora oggi, circa una decina di anni dopo. Il creatore del personaggio, autore di gran parte delle storie è stato il suo editore Gian Luigi Bonelli; mentre l’idea grafica, gli spazi visuali e tutti i disegni erano del leggendario Aurelio Galleppini, in arte Galep. Insieme hanno dato vita ad un sodalizio che è durato tutta la vita. Oggi è il figlio, Sergio Bonelli Editore, continuatore, col suo nome, dell’attività del padre: egli stesso è tra i disegnatori ed autori delle storie del personaggio. Personalmente preferivo i sopra tre citati. Tuttavia leggevo “con deferenza” Tex. Voglio dire: rispetto al West favolistico di Capitan Miki o i grandi boschi di Blek Macigno, e il suo 700 così poco attendibile, c’erano dei dati di Tex che colpivano fin da subito: la sua dimensione spazio-visuale e il modo di trattare gli Indiani. Le sue gesta erano per lo più ambientate nelle zone semidesertiche del New Mexico, dell’Arizona  e spesso le paludi della Louisiana. Non i grandi spazi, quella vasta zona centrale degli Usa compresa tra le due coste, che è chiamata  “il Grande Cielo”, che fu anche titolo di un classico romanzo, anzi il capolavoro della letteratura western di A.B.Guthrie, e del film eccellente trattovi di Howard Hawks del 52. Non gli scenari che vedevano come protagoniste le grandi “nazioni” guerriere come i Lakota o i Cheyennes, che hanno fatto l’epopea del grande cinema western; ma quelli caratterizzati da popoli forse meno bellicosi, ma portatori di una civiltà culturale più avanzata, in generale, come i Seminole e i cosiddetti Pueblos; oppure specialmente nella elaborazione delle tematiche religiose come i Navajos-Hopi. Popoli che, peraltro, anche grazie ad un livello più elaborato di coscienza identitaria, non solo guerriera, hanno saputo meglio resistere ai processi di massificazione-distruzione operata dagli Yankees. Scenari per lo più poveri di vegetazione: dove però le insidie erano ancora più pericolose e inaspettate. Inoltre, in questa apparente monotonia esteriore, dal punto di vista visuale, “uscivano” tratti moto affascinanti di narrazioni misteriose, se non addirittura esoteriche, che sconvolgevano quella linearità, con rimandi a sottili interpunzioni horror e talvolta fantasy. Ma tutto ciò avveniva sempre con grane equilibrio narrativo. Tale da non mettere mai in discussione  l’asset strategico del fumetto. Anzi: era fatto in modo che questa aria di arcano, che aleggiava tra i misteri del deserto, confliggesse felicemente con la solida, ma non stolida, struttura diegetica del “personaggio” Tex. Essa era aperta, umana, assolutamente onesta, ma guardinga, curiosa e con un profondo senso dello scetticismo, che voleva andare a fondo alle cose senza farsi travolgere dalle apparenze e/o dalle varie bardature di tipo superstizioso e/o simil-religioso con cui si ammantavano bel altre volontà. Naturalmente, queste cose, quando ero ragazzino, non le coglievo con la presente concisione: però avvertivo la sua differenza rispetto agli altri. Egli aveva grande simpatia per gli indiani: li rispettava e ne era rispettato; accoglieva elementi di civiltà e di comportamento da loro, che poi “passava” a suo figlio Kit. Anche se non si sbrodolava in declamazioni retoriche e ideologiche (che tra l’altro il pubblico di noi ragazzini non avrebbe capito) e  in atteggiamenti esteriormente sinistrorsi di aperta critica ai bianchi, il suo fare concreto se ne discostava nella pratica: e ciò allora “passava” molto più incisivamente nella nostra fantasia e andava a fare parte integrante della parte di formazione attiva e, di fatto critica, affidata a ciò che non era scolastico: come oggi, nel positivo, i Simpson. Perché il nostro rapporto con Tex e similari, era settimanale: costante, rituale, immancabile: come la Messa. La nostra passeggiata all’edicola era un momento di pura gioia collettiva: perché poi questi fumetti ce li scambiavamo con golosa, gelosa, reciproca curiosità, insieme alle chiacchiere e agli apprezzamenti ad essi relativi.  Le sue vicende erano piuttosto elaborate e spesso prevedevano strutture psicologiche non banali. Siamo quindi in presenza di un prodotto letterario complessivamente in sé valido: a prescindere dal fascino della memoria identitaria e dell’amarcord. Il vero problema è la  difficoltà che la cultura “alta” ha avuto nell’accogliere questa che è oggi è chiamata “Letteratura Disegnata”, non più, spregiativamente, “fumetto”. Nella cultura anglosassone la chiamano “Graphic Novel”. Ha prodotto riconosciuti Maestri e capolavori, che hanno reinventato classici del fumetto popolare americano degli anni 30 e 40 come “Superman”, “Batman” , creandone nuovi. Da questi il cinema Usa sta arraffando a piene mani. Niente di tutto ciò avviene da noi. Vi sono stati maldestri tentativi: Diabolik, ad esempio –escludendo, però, il capolavoro “Totò Diabolicus”  di Steno del 62…-; e perfino un “Tex e il Signore degli abissi” con Giuliano Gemma di Duccio Tessari dell’ 85. Ma l’unico film che ha cercato di creare un solido e creativo spazio visuale-narrativo ispirandosi a un fumetto italiano è stato “Dellamorte/Dellamore” di M.Soavi del 94, tratto da Dylan Dog.

“IL MATRIMONIO DI LORNA” di LUC & JEAN-PIERRE DARDENNE; FRA-UK, 08.

 Lorna è una ragazza albanese che per avere la cittadinanza belga, sposa un drogato: ma ai suoi capi serve vedova, per poter sposare poi un russo e dare a lui la cittadinanza. Invece, la ragazza aiuta il marito a uscire dall’eroina. I due registi belgi ci hanno abituati da tempo ad un cinema che affronta la realtà attuale: specie quella più spinosa e ricca di conflitti. Bisogna dire che col tempo essi “fotografano” sempre di meno, nel senso che il loro cinema non è più tanto a tesi, in cui è presentata la solita sbobba buonista; anzi sempre di più è ricco di implicazioni individuali, complesse trasformazioni psicologiche; però senza perdere di vista i  problemi da cui avevano preso le mosse. Lorna all’inizio, più che cinica, è fortemente motivata a prestarsi, per soldi, al finto matrimonio: ha il sogno di coronare il suo intenso amore per un connazionale con l’acquisto di un locale in cui lavorare insieme, affrancandosi da tutta la miseria patita. Quindi lei sa cos’è l’amore e la dedizione. Ha la capacità di avvertire l’angosciosa disperazione del suo finto marito: in qualche modo se ne fa carico. E nel farlo si trasforma: fa in modo che il suo grido la penetri profondamente. Non è propriamente amore, ma una dimensione di solidarietà tanto intensa, da farla interagire con lui: fino al dono d’amore del suo corpo.  Nel far ciò prende anche consapevolezza dell’abisso di solitudine in cui lei viveva: anche quello che riteneva il “grande amore” si rivela per un ometto, “povero dentro”, e suoi soci dei mostri. A lei non resta che coltivare un sogno, una fantasia risarcitoria per quel suo marito che non è riuscita a salvare: che in lei vive suo figlio. Vero? non vero?: tutto è lasciato nell’ambiguità, nella sfera della ricreazione onirica.  Come nel chiudersi nel rifugio al finale: una dimensione fantastica diversa dall’asciutto realismo fino a quel momento adottato, almeno all’apparenza. Ma questa è la grandezza degli autori e del film: riuscire a trasferire lo sviluppo drammatico in una zona diversa di stile e di considerazione. l personaggi, in particolare la povera Lorna, sono come attraversati da se stessi: il suo chiudersi nella fantasia materna recupera una modalità di presenza che non è più materiale, ma di spiritualità. Come già in “L’Enfant”, ci si ispira a R.Bresson, il grande cineasta cattolico. Qui invece c’è un rarefarsi di stile più originale: la narrazione è estremamente ellittica. Si passa da una fase all’altra senza raccordi esteriori: è come s e tutto avvenisse “solo” nell’anima di Lorna. Non c’è alcuna musica: solo qualche accenno nel finale; sono rari perfino i rumori esterni: solo il bosco risuonerà di cinguettii benauguranti

 

“THE MIST” di FRANK DARABOND; USA,07.

In una pacifica comunità dell’America profonda, vicina ad una Base dell’Esercito, da un’improvvisa, densa , minacciosa nebbia scaturiscono orrori innominabili. Tratto dal racconto omonimo di Stephen King, è stato sceneggiato dallo stesso regista. Che peraltro si è già misurato con opere tratte da King: “Le ali della libertà” (94) e “Il Miglio Verde”(99), tutte e due di valore, sono sue. E’ un artigiano di discrete qualità: caratterizza il suo cinema in modi narrativamente solidi. Non ama gli abbellimenti esteriori gratuiti ; non immette ricercatezze di montaggio che non siano necessarie alla suspence o allo sviluppo della trama; non ricerca complesse raffinatezze nelle psicologie: a lui interessa un cinema in grado coinvolgere emotivamente, magari far riflettere, sempre sulla scorta di personaggi e situazioni credibili. Qui, il suo confrontarsi con l’orrore, è, a mio avviso, riuscito. Tiene sotto controllo lo splatter: non c’è il compiacimento per lo sbudellame sanguinolento in sé. Ce n’è un chiaro accenno, ma è utilizzato in modi funzionali. Egli investiga più che sull’orrore stesso, sulle ripercussioni che questo crea sugli uomini costretti alla coesistenza in uno spazio limitato che contrasta  visualmente con l’assoluto, pauroso nulla della nebbia. Per quanto sia debitore al testo kinghiano, il regista è piuttosto efficace nel descriverne i percorsi. C’è l’invasata religiosa, interpretata da una bravissima e sperimentata Marcia Gay Harden, che, piano piano, prende il sopravvento sul gruppo dei sopravvissuti, facendoli assumere dei comportamenti collettivi, ispirati dalla sua fanatica pseudo-religiosa concezione barbarica della paura, ancora più orrendi delle creature fuori. Anzi: il film “gira” su questa trasformazione collettiva, contestualmente alla descrizione dell’orrore in sé. Non solo: si afferma che questa venuta non è accidentale, ma dovuta ai soliti esperimenti scriteriati dell’Esercito, che si deresponsabilizza  delle sue conseguenze: i due temi si sommano in modi imprevedibili. Ma il regista tiene sempre la barra al centro: non lascia che alcuno degli aspetti prenda il sopravvento: in questa chiave, sono ben riusciti gli effetti speciali. Howard Berger , Gregory Nicotero, che hanno lavorato, tra gli altri, per Q.Tarantino e R.Rodriguez, al make-up, e Michael Broom che le ha visivamente definite, sono i creatori delle varie creature che affollano gli incubi del film. Essi sono artisti di grande valore, di cui il regista si è servito senza stravolgere la complessità dei temi messi in campo. Tuttavia, il finale avrebbe dovuto avere una definizione tragicamente più incisiva, per essere credibile.

                                              

ARCHEOLOGIA & MUNNEZZA.

   Al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, dal 16 0ttobre, e resterà aperta fino al19 Aprile 09, partirà la Mostra “Ercolano, tre secoli di scoperte”. E’ un evento di grande importanza culturale. Organizzata in un itinerario ragionato, non solo vi saranno esposti i ritrovamenti archeologici operati negli ultimi tre secoli, da quando s’incominciò a scavare;   ma anche sarà presentata la storia e l’evoluzione dei metodi e delle impostazioni, sia tecnico-archeologiche che di ricerca e di confronto con gli Scavi. Nel 1711, il Principe d’Elboeuf, austriaco, ma dignitario della Corte Borbonica, si calò in uno dei numerosi cunicoli di cui le guide e i contadini locali favoleggiavano come “vie segrete”, in un misto di superstizione, oscure reminescenze di culti pagani, mistificazione di memorie tramandate in modi confusi, e iniziò le ricerche a Ercolano. Ciò diede a Johann Joachim Winckelmann, il grande intellettuale, modo di teorizzare, anche sulla base dei reperti pompeiani ed ercolanesi, una nuova figuralità, una nuova modalità con cui riprendere e “aggiornare” la cultura artistica greca e latino-classica che s’incominciava a ritrovare e a guardare, avendola salvata dall’oblio plurisecolare. Era un antico che diventava improvvisamente moderno: anzi, un gusto rivolto al futuro, perché l’occhio al passato non era meramente antiquario-arcadico, anche se aveva ascendenze in tal senso. Non era il raccogliere e l’ammassare reperti per il gusto maniaco del collezionista pippante, che se le cova con lo sguardo allucinato e la bocca in salivazione per golosa bava di possesso. Ma la consapevolezza che questi materiali, usciti come per miracolo dai detriti, dalle cave e dalle secolari stratificazioni di monnezza, di degrado e di povertà dei territori in cui si erano incistate in profondità, risorti letteralmente dalla nuda terra, potevano trasformare il piatto, velleitario immaginario del presente, in una visione che non solo evocava l’antico, ma lo sostanziava di testimonianze reali, materialmente concrete: tra l’altro riproducibili. Quindi l’antico diventava un reticolato di coordinate con cui dal presente immaginare il futuro e lo sviluppo degli spazi della nuova convivenza civile nelle città, adeguata a tempi di grandi trasformazioni storico-sociali, come fu il tardo 700. Chiaramente è un “uso” filosofico della classicità, che sarà storicamente ascritto al neoclassicismo illuminista: poi alla base, segnatamente, dell’immaginario coreografico con cui il potere napoleonico si autorappresentava. Questo uso fu culturalmente molto proficuo. Al di là della banale strumentalizzazione politica, diede vita ad un immaginario collettivo, poi soppiantato da quello medieval-sentimentale del Romanticismo, che definì un’intera epoca. E una riflessione di metodo, che parte da quell’”uso”, può essere utile. Ed è l’analogia con i tempi attuali che più mi sconcerta. L’Archeologia, la cui complessità culturale ho appena appena scalfito, contiene in sè un elemento di “Principio”, di “Inizio” presente nella radice della parola, che si cela, come il “dio velato” degli antichi, nella prosaica, banale, volgare munnezza. Esattamente quella che ci circonda. Che è presente ancora oggi, nonostante l’auto-proclamato miracolo di Silvio Nostro, massiccia e maleodorante, a presidiare i crocicchi, un po’ fuori Napoli. Da cui siamo invasi. Ma da cui, soprattutto, siamo metaforicamente ricoperti, e che tende a stratificarsi. Anche se non è  principalmente questa la ragione dell’innalzamento del livello del terreno, è evidente che la stessa terra, sotto forma di detriti, diventa immondizia e vi coinvolge tutti gli altri rifiuti. La trasformazione dei rifiuti in sostanze naturali, dovrebbe essere il processo fisiologico, tale da accompagnare il nostro ciclo biologico: ma non è così. I rifiuti sono diventati una minaccia per la stessa sopravvivenza dell’umanità. Il 79 dopo Cristo, anno dell’eruzione pliniana, cioè catastrofica e dissolutrice, del Vesuvio, fu un evento circoscritto. Noi stiamo rischiando di fare un 79  “perpetuo” ed espanso, non più limitato ad un singolo territorio e momento temporale, se non si inverte il circuito autodistruttivo in cui ci stiamo avviando, mettendo in essere le politiche centrali e istituzionali e i comportamenti diffusi adeguati. Però noi continuiamo a vivere in questa dimensione inquinata. Non solo cerchiamo di assumere comportamenti collettivi più consapevoli, più critici e positivamente trasformativi rispetto all’”emergenza quotidiana”, ma ci siamo già attrezzati a trasformare in energia culturale positiva il nostro malessere. Oltre che nel cinema (“Gomorra”, ad es.), anche il nostro rapporto con l’Archeologia può ispirare e rinforzare questa consapevolezza. Considerare i rifiuti come una sorta di “dimensione parallela”, un universo sotterraneo in cui scavare, e farvi emergere forme alternative tali da trasformare le visioni non solo della monnezza, ma del mondo. Lo scavarvi può essere reale: volendo estremizzare (e provocare), chissà quante testimonianze materiali utili a certificare i punti di sutura dei vari passati col presente, vi possono essere: riuscire a intravedere i vari “cominciamenti” di situazioni e di trasformazioni storiche e di comportamenti. Ma può anche essere un approccio riflessivo, volto a ricostruire un passato, magari prossimo, ma che già sembra preistoria, che ha perso i connotati della contemporaneità, e non riesce a divenire memoria. Sono molti gli sforzi creativi di artisti, storici civili e del pensiero, intellettuali, in forma singola e collettiva, mirati su queste problematiche.   

“WALL-E” di ANDREW STANTON; USA,08. Wall-E è un robottino lasciato su una Terra abitata non più dagli umani, ma dalla munnezza, che egli diligentemente continua a raccogliere e a serrare in balle, con cui costruisce delle torri. Finchè arriva, scaricata da una nave spaziale, una robotttina, Eve. Il titolo, e nome del protagonista è l’acronimo di Waste Allocation Load Lifted-Earth (Class), ovvero un robot raccogli-spazzatura. Egli è solo su una Terra desolata, dove l’unico panorama sono queste terrificanti Torri fatte di balle addossate l’una sull’altra. E’ uno spettacolo apocalittico. Vi sono delle tempeste di sabbia, create dallo stesso inquinamento; ma tutto è immobile come in un eterno coma della natura. L’unica nota vivente è questo essere che, come un soldatino, minuto su una vastità sconfinata, continua imperterrito e sferragliante il suo lavoro, incurante delle difficoltà e del contesto. Il centro del film è basato su di lui. Questa figura, immaginata dal regista e dal produttore John Lasseter, fin dal 94, è, nonostante le apparenze, strutturata con un alto livello di sofisticata immaginazione. Il team Lasseter & Co, è fatto di persone che collaborano in modi sinergici. La complessità non è principalmente disegnativa, e nemmeno delle numerosissime citazioni filmiche che egli “attraversa” e rivitalizza, spesso con elegante ironia, sempre con grande disinvoltura, in una tecnica digitale arrivata a punte di grande precisione e accuratezza di dettagli realistici. Ma è la concezione del personaggio ad essere in sé originale. Il Robottino è un’allegoria dantesca della crisi cui l’umanità sta andando incontro se non cambia radicalmente strada, rispetto alla gestione dei rifiuti. Essi possono alterare in modi irreversibili le stesse condizioni di sopravvivenza dell’intera umanità. E ciò è detto non dall’”estremista” MIchael Moore, o dal “liberal” Al Gore, ma da un prodotto di una Company quotata in borsa. E soprattutto in modi artisticamente di una poeticità intensa e delicata. Wall-E è tutto giocato in una dimensione di totale ambiguità: sembra un bambino; come la metafora del primitivo roussoiano che scopre e affronta la solitudine e i sentimenti nella loro primalità, con tutta la ricchezza e l’intensità di chi si accosta ad un universo mai esplorato, che lo sorprende per la forza del suo ingenuo coinvolgimento. Ma è anche un adolescente, pieno di delicatezza e di amorevole empatia per la robottina Eve (acronimo di Extraterrestrial Vegetation Evaluator). Eppure, tutte queste caratteristiche rimangono profondamente inscritte nel suo essere un robottino da munnezza, gestito con coerenza grafica e tematica degna della teoria auerbachiana della Figura in Dante.

“L’UOMO CHE AMA” di MARIA SOLE TOGNAZZI; ITA, 08. Un quarantenne a confronto con due storie d’amore: ambedue portatrici di sofferenza; ma anche di intensa vitalità. Sfasato sul piano temporale, pone due diversi aspetti, dello stesso “uomo che ama”: è un paradosso narrativo, che però è l’originalità del film. La storia con la Bellucci, pur sviluppandosi temporalmente prima, viene trattata dopo che il film descrive, con impietosa precisione analitica tutte le sfumature di sofferenza che Roberto, lasciato da Sara, affronta. La credibilità dei suoi stati d’animo è assicurata dall’interpretazione vibrante che ne dà Pierfrancesco Favino: sono colti dei passaggi che lasciano impietriti per la sofferenza che evocano. Tuttavia, è una descrizione che rischia di girare su se stessa, come un riuscito saggio di bravura, però di fatto monocorde: in cui non c’è sviluppo narrativo. Ed è infatti in sé, a mio avviso, la parte più debole del film. Ma la regista, con lo spezzare i piani temporali, e facendo terminare il film con la storia più complessa , fa sì che l’essere lasciato, su cui si è sviluppata la prima parte, sia non il finale, ma l’inizio. In questa prospettiva, con una vera e propria furbata narrativa, l’andamento diviene più mosso e più incisivo. Anche perché assumono ruoli meglio definiti personaggi come il fratello gay, che invece chiarisce meglio il rapporto col suo fidanzato, le motivazioni della sua storia personale e di coppia; assumono un ruolo più ricco di umanità e di diventano maggiormente credibili i genitori e la loro casa sul lago D’Orta. Anzi, questo splendido panorama viene utilizzato con validi effetti di straniamento poetico. Si vede che la regista vi è molto legata. Il rapporto con la bellissima  Bellucci, è rivissuto anche qui con numerose sfumature. La metafora dell’insonnia, come spia del malessere di coppia, appare riuscita, nello svolgere il ruolo di controcanto rispetto all’apparente comportamentalità superficiale idilliaca. Ed è funzionale rispetto al prendere coscienza del disamore, che, sempre in Roberto, avviene in modi sottili, non enfatizzati: ma per questo portatori di più acuta sofferenza.  Però questa volta coinvolgenti non maggiormente lui ma la donna : qui bisogna dire che le sottolineature che ne dà la Bellucci sono estremamente credibili, nel loro essere così misurate, quasi sottotraccia, ma intensissime. Adeguata è la tonalità con cui è fotografata (da A.Catinari, usatissimo dal nostro migliore cinema attuale) la città di Torino: non caotica, a suo modo partecipe del dolore incrociato dei protagonisti: ma in cui prevale il senso del freddo, della lontananza e dell’insignificanza individuale rispetto all’insostenibilità dei sentimenti.

                                              

 LA DEFLAZIONE ATTUALE.

    La crisi economica attuale, partita dagli Usa, si sta avvitando in tutto il mondo, e segnatamente in Italia, in una spirale di recessione-deflazione. Che vuol dire? Che la scarsità di credito bancario, oppure la difficoltà di accedervi, sta interrompendo il trend di sviluppo dell’economia. La difficoltà di produrre e di mantenere i prezzi sul mercato induce le industrie a produrre di meno: quindi s’instaura il circolo vizioso per  cui producendo di meno, si produce ancor meno, perché il mercato non riesce ad assorbire le merci prodotte. Abbiamo avuto un ricorso alla CIG (Cassa Integrazione Guadagni) che è aumentato del 70% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso: un aumento preoccupante. Siamo entrati in fase di recessione “classica”: cioè un non-aumento del PIL, il prodotto interno lordo, che misura l’insieme delle merci e servizi prodotti dall’Italia. La stessa diminuzione dell’inflazione (cioè l’aumento solo monetario del costo delle merci) ne è la spia. Ed è scesa perché i prezzi delle materie prime, che “importavano” sulla nostra economia forti fattori inflazionistici, sono tutti scesi. Però, attenzione: il fatto che il costo del petrolio sia sceso non ha solo aspetti positivi, ha anche risvolti negativi. Innanzitutto perché è la spia del fatto che è in atto una recessione mondiale: producendosi di meno, si ha meno richiesta di energia. E ciò comporta, con l’abbattimento della domanda, la discesa del prezzo, perché la produzione petrolifera è in eccesso rispetto a quella. Scendendo oltre una data soglia, rende antieconomico il ricorrere a fonti alternative ecologiche: ed anche la progettazione e la ricerca in tal senso vengono scoraggiate. Ma l’inflazione attuale scende perché per mantenere la quantità di merci sul mercato tale da non bloccare completamente la produzione, si abbassano i prezzi. E questo si  “avvita” su un altro aspetto ancora più allarmante: il fenomeno della deflazione. Questo termine nasce come negazione dell’inflazione, ma ha una portata non più ciclica, ma strutturale, quindi pericoloso per l’economia. Che significa? Che un’economia sana, in realtà, deve sempre portare con sé, nel suo sviluppo, un aumento, pur se minimo, dell’inflazione. E’ nella logica stessa dello sviluppo che l’aumento del PIL, cioè della produzione di beni e sevizi, faccia crescere la massa monetaria, cioè la quantità di denaro, messa in circolo dalle Banche, necessaria ad investire, ristrutturare, incrementare la produzione, il commercio e gli scambi, sostenerne i crediti all’export e al consumo, ecc.: è un vero e proprio circuito virtuoso. Se invece della non-inflazione, cioè dell’aumento minimo dell’inflazione,  c’è la deflazione, ovvero la riduzione percentuale dei prezzi nominali di merci identiche da un una anno all’altro, che è successo nell’economia reale del paese? Che si è messa in moto una spirale verso il basso. Che non solo si produce meno, quindi aumentano i cassintegrati, disoccupati; ma che chiudendo le fabbriche, le banche erogando meno crediti, perché l’economia depressa è poco propensa a investire, a indebitarsi, e a rischiare, ecc., la massa monetaria diminuisce. Diminuendo la produzione, circolazione e lo scambio, è l’economia complessiva, non solo del “sistema paese”, ma anche di ogni singolo cittadino, che s’impoverisce in termini reali. Tutto costando meno, perde valore ogni investimento operato: casa, terreni, patrimoni; mentre i debiti, quelli a tasso fisso, non scendendo in relazione al tasso deflattivo, aumentano in termini di valore reale: e si è quindi doppiamente più poveri. E’ questo lo scenario della crisi del 1929; e ciò è successo anche  per un lungo periodo in Giappone, per quasi tutti gli anni 90, in relazione allo scoppio della bolla speculativa immobiliare, colà prodottasi alla fine degli anni 80. Per ora vi sono solo segnali in Italia: ma la politica governativa non sembra orientata in modo tale da coglierli e rispondervi. Giusto per fare un esempio: l’affaruccio Alitalia, tale per la cordata della CAI, costerà all’Erario (cioè a noi) almeno 1,500-1,700 mlrd di €: cioè l’ 1% del nostro PIL. E’ una cifra che oggi, con questi chiari di luna, è uno sperpero scandaloso, perché vendendo tempo fa, ad Air France lo stato se “la cavava” con un 300 mln di €. I 1200-1400 mln potevano servire a creare tutti quegli ammortizzatori sociali necessari ad affrontare questa crisi. I lavoratori precari, infatti, saranno i primi ad essere “segati”, senza che lo stato abbia realizzato quella “rete” necessaria a rendere non drammatica la loro condizione. Tale sicuramente per loro, ma anche  per tutti noi, perché è solo dall’immissione di massicce dosi di liquidità che la crisi può essere affrontata. Così anche i tagli strombazzati dalla Riforma Gelmini, la 137, vanno in senso diametralmente opposto alle necessità di questa congiuntura: sono di 8 mlrd di €, quelli che si ottengono dalla riduzione dei moduli alle primarie; ma si incrementa in modi esponenziali il precariato perenne nella scuola. Anche qui la domanda da porsi è: se invece di questa controriforma si fosse venduta l’Alitalia ad Air France? Mentre nessuna portata ammortizzatrice ha avuto l’abolizione dell’ICI, perché i soldi necessari a questa misura demagogica, saranno tolti all’Università, alla ricerca: creando anche qui ulteriori forme di disoccupazione e quindi d’impoverimento collettivo.

“SI PUO’ FARE” di GIULIO MANFREDONIA; ITA, 08. Anni 80, Milano. Nello è un sindacalista esiliato in una cooperativa di malati mentali. Animato da spirito imprenditoriale e democratico, crea per sé e gli altri un lavoro vero, non assistenziale, tra incomprensioni e drammi. Il film, ispirato a più storie vere, poi condensate in una sola estremamente emblematica, ha una forte valenza civile, perché difende, contro ogni revisionismo autoritario filo-manicomiale, la Legge Basaglia, la famosa “180”, varata nel 78; così chiamata in onore di Franco Basaglia, il grande psichiatra che la teorizzò. Prevedeva l’abolizione del Manicomio coatto, e l’affidamento dei “matti” a servizi specializzati d’Igiene Mentale, che, tranne poche eccezioni, come queste contemplate nel film, non si sono mai seriamente voluti creare. Ma la bellezza del film è che non sposa in astratto una nobile causa, ma la cala in una riuscita storia corale, in cui l’illustrazione del disagio psichico, non edulcorato o macchiettistico, va di pari passo non solo con la riuscita individuazione di caratteri, ma anche con il comunicare delle vibrazioni sentimentali ed emotive non banali. La sceneggiatura, molto abile, di un giovane sceneggiatore molto attivo nel recente cinema a sfondo giovanile, Fabio Bonifacci, fa proprio nella sostanza un dato su cui ha riflettuto Eugenio Borgna, un altro grande psichiatra di scuola basagliana: che spesso i malati nascondono enormi energie creative che sono come “il crepuscolo nascosto” ricoperto dalla intensa sofferenza, che proprio la grande sensibilità ha attivato. Ed è dalla fantasia lasciata libera di questi pazienti che nasce la bellezza, unica, non omologabile, dei loro manufatti di parquet. Qui è tutto il film. Ma la conduzione registica è attenta a calibrare il dato spesso umoristico, con la grande leggerezza e rispetto di tocco, nel registrare i cambiamenti delle singole patologie. Il tutto in una vicenda che riesce a svilupparsi in modi credibili, allorché la coop si apre al mondo. Emerge ad esempio, in pochi ma efficacissimi tratti di sceneggiatura, senza enfasi strappalagrime, ma diritto al cuore, il dramma dell’oppressione familiare, che porta il povero Gigio al suo destino. Il regista ha trovato in Caludio Bisio il suo degno complice-protagonista. La sua interpretazione è assolutamente, genialmente in bilico tra senso degli affari, uso efficace delle democrazia praticata, cazzimma, cinismo e anche co-follia; come anche tra sensibilità e senso e rispetto della sofferenza, che egli impara a riconoscere, e lo matura. Ricostruita senza eccessi di retorica, pur se con povertà di mezzi, l’atmosfera della “Milano da bere” di quegli anni rampanti pre-tangentopoli.

“QUANTUM OF SOLACE” di MARC FOSTER; USA-UK, 08. James Bond è alle prese con una misteriosa organizzazione mondiale che punta al controllo delle risorse idriche delle zone più povere dei continenti. Ed è sempre in cerca di chi gli ha assassinato l’amata Vesper. Al suo 22° episodio, ci si può domandare da dove tragga la sua longevità e vitalità la saga dell’Agente 007. Indubbiamente è stato il primo Bond, quello di Sean Connery , a lanciarne l’icona fulminante: l’agente spietato ma elegante e grand tombeur, in un contesto, per l’epoca, ipertecnologico; ma che non si prendeva completamente sul serio: c’era sempre un filo d’ironia. Anche quando si affrontava la guerra fredda, lo si faceva  senza ideologia. Poi, finita la lotta USA-URSS, e uscito di scena Connery, la serie ha trovato sempre dei cattivi nuovi, dalle motivazioni sempre più sofisticate e meno scontate. Spesso legate alle problematiche di più stretta attualità, tali da condizionare l’intero pianeta. Qui si parla della risorsa acqua, che sarà ancora più preziosa del petrolio. E di come ormai la gestione degli affari ha perso ogni coloritura ideologica, perché generanti un fiume di ricchezza per pochi, in grado di condizionare politiche di superpotenze, colpi di stato di molti paesi, ecc. In questo scenario anche Bond è cambiato. Egli non sembra avere più quell’aplomb d’eleganza molto old british che era caratteristico di almeno due passati 007, R. Moore e P.Brosnan: è diventato una macchina per uccidere, che sa essere inesorabile, pur non essendo irragionevole. Qui la faccia del nuovo Bond, l’attore Daniel Craig, non poteva essere più azzeccata. Più marcatamente fisico, quindi meno dandy degli altri, ha in più una forma di brutalità comportamentale che s’intuiva solo presente minacciosamente in Connery. Tuttavia, grazie al contributo della sceneggiatura del premio Oscar (06 con “Crash”) Paul Haggis, a tutti e due film con Craig, ci si è maggiormente soffermati sull’aspetto umano del personaggio, però sempre in modi contorti, non declamati. Nel precedente, “Casino Royale” c’era la storia d’amore con Vesper (l’attrice E.Greene), che continua anche nel presente film, in forma di vendetta; poi c’è lo strano rapporto con la sua “capa” M, la grande attrice Judy Dench: esso ha un andamento meno grottesco di come era alle origini. Evolve verso forme strampalate di simil-maternage: ma non per questo meno credibili. Come al solito l’azione è, fin dall’inizio, mozzafiato; le locations, di cui due in Italia, sono di grande bellezza. C’è un elegante gioco di citazioni interbondiane: ma è una forma di rispetto, non di cinefilia. I titoli di testa (di Chris Baker e Pedro Barquin), come molto spesso nella serie, sono dei capolavori di grafica.

THE BURNING PLAIN. IL CONFINE DELLA SOLITUDINE” di GUILLERMO ARRIAGA; USA, 08. Benché sfalsata su più piani temporali, è la vicenda di Sylvia, gestrice di un Restaurant alla moda nella fredda Portland. Di quali atti, sofferenze e precedenti esperienze incrociatesi attorno a lei, si è nutrito il suo disprezzo di sé. Esordio alla regia di un grande sceneggiatore, in zona Oscar per “Babél”, di cui conserva la stessa struttura narrativa. La sequenza iniziale è importantissima, dal punto di vista narrativo: è di fatto il vero raccordo che tiene insieme l’articolato del film; ma “avviene” nel tempo  ben prima dell’inizio reale della storia, che sembra essere dei nostri giorni. In realtà sono ben quattro gli episodi del film. Abbiamo quella della relazione adulterina, ma così ricca di tenerezza, sentimento, umanità e passione, della madre, interpretata da una splendida, commovente e splendente Kim Bansinger, e delle reazioni che questa suscita nella figlia adolescente; quella dell’incontro tra quest’ultima e il figlio dell’amante all’indomani della disgrazia che ha fatto scoprire la tresca; la vicenda di Maria, una bimba in cerca di madre; e poi quella di Sylvia, su cui si saldano e si concludono tutte. Il regista ha dichiarato che immagina così la sue sceneggiature perché egli  “Racconta la vita com’è, senza darle un ordine, che nella realtà non esiste mai”; però questa modalità, oltre ad essere un marchio di stile, è uno strumento che gli permette di variare i piani psicologici d’attenzione. In quanto i suoi personaggi, anche se biograficamente sono gli stessi, vivendo una fase di sviluppo diversa, gli si permette d’impegnarli in dialettiche differenti da una fase all’altra. Dando spazio a quelle che sembrano a noi altre motivazioni, con intelligente astuzia, espande e varia  il motivo psicologico centrale. Perché poi l’insieme, disegna un’organicità complessiva, nel mentre mette in ombra alcune fragilità motivazionali, che pure affiorano quà e là: come ad esempio, la fase finale del rapporto con la bambina. Beninteso: qui  siamo in presenza di un bel film; e queste mende non ne attenuano la qualità complessiva. Perché è costruita una rigorosa, intensa, coerente atmosfera psicologica interparentale: la radice del malessere viene attribuita senza forzature alla necessità di fare i conti col passato. Esso diventa memoria esistenziale  attiva, su cui tutto sembra ruotare. La necessità di porvi ordine, nel mentre vi si dà vita, può aprire alla speranza, all’accettazione di sé, al cambiamento. Questo sforzo è fatto da Sylvia (Charlize Théron): anzi tutti i raccordi partono da lei, da impercettibili sfumature, da “increspature” della realtà presente, l’uggiosa, grigia Portland.

BARACK OBAMA E LA COMUNICAZIONE.

Un evento di portata storica, di cui tutti siamo consapevoli, è la vittoria del candidato democratico alle Elezioni Presidenziali Usa del 4-XI-08, che il Premier Silvio Nostro ha definito “abbronzato”, con ineccepibile stupidità comunicazionale, ma con un chiaro, arrogante messaggio politico. Ed è epocale, tale vittoria, non solo per la società Usa, ma per il mondo, perché apre nuovi orizzonti. Pur senza enfatizzare in senso “messianico”, quanto lui possa realmente o voglia fare, nutrendo eccessive illusioni, un dato assolutamente nuovo, di incredibile portata storica è come “incarnato” nella sua stessa persona. Se la democrazia americana ha mostrato questa vitalità (attentati e futuri “misteriosi incidenti” permettendo…), portando alla Casa Bianca un uomo di colore, vuol dire che il “sistema  occidentale” ha in sé elementi di flessibilità politico-istituzionale. E quindi è in grado di rispondere alla spaventosa crisi economica, partita proprio dagli Usa, che sta coinvolgendo l’economia del mondo intero. Vorrei riflettere su alcuni aspetti, relativi alla comunicazione, che hanno caratterizzato l’evento. Egli si presenta alle Conferenze Stampa, e ne ha fatte già tantissime, con uno stile assolutamente differente da quello di Bush “o’ piccirillo”, ma anche dell’ex Presidente Clinton. Mentre l’attuale Presidente ancora in carica, e che vi resterà fino al prossimo 20 gennaio, era notoriamente restìo, e talvolta palesemente insofferente ad incontrare i giornalisti, Obama li incontra “con faciltà”, dando l’impressione di sapere esattamente, sempre, cosa dire; in grado di soppesare ogni parola, non ha timore di essere spiazzato dai giornalisti, che ascolta con concentrata attenzione, senza manifestare mai il più piccolo segno di nervosismo: anzi appare sempre rilassato, benché stanchissimo, e vigile contemporaneamente. Tutto il contrario di Bush, e perfino della “concorrente” Hillary Clinton, a Obama contrapposta nella dura lotta nelle Primarie presidenziali all’interno del Partito Democratico. Bush più di una volta è stato beccato in flagrante ignoranza, peggiore di quella di Ronald Reagan, in materie delicate, anche d’importanza strategica; oppure è come se ne avesse avuta una nozione vaga, o non si fosse proprio posto il problema delle conseguenze dei suoi atti politici. Famoso fu il caso dell’annuncio, in conferenza stampa, dell’aumento dei contributi ai coltivatori americani per la produzione di soia e mais, da usare a fini energetici, per limitare la dipendenza strategica dal petrolio arabo, venezuelano ecc. Quando gli si prospettò che questa misura ne avrebbe fatto aumentare il prezzo, con la conseguenza di rendere ancora più precario l’equilibrio alimentare d’intere zone del mondo, lui fece una faccia stranita, come se scendesse dalle stelle, senza rispondere. Insomma: non dava un immagine rassicurante, nemmeno delle decisioni che dipendevano da lui; e di cui, in teoria, sarebbe dovuto essere più che preparato. Non ha mai affrontato, pur nel colmo della crisi, una sola conferenza sui temi dell’economia: ha solo reso dichiarazioni Presidenziali: Si tratta di temi su cui è lecito sospettare una più che grossolana ignoranza, perché nessuno l’ha mai sentito parlare o conversare su di essi. Anzi, per la verità, nessuno l’ha mai sentito parlare o conversare di alcunché. Le sue conversazioni erano solo strettamente private. Ed era notoria la sua profonda, viscerale idiosincrasia per gli intellettuali: lui, al contrario, si beava della sua “ignorantità”; che lo rendeva “uguale” all’americano medio, quella famosa e fantomatica figura di “Joe l’idraulico”, simile alla “casalinga di Voghera “ di silviesca memoria, dagli Uffici stampa compiacenti vagheggiata. Barack invece ha la chiarezza espositiva del docente universitario americano: che, a differenza di molti nostrani, non è verbosa o tecnicistica; né si compiace di usare paroloni. La sua comunicazione comiziale, era cristallina e diretta, in grado di smuovere i suoi pubblici. Peraltro essa è stata gestita con un’accorta politica di crescendo: tutta incentrata sul quel fortunato slogan “Yes, we can” (Si, lo possiamo fare), che però è stato nel tempo poco precisato. Anzi, più d’un osservatore ha rimarcato che Hillary aveva espresso su sanità, pubblica istruzione, ricerca, posizioni più chiare e avanzate. Comunque, è una parola d’ordine molto incisiva, un vero capolavoro di comunicazione politica. Il suo team ha saputo coltivare e molto meglio usare internet: la comunicazione è stata molto ben strutturata, organizzata, resa pervasiva. I Repubblicani non hanno saputo contrapporre nulla: nemmeno il “mago” Karl Rove, artefice delle due vittorie di Bush, ha saputo cavarci qualcosa. Anzi, l’unica mossa azzeccata comunicazionalmente dei “Rossi” (mentre i “Blu” sono i Democrats), è stata quella di non far mai apparire in pubblico Bush, per dare più spazio alla differenziazione operata da McCain, sulla Presidenza, pur se B. era dello stesso Partito. “O’ Fra”, c’e’ a’ fa’ o’ piacere e’ t’ sta’ zitt’ e nun t’e’ a’ fa’ v’re’!”,gli hanno intimato; e lui da buon soldatino, ha abbozzato. In verità è proprio questa, l’impressione che ci comunica: quella di un solerte, anche se un po’ tardo esecutore di ordini, presi per lui; del cui contenuto pare che si curi poco, perfino quando non li capisce. Un’altra scelta assolutamente infelice è stata la candidata repubblicana alla Vice-Presidenza, la Palin, Governatrice dell’Alaska. Ha dato subito la sgradevole immagine della provincialotta piombata, dalla lontanissima Anchorage (la capitale del suo Stato), nella metropoli, a godere del budget illimitato messole a disposizione dal Partito, da lei, e dai suoi familiari, sperperato in acquisti folli di articoli griffati. Costei, una conservatrice rabbiosa e aggressiva, ha mostrato una mostruosa ignoranza in storia e geografia, pure se su argomenti molto generali, come la definizione di continente per l’Africa.

UN ALTRO PIANETA” di STEFANO TUMMOLINI; ITA, 08. Capocotta, spiagga del litorale romano, a giugno, mattina. Un ragazzo gay e un gruppo di ragazze tra incontri e confronti passano la giornata a mare. Questo film è un vero e proprio miracolo. Girato in digitale, e nemmeno di qualità, tutto in esterni, con attori e tecnici che saranno pagati dagli eventuali utili, è costato la “spaventosa” cifra di 970 euri: però funziona. Si fa vedere, e  mostra una  reale tensione narrativa. E’ chiaro che è un prodotto di nicchia: ma va segnalato per questo. Perché, senza alcuno sbattimento narcisistico, anche se con una non estemporanea consapevolezza culturale, il regista-sceneggiatore  ha descritto delle persone vere, alle prese con conflitti di una drammaticità non esagitata. Essa non è portata ad alcuna forzatura: benché questa dimensione sia presente, essa è calata, con molta intelligenza narrativa e verisimglianza, in un andamento che ha le apparenze della normalità, se non della banalità. Il protagonista, Salvatore, il ragazzo gay, si vive con un atteggiamento sospeso tra la passività esistenziale, e un dolore di una perdita affettiva che l’ha profondamente segnato, pur a distanza di tempo. L’attore, Antonio Merone, che proviene da solide esperienze teatrali, nonché coautore della sceneggiatura, gli ha dato un mix di spudoratezza fisica pasoliniana, di fragilità e curiosità sentimentali, ma anche di rassicurante umanità di fondo. Tutte caratteristiche evidenziate al meglio da una forte presenza scenica. A lui fa da contraltare la presenza della ragazza, Daniela, che sembra del tutto fuori posto. Anch’essa caratterizzata in modo svelto e felice, appare incerta nel come porsi: ma questo è il frutto di un riuscito gioco di sponda con l’altra, Stella, che, al contrario è ciarliera, onnipresente e desiderosa di conoscere; o l’altra amica, che vive sospesa nei suoi ricordi. La sceneggiatura riesce intelligentemente a dare spazio a sfondi animati umani collettivi: anche se di gruppi di pochi personaggi, sono continuamente compresenti, interagiscono e si danno continuamente il giusto ritmo nel raccontarsi e scoprirsi. Però il loro è un fare, non un dire teatrale. Essi sono accompagnati da una riuscita ambientazione scenografica naturale, metafora di un rapporto più intenso con se stessi, le memorie, le loro fantasie: aiuta a farli uscire dal limbo del non-vivere, dà il coraggio di assumere delle scelte che appaiono diverse dalle premesse che abbiamo viste poste: scelte che risultano ancora più intense e sentite; come quella d’amore di Daniela e Salvatore, molto tenera, che pare preludere ad un futuro aperto, in grado di spezzare le ossessioni in cui sembravano serrati nel loro “pianeta”.

“LA FIDANZATA DI PAPA’” di ENRICO OLDOINI; ITA, 08. Barbara e Matteo, giovani italiani, a Miami decidono di sposarsi: lei è in attesa di un foglio. Esso nasce ma è nero. Rotto il sodalizio con De Sica, Boldi lavora in proprio, lo stesso Boldi ne è produttore,

 e d‘anticipo: come l’anno scorso, ambientato alle Bahamas, il “cinepanettone”, cioè il filmone natalizio comico che incassa, esce a novembre, sempre caratterizzato da locations esotiche. Sicuramente gli conviene di più. Il film incassa: anzi, è uno di quei punti fermi della programmazione invernale. E, siccome non è in concorrenza con alcun altro film comico, è, per il cinema italiano, un moltiplicatore di incassi, perché si sommano a quelli natalizi. Quindi la scelta è stata giusta. Anzi conferma il dato per cui non esistono date che farebbero incassare e altre no: dipende solo dal film. Ma com’è ? Qui scatta il dilemma del critico. A me non ha divertito, in generale, anche se mi sono piaciuti gli interventi di Biagio Izzo: però ho visto in sala il pubblico, specie dei bambini, sganasciarsi dalle risate; e comunque, anche se non entusiasti, la gente non esprimeva dei commenti malevoli. Quindi ritengo che l’operazione sia riuscita: il regista, un “vecchio” volpone della commedia, ha sostanzialmente fatto centro. Anzi, ha mostrato perfino delle ambizioni: egli non vuole essere ascritto alla categoria del macellaio di bassa comicità. Vi sono delle citazioni che annobiliscono il film. Ha fatto tentare, a Boldi e Salvi, il duetto della “lettera” stile Totò & Peppino; ha usato, anche se non con la stessa grazia, nel finale una citazione di “A qualcuno piace caldo”; e prima da “Quando la moglie è in vacanza”, tutti e due di Billy Wilder, con lo stesso abito bianco che si alza: solo che la bionda era…Biagio Izzo, en travesti. Poi lo stesso si dà, inascoltato, delle lunghe citazioni da Eduardo. Però i meccanismi non sono reinventati: le battute sono grosso modo simili da un film ad un altro, variando di poco le situazioni. Vi sono delle buone new entries: N. Frassica che ripropone il suo sgangherato linguaggio: ma siccome lo fa con eleganza e senso dei tempi, sembra quasi innovativo. C’è l’immissione di una zelighista: nel personaggio di Luminosa, l’attrice Teresa Mannino, dà un taglio appena appena sopra le righe. Ma risulta efficace e azzeccato, perché distaccato e autoironico. Izzo ha i tempi giusti: ma tende a ripetere i ruoli. La Ventura, che è ritornata al cinema, dopo una non dimenticata débacle di diversi anni fa (nel 1996), mostra un grinta che le è confacente. Trovo insopportabili e fuori tempo comico i Fichi d’India. Simpatica e riuscita è la trovata del bimbo nero, col corredo di spiegazioni date: ha in sé modalità culturali di apertura mentale.

TOPOLINO E LA CRISI.

    Il 18 novembre 1928, esattamente ottant’anni fa, nella sale americane uscì il corto d’animazione “Steamboat Willie”, da noi chiamato “Mino e il vaporetto”, perché il fascismo vietava nomi e titoli stranieri. Fu diretto, ideato e disegnato da Walt Disney, con la collaborazione all’animazione del grande Ub Iwerk, da allora in poi “creativo” tra i più dotati della Disney Company. Willie poi divenne Mickey Mouse, e da noi, sempre per le ragioni di sopra, Topolino. Questo personaggio ha avuto un’evoluzione strana e piuttosto complessa. Tutt’ora vivente, le sue gesta, nate per il cinema, successivamente hanno trovato nelle strisce disegnate la sua piena espressione: fu comunque nel 30 che esse furono conosciute in Italia, edite da Mondatori, che ne ebbe l’esclusiva. Scaduta la quale, nel 1988, fu direttamente la casa americana a pubblicarla da noi. Ma la cosa singolare è che l’apporto dei disegnatori e soggettisti italiani è stato così particolare, che tutta la filiera internazionale della pubblicazione ne è stata influenzata: Romano Scarpa, famoso disegnatore, è stato equiparato ai grandi Carl Barks (che inventò Zio Paperone), Floyd Gottfredson, che negli anni hanno sviluppato l’”Universo Topolino”, che comprende una miriade di personaggi, tra cui Paperino, Qui Quo Qua, Pippo ecc. Di fatto, sono i fumettisti italiani ad essere tradotti nel mondo sotto il titolo di Topolino. Essi hanno sostanzialmente mantenute intatte le caratteristiche di Mickey M., anche se rendendole più “europee”: grande ottimismo, modi di fare spicci e pratici, un’inguaribile tendenza al realismo, un profondo rispetto per i valori tradizionali (il successo riconosciuto, le istituzioni, la famiglia, ecc). Sono tutti modi di porsi che noi comunemente attribuiamo all’”American way of life”. E’ stato via via paragonato al James Stewart di “La vita è meravigliosa” (47) il film di Frank Capra, Spencer Tracy di “La Città dei ragazzi” (38) di Norman Taurog; e perfino all’Humphrey Bogart di “Casablanca” (42) di Michael Curtiz, in seguito ad alcune strisce sulla II guerra mondiale e a fortunate trasposizioni in fumetto “topolinese” di grandi romanzi, ma anche di film di successo. Trasposizioni che erano inventate, con successo planetario, proprio dai disegnatori-soggettisti italiani.  Di tutte le caratteristiche  del personaggio è indubbiamente l’incrollabile ottimismo, quella che più profondamente lo caratterizza. Del resto fu proprio così che Disney, irlandese povero emigrante in Usa lo immaginò: la quintessenza del modo di vivere americano. Non solo. Egli lo rese un membro attivo e solidarmente partecipe della comunità che l’aveva accolto, dandogli ricchezze e celebrità: la realizzazione vivente di quel “Sogno americano”, di cui Topolino è un fautore ultraentusiasta. La creazione del personaggio, e il suo successo, furono di pochissimo precedenti alla crisi di Wall Street del 1929. Per ragioni non molto diverse da quelle che hanno prodotto la sconvolgente crisi attuale, ci fu, dall’avvitamento del credito bancario, una crisi a catena che sconvolse l’economia finanziaria, prima, e, successivamente, l’intera economia del paese, prostrandola in modi estremamente drastici. La risposta, un piano organico di misure politiche ed economiche, il “New Deal” roosveltiano, come si sa, fu un colossale piano di investimenti statali, una severa regolamentazione sul credito, poi smantellata nel corso delle Presidenze recenti, e un’accentuata politica economica isolazionista: questa creò le basi del tragico sviluppo successivo (Nazismo, Fascismo, Guerra ecc). Disney fu “chiamato” a dare il suo contributo nel diffondere ottimismo. Egli rispose con entusiasmo. Topolino fu l’antesignano dell”americano medio” che si rimbocca le maniche, e senza tante ciance, si dà da fare nell’affrontare e risolvere al positivo i problemi. I suoi interventi palesi, suoi e di tutti gli altri personaggi (non a caso fu contrapposto allo sfigato Paperino il “fortunato” Gastone, ecc), sono ispirati a questi modi di fare. Allo stesso modo patriottico si comportò nel corso della II Guerra Mondiale, in cui il personaggio di Topolino si adoperò per pubblicizzare il colossale “Prestito di Guerra”, con cui gli Usa chiesero di finanziare la loro discesa nella guerra antinazista. Anche se si sa che Disney, sul piano personale era su posizioni culturali e politiche ultraconservatrici ed era antisemita. Però anche per questo la casa Disney è diventata quanto di più amatamente, profondamente americano ci possa essere: si esporta tipo Coca-cola, McDonald’s, ecc., come uno dei più caratteristici  “gagliardetti” del pensiero unico della globalizzazione. Ma è proprio per queste ragioni che oggi l’icona del cartoon di Burbank (sede della Disney e del primo Parco a tema a lui dedicato), non può essere utilizzata come il portabandiera della ripresa, come lo fu nel 29. Quella odierna ha messo in crisi il sistema complessivo delle relazioni economiche tra stati. Gli Usa hanno approfittato del loro status di potenza unica, egemone della Terra, del ruolo che aveva il dollaro come moneta di scambio, quindi una valuta “obbligata”, per avvelenare i flussi finanziari dell’intero mondo  con i “pacchi” dei titoli strutturati, in cui erano camuffati crediti inesigibili, sapendo che lo erano: una truffa cinica perseguita con disprezzo delle conseguenze. A New York, lo sconfitto, mediocrissimo Presidente uscente Bush o’ piccirillo, ha dovuto prendere atto che il mondo è multipolare e dal G-8 si è passati al G-20. Come gli Usa, anche Topolino si avvia ad un malinconico “Twilight” (crepuscolo; titolo di un film di successo su adolescenti vampiri, metafora dell’attuale difficoltà della società Usa…).

“CHANGELING” di CLINT EASTWOOD; USA,08. Los Angeles, 1928. Il piccolo Walter Collins è rapito. La screditata e corrotta polizia della città dice di averlo ritrovato: ma la madre non lo riconosce e ingaggia un battaglia con la polizia, incaponitasi contro di lei. Il vecchio leone ha fatto centro, ancora una volta. Da “Mystic River” (03) in poi, ci sta dando una serie quasi ininterrotta di bellissimi film: tra cui “Million dollars baby” (04) che gli ha fatto avere una cascata di Oscar. Qui è una storia vera tipicamente americana, lo spunto di partenza. Coma al solito, il regista “sembra” partire esponendo un tradizionale  apologo sull’energia del true american, quella tipologia western dell’eroe solitario, in questo caso eroina, che combatte come un David contro il Golia ritenuto invincibile della polizia corrotta. E queste sono le tracce, su cui c’inerpichiamo “appresso” al vecchio Clint: ci rendiamo conto invece che ci ha condotti in tutt’altra parte. Così la mamma non “nasce” come un’eroina; è solo una donna sola, semplice, ma non sprovveduta, che aveva fatto del figlio il suo centro esistenziale. E’ disperata, attanagliata dall’angoscia di non poter sapere che fine ha fatto suo figlio. Tutti i suoi comportamenti evolvono da questo dato. L’interpretazione che ne dà Angelina Jolie è perfetta, tutta interiorizzata: perfino il pianto sembra represso. L’atmosfera incombente sulla città è di plumbea costrizione: la pratica manicomiale contro i dissidenti non è solo dello stalinismo sovietico, ma è anche della patria della democrazia. Il regime poliziesco della città è supportato “all’interno” delle istituzioni che dovrebbero rispettare la Costituzione: ma nei fatti la stravolgono. Senza caricare il film, non è forse la prigione di Guantanamo, dove sono ancora custoditi senza processo, e anche sottoposti a torture, i supposti terroristi islamici, uno scorno per la democrazia Usa? Il sornione Clint ce lo ricorda senza enfasi. La narrazione adotta uno stile classico, dalla grande visualità d’insieme e precisione storico-scenografica: abbondano i campi medi e lunghi, non solo negli esterni, ma anche negli interni collettivi; l’uso epico del Dolly (la macchina che guarda in movimento dall’alto), ecc. Tutti strumenti tecnici il cui uso, in chiave stilistica, presuppone un montaggio dai tempi non sincopati. Ciò fa sviluppare quelle riflessioni psicologiche che stanno soprattutto a cuore all’autore. Come ad esempio i capoccia e gli esecutori corrotti; o il killer, nella sua caratterizzazione sospesa tra la follia infantile, la ferocia e la cattiveria. La donna, in particolare, dopo la vittoria, nel tempo ha un’evoluzione verso il convivere con la speranza e una nuova vita.

“GALANTUOMINI” di EDUARDO WINSPEARE; ITA,08. In un paesino alle porte di Lecce, Ada, Ignazio e Fabio sono dei ragazzini amicissimi. Ognuno prenderà strade diverse: ma si rincontreranno. Fabio è un tossico ; Ada una malavitosa; Fabio un PM. Il regista, benché col cognome inglese, nato in Germania, dove ha studiato cinema dopo essersi laureato a Firenze, è profondamente legato al Salento, terra di Puglia che comprende più province. Lui, insieme ai suoi sceneggiatori, A.Piva e A.Valenti, ed altri ancora, rappresentano una vera e propria “Apulia wave”: un cinema che si nutre dell’attenzione estremamente mirata alle problematiche della loro terra. In questo film, in realtà ambientato negli anni 90, si parla, sotto le spoglie di una torrida storia di passioni, della Sacra Corona Unita, la “quarta” mafia, propria di quei territori; e l’unica ad essere stata quasi del tutto sconfitta dallo Stato. Ma è un taglio di ricerca sociologica maturo, perché non si sovrappone allo sviluppo dei personaggi; ma anzi, ne aiuta a precisare le dinamiche psicologiche. Pur in un qualche modo “scritte” fin dalla loro appartenenza sociale e familiare, le tensioni che si creano tra loro, ne mutano radicalmente le linee attese. Lo scenario sociale interseca felicemente le vicende individuali, con guizzi di profonda e raffinata penetrazione chiaroscurale psicologica. La ragazza, divenuta un boss della “Sacra”, situazione anomala nelle altre mafie, ma in questa documentata più volte, mantiene sempre, insieme alla ferocia necessaria a restare al suo posto, anche un costante briciolo di umanità: come si vede sia nei rapporti col figlio, che in quella crisi di pianto, quando il suo gregario, la consola paternamente. Ma è la scelta dell’attrice Donatella Finocchiaro, premiata al Roma Fest 08, ad essere valida. La sua “stordente sensualità” (V.Caprara), la fa diventare anche indifesa, una  specie di vittima predestinata della passione per Fabio, come si vede nel sottofinale: essa, tenuta sottotraccia dalle convenzioni e dalle vicissitudini, finalmente può esplodere, lasciando i due dimentichi e come in balìa di questa. Ma i destini riprendono i loro corsi. Siamo chiaramente dalle parti del grande Mélò americano e francese  degli anni 30 e 40: ma lo dico con piena lode. Perché l’atmosfera psicologica delle scelte è costruita con grande cura delle motivazioni, del loro lento ma ineluttabile dispiegarsi: la sceneggiatura è ottima. E il regista sa costruire, insieme al bravo direttore delle fotografia Paolo Carnera, il giusto paesaggio visivo: anzi, la prolungata collaborazione tra i due, fa in modo che ci sia come un trepido “respiro” cromatico su quelle terre e città, da loro conosciute e profondamente amate.

POLITICA-SPETTACOLO: LUXURIA & CARFAGNA.

    La presenza e la vittoria di Vladimir Luxuria, al secolo Wladimir Guadagno, nato nel 65 a Foggia, al Reality  “L’Isola dei Famosi” condotto da Simona Ventura su Rai 2, inducono alcune osservazioni sul rapporto tra politica e spettacolo. Non intendo dire della “spettacolarità” della politica: ovvero di come essa si ponga all’attenzione degli utenti/votanti, usando spesso degli stessi modi della comunicazione mediatica che solitamente attribuiamo allo spettacolo d’intrattenimento. Voglio invece soffermarmi dell’intrusione che sempre più spesso fa direttamente nel mondo dello spettacolo in quanto tale: cioè quando essa, i suoi personaggi, si mettono a fare spettacolo, all’apparenza smettendo di fare i politici. In realtà è spesso capitato che appartenenti allo spettacolo, la Carfagna, la Mussolini, la Gardini, L. Barbareschi, la Carlucci, in un momento della loro carriera, entrino nella politica. E così è capitato all’On. Luxuria, eletto come Deputato indipendente di Rifondazione nella passata, interrotta Legislatura. Evidentemente, c’è un legame di prossimità molto immediato tra i due settori. E non solo per la semplice ragione che la prevalenza nelle due attività è data dall’apparire: chi vuole avere voti, deve meritarseli, non dicendo cose più valide di quelle che dicono altri; no: ha più voti chi appare “più degli altri”. Chi si fa notare più degli altri. Ma soprattutto c’è stato Silvio Nostro che ha “rovesciato tutti i tavoli”, alla vigilia della presente, come di tutte le altre Legislature, sparando i più mirabolanti annunci di “felicità e ricchezza” per tutti, “abolendo” le tasse, l’Ici, ecc. E’ proprio lui la personificazione della Politica come Spettacolo infinito e ininterrotto, fondato sul richiamo sulla sua persona, il “suo” fare, le “sue” vittorie”, il “suo” Pdl, ecc. Molto di più di Ronald Reagan,  attore diventato Presidente degli Usa, che al suo cospetto è solo un guitto ignorante. E tutti, specie i suoi, hanno cercato di adeguarsi. Nello schieramento opposto vi sono politicanti di lungo corso: grigi e brutti, interpretano il loro ruolo con assoluta pesantezza e unilateralità, rispetto alla squillante lucentezza da lustrini che imprime alla politica Silvio B. Vi sono però dei personaggi “fuori” dal coro, come la Luxuria. Transgender, ha sempre caratterizzato la sua attività in modi forti: portatrice di un messaggio di cambiamento profondo nei costumi non solo sessuali, ma sociali rispetto all’appartenenza di genere, ha sempre testimoniato con coerenza le sue convinzioni. Esse l’hanno portata al Parlamento. Dove ha lavorato in modi ineccepibili: la sua preparazione politica era solida, la sua informazione puntuale. Presente e partecipe a tutte le votazioni importanti al Parlamento, dava sempre prova di essere esattamente documentata su ciò che faceva. L’esposizione dei suoi punti di vista, anche in mezzo alle più atroci e banali polemiche sul suo status e le sue scelte, appariva sempre misurate, mai isteriche, efficaci: sempre sostenute intellettualmente  e culturalmente. Ciò le fu sempre e unanimemente riconosciuto: e non solo dai suoi, ma anche da osservatori indipendenti, come la Mussolini, I.Pivetti, ecc. Fece scalpore il suo alterco con la Gardini, all’epoca “portavoce” di Forza Italia, che si isterizzò nel vederla frequentare il bagno delle donne: ma le sue risposte furono tutte sul livello della testimonianza politica; e non grossolane illazioni che, invece, caratterizzarono gli interventi contro di lei. E questo suo comportamento si è manifestato anche nella sua partecipazione allo Show della Ventura. La prima domanda che ci si è posti è stata: ma perché vi ha partecipato? Io rispondo: perché no? Che senso ha lo stesso porsi moralisticamente il dilemma? Le andava ed era in grado di sostenere una sua coerenza di intellettuale e di militante sociale (come ha fatto)? Si? E allora ha fatto più che bene. A differenza, ad esempio, di un’attrice di stampo pippescamente intellettuale, Domiziana Giordano, presente in una passata stagione del gioco, Luxuria non disprezzava nessuno. Così se c’era da bisticciarsi o difendersi lo faceva senza arroganza o sopracciò; non si faceva mettere in testa i piedi da nessuno. Ma i suoi discorsi, oltre ad essere in comprensibile italiano, avevano sempre un fondo di sostanza e di significanza che tutte le altre nemmeno si sognavano. Non bastano tette gonfie e labbra rifinite per essere donne: lei era molto più femminile nella sua umanità di tutte quelle bonazze. Ha portato l’attestazione vivente che si può essere persona umana, con il carico di problemi, passione e utopie politiche, pur restando in mezzo alla banalità senza farsene liquefare. Pur smagrita e stremata, ha mostrato che si può “essere” pur nel mentre si “appare”: e il pubblico l’ha premiata. Non posso non paragonarla all’escursione che ha fatto direttamente nello spettacolo, la  Ministra della Repubblica M.Carfagna. Sempre con quell’aria spaventata e contemporaneamente arcigna, forse dovuta a quegli occhi tenuti sempre tesi e spalancati, ha risposto alle domande che la compìta Daria Bignardi le ha posto su La 7 in “Le Invasioni Barbariche” del 21 NOV 08. Mostrando i gusti personali ha descritto per lei preferibili le “quattro risate” che si fa col cinema di Boldi a quello di Moretti (vincitore di prestigiosi premi internazionali). Ma, forse, ciò ha detto in onore del fatto che si è definita, più che di centro, risolutamente “anticomunista”, “superando” lo stesso Silvio che attacca i “comunisti”: ma senza mai definirsi in alcun modo. A definirsi, invece, “anticomunisti” negli anni 70, quando lei aveva poco più di 10 anni, erano i fascisti. Ma oggi, dopo la caduta del Muro di Berlino, avvenuta nell’89, cioè vent’anni fa, parlare ancora in questi termini così rudemente retrò, mostra una carentissima consapevolezza culturale  e un legame con la complessità politica del presente, minimo o inesistente.

 

“TWILIGHT” di CATHERINE HARDWICKE; USA, 08. Isabella, teen-ager introversa e “ribelle dentro” capita in quel di Folks, Stato di Washington, la “più piovosa città” degli States: incontra e s’innamora perdutamente di Edward dalla bellezza oscura e misteriosa. E’ tratto dal I° volume, omonimo, di una tetralogia di libri di Stèphanie Meyers, sulle vicende di vampiri teen-ager, che sta avendo un successo paragonabile a quello delle avventure di Harry Potter. Al botteghino il film sta ”scassando”: sta avendo anche più del successo atteso. Sia la regia, che la valida sceneggiatrice, Melissa Rosemberg, sono state molto attente a immergere un’ardente, romantica, ben scandita storia d’amore tra adolescenti in un’atmosfera di mistero e di consunzione fisica, quale è quella che si configura attorno al Vampirismo. Non solo lo ritengo una delle più intense metafore della contemporaneità: ma oggi ha un tratto quasi profetico nell’idea di “crepuscolo” (la traduzione del titolo), che  ben si attaglia alle condizioni generali dell’attuale società occidentale e Usa. La location della città, nel suo porsi cromaticamente sempre grigia e piovosa, è quanto di più vicino si possa immaginare ad una notte senza fine, in cui sono immerse le esistenze “normali” dei buoni cittadini, che vivono in una marginalità esistenziale, a comune e condivisa , anzi  circondata e come controllata dai Vampiri “buoni”, che abitano, in una casa luminosa sopra la città in collina. Anche gli Umani sono immersi nel crepuscolo, eppure lo ritengono consuetudine. Come tra noi, anche tra loro vi sono forti differenze di dimensioni individuali e comunitarie: è un articolato, complesso Universo alternativo che convive al nostro. La tendenza del Fantasy e dell’Horror attuale, non è più quella di mettere in scena dei mostri, ma degli Universi narrativi coesi, che hanno una loro completa credibilità, parallela a quella “nostra”: tal che il nostro è un Multiverso, che comprende più dimensioni coabitanti. Per la verità è la grande scrittrice Anne Rice che con “Intervista col Vampiro”, e il ciclo che parte da quello, ha iniziato a porre in evidenza la soggettività “umanizzata” dei Non-Morti. Qui si continua e si approfondisce tale crinale tematico. D’altra parte l’insolita caratterizzazione dark rende ancora più “unica” la storia d’amore tra i due adolescenti splendidamente caratterizzati dalle scelte di casting. Le due autrici del film hanno miscelato furbamente il glamour col romanticismo, cogliendo molte sfumature esatte di quel mondo giovanile. Scivolano agilmente dallo scenario urbano-familiare a quello del selvaggio scontro, passando per un senso e un uso non solo scenografico ma narrativo della dimensione naturale.

NESSUNA VERITA’” di RIDLEY SCOTT; USA, 08. R. Ferris è un agente Cia sul campo tra Bagdad, Amman: la sua missione è il capo dei terroristi islamici di quel settore; Ed Hoffman è il suo capo che da dagli Usa lo dirige; pur configgendo, per via dei suoi e altrui doppi, tripli giochi. Benché tratto da un romanzo di successo, di D.Ignatius, e sceneggiato da uno dei più dotati di Hollywood, William Monahan, cui si deve, tra gli altri, “The departed”, e montato dal premio Oscar Pietro Scalia, il film arranca. Intendiamoci: è sempre un film da vedere. Vi sono pagine da antologia, le sequenze tra le folle urbane e d’azione ad es.; ma è la struttura narrativa che si è data, fedele al libro, che deficita. Il conflitto tra la “ragione ragionante” della politica strategica, che fa di ogni scontro parziale un tassello di uno scontro generale, e quello del “sentimento ragionante”, che appartiene a colui che vive in prima persona i conflitti, facendosene coinvolgere, è troppo schematico e, dal punto di vista diegetico (narrativo), irrisolto, perché affidato solo ai dialoghi: non diventa azione e/o affabulazione filmica. Di Caprio, proprio perché riesce a vedere le persone, non gli attori-burattini di quel teatrino collettivo che è lo spionaggio, è, nonostante tutto, anche il più lucido e aperto: ma è anche il più sacrificabile, perché il più esposto; perciò è, come tutti gli altri della partita, “usato”. Scott, comunque, è sufficientemente distaccato dai sentimenti nazionali americani, essendo inglese, per non pensar male e non nutrire alcun’illusione sia sull’esito della guerra in Irak, in particolare, che circa la gravità e la continuità della minaccia terroristica di matrice islamica. E comprende bene che, in questa situazione caotica, le ragioni di ogni singolo “giocatore” sono solo all’apparenza simili alle altre alleate nella strategia contro il terrorismo, perché ognuno “gioca” con proprie regole, propri e particolari obiettivi. Il film si nutre di questa consapevolezza: ma non riesce a trovare gli strumenti linguistici per comunicarcela emotivamente. Ciò avrebbe richiesto un totale rovesciamento di prospettiva; una maggiore continuità e concentrazione drammatica, e non il continuo spezzettamento dell’azione che si svolge su numerose e disparate locations, tutte bellissime, senza che ce sia comunicata l’intima necessità per cui ciò debba accadere. Perciò il regista ci presenta il conflitto come sottotraccia: la differenza fisica, tra lo scattante e nervoso Ferris e la bolsaggine bulimica del suo capo, Russell Crowe, non potrebbe essere più espressiva. Anzi tra i due, il più bravo è, a mio avviso, l’attore australiano, che dà al personaggio un’ombra paranoide di sottile cattiveria.

                                 

LA CRISI ECONOMICA E LA POLITICA.

    Oggi non sembrano esserci delle sofferenze tali per cui le Banche italiane sarebbero dovute ricorrere ai contributi straordinari messi a disposizione dello Stato, benchè in modalità e con disponibilità di capitali mai del tutto chiarite. Qualcuna si è trovata spiazzata da incauti acquisti all’estero di quelle avvelenate “Obbligazioni Strutturate”, piene di inesigibili  mutui sub-prime Usa. Tali banche sono dovute ricorrere a parziali ricapitalizzazioni (chiedere soldi per ripianare delle perdite “reali” al proprio capitale), come l’Unicredit : ma è bastato il ricorso al normale mercato finanziario. Il che implica un accettabile tasso di credibilità, sia nei confronti della banca in oggetto, che del sistema intero. Ed è appunto la credibilità la pietra angolare dell’intero sistema creditizio. Però la crisi da finanziaria è diventata dell’economia reale, e questa, nonostante il non del tutto negativo andamento finanziario, di cui dicevo prima,  ha coinvolto anche il nostro paese; anzi, l’ha colpita in pieno. Come mai? Innanzitutto, il “frutto avvelenato” della situazione prodottasi in relazione alla “mancanza di fiducia” tra le varie Banche, si è manifestata anche da noi, perchè ognuna della altre banche poteva fallire all’improvviso, per cui la circolazione interbancaria dei capitali, necessaria all’erogazione di prestiti, mutui ecc., è stata fortemente rallentata: è stata chiamata il “Credit Crunch”. Il Tasso Euribor  (il costo della circolazione interbancaria in area euro) è stato molto più elevato dello stesso tasso di sconto. Il costo di fatto alto e/o l’assenza dei capitali da investire, era la spia di una situazione nazionale e internazionale, molto fragile. La nostra, infatti, è, ed è sempre stata, un’economia di trasformazione e di servizi: cioè, data la totale carenza di materie prime e di energia, ha dovuto importarle sempre, per poi “lavorarle”, e crearne dei manufatti, da rivendere, soprattutto nelle aree “forti”, della Germania e Stati Uniti in particolare; come anche in quei mercati arriva la nostra moda, le nostre griffes, ecc. Se il mercato estero rallenta e quello interno non è in grado di sopperire al calo, acquisendo le merci invendute all’estero, ecco che, come è capitato, viene la crisi. Ai milioni di disoccupati in Usa, si aggiungono le centinaia di migliaia di lavoratori in Cassa Integrazione di tutte le grandi aziende italiane. Ma questi sono i “garantiti”: per tutti i precari, a tutti i livelli, dai commessi dei negozi, i call-center eternamente “in prova”, ai lavoratori (fasullamente) “a progetto”, spesso di alto profilo formativo, c’è il nudo e crudo licenziamento o il ricattatorio peggioramento delle condizioni. La crisi è di così vasta portata, così profonda, così interattiva e internazionale, che sta richiedendo, da parte degli Stati e di concerto tra loro, delle politiche straordinarie. Tali da stravolgere tutto il senso di quanto fatto finora: dal non-intervento dello Stato, in nome della libera concorrenza tra aziende e contro il protezionismo, si sta passando a quella che il Ministro dell’Economia Tremonti ha definito, ma è un indirizzo che culturalmente non gli appartiene, l’”Economia Sociale di Mercato”, per cui lo Stato è, in definitiva, il garante che il mercato, che da solo non sta  funzionando perché troppo anarchico e preda del malfare di speculatori, assuma dei correttivi, che proteggano la società nel suo complesso, cioè noi tutti. Ma passando dagli spot ai fatti, che sta facendo Silvio Nostro? E’ da osservare, per prima cosa, che Silvio B., a differenza di tutti, ma proprio tutti gli altri, anche del suo Governo, la crisi la nega. Dice che se noi ne parliamo questa ci prende; ma se compriamo tranquilli sul mercato, l’allontaniamo. La sua è una giusta preoccupazione: se si ha fiducia, si rinforza la fiducia. Ma come la mette lui, diventa ridicolo, e perde ogni credibilità. E perché, poi, fare una Legge-Stralcio alla Finanziaria, già approvata, e che quindi è un evento straordinario di per sè, se la situazione non fosse fuori norma? Comunque questo intervento è poca cosa. Il Governo parla di circa un centinaio di mlrd di € destinato a grandi opere infrastrutturali: cosa giusta e utile, perché sarebbe in grado di animare l’economia, se partissero da subito. Ma è una patacca: esse sono fondi presenti in  Leggi già stabilite e che richiedono svariati anni per poter essere realmente  avviate. Rimangono un 4 mlrd, poi portati a 6mlrd e mezzo di euri: ed è questa la cifra disponibile. Da qui è uscito l’obolo della Social Card, che, come idea, non è male: ma è poco e favorisce strati numericamente minimi della popolazione. Ma soprattutto, come è stato detto, non incide a livello di macroeconomia nazionale: non “smuove” la domanda interna. Così anche non si comprende come saranno attuate le misure i favore delle sofferenze dei mutui e a chi saranno rivolte. Meglio sarebbe stato con la detassazione della tredicesima, che avrebbe animato i consumi, dando una botta di vita all’economia. Mancano i fondi, o sono di piccola entità, ad una coerente e incisiva politica degli Ammortizzatori Sociali, quelli che gli economisti del sito “lavoce.info”, definiscono come la necessità di mutare, allargare e aumentare in modi sostanziosi, l’indennità di disoccupazione a tutti i precari. Ma, si risponde, non ci sono soldi. E’ ovvio che non ci siano, se la lotta all’evasione fiscale è stata attenuata: il gettito dell’Iva, del II semestre dello 07 (quindi prima della crisi) era significativamente sceso, perché disapplicate alcune norme messe in essere dal Governo Prodi.  Ma principalmente Silvio Nostro vuole trasformare la presente congiuntura straordinaria, in un’opportunità per mutare l’intero corso economico, mettendolo sotto una sorta di sua tutela politica : sono infatti stranamente aumentati i Fondi (Sacconi, Scajola, ecc.) messi a disposizione di singoli Ministri e settori d’attività di loro competenza, per operarvi a loro discrezione e sotto la loro direzione strategica. E’ evidente inoltre, come si evince dalla riduzione dei fondi agli incentivi a energie alternative, il desiderio di B. di passare al Nucleare, disattendendo (anzi: strafregandosene) il referendum popolare a suo tempo celebrato, vinto dai no: peraltro agendo al contrario dell’intero capitalismo occidentale, volto agli investimenti sull’ambiente.   

“ULTIMATUM ALLA TERRA” di SCOTT DERRICKSON; USA, 08. Le civiltà aliene ci osservano e controllano. La Terra è stata condannata: se Klaatu, loro ambasciatore,  non sarà ascoltato, la sentenza sarà eseguita. Remake dell’omonimo, mitico film del 51 del grande ma misconosciuto Robert Wise, se ne differenzia in molti aspetti: compresa l’assenza della frase-cult “Klaatu barada nikto”, con cui l’alieno blocca il super robot Gort . Soprattutto il messaggio è diverso. Mentre il film del 51 aveva un’impronta coraggiosamente pacifista, in quanto, in una fase d’isteria collettiva della Guerra Fredda tra il blocco occidentale e quello sovietico, apriva alla speranza di una pace possibile (speranza peraltro non presente nel racconto originale da cui fu tratto), qui prevale nettamente l’intento ecologico. E’ la nostra incuria criminale che sta assassinando il Pianeta. E sono molto più articolate le ragioni del rifiuto delle massime autorità Usa ad ascoltare Klaatu: la rappresentante fa un paragone storicamente fondato, allorché mette in evidenza che quando una Civiltà superiore entra in contatto con una inferiore, questa è spacciata: fa esempi del colonialismo dal 500 all’800, solo che questa volta i “colonizzandi” siamo noi. Da qui la sua ferrea opposizione; e, anche se lei vorrebbe trattare, il Presidente, ben in salvo da qualche parte, le ordina di attaccare. Questo personaggio ha un’ampiezza e porta una dialettica narrativa, affidata alla pluripremiata K.Bates, che l’originale non aveva. E anche la figura dell’alieno è differente: alla ieraticità, vagamente mistica di Michael Rennie, è sostituita la fisicità asciutta e nervosa di Keanu Reeves. Egli è volutamente impassibile, perché deve comminare una catastrofica condanna per miliardi di persone; ma non è insensibile alla singola vita umana. Da qui nasce la dialettica che lo riguarda. Egli si rende conto che è proprio questa la “differenza”: i comportamenti collettivi, decisi dai governanti, non rispecchiano quelle caratteristiche profonde degli individui che noi definiamo, complessivamente, umanità; anzi ne sono la negazione. E proprio nei momenti di crisi esse vengono prepotentemente alla luce. Quindi, lo sviluppo del film, pur se accompagnato dai soliti, ma non disprezzabili, mirabolanti effetti digitali, riafferma una sua cifra intimistica, dando spazio, ad esempio, ai conflitti familiari tra madre e figlio, e alle loro motivazioni. Il robot Gort ha una potenza figurativa che supera il modello. Non solo è più credibilmente, solidamente minaccioso, ma subisce delle metamorfosi stupefacenti: è vero che vi sono “citati” diversi film, da “Terminator II” a “La Mummia”; ma la coerenza visuale lo rende impressionante. 

 

“STELLA” di SYLVIE VERHEYDE; FRA,08. Anni 70, Parigi: Stella ha 11 anni, figlia di albergatori di periferia, entra in una scuola media “per ricchi”. La vede come un’opportunità per la vita, nonostante le difficoltà ambientali e familiari. Presentato ai “Venice Days” di quest’anno, mette in luce aspetti autobiografici della regista, autrice del soggetto e dello script. E’ lei la bambina che si aggira per il mondo, assetata di intelligenza, senza saperlo. Vive come imbozzolata in un ambiente un po’ sul degradato, non privo comunque di riferimenti affettivi; ed è costretta, per sopravvivere, a mostrare una scorza di durezza che col tempo avrebbe potuto invadere la sua anima, rendendola impermeabile ai sentimenti. La sua scelta di frequentare una scuola fuori del quartiere sembra fuori contesto: ma, dopo un trimestre fiacco, in cui semplicemente non esiste, come una scintilla che scatta, prende gusto, grazie ad un’insegnate dotata di comunicativa, alla Storia, e di lì prende consapevolezza di sé. L’aiuta un’amica di origine ricca ed ebrea, anch’essa, un po’ “fuori”. E l’inizia al “vizio” della lettura. C’è quella sequenza, bellissima, dell’acquisto del suo primo libro: il suo fare è furtivo, come se rubasse, pur pagando; o, peggio, s’infiltrasse in territori da cui si sentiva come intrusa, indesiderata: in cui non “meritasse” di entrare. Mentre invece ella scopre di trovarsi  a suo agio: Balzac, M.Duras, sono come degli amici presenti. E che non le fanno recidere le sue radici: i rapporti coi suoi genitori, vivi, ma sentimentalmente confusi, e con la sua amichetta mezzo coatta nel paesino dei suoi al nord, vengono semplicemente raccordati ad una maggiore e più consapevole umanità in cui Stella esiste, “c’è” e sceglie. Mi ha colpito questo livello di umanizzazione non moralistica raggiunto con chiarezza e nei termini di una sensibilità preadolescenziale. E’ molto difficile far convivere in una narrazione autobiografica il senso affettuoso della memoria e quello della formazione. Sono spesso elementi che si elidono a vicenda, perché non si supportano vicendevolmente: l’indulgenza per sé e i personaggi del proprio passato, potrebbe come offuscare la nitidezza delle motivazioni un po’ meno evidenti, magari anche spietate su di sé e gli altri. Bisogna dire, invece, che la regista ha fatto profondamente propria la lezione del Truffaut dei “400colpi”: l’ha addirittura superato, perché evita lo slancio lirico dell’indimenticabile finale di quel film; ne crea un altro pieno d’affetto per l’amichetta coatta, che ricorda a noi e a se stessa le sue origini che lei non rinnega, ma rivivifica. Se c’è un film per quell’età è proprio questo, ricco di poeticità, di realismo e d’intelligenza.

PS.

Poste queste premesse critiche, condivise da tutti gli osservatori, non capisco le motivazioni per cui la Commissione di Censura del Ministero ha posto il divieto ai minori 14anni: il che impedirà la circolazione del film nelle scuole. C’è la sequenza di un tentativo di violenza pedofila, cui peraltro si sottrae con decisione. Essa non è violenta e serve a descrivere le enormi difficoltà della stessa sopravvivenza ambientale di Stella: quindi ha una sua funzione narrativa. Allora perché hanno messo il divieto? Non è che la causa sia il fatto che il film è distribuito dalla Sacher Film di Nanni Moretti,verso cui il governo, Ministro Carfagna in testa, si è detto pubblicamente ostile?

“IL DUBBIO” di JOHN PATRICK SHANLEY; USA, 08. Brooklyn 1964, nella scuola parrocchiale la Direttrice, una Suora ipertradizionalista, pur all’indomani del Concilio, sospetta che il Parroco abbia atteggiamenti ambigui rispetto ad uno studente di colore, da lui protetto. E’ la puntuale messa in film del dramma teatrale omonimo, diretto dallo stesso autore, anche da noi rappresentato in questi giorni  con la regia di S.Castellitto e con S.Accorsi, ritenuto al top della bravura, nella parte del prete. Nel film è Ph. Seymour Hoffman, candidato all’Oscar; mentre la suora è M. Streep, che dallo scatenato musical “Mamma mia!” passa con estrema scioltezza ad una così cupa caratterizzazione, anch’essa candidata all’Oscar. Un film di mostri sacri? Si, e non solo. Nonostante la provenienza chiaramente teatrale, esso dà forti emozioni; costruisce un’azione e un crescendo di tensione. Anzi, la validità del film suggerisce un ulteriore elemento alla vecchia discussione, nata si può dire con la nascita del cinema: il teatro può essere cinema? Personalmente, ritengo che, anche in questa, l’unica soluzione è “rovesciare il tavolo”. Il trasferimento in sede filmica del gesto teatrale, fatto di parola/atto scenico, funziona se il tempo narrativo è scandito, nella forme peculiari e/o reinventate (una volta si sproloquiava di un misterioso “specifico filmico”) del linguaggio cinematografico, attraverso, nel senso etimologico, di “profondamente dentro”, la stessa parola. Il montaggio, la costruzione dell’inquadratura, l’illuminazione, la scenografia, la coreografia, ecc. devono servirsi della capacità attoriale di “essere”, essi stessi, incarnazione di quanto pronunziano. Così è stata individuata, nel tempo, un’altra forma di genere narrativo, quella “Teatrale”. Gli attori danno una  rappresentazione “strutturata e inglobata” del tempo storico cornice della vicenda. Ed è ciò che fanno al meglio i tre del film, non dimenticando la suorina giovane- testimone e “coro” della vicenda, la sottilmente brava Amy Adams, alle prese di un’epoca assai difficile e complessa quale erano gli anni 60. Sono citati due riferimenti storici-chiave: l’assassinio di J.F.K. e il Concilio. In questo recinto si dibatte un conflitto che va oltre le persone, ma le ingloba con tutta la possibile complessità delle psicologie messe in campo, le ambiguità e i dubbi. Gli scontri ideologici si basano su quelle individualità, non solo sui messaggi che essi portano, e sono rivissuti con sofferenza. Anzi, all’inizio si pone la sfera del dubbio come una matrice filosofica  di fondamentale accrescimento delle proprie consapevolezze razionali ed emotive. In questo il film non ci dà alcuna facile certezza e pace.

“REVOLUTIONARY ROAD” di SAM MENDES; USA-UK, 08. Usa,1955. Frank e April sono giovani coniugi che stanno imparando a gestire l’esistenza reale, grigia e abitudinaria coi figli, il mutuo e il lavoro. Pensano di sfuggire alla routine inventandosi un futuro “speciale” a Parigi. Tratto dal romanzo omonimo di R.Yates, il progetto del film è stato del produttore Scott Rudin, ma ha preso forma dopo che l’attrice Kate Winslett e suo marito, il  regista e coproduttore, l’hanno fatto proprio. Da notare la figura di Rudin, producer importante di Hollywood, con l’occhio spesso rivolto al cinema di qualità, nonché inglese: suo è il pluri-Oscar del 2008 “Non è un paese per vecchi” dei Fratelli Cohen, ed anche l’acclamato “The Queen. La regina” (06). C’erano rischi che il film poteva essere un purpo: tratto da un romanzo, quindi molto dialogato, e narrativamente statico, affidato ad un bravo regista (Oscar 2000 e 2003) che sostanzialmente viene dal grande teatro inglese, con attori di assoluto rilievo, quindi tendenzialmente portati all’autocompiacimento recitativo. E invece, come in una magica alchimia, il  film funziona. Commuove, fa riflettere. Sono messe in scena le utopie velleitarie di due giovani americani, pieni di aspirazioni senza direzioni precise, affidate alla volontà giovanile di un’ipotetica trasformazione, che, di fatto, fugge dalla realtà e non si confronta con essa. Sono dei “giovani Holden”, una topica della letteratura e della cultura americana, che non hanno superato l’adolescenza. E’ un processo di trasformazione patologica che i due si rimpallano  per un misto di incapacità di guardarsi dentro, di dare pace a quel “vuoto di disperazione”, come è detto nel film, che li attraversa nella vita quotidiana. Tra i due sembra più il ragazzo acconciarsi con le modalità volute dalla società: anzi, per puro caso, conosce il successo nel lavoro che gli dà la sensazione di poter sfuggire all’angoscia della routine. E la sensibile April sembra la vittima predestinata. In realtà è una struttura drammaturgica molto complessa che non prevede “Salvati”, ma solo dei diversamente “Sommersi”. Non esistono buoni o cattivi, ma solo dei processi in atto osservati dal regista con vicinanza affettiva, molta attenzione, spietata consapevolezza dei limiti reciproci. Il film si basa sui due splendidi attori, ma anche sulle rapide figure di contorno: come il folle (M.Shannon), sua madre (K.Bates). La Winslett e DiCaprio sono maturi, attenti, ricchi di sofferte sfumature (quasi) senza  vezzi. La regia compie un lavoro di messa a fuoco scenografica e di montaggio che esalta e “muove” la drammaticità delle situazioni dall’interno, “giocando” con gli attori e i loro spazi, utilizzati al millimetro. 

FIORELLO A CENA DA BERLUSCONI.

    Nell’ultimo scorcio del gennaio 2009, ha fatto notizia l’invito del nostro Premier al popolare cantante-fantasista Fiorello, che è stato accettato. Della cena poi avvenuta, non si hanno successivi commenti o dichiarazioni, tranne alcune battute di Fiorello, che, da par suo, ha sdrammatizzato e ironizzato. Tuttavia “sotto” vi sono dei fatti ben concreti. Si sapeva che lo show-man era in procinto di passare alla rete satellitare Sky, con un ricco contratto. Infatti la rete satellitare vuole aprire una parte del suo satellite alla tv di tipo  “generalista”, quella che si vede senza pagare, sorretta dalla sola pubblicità, chiamandola “Sky Vivo”. Ma è contro la tv di Murdoch che è in corso una complessa e sorda battaglia a tutto spiano, da parte di Berlusconi. Sky, forte dei suoi attuali 4mln 700mila abbonati, è l’unico vero concorrente che può impensierire i sonni di potenza del Cavaliere. Ormai la Rai, pur non essendo formalmente la succursale di Mediaset, fa un programmazione che non impensierisce le reti del Biscione: anzi le amplifica e le potenzia, perché si adegua alle esigenze sue, non cerca, non sperimenta, non programma strade diverse: reality contro reality; varietà al sabato sera contro varietà; film contro film; ad un forte contenimento di spesa nella tv milanese c’è un fortissimo contenimento rai,ecc. Si pensi inoltre all’eclatante venuta della Defilippi a Sanremo: anche se aggratis, essa di fatto rinforzerà ulteriormente la potenza mediatica di questo personaggio, che è targata Mediaset, implementandone il già potente valore aggiunto. Perché così funziona la gestione dell’immagine. Anche nei confronti della tv del magnate australiano, il nostro Premier ha invocato la “non italianità” di Murdoch, il proprietario di Sky, della Fox e di un impero mediatico-editoriale che copre l’universo mondo. L’ha fatto anche riguardo anche alla sciagurata vicenda Alitalia, in cui, opponendosi alla sua vendita ad Air France, ha rifilato l’intero ”paccotto” delle perdite allo Stato, cioè a noi, e la polpa agli “amici” suoi che poi ha definito “patrioti”; ma ha permesso alla stessa Compagnia francese, con un esborso molto, ma molto inferiore rispetto a quello che avrebbe pagato acquisendola, di impadronirsi delle tratte internazionali, che sono la parte più succosa del business. Quindi c’è da fare molta attenzione. D’altronde, Murdoch e Berlusconi erano amici, fino a qualche anno fa. Infatti, come “due compari” pensavano che la “spartizione” dell’etere in due sfere di competenza e d’interesse, all’Australiano il Satellite, al nostro il terrestre, sia esso analogico o digitale (la Rai non conta perché da tempo è “in quota” Mediaset), avrebbe assicurato profitti altissimi per loro. Ma l’evoluzione sia tecnologica che industriale ha un po’ scompaginato il quadretto che si erano dipinti i due. Si è visto che, a parte la mediocre gestione di Pier Silvio B., e del suo sodale Salem, che hanno infilato una serie di errori strategici dopo l’altra, la tv “generalista”, cioè aggratis, è roba da “vecchi” e poveracci, e col tempo avrebbe ceduto la sua supremazia finanziaria a quella “Pay”, ben più remunerativa, con o senza pubblicità (preferibilmente con). Allora che ti ha fatto il Cavaliere, col fido Gasparri dell’omonima Legge? Ti manda tutti sul Digitale Terrestre. Il segnale di questa tv arriva via etere terrestre, cioè via antenna/decoder, ed è molto più compresso, perché digitale. Quindi: molti più Canali, tra i quali alcuni “Pay”. Ed è la Mediaset Premium, con cui avrebbe, se non fatto concorrenza, almeno rosicchiato un po’ dello strapotere Sky. A parte che la tv del Biscione si è impadronita, con l’annuenza e/o il sonno della Rai di un numero spropositato di canali, e paga un fitto irrisorio allo Stato (ma questa è la vecchia, trita storia del conflitto d’interesse, ecc.: ma ke v’o’ dic’a’ ffa’?), si sono rilevate delle controindicazioni molto serie dallo “Switch Off”, avvenuto per ora in Sardegna e Val d’Aosta, cioè il passaggio completo al digitale. Questo digitale, tanto strombazzato, si sta rivelando, prima ancora di nascere già un “ferrovecchio”: tecnologie ingombranti, rigide, costose, di fatto già superate. Si pensi che se si passasse all’HDTV, cioè la tv ad alta definizione, che Sky già possiede col minimo ingombro perché già presente sul Satellite, le frequenze, a causa dell’enorme quantità di dati da trasportare, si ridurrebbero drasticamente. Ma quel tipo là pensa “la notte per il giorno”: ha cacciato l’idea di fare un Satellite diviso tra Rai-Mediaset , al 45% ciascuno, il resto a Telecom e altri, il cui segnale verrebbe dato gratis con un Decoder adatto, su cui mettere tutta la programmazione generalista delle tv interessate, togliendola a Sky, dove si continuano a vedere ancora oggi. E questo è parte della guerra che il Governo sta muovendo al concorrente “personale” del suo Premier: prima con l’aumento dell’IVA, da 10 al 20 %, tutto in una botta, poi con l’imposizione di una tassa aggiuntiva del 25% sulla programmazione satellitare  porno, che, da sola, frutta il 10% del fatturato.  E che ti fa Murdoch, non a caso chiamato “Jaws” ( lo Squalo)? Sta cercando realizzare una furbata ambiziosissima: impadronirsi della plancia di comando di Telecom, ovvero accordarsi con Cesar Alierta il boss di Telefonica  (la potente telecom spagnola), che detiene il più consistente pacchetto azionario fuori della Telco, la cordata italiana dei finanzieri di riferimento nazionale. Ma che c’entra la Telecom? Moltissimo. Sia perché essa già possiede la tv di Internet, “Alice”, e le tecnologie della Tv-Phone, in futuro destinate a crescere in modi esponenziali. E poi perché la telefonia potrebbe essere la soluzione di tutti i problemi, in quanto in grado di  realizzare la tanto agognata cablatura dell’intero paese. Ed è la tv via cavo la soluzione che renderebbe inutile sia l’etere analogico che quello digitale. Ma anche qui, con più che sospetto tempismo, il Presidente Nostro, già incomincia  a parlare di ”difesa del patrimonio nazionale”, proponendo la divisione tra la Rete Telecom (le infrastrutture fisse), da statalizzare, a cui eventualmente addossare le spese della cablatura e i Servizi di Telefonia. E’ chiaro che una Telecom così divisa sarebbe alla portata di un  singolo operatore nazionale: e quindi Mediaset se la papperebbe in un sol boccone, diventando L’Operatore.

“MILK” di GUS VAN SANT; USA, 08. Il 22 novembre 78, Harvey Milk, il primo politico istituzionale dichiaratamente gay viene ucciso a San Francisco, insieme al Sindaco. Il film ne narra la breve ma intensa stagione politica. “Un eroe della storia politica Usa”, così lo definisce il regista. Ed è tale, senza orpelli, senza enfasi, con una grande consapevolezza sociale e personale. Politico intelligente, dotato di un senso attento delle opportunità e della mediazione, ricco di umana sensibilità, aveva una visione lungimirante, articolata e complessa della stessa battaglia a favore dei diritti umani dei gay. Egli li inquadrava nella lotta generale per i Diritti Civili, per la solidarietà con tutti gli altri settori della popolazione deboli e discriminati: gli anziani, i bambini, gli immigrati, i neri e gli ebrei. E anche la classe operaia: lui capì che bisognava allearsi con quanti più strati possibili della popolazione, facendo uscire i gay dal ghetto e dall’anonimato. E che solo in questo modo poteva sconfiggere l’insidiosa campagna politica portata avanti dai settori più reazionari dei politici cristiano-tradizionalisti americani per far arretrare le condizioni di esistenza stessa degli omosessuali nel paese. Crociata che trovò nel volto della cantante con aspirazioni politiche, Anita Bryant, la sua telegenica portavoce. Il regista costruisce in una visione di calviniana leggerezza, un personaggio dal profilo molto elaborato. E lo fa insieme all’attento sceneggiatore Dustin Lance Black, anche produttore, e, soprattutto, all’attore protagonista Sean Penn, vibrantemente calato dentro. Su lui incombe una premonizione di sacrificio estremo: che gli fa però attraversare la sua esistenza come una testimonianza tesa tra il  mettere in pratica le sue convinzioni e l’annuncio utopico di una speranza. Dimensione, questa, che oltre a non venirgli mai meno, pur in mezzo alle più disparate difficoltà, arricchisce la sua umanità. Non lo rende retoricamente urlante, ma più soffertamente semplice. Penn ha già affrontato ruoli di politico schiacciato dal potere, che lo svuota e lo trasforma una volta che l’ha assaporato (“Tutti gli uomini del re” di S.Zaillian, 06): la differenza non poteva essere più marcata con Milk. Il protagonista “vive” intimamente il movimento, ne è la personificazione più efficace e generosa. Le sue ambizioni collimano con quelle della sua Comunità. Il regista ne fa un esempio di virtù politiche, ma non un santino, perché lo investe di una sottile autoironia; ne coglie anche alcune fragilità, soprattutto nei rapporti coi suoi partner. Ed eccelle nella ricostruzione della fase storica. Non è il solito Biopic, ma una testimonianza sincera, viva e presente.

“DEFIANCE. I GIORNI DEL CORAGGIO” di Edward Zwick; USA,08. 1941: alla venuta dei nazisti un gruppo di ebrei polacchi fugge e sopravvive nelle foreste della confinante Bielorussa. La comunità, capitanata dai fratelli Bielski, raggiungerà la cifra di 1200 persone. Il film è da vedere. Narra di un episodio storico, tutto sommato secondario, ma significativo della resistenza armata al nazismo: a combattere, per sopravvivere, sono degli ebrei. Il film, tratto da un libro, affronta, anche se tangenzialmente, le ragioni per cui gli ebrei si fecero scrupolo di ribellarsi, ma di attendere. Naturalmente sottovalutando la fredda e pianificata ferocia nazista: anche perché questa si presentò a tappe, smascherandosi poco alla volta; quindi lasciando spazio a quelle componenti sociali ebraiche, le più ricche,  più inclini a sposare le ragioni dell’autorità, qualunque essa fosse, con le quali e a cui avevano convissuto ed erano sopravvissute per secoli. I Bielski erano tutti contrabbandieri: quindi assolutamente malfidati verso qualunque autorità legale; per istinto compresero la natura dei nazisti, non nutrendo alcuna illusione di sorta. Essi erano ritenuti dei paria, e fecero grande fatica a scalfire la diffidenza, nutrita nei loro confronti dagli “anziani”, cioè i ricchi e influenti membri della comunità, con i quali erano in aperto conflitto di classe. Il film ce li presenta realisticamente come degli eroi “per caso”, quasi loro malgrado. E crea delle dialettiche al loro interno. Anche se si regge sulla sanguigna e prepotente presenza di Tuvià (Daniel Craig), il protagonismo non si limita a questo riuscito personaggio. Mano a mano che la narrazione si sviluppa emergono le personalità degli altri due: Zus, il combattente assoluto che aderisce per breve tempo alla resistenza sovietica, lo sperimentato e convincente Liev Schreiber; e il più giovane dei tre, Azaev, forse il più deciso e realistico, l’attore Jamie Bell, che dopo “Billy Elliot” ha trovato una performance adeguata al suo talento. Ma tali differenziazioni funzionano perché risultano di supporto alla messa in luce di sfaccettature nel personaggio complesso di Tuvià. A mio avviso è la sceneggiatura il vero segno di qualità del film. Essa scandisce con una chiarezza impressionante tutte queste sollecitazioni riflessive; e lo fa senza che l’azione ne risenta minimamente. E’ opera del redivivo Clayton Frohman, che dall’83 con il bel “Sotto tiro”  di Roger Spottiswoode, aveva fatto perdere le sue tracce. La regia sostiene il percorso narrativo con soda efficacia visuale, pur se senza  respiro visionario.

“APPALOOSA” di ED HARRIS; USA, 08. New Mexico, 1882, due pistoleros, Virgil e Everett, vengono ingaggiati come Sceriffi ad Appaloosa un paesotto funestato da un criminale. Tra i due s’intromette una piacente vedova. Il regista, anche produttore e cosceneggiatore è più noto come attore: ad esempio è stato l’onnipotente e misterioso méntore di Truman nell’omonimo film. Qui invece, pur interpretando un infallibile e incottuttibile bounty killer, di fatto si fa menare per il naso da una vedovella arzilla e civetta, nonchè un po’ sullo zoccolesco. Molto più saggio, è il suo assistente: un roccioso, ma umano e non insensibile Viggo Mortensen, che, anzi, pur parlando ancor meno del suo datore di lavoro, è quello che capisce di più, prendendo le scelte giuste. Il film appartiene al redivivo genere western, che sta rivivacchiando. Pur non facendo sfracelli al botteghino, quanto a gradimento del pubblico, mantiene una sua onesta rappresentatività. In realtà, molti polizieschi e action movies odierni non sono che western camuffati, in cui al posto dei cavalli ci sono le auto. Questo è il genere Usa per antonomasia: è l’epica “primitiva” (come le Chansons de Geste medievali), ma spesso raffinata,  che “canta” la creazione della stessa nazione, che si è edificata sulla visione dei valori di quell’epoca. Ha avuto una vitalità figurale tanto forte che ha permesso ad autori di altri paesi di utilizzarla come scenario allegorico, come ha fatto il nostro Sergio Leone, di cui ricorre il 80enario della nascita. Ma così facendo ne ha decretato la fine: solo che questo crepuscolo è stato illuminato dai grandi capolavori di Sam Peckimpah (“Mucchio Selvaggio” e altri). C’è stato lo sprazzo di puro genio di Clint Eastwood (“Gli spietati”, 92, premio Oscar), ma anch’esso è un film notturno. Harris ha fatto la scelta giusta. Egli ha narrato in understatement: il suo è un tono semplice, che va diretto al nocciolo. Non ha preso come scenario i grandi spazi, perché il suo orizzonte visuale è più contenuto, o più mediocremente limitato. In fondo lo sbattersi di quelle persone contro quel criminale è un fatto quasi privato: non c’è nessuna particolare tensione etica. Le mosse narrative sono lineari e quasi obbligate: l’azione ci è somministrata con efficacia drammatica ed espressiva. Ma non c’è nessun ricerca di una maestria nel montaggio, o di inusuali effetti drammatici. Questa semplicità è però segno d’intelligenza. Perché ha costruito un film su credibili psicologie: sua, del socio e del loro rapporto con la donna. Noi assistiamo allo scontro di persone umane in un ambiente storico determinato.

“AUSTRALIA” di BAZ LUHRMAN; USA-AUSTRAL., 08. 1939: Lady Ashley prende possesso della tenuta del marito alle soglie dell’Outback australiano. Conduce una mandria al porto, scontrandosi con un altro grande allevatore e affronta l’invasione giapponese. Il regista, anche produttore del film, ha inteso erigere, in forma di film, un monumento alla nazione-continente che gli ha dato i natali. Come ad altri famosi attori aussies sparsi nel mondo e presenti a Hollywood. Tra cui i due protagonisti, N.Kidman e H.Jackman, che non deludono, quanto alla  presenza scenica e al glamour che ci si aspetta da loro. Anche se fin troppo stereotipati: abbastanza ridicola è stata la scena della doccia in pretto stile macho-pubblicitario di Jackman. Ma è nel complesso che il film non funziona. Di fatto è come se fossero tre i film in uno, ognuno non comunicante con l’altro. Il primo è il western dei grandi spazi, incentrato sulla vicenda del trasferimento del bestiame, ostacolato dal cattivo di turno, il bravo e carismatico B.Brown e dai suoi sgherri, tra i quali è da segnalare il più fetente, D.Wenham, e dell’incontro col protagonista. Sono decine i western classici, a partire dal capolavoro “Il fiume rosso” di Howard Hawks (48), direttamente citato, come anche lo è Sergio Leone, che parlano di questo tipo di epopea. E qui è la parte più convincente, paradossalmente più originale del film. Il senso del viaggio, come processo trasformativo è reso in modi cinematograficamente impressionanti, con la lettura degli spazi primigeni, incontaminati e sterminati di quel continente; esso è  un andare accompagnato dalla presenza dei nativi, impersonati dalla misteriosa e ben caratterizzata figura di King George, il conosciuto attore aborigeno David Gulpilil. Poi c’è il film del’invasione dei nipponici: e qui siamo nettamente “dentro” “Via col vento”. Il regista voleva mettere in evidenza la nascita dello spirito australiano e del suo distacco dall’Inghilterra, il paese colonizzatore. Il ragionamento storico è giusto: ma è poco compartecipato emotivamente. Il terzo film è quello della “Generazione Rubata”, che è il titolo di un bel film civile australiano sull’argomento, di Ph. Noyce, ma anche la disgraziata e mai troppo deprecata politica (abolita solo nel 1992) di distacco forzato dei figli meticci dalle madri aborigene. Essa è inoltre la cornice narrativa del film, perché è narrato proprio da uno di questi ragazzi, che ne è addirittura il coprotagonista. Le tre vicende si ostacolano, non si concludono e restano narrativamente “appese”. Il film ha comunque incontrato i suoi pubblici, ed è piaciuto per l’ampiezza e la potenza dei sentimenti messi in campo; il piglio epico del regista è sostenuto e credibile.

“SETTE ANIME” di GABRIELE MUCCINO; USA, 08. Ben è in cerca di sette persone da aiutare in modi radicali. Lo fa perché è oppresso da un senso di colpa gravissimo, in seguito ad un grave incidente cui è sopravvissuto. Il regista, pur italiano, è uno dei pochissimi che è integrato nel cinema holywoodiano. Insieme a Will Smith, ha creato un sodalizio creativo  produttivo che è già al secondo titolo, il primo è stato “La ricerca della felicità” (06): tutti e due di grande successo. Subito dichiaro che a me il film è piaciuto. In realtà è un’operazione “furba”. Voglio dire: non so se Muccino abbia interesse ad essere ascritto all’èlite di auteurs che fanno i film per compiacersene; per pochi selezionati spettatori. Credo invece che egli sia un solido e talentoso professionista che fa i film che, fondamentalmente, devono fra ritornare i soldi investiti, possibilmente facendoci profitti. Nel cinema americano, hollywoodiano, non è nemmeno concepibile una diversa modalità. Ed è partendo da queste coordinate, che possiamo riflettere sul film. Esso appartiene ad un genere ben identificato: quello mélò, magari di tipo estremo. Il regista, il produttore e il giovane sceneggiatore, Grant Nieporte, hanno tutti giocato a carte scoperte. Hanno creato un climax di situazioni che, prendendo le mosse dall’insopportabile senso di colpa del protagonista, passando per il progressivo coinvolgimento nella pur intensa storia d’amore con la ragazza cardiopatica, arrivasse al finale che ne facesse accettare le scelte. Queste hanno “rotto” con molta intelligenza l’attesa dell’happy and tradizionale: ma hanno creato un’atmosfera narrativa molto più appassionante. Gli spettatori sono stati spiazzati, perché sono stati guidati in un tour emotivo molto più serrato: magari un filo sopra le righe; ma sostanzialmente valido. Qui si vede il talento collettivo e individuale degli autori, anche se soprattutto del regista: aver portato a compimento un’operazione narrativa difficile, in cui l’espressività è condotta implacabilmente a quel finale. E il fatto che il film piaccia ai pubblici, da questa e d quell’altra parte dell’Atlantico, è la riprova della sua riuscita. Ricordo molti anni fa il film “Love Story” (70): pure fu accusato di essere un filmaccio che faceva presa sul sentimentalismo più bieco, e che incassò. Invece oggi appare un film solidamente fatto, coerente alle premesse poste ed efficace. In “Sette a.” la narrazione è spedita, grazie ad un’attentissima cura nei dettagli fondamentali di tipo realistico, come la cura degli interni, della vita delle singole “anime” da salvare ecc., usati in modo dinamico. Ma è giustamente centrata sull’interpretazione e la potente presenza scenica di Will Smith.

DA SERGIO LEONE UNA METAFORA SU NAPOLI.

    Il 3 Gennaio 1929, cioè 80 anni fa, nasceva il grande regista Sergio Leone. Però, essendo morto nell’aprile 89, è anche il ventennale della morte. Egli ha profondamente innovato non solo il cinema italiano. Pur non ostentando nessuna particolare caratura intellettuale, come invece l’avevano altri famosi auteurs italiani a lui contemporanei, come Antonioni, Pasolini, Fellini, ecc. aveva una potente visione del cinema, di ampio spessore epico e narrativo; oltre che della vita, della politica e della società. Paragonabile a quella di un Tolstoij, volendo fare un parallelo: un genio ottocentesco della narrativa trapiantato nel cinema. Era figlio d’arte, perché suo padre Vincenzo, che si firmava Roberto Roberti, era un regista di media e apprezzata bravura, tra l’altro antifascista e che sposò una cittadina italiana di origine ebrea. Quindi, Sergio magnava pan’ e cinema. Tant’ è che, già ben addentro ai vari livelli di lavorazione nel cinema, iniziò nel 59 (quindi quest’anno è anche il cinquantenario del suo inizio attività…) a codirigere, non accreditato, il film “Gli ultimi giorni di Pompei”, con Mister Muscolo, l’attore americano Steve Reeves, allora sulla cresta del’onda, perché era stato Ercole nel fortunato film “Le fatiche di Ercole” di Pietro Francisci (58), che inaugurò, con un clamoroso botto d’incassi, il filone mitologico, detto “sandalone” dai cinici cinematografari nostrani, ma  peplum movie in Usa. Avvenne che il regista Mario Bonnard dovette essere affiancato e spesso sostituito per motivi di salute; mentre, nello stesso anno aveva diretto la Seconda Unità del film americano “Ben Hur” di William Wyler, con Charleton Heston, però girato a Cinecittà. In particolare, a lui si deve la famosissima sequenza della corsa delle bighe, e ne è suo anche il montaggio. Il polso di Leone fu notato: cosicchè nel 61 potè dirigere il suo primo lungometraggio con l’attore statunitense Rory Calhoun, “Il Colosso di Rodi”, che si rivelò, oltre che ben fatto, anche piuttosto remunerativo. Anzi, il successo fu tale che l’attore protagonista, avviato sul viale del tramonto, conobbe una sia pur breve nuova stagione di carriera: e quando gli fu offerta la parte di protagonista di “Per un pugno di dollari” (64), poco riconoscentemente e molto stupidamente rifiutò. Leone andò in Usa e proprio in tv vide un comprimario, poco importante, di una serie di telefilm: Clint Eastwood. Lo scritturò e lo fece protagonista, non del primo, ma sicuramente del più famoso film del filone western all’italiana, ambientato in Spagna. Leone si firmò Bob Robertson, in onore del padre, e sotto altro nome, vi recitò anche Gian Maria Volontè (John Wells), nelle vesti di un terribile cattivo. “Per qualche dollaro in più” (65), oltre a Volontè, Eastwood, vi partecipava anche un attore americano, noto per lo più in parti di cattivo, decisamente in declino, Lee Van Cleef, da Leone reclutato nel colmo di una crisi etilica. Ripulito e disintossicato, rinacque in una carriera su tutte due le rive dell’Atlantico. Volontè vi aggiunse una caratteristica di psicopatia che lo rese ancora più inquietante nel suo ruolo di vilain. “Il Buono, il Brutto, il Cattivo” (66), con Eastwood, Van Cleef ed Eli Wallach, chiude la “trilogia del dollaro”. Questo è il film in cui prende forma una delle componenti dello stile-Leone: la capacità di guardare le grandi epopee sociali, qui la Guerra di Seccessione, con occhi irriverenti, ma non distaccati, perfino con spunti della commedia all’italiana; nonchè la magia del’arte di spezzare l’epicità con l’ironia  e lo sberleffo, senza far perdere il senso generale della narrazione, fluida, maestosa, ricca: “massiccia”. In “C’era una volta il West” (71) prevale l’aspetto epico: ovvero il senso storico sulle vicende individuali dei vari personaggi, i cui drammi sono felicemente incastonati nella costruzione delle ferrovia. Si celebra il West nel suo massimo punto di splendore, quando si avvia al suo crepuscolo. In  “Giù la testa” (71) il parallelo tra la rivolta messicana di Pancho Villa e Zapata, con la lotta irlandese dei primi del secolo, è una specie di omaggio al 68, a una serie di ideali libertari, pacifisti, democratici che il regista avvertiva come suoi. Ma il suo film più complesso è certamente “C’era una volta in America” (84). Il rapporto tra la grande storia e le vicissitudini personali dei tre personaggi, dipinge la storia di una grande nazione, più per le suoi lati oscuri che quelli chiari; e di come questa nazione sia diventata tale. Ma mette in luce gli aspetti della memoria individuale, che si attorcigliano alle vicende pubbliche, ne sono il contraltare. Il regista non perde mai di vista la consonanza emotiva di questi due livelli. E’ uno dei capolavori assoluti dell’intera storia del cinema. Leone ha prodotto i primi film di Verdone e un western “Il mio nome è Nessuno” (73) di Tonino Valerii, imperfetto, ma strano e non banale. Prima di morire stava preparando un film sulla difesa di Stalingrado da parte delle truppe e del popolo russo dai nazisti. E, come spesso capita nei grandi autori, vi ho trovato un legame con il presente. In particolare con la deprimente attualità politica partenopea. Sopra ho citato il film “Il buono, il brutto, il cattivo”. Ebbene, i vari personaggi che si agitano sullo spettacolino che la politica locale ci offre, ricorda quelli del film. E, un po’ come in questo, tale spettacolo è sospeso tra grottesco, malaffare e banale carrierismo un po’ minchione. Abbiamo, allo stato, un solo Cattivo, che nel film aveva la scolpita faccia di Lee Van Cleef: qui c’ha quella un po’ sbilunga dell’Avv. Alfredo Romeo, il proprietario del Gruppo omonimo che, con la Global Service, voleva mettere le mani, corrompendo, distribuendo favori e mazzette, ecc., sulla manutenzione dell’intera città di Napoli. Poi abbiamo il Brutto, che nel film era il personaggio di Eli Wallach: qui sono diversi, tra cui spicca la Sindaca, Rosa Russo Jervolino. Ma ha la stessa dose di grottesco e di comicità più o meno volontaria , pur essendo assolutamente onesta sul piano personale, perché si ostina, con invidiabile tostaggine, a pensare che tutto potrebbe tornare come prima, nonostante lo scandalo dei suoi assessori in manette. Poi abbiamo il Buono (nel film Clint Eastwood), che è il collettivo dei magistrati della Procura: essi hanno manifestato la stessa dose d’ironia presente nel film chiamando l’inchiesta “Mangianapoli”.

LA GUERRA IN PALESTINA E LA CRISI ECONOMICA.

    L’attacco scatenato da Tsahal (l’esercito d’Israele) a sorpresa contro la Striscia di Gaza, abitata da 1mln e mezzo di palestinesi, nel dicembre 08, è un avvenimento di una gravità politica eccezionale. Più di 400 i morti tra civili, la grande maggioranza, e militari; senza contare i feriti e i danni. L’obiettivo dichiarato di questa poderosa offensiva, chiamata “Piombo Fuso”, è di distruggere le infrastrutture militari di Hamàs, il partito politico filo-islamico che ha legittimamente, sotto l’occhio di osservatori internazionali indipendenti, vinto le ultime elezioni politiche legislative, con il 60% e passa dei suffragi. Hamàs non riconosce lo Stato d’Israele: ma nemmeno il diritto degli ebrei ad avere un loro Stato; ritiene che tutto il territorio ora israeliano sia stato usurpato e sia da restituire ai legittimi abitanti palestinesi, da loro cacciati fin dal 1948. E’ una pretesa irrealizzabile, che non tiene conto dell’evoluzione storica e del fatto che sarebbe possibile un accordo generale in cui i Palestinesi possano erigere un loro Stato in Cisgiordania e, appunto, nella Striscia di Gaza, accanto a quello d’Israele; e che, se non sarebbe pensabile il rimpatrio di tutti i palestinesi sfollati, sarebbe possibile avere un congruo indennizzo. Ma la condizione preliminare, essenziale, assoluta è il reciproco riconoscimento. Invece c’è la reciproca demonizzazione. Si è creata una situazione di totale immobilismo, in cui l’unica voce a parlare è quella dell’odio reciproco, che ora si è vestito dei panni della religione. E ciò è stato possibile anche grazie alla progressiva delegittimazione politica della componente laica della società palestinese, un tempo molto forte, perché la corruzione, la più vistosa, sfacciata possibile, ne ha minato ogni credibilità: così è stato per Al Fatàh. Hamàs si presenta come il Campione dei diritti del popolo palestinese, non solo in chiave politica irredentistica, ma anche sociale. Ha fondato e costruito scuole, ospedali, mense e alloggi per i poveri, un sistema di solidarietà sociale, mentre i suoi bilanci sono trasparenti. Però la sua componente autoritaria e intollerante stava progressivamente venendo fuori, contrapponendosi, in nome di un’ortodossia religiosa fanatica, alla società civile palestinese, che resta una delle più avanzate del mondo arabo. Accerchiata da Israele, che ne sta precludendo ogni elementare diritto umano di sopravvivenza materiale, la Striscia è diventata un grande carcere a cielo aperto: sembra la realizzazione concreta di quanto preconizzato in un famoso film di Carpenter (ambientato però a Manhattan). Da qui vengono sparati dei tracchi artigianali volanti, i missili Qassam, imprecisi, ma che fanno un bel botto e se colgono, fanno male. Però non hanno bisogno di postazioni particolari, e quindi non sono rilevabili dai satelliti, nè si possono intercettare perché poco veloci, per cui i territori di confine israeliani sono esposti a uno stillicidio obiettivamente insopportabile, che avvalora l’idea e l’immagine di essere, loro, gli israeliani, sotto assedio (pur se è il contrario): quindi moltiplica le paure e le incertezze. Dà spazio alla compente oltranzista della politica e della società israeliana, che vuole cavalcare la tigre dell’intolleranza razzista antiaraba in generale e dello scontro, solo militare, totale e radicale. Questa ha scatenato la guerra contro gli Hezbollàh filo-sciiti iraniani del Sud del Libano, nell’estate 2006: ma, nonostante la schiacciante superiorità, ha sostanzialmente perso. Non ha raggiunto nessuno degli obiettivi che si era prefisso, né politici, la sua delegittimazione; nè militari: non ha smantellato le sue strutture militari e né ha liberato quei soldati prigionieri; e si è dovuta ritirare in buon ordine. Ma ha rafforzato enormemente nel mondo arabo le componenti politico-sociali, anche le più fanatiche, di tipo islamico, a discapito di quelle laico-moderate. L’esperienza ha ulteriormente dimostrato che l’opzione militare può essere aggiuntiva e di supporto a scelte politiche, di tipo negoziale, ma non può sostituirle. Gli strateghi israeliani ritengono di eludere queste obiezioni perché hanno pianificato ogni singola fase. E c’è da credergli. Ma siccome non occuperanno la Striscia, se ne dovranno andare. E dopo? Sarà tutto come prima, anzi peggio di prima: gli odi ancora più irriducibili, intolleranti, radicalizzati. E quali certezze strategiche avranno raggiunto? Nessuna. Però si saranno fatte le Elezioni, previste al 10 febbraio 09, e la Livni, la tostissima Ministra degli Esteri, considerata, insieme al Laburista Ehud Barak, Ministro della Difesa, gli ispiratori di questa offensiva-carneficina, e sull’onda di essa, sarà (forse) eletta Premier. Però, accanto a queste considerazioni politiche, volendo essere cinici, dobbiamo dire che ha trovato, grazie alla guerra in corso, un modo per combattere efficacemente l’attuale crisi economica che sta attanagliando il mondo intero, che è soprattutto di circolazione finanziaria. E ciò perché lo Stato può immettere considerevoli dosi di liquidità nel sistema economico, in quanto, a parte i massicci investimenti, che sono di natura strutturale (cioè protratti nel tempo), nel settore militare, che però sono di punta e quindi molto concentrati, e ben remunerativi nell’export,  i 10mila soldati sul terreno devono essere pagati: sono soldi che, spesi dalle famiglie in Israele, vanno ad alimentare un circuito finanziario virtuoso tra domanda e offerta di  beni. E che quindi fa lavorare l’industria. Non solo: i soldati, dovendo essere sostituiti nei vari impieghi civili che hanno abbandonato, hanno creato occupazione aggiuntiva, quindi altri stipendi, altra liquidità ecc. Come in un barbaro rito pagano, le centinaia di morti  e le migliaia di vittime della guerra sono crudelmente sacrificate, sotto le ingannevoli e fantomatiche illusioni di una  irraggiungibile sicurezza, sull’altare della stabilità economica del sistema.

“LA DUCHESSA” di SAUL DIBB; UK-FRA-ITA, 08. Sua Grazia Georgiana, Duchessa di Devonshire, uno dei casati più potenti dell’Inghilterra del 700, ha contratto un matrimonio infelice. Amata, invidiata è magistra elegantiarum: è lei che fa la moda. Ma ciò non le evita di sottostare agli usi della società del tempo. E’ tratto dalla biografia di Amanda Foreman “Georgiana”, e sceneggiato dallo stesso regista. E’ una sfida difficile, il film in costume ambientato nel 700, dopo il kubrickiano “Barry Lindon” e perfino dopo il “Marie Antoinette” di Sofia Coppola, che, in sostanza, tenta nuove strade.  Si può cadere nell’oleografismo, per cui la cura sontuosa della scenografie, è l’unica preoccupazione espressiva: e ciò diventa stancante. Inoltre, il cinema inglese, che stupisce sempre per la sua versatilità e duttilità di temi e storie da portare al cinema, ha sviluppato anche, con  i due “Elizabeth”, una non banale riflessione sul potere sotto le spoglie anch’esse sfarzose del film in costume. Invece il regista ha tentato una strada più modesta, ma più sua . Ha attualizzato la vicenda storica di questa donna intelligente, colta, che s’interessava attivamente di politica nella fazione Wigh, quella più avanzata del Parlamento britannico, collocandola in quel preciso contesto storico. Il film  sceglie di scindere la passione amorosa per uno dei suoi rappresentanti, situandola dopo la sua discesa in campo. Mentre invertire la sequenza, avrebbe sminuito la donna. Però il film non esagera su questo binario: è solo una donna disperata che non vorrebbe perdere il senso della sua persona e femminilità, ma neanche esporsi alle estreme conseguenze di una scelta radicale: essere chiamata “Sua Grazia”, e vivere a quel livello, ha il suo fascino…L’attrice Keyra Knightley dà un senso di altezzosa, complessa, ma fragile umanità, alla donna: non è un mostro di sensualità (lo è di più la morbida Bess, sua contraddittoriamente fedele amica); ma la sua resa scenica è forte. Però il personaggio che, a mio avviso, convince di più è il marito, Ralph Fiennes. La sua torpida umanità, scipitaggine è resa con forte caratterizzazione: ma non è banalizzata. Si legge la cura del lavoro di regia sulla sua complessità caratteriale, letta come il frutto di un vero condizionamento psicologico, tipico della classe di appartenenza. Lui, un qualche barlume di umanità ce l’avrebbe, ma, seppur affiora, è rigidamente all’interno di quello steccato. Il film, bello da vedersi, non ha raccolto il consenso unanime. A me ha persuaso per la resa di una coerente atmosfera narrativa; a parte qualche caduta: un eccesso un po’ stucchevole di panorami e scenografie, ad es., e la considerazione che resta un film di genere narrativo definito.

“NATALE A RIO” di NERI PARENTI; ITA,08. Il prof di etica, non tanto integerrimo, Patani, insieme all’attempato bohémien Berni, capitano a Rio, insieme ai figli: ma in collocazioni incrociate. Da qui gli imbrogli. Ci sino pure Linda e Fabio, innamorato non corrisposto di lei. Il regista, anche sceneggiatore, si autopresenta come uno ”stakanovista della cazzata”. Egli è l’”autore” indiscusso dei “cinepanettoni”:  perché è dal 2001 che, anno dopo anno, inanella dei tortiglioni che stravincono al botteghino, specificamente nelle festività natalizie. Voglio dire: non è semplicemente il tizio che si trova a dirigere e a incassare; è riuscito a creare intorno a sé un team che sa caratterizzare, nel bene e nel male, alcuni aspetti della società italiana. Noi, oggi, non ci facciamo quasi caso, perché quei personaggi ci appaiono talmente naturali, “intimamente” connessi col nostro immaginario con cui ci disegniamo alcune storture dell’oggi, da dimenticarci che sono delle fictions. Poco ci manca che riteniamo che Christian De Sica sia proprio come appare sullo schermo: e non invece un raffinato attore comico che dà vita alle situazioni più diverse con glamour, ma anche piena adattabilità. La sua verve, va di pari passo con la disinvoltura con cui, molto diversamente dal Boldi, sa variare con impressionante sicurezza il paesaggio umano all’intorno, in cui si pone e agisce con follia assoluta. E ricordiamo che proprio DeSica, fin dagli anni 80, ha iniziato a disegnare in modi esagerati e grotteschi, ma incisivi, i comportamenti tipici di alcuni strati della società. Ed è sopravvissuto. Anzi, ha perfezionato un talento e una qualità di osservazione sociale che si sono affinati nel tempo. E ha trovato, oggi, in Massimo Ghini una spalla ideale: attore colto, sa essere duttile come l’altro, con cui si mette d’istinto in sintonia di ritmi. Come nelle “spiegazioni” con i figli sul finale: sono pagine di comicità contenuta, ma portate avanti con elegante efficacia. Parenti sa, insieme al “nostro” (perché Presidente del Napoli…) produttore, creare il film che raccoglie in sé più elementi che richiamano il pubblico: l’esotismo cromatico, quel po’ di simil-sesso, la caratterizzazione dei personaggi e delle situazioni; ma non è mai gratuitamente volgare. Addirittura, nella vicenda con la Hunzinker-DeLuigi, raggiunge una felicità narrativa lieve. Già si è visto altrove che la coppia funzionava, ma qui, nella misura in cui si è lasciato meglio spazio alla comicità sottile di De Luigi, e della “spalla” Michelle, si sono raggiunti di ritmi da fiaba comica, grazie  anche alla presenza più ”fisica” di Paolo Conticini: davvero un bel terzetto. E qui è  opera di regia, nella visione generale e particolare.

“MADAGASCAR 2. VIA DALL’SOLA” di ERIC DARNELL,TOM McGRATH; USA, 08. I soliti malefici pinguini convincono i 4 amici dello zoo di New York (Alex il leone, Marty la zebra, Melman la giraffa, Gloria l’ippopotamo) a lasciare l’isola. Per errore atterrano nella Savana, dove Alex ritrova i suoi. A tre anni dal primo la Dreamwork sforna il sequel: un’operazione riuscita. Le idee di base, non solo grafiche, ma tematiche e riguardanti le impostazioni dei personaggi, restano le stesse, ma hanno una significativa evoluzione, assicurata dall’intervento in sceneggiatura di Etan Cohen ( da non confondere con Ethan dei due Coen, con Joel), uno dei più capaci. In effetti gli spunti narrativi nuovi sono numerosi. C’è un antefatto che riguarda  Alex: e siamo nettamente in zona “Re Leone”, con il cattivo fratello del re, che nel suo untuoso, vigliacco ma improvvido congiurare, risulta tra i più riusciti personaggi. Del capolavoro del 94, l’intuizione più profonda è dello spazio visuale della Savana: esso ha una caratterizzazione scenografica che fa da cornice espressiva a tutte le sotto storie del film, e nastro trasportatore con cui viaggiare nella nostra fantasia. In questo respiro narrativo, il personaggio di Alex ha un’ulteriore caratterizzazione: in effetti è un “giovane” emigrante che, catturato fuori della riserva, portato ed “educato” a New York, si esprime facendo spettacoli, al contrario di ciò che è la realtà dell’Africa: anche se vivono all’interno di una riserva, quindi anch’essi protetti. C’è spazio in più per i pinguini: essi diventano un collettivo irresistibile di tutto rispetto, anche quando s’interfacciano con le scimmie-sindacaliste. Se pure l’ispirazione lontana sono i disneyani Qui Quo Qua, si vede più distintamente  il ”passaggio” verso i grandi disegnatori Tex Avery e Chuck Jones (quelli di Bug’s Bunny e famiglia). L’ispirazione che viene da loro non è solo nel tipo di cromatismo adottato, ricco, ma più marcatamente definito; ma nella caratterizzazione, più sul cattivo e grottesco, che sulla beatificazione familistica. Folle, ancora più apertamente, “gratuitamente”, cioè senza nessuna spiegazione aggiunta, è la figura del re dei Lemuri: egli coinvolge i creduloni abitanti in un rito che ha l’aspetto di una grande kermesse, ritratta con felice senso della coreografia: non però quella ordinata della Disney, bensì vitalmente incasinata. Anche gli adulti di New York, capitanati dalla terribile vecchietta karateka, presente in accenno nel primo, hanno uno sviluppo: essi, in nome della sopravvivenza rambesca nella natura, alterano gravemente  l’equilibrio ambientale: sono una minaccia per la sopravvivenza dell’intera fauna, ed è una metafora su cui riflettere.

                              NATALE. UNA FANTASIA IN RACCONTO.

    Genny si aggirava per le vie dello shopping natalizio. Le solite, qui a Napoli. Ma il suo occhio non era il solito. Il suo cuore non era il solito. Ricordava l’anno passato, che, in fondo non era diverso dagli altri precedenti: più luci, più allegria; soprattutto più serenità e soldi da spendere per sé. Però Benni glielo aveva detto… ‘Ah ste donne’, pensava, ricomponendo nella fantasia il volto di sua moglie mentre parlava, e scherzando, ma non troppo, proprio a primavera, le diceva.: “Embé, a me m’pare che si sta appriparann’ a’ tempesta, cu’ l’economia…”. “Ma che stai dicenno?!”, le rispondeva, “Io song’ ingegnere alla ricerca con la Motorola: tu stuort’o muort’ l’anno scolastico l’e’ fatto….”. “Si, ma stu Governo lo vedo traballante… Prodi o’ fann’ carè..E si car’ ven’ O’Cavaliere…E poi, ma nun e’ liegg’ e’giurnal’?…l’aumento del petrolio vuol dire che si sta preparando una bolla speculativa, che da qualche parte scoppierà: e nun sapimm’ dove…Questo m’ fa paura..”. “Ma che ne sai tu?”. “Uhè bello i’ song’ economista, senza commercio, aggiungeva ridendo, e sti cose e’ spieg’e’ guagliun’ a scola…”:. “E capisc’no assaie se continui a parlare in dialetto, qui a Turìn..…” , sbottava ridendo, mentre prendeva la bambina, una volta per uno per portarla, all’asilo nido vicino casa.”Scemo! io in classe toscaneggio…”, lo salutava ridendo. E quell’eco, una risata fresca, pura come un ruscello, restava nella sua fantasia anche dopo che era in strada, in auto e in mezzo al traffico con la bambina accanto…Ma questo era l’anno scorso. Ora, ora invece, stava a casa dei suoceri: ‘un prolungamento delle vacanze’, aveva detto alle maestre dell’asilo: ma era perché potevano risparmiare qualcosa, andare i giro per mercatini, che erano con i prezzi più bassi e più vari di quelli di Torino. E poi dovevano decidere cosa fare della casa col mutuo, ormai troppo alto, dopo la perdita del suo posto per la chiusura del Centro di Ricerche Motorola, e il fatto che lei a scuola, aveva fatto nemmeno un mese di supplenza fino a dicembre. Avevano bisogno, come dei ragazzini, dell’aiuto di papà e mammà, da tutte e due le parti, per rivendere e riacquistare, magari una casetta più piccola, più in periferia…Ma preferiva non pensarci; ‘se ne parla dopo Natale’ aveva detto, ‘ora godiamoci questi giorni di tregua e di finta tranquillità’. Già: ma lui sapeva che era davvero finta, ‘sta tranquillità’. Però un’ombra di sorriso lo stava sfiorando mentalmente, perché, su una grossa bancarella al mercatino di Antignano aveva comprato un libro, dalla bella copertina allegra, colorata, che faceva presa in mezzo a tutta la paccottiglia, anche se il titolo non era del tutto rassicurante, “Sopravvivere alla crisi economica. L’amore e la famiglia come antidoto” di Gabrièl Graciàs Marcòs,  edizioni Feltrinazzi, seminuovo, 5 euri. ‘Allievo di Subiràn’, lo definiva la pagina di risvolto di copertina, un ‘saggio dei due mondi’, come Garibaldi: ma quello era ‘l’Eroe’ dei due mondi. Poi l’autore dal nome strano: sospettava Genny che fosse fasullo, magari era un napoletano dei Vergini, che aveva preso lo spunto da  Marquez. ‘Mah , vai a sape’…’. Ma lui l’aveva preso per via del titolo: parlava di crisi  ma esprimeva qualcosa cui da tempo stava pensando. Che se non era per la l’energia di sua moglie, e della chiarezza con cui affrontava le cose, lui sarebbe stato molto peggio. La sua Benni, Benedetta davvero…, la gravidanza l’aveva ingrassata, un po’, ma l’aveva resa più vicina a lui, ‘come più calda’ , più accogliente: ma più decisa e calma nelle cose che diceva. Lui stava piangendo quasi, quando le aveva esposto il progetto di passare le vacanze a casa, e tutto il resto: si sentiva umiliato, di tornare a ‘quann’era guaglione’ a chiedere soldi. Ma anche lei aveva pensato una cosa simile, e gliel’aveva detto guardandolo fisso e ferma negli occhi, tenendogli le mani. Lui si ricorda perfettamente che quelle lagrime che stavano arrivando, si erano trasformate da lagrime di umiliazione, in lagrime di tenerezza e di comprensione, verso di lei. Si abbracciarono e fecero l’amore: si sentirono come fusi in unica ondata di affetto e di intimità, veramente  felici. Entrò in casa col sorriso, al ricordo di quella serata, che gli stava ancora stampato sulla faccia, lo illuminava: sembrava un ebete. Benni l’aveva visto e l’impressione da tirata, si distese in un’aria rilassata. “Perché ridi?”. “No non stavo ridendo…”. “Ma che dici? Stai rirenn’ comm’ nu’ criatur’..”.Genny si divertiva a sentirla passare dall’italiano corretto a frasi in napoletano, soprattutto con lui. “Ti ho fatto un pensierino. Non è il regalo di Natale: quello lo vedrai sotto l’albero…”. “Ah, si anche io te ne ho fatto uno: tu e la bambina dormivate e sono scesa a fare un po’ di spesa con mamma”. Entrarono nella stanza da letto: e contemporaneamente tolsero la carta intorno ai due pacchetti natalizi. Si guardarono sorpresi, ma non tanto, e scoppiarono a ridere, insieme e fino alle lagrime: il libro era lo stesso.   

 

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