CENTINAIA DI CASETTE di bambù con tetti
di foglie di teak abbarbicate sulle colline: la vista dalla strada -
quella che arriva quassù dalla cittadina di Mae Sot dopo 60 km di
percorso tortuoso nella foresta - fa pensare a villaggi di campagna che
vivono in armonia con la natura. Ma basta avvicinarsi un po’ e
raggiungere il cancello sbarrato presidiato da uomini in divisa per
capire subito che la prima impressione era stata ingannevole. Il grande
cartello davanti all’ingresso informa i visitatori che sono arrivati di
fronte all’«Area di rifugio temporaneo» di Mae La: una dicitura che
suona crudelmente ironica, se si pensa che qualcuno non mette piede
fuori da qui ormai da quindici o vent’anni.
Benvenuti nel più grande campo per rifugiati birmani al confine tra la
Thailandia e il Myanmar, dove quasi 50 mila persone di etnia karen
vivono rinchiuse come animali in gabbia. Uomini e donne, vecchi e
bambini. I nove centri che costellano questo lembo di terra accolgono
almeno 150 mila sfollati, mentre i rifugiati della ex Birmania che
vivono illegalmente nella zona ammontano - secondo stime ufficiose - a
un milione e mezzo. Sono i profughi di quella che è stata definita la
più lunga guerra civile attualmente in corso nel mondo.
I karen sono la minoranza etnica più numerosa in Myan mar (cinque
milioni, quasi il 10 per cento della popolazione) e quella più
ferocemente perseguitata dalla giunta militare al potere, che da quasi
sessant’anni reprime, oltre all’opposizione democratica, anche la
ribellione delle comunità etniche, tra cui i mon e gli shan. Proprio
perché fieri delle proprie tradizioni e della propria lingua - e dotati
di un nutrito esercito di liberazione nazionale -, i karen rappresentano
il nemico numero uno del regime, da cui subiscono regolarmente la
distruzione di interi villaggi, deportazioni di massa e spesso la
sottomissione ai lavori forzati. Una persecuzione che ha anche ragioni
economiche, se è vero che forti interessi legati allo Stato karen (in
particolare alla costruzione di alcune dighe sul fiume Salween) spingono
la giunta a prendere il controllo del territorio con l’uso della forza,
senza alcuno scrupolo: sono migliaia - tra le tante forme di abuso
registrate - i casi di stupri utilizzati come arma di guerra documentati
dalle organizzazioni per i diritti umani.
E SE MEZZO MILIONE di karen vivono, in condizioni disumane, come
profughi interni nascosti nella giungla nell’est del Paese, a migliaia
cercano la salvezza al di là del confine thailandese. E finiscono in
campi come questo, che esiste ormai da 25 anni. Situato a circa quattro
km dalla frontiera birmana, nel 1997 è stato attaccato dall’esercito del
Myanmar, ma da allora vive una situazione di relativa tranquillità,
anche se la tensione si alza periodicamente, in particolare durante la
stagione secca, quando i militari preferiscono condurre le loro
operazioni. Sempre meglio, comunque, delle persecuzioni intensificatesi
negli ultimi tre anni: dal 2005, a Mae La, si calcola che gli arrivi
siano stati 9 mila all’anno.
Varcare il cancello del campo è come entrare in un labirinto polveroso,
fatto di viuzze dove i bambini giocano a piedi nudi e gli adulti si
aggirano senza niente da fare. Bimbe con il volto dipinto di thanaka -
la tipica polvere vegetale usata dai birmani come protezione solare e
come decorazione - ridono tra le tradizionali casette di legno
sopraelevate che fungono da abitazioni e scuole, centri sanitari e
negozietti di fortuna dove sono esposti in bella mostra saponette e
sigari birmani, candele, qualche uovo, frutta secca. Ma la vita, al
campo, è dura. Non c’è elettricità né acqua corrente: al mattino le
lunghe file di persone che, cariche di bottiglie e taniche, si
assicurano le scorte quotidiane per lavarsi e cucinare sono una scena
abituale. E procurarsi qualche soldo per sopravvivere è un’impresa quasi
impossibile. Perché quella da rifugiato è una vita in cattività.
«Noi profughi non siamo autorizzati a uscire dal campo per lavorare, ma
qui dentro non c’è occupazione: che cosa dovremmo fare?». A raccontare
l’ordinaria, assurda, epopea degli ospiti di Mae La è Saw Htun Htun,
segretario aggiunto del Comitato del campo che gestisce la vita «dentro
il recinto». Giovane professore di matematica in patria, nello Stato
Karen, Htun Htun lasciò il Paese in fuga dalla miseria e dai soprusi
della giunta nel 1990: da diciott’anni è chiuso a Mae La. «Molti di noi,
in realtà, escono lo stesso clandestinamente per poter lavorare.
Qualcuno scompare, molti tornano a sera o nel fine settimana, perché per
trovare lavoro bisogna andare di solito fino a Mae Sot». In questa
cittadina di confine, nota per il contrabbando e l’illegalità diffusa, i
rifugiati karen finiscono impiegati, in condizioni di- ¬sumane e spesso
sottoposti ad abusi, nei cantieri edili o nelle numerosissime fabbriche
di abbigliamento (che di solito producono per l’esportazione). Per i più
giovani, poi, c’è sempre spazio nel fiorente business dei bordelli.
Alternative, purtroppo, ce ne sono ben poche. «Recentemente l’Alto
commissariato Onu per i rifugiati ha finanziato un progetto di
formazione agricola per ottanta famiglie… Ma qui le famiglie sono più di
diecimila!», racconta ancora Htun Htun.
A cercare di alleviare le condizioni di vita nei campi profughi sul
confine sono varie Ong internazionali, riunite nel Thailand Burma Border
Consortium. Sono loro ad occuparsi di fornire agli ospiti cibo,
assistenza medica, interventi di utilità sociale. E - cosa forse ancora
più importante - a tenere aperte le scuole, di solito
garantendo un seppur minimo stipendio ai professori che sono a loro
volta rifugiati.
A MAE LA ESISTONO decine di scuole materne ed elementari, alcune
medie e anche superiori: qui studiano, in una cinquantina di strutture
in tutto, quattordicimila bambini e giovani fino ai 17 anni. Per quanto
possa sembrare incredibile, ci sono famiglie karen che, dal Myanmar,
mandano i figli fino a qui anche per permettere loro di ottenere
un’istruzione, visto che per molti questa - con tutti i limiti
organizzativi del caso - rappresenta l’unica opportunità di andare a
scuola senza dover pagare.
«Resto a lezione dalle nove di mattina alle quattro del pomeriggio»,
racconta Ko Kyaw, giovanissima ospite di Mae La. «La scuola mi piace,
anche perché mi permette di combattere la noia e di non pensare troppo
alla mia situazione. Al campo non c’è molto da fare: chiacchiero con i
miei amici, aiuto la mamma con i lavori di casa, leggo e qualche volta
vedo i film che vengono proiettati in una sala qui vicino. Di sera però
studio sempre, per poter avere qualche opportunità, un giorno». Chissà
se le speranze di Ko Kyaw resisteranno alla prova dei fatti. I diplomi
ottenuti al centro d’accoglienza sono poco più che carta straccia.
«Vorremmo che le scuole fossero riconosciute dal governo thailandese, ma
finora non è stato possibile perché le lezioni sono in lingua karen
e in inglese, ecco perché intendiamo inserire l’uso del thai»,
spiega Saw Htun Htun. E se le opportunità di formazione professionale
esistono - attualmente la Ong olandese Zoa propone corsi in ben sette
campi: agricoltura, meccanica, cucina e pasticceria, cucito, artigianato
e computer - sono pochissimi i giovani che scelgono di frequentarli.
«Sanno che qui non potranno mettere in pratica quasi nulla di ciò che
imparano: la loro frustrazione è comprensibile. Se almeno l’Acnur
accettasse di riconoscere, come noi abbiamo chiesto, i percorsi
formativi, qualcosa potrebbe cambiare, almeno in prospettiva».
La «prospettiva» di cui parla Htun Htun - e a cui qui dentro anelano
quasi tutti - è quella di lasciare Mae La per iniziare una vita vera. Ma
si tratta nella maggior parte dei casi di una chimera, che si allontana
sempre di più da quando il governo thailandese - preoccupato
dell’«invasione» dei karen provenienti dal vicino Myanmar in fiamme - ha
bloccato per queste persone il riconoscimento dello status di rifugiati.
Una situazione che aggiunge dramma al dramma: le ultime famiglie
arrivate, infatti, non possono essere registrate legalmente e si
trasformano automaticamente in ospiti fantasma. E - quel che è più grave
- non possono sperare di essere incluse nelle quote di immigrati karen
accettate annualmente dagli Stati Uniti grazie a un progetto di
accoglienza che va avanti da alcuni anni. L’ospitalità negli Usa
rappresenta per i rifugiati un’opportunità d’oro: circa la metà degli
abitanti di Mae La ha fatto richiesta di partire. Molte famiglie hanno
già qualche parente oltreoceano e puntano al ricongiungimento: sono
decine di migliaia le persone che negli ultimi tre anni hanno raggiunto
l’America, mentre altre sono state accolte dall’Au¬stralia.
Per molte altre migliaia ancora, però, le speranze di varcare la soglia
del campo e lasciare questo rifugio-prigione una volta per tutte sono
quasi inesistenti. Resistere alla mancanza di prospettive, alla
depressione, alla noia è difficile. In tanti trovano conforto nella
fede: cristiana o buddhista (in egual misura) e in rari casi islamica.
Al campo esistono chiese, templi e moschee: si tratta delle stesse
casette di legno con i tetti di foglie che da queste parti sono ovunque
e distinguere dall’esterno i luoghi di culto delle diverse religioni è
arduo. Ma l’essenziale, per chi vive qui, è avere un posto in cui
pregare «Colui che è il rifugio per chi non ha casa». L’aiuto, poi,
arriva anche attraverso gli uomini, come i volontari della Coerr, la
Commissione cattolica per gli interventi d’emergenza e i rifugiati,
emanazione della Chiesa thailandese. Fra i progetti dell’organizzazione,
che si occupa di igiene, istruzione, agricoltura ma anche
riconciliazione interetnica, figura l’assistenza a oltre duemila orfani
sparsi nei nove centri di accoglienza della zona.
Per molti, tuttavia, una vita vuota e apparentemente senza sbocchi è
troppo dura da sopportare: il tasso di alcolismo, tra i profughi, è
altissimo. E l’abuso di sostanze va di pari passo con la violenza nelle
famiglie. Un’emergenza talmente scottante che alcune comunità di base
presenti nel campo hanno creato «Case sicure» dove è possibile trovare
riparo alle violenze domestiche. Ma come si può mantenere l’ordine in un
luogo dove decine di migliaia di uomini, donne e bambini vivono
ammassati in uno spazio ristretto e in condizioni estreme? «Il Comitato
del campo ha un’organizzazione che si occupa della sicurezza interna»,
spiega Saw Htun Htun. «Esiste un Centro di assistenza legale che ci
supporta nella gestione delle strutture di detenzione. Solo per i casi
più gravi interviene la polizia thailandese, ma l’autogestione dà buoni
risultati: il clima qui è tutto sommato tranquillo». Certo non basta per
affermare che in questo surreale mondo a parte si stia bene.
NON CI CREDONO nemmeno quelle migliaia di ragazzini che qua dentro sono
nati, e che non hanno mai visto nessun altro posto in tutta la loro
vita. Persino loro sanno che non avranno un’esistenza degna di questo
nome finché non potranno finalmente lasciare l’«area di rifugio
temporaneo» di Mae La, per ricominciare una nuova vita di fuori. Magari
qui in Thailandia, accolti come rifugiati ufficiali e cittadini in piena
regola, o in qualche angolo di mondo che deciderà di concedere loro
asilo.
O forse, un giorno, nella loro terra d’origine: in quella Birmania
martoriata che resiste e non smette di lottare per la democrazia e la
libertà.
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