Medicina e cosmesi nella poesia ovidiana (abstract)

Relazione della professoressa Maria Grazia IODICE

(docente dell'Università di Roma « La Sapienza»)

Dovendo trattare di medicina e cosmesi nella poesia ovidiana, non le fonderò insieme, come pure si potrebbe,  ma tratterò prima della medicina e poi della cosmesi in Ovidio.

E, per quanto riguarda la medicina, esaminerò soprattutto i Remedia amoris e le opere dell’esilio.

Potrà sembrare strano che si parli di medicina (in senso più letterario, s’intende,che non prettamente scientifico) in un’opera del ciclo “erotico” di Ovidio, invece è proprio così, se si pensa che nei Remedia il Poeta, prefiggendosi di aiutare a guarire gli amanti dal mal d’amore, finisce per evocare spessissimo i sintomi della malattia  e per sfoderare tutta una serie di rimedi che hanno stretta attinenza con la scienza medica[1]. Infatti, a ben vedere, i Remedia non sono altro che un prontuario terapeutico ad uso degli innamorati delusi che desiderino guarire dalle ferite d’amore

Ovidio stesso lo fa intendere nella parte introduttiva dell’operetta quando, nella canonica invocazione al dio della poesia, Apollo, ricorda anche l’altra specifica qualità del dio, quella di inventore della medicina (vv.75-8)[2]

Nei vv.43-4 i termini sanari e vulnus pertengono direttamente al campo medico, così come pertiene  al campo medico il primo consiglio che Ovidio propina ai giovani ingannati che vogliono guarire, cioè quello di  “schiacciare sul nascere il germe nocivo del male repentino” (v.81).

Ai vv.91-2 egli consiglia infatti di pensare ai rimedi subito, quando il “male” non ha ancora preso il sopravvento.

Comunque il Poeta vuole dare dei consigli anche ai malati ormai attardati nella loro malattia (vv.109-10) : l’innamorato potrà usufruire dei remedia nella fase iniziale e in quella finale del suo amore, ma non certo nella fase acuta  (vv.117-20).

Il  Poeta-guaritore  è infatti consapevole che ogni medicina deve essere data al tempo giusto, quando il malato è pronto a riceverla (vv.125-26), perché

                             Temporis ars medicina fere est[3]: data tempora prosunt

                               et data non apto tempore vina nocent.

                             Quin etiam accendas vitia inritesque vetando,

                                temporibus si non adgrediare suis. (vv.131-34)

Una volta stabiliti i tempi, il Poeta comincia ad illustrare i modi per scacciare l’amore.

In primo luogo consiglia di evitare l’ozio, che “è causa e alimento di questo dolce male” (v.138):

                            Venus otia amat : qui finem quaeris amoris

                       ( cedit amor rebus) res age, tutus eris. (v.143-44)

E l’ozio potrà essere scacciato andando nei tribunali (vv.151-52), o dandosi alla guerra (vv.153-57),    o ai lavori e ai piaceri della campagna e del giardinaggio (vv.169-98), alla caccia di fiere (vv.199-206) o di uccelli e pesci (vv.207- 10). Fanno bene anche i lunghi viaggi (vv. 213-24).

A questo punto Ovidio fa una precisazione importante per i suoi tempi (ma forse non inutile anche ai tempi nostri ), dichiara cioè di non credere affatto ai rimedi delle arti magiche, costituiti da venefici   o sortilegi  (vv.249-90).

Per tentare di guarire i malati d’amore Ovidio fa anche appello alle armi psicologiche, consigliando i suoi “pazienti” di concentrarsi sui torti e sui difetti dell’amata per disamorarsene (vv.299-300).

Comincia qui un lungo, godibilissimo brano in cui il Nostro enumera i possibili difetti fisici delle donne, veri o presunti (vv.301- 24)[4], o spinge l’innamorato che vuol guarire a volgere in peggio le doti dell’amica (vv.325-40)[5], o anche a presentarsi da lei quando non sarà ancora pronta e imbellettata (vv.341- 50) per disgustarsene.

 Anche il momento del trucco, aggiunge Ovidio, può essere una provvida occasione di disgusto, tra svariati vasetti, intrugli  e creme puzzolenti (vv.351-56). “Forse qualcuno dirà questi suggerimenti di poco conto”, osserva Ovidio (v.419), ma, aggiunge:  “ i rimedi, inefficaci singolarmente, giovano nel loro insieme” (v.420).

Ai vv.613-42 consiglia saggiamente ma drasticamente di evitare i contagi : se si vuole dimenticare una donna, è meglio evitare di incontrare lei (e tutto il suo entourage): non si sa mai, la fiamma potrebbe riaccendersi …

Dopo tanti consigli, spontanea è quindi l’apostrofe a Febo-Apollo che prorompe ai vv.703-6, seguìta dalla teofania del dio.

Giunti alla fine dell’operetta noi lettori possiamo concludere che Ovidio è stato un medico-maestro perfetto, provvido di consigli e suggerimenti, per cui solo chi non volesse veramente guarire, dopo averlo letto, persisterebbe nella sua malattia.

 

E veniamo ora alla poesia dell’esilio di Ovidio, rappresentata principalmente da Tristia ed Epistulae ex Ponto. Queste due opere, come del resto tutta la poesia del Sulmonese, sono state oggetto di scarsa simpatia da parte di molti studiosi per buona parte del ‘900. Basti pensare a Ettore Paratore che, nella sua celebre Storia della letteratura latina, in un inquadramento generale di poca comprensione per il Poeta, a proposito delle elegie dell’esilio dice che “nel complesso i nove libri sono una continua, stucchevole, ininterrotta querimonia,contaminata dalle adulazioni più smaccate per i propri persecutori…Non gli si dà colpa di non aver saputo irrigidirsi contro la sciagura, ma di non aver saputo evitare queste pubbliche, poco dignitose lamentele.”[6]  Ma negli ultimi decenni del ‘900 stesso, e, paradossalmente, proprio grazie allo stesso Paratore[7], c’è stato un grosso risveglio di interesse per l’opera ovidiana che, per l’importanza data all’immagine e al fenomeno della comunicazione, è finita per diventare forse la più consentanea alla nostra società di fine millennio.

E le poesie dell’esilio sono state “riscoperte” come estremamente interessanti dal punto di vista storico, geografico, politico, psicologico…e medico! Infatti , che ne fosse consapevole o no, attraverso queste elegie dell’esilio O. ci ha offerto un quadro preciso e a tutto tondo dell’ammalato di una sindrome ansioso-depressiva. Innumerevoli sono i passi che suffragano questa lettura, né potrei enumerarli tutti. Riporto, come tra i più significativi, quello di Tristia III,8,25-34:

                                   Seu vitiant artus aegrae contagia mentis,

                                       sive mei causa est in regione mali,

                                   ut tetigi Pontum, vexant insomnia , vixque

                                      ossa tegit macies nec iuvat ora cibus;

                                   quique per autumnum percussis frigore primo

                                      est color in foliis, quae nova laesit hiems,

                                   is mea membra tenet, nec viribus allevor ullis,

                                      et numquam queruli causa doloris abest.

                                   Nec melius valeo, quam corpore, mente, sed aegra est

                                      utraque pars aeque binaque damna fero.

Sia che la malattia del mio cuore affranto si propaghi alle membra, / sia che la causa del male risieda nel luogo,/ da quando ho toccato il Mar Nero i miei sonni sono agitati, a malapena / la pelle rinsecchita copre le mie ossa, nessun cibo mi mette appetito; /e quel colore che in autunno è nelle foglie, colpite/ dai primi freddi e offese dall’incipiente inverno, / quello stesso colore si stende sul mio corpo,  né mi solleva alcun rimedio / e non mi manca mai una ragione per lamentarmi e soffrire./ Né sto meglio nella mente che nel corpo, ma mente e corpo sono ugualmente malati/ ed io soffro una doppia infermità

E ricopre le ossa./ Ma la mente è ancora più malata del corpo malato e, senza tregua,/ è ferma nella considerazione della propria sventura.

Toccanti descrizioni del suo precario stato di salute fisica e mentale si trovano anche in Tristia IV,6,39-44, in Ex P. I,10,1-28, e in molte altre elegie dell’esilio. In esse, pur non potendosi certo negare gli intenti di rappresentazione artistico-letteraria da parte sua, come pure le scontate, enfatiche  esagerazioni ai fini di impietosire l’imperatore o di guadagnare alla causa del suo ritorno la moglie e gli amici rimasti in patria, non si possono misconoscere segni evidenti di plausibilità e veridicità. Per cui siamo portati a credere al Poeta quando, in Ex P.III,9,49 dice:

                                  Musa mea est index nimium quoque vera malorum [8]

Ovidio d’altra parte sapeva che l’unico rimedio vero alla sua relegazione, data l’inflessibilità dell’imperatore, era per lui quello della Poesia, alla quale si rivolge così, nel corso di Tristia IV,10, la sua elegia autobiografica:

                                      Ergo quod vivo durisque laboribus obsto,

                                                nec me sollicitae taedia lucis habent,

                                        gratia, Musa, tibi: nam tu solacia praebes,

                                                tu curae requies, tu medicina venis.[9](vv.115-18)

 

Se dunque vivo ancora e resisto alle dure fatiche/ e non ho disgusto della mia vita travagliata /  grazie a te,o Musa: infatti tu mi porgi sollievo,/ tu vieni come mio riposo negli affanni e medicina dei miei mali.

 

Una cosa che colpisce, in tutte queste elegie dell’esilio connotate dall’elemento medico, è la grande attitudine di Ovidio all’autoascultazione, per cui possiamo ben dire che a Tomi, o per naturale attitudine o per mancanza di medici in cui potesse riporre fiducia, o per mancanza di medici tout court, egli ha messo del tutto in pratica il famoso, antico detto medice cura te ipsum. In una sua elegia egli stesso dice:

                                            sed sum quam medico notior ipse mihi (Ex P.I,3,92)

                                               ma mi conosco meglio di quanto mi conosca il medico

 

In una produzione poetica come quella ovidiana del primo periodo, tutta incentrata sull’arte della seduzione, non poteva mancare un ampio spazio  dedicato alla cosmesi.

Il Nostro parla di cosmesi femminile nel l.III dell’Ars Amatoria, quello dedicato alle donne, ove si consiglia loro il modo per accendere e conservare l’interesse degli uomini, anche attraverso la cura della persona.

Si comincia dalla cura dei capelli (vv.133 e ss.) che devono essere sempre in ordine e che, ovviamente, dice Ovidio, ognuna deve adattare al proprio viso (vv.135-6), per cui: un ovale allungato richiede una scriminatura senza orpelli (vv.137-38), un viso rotondo richiede sia lasciato al sommo della fronte un minuscolo nodo di capelli (vv.139-40), qualcuna lascerà ricadere i capelli sulle spalle (vv.141-42), qualcuna li legherà all’indietro (vv.143-44); qualcuna metterà pettini di tartaruga (v.147), qualcun’altra porterà ciocche ondulate come le onde del mare (v.148); e, contraddicendo a quello che aveva detto poco prima, Ovidio afferma poi che anche una chioma trascurata sta bene a molte donne (vv.153-54). Il Poeta invidia un po’ le donne perché non tendono alla calvizie come gli uomini (vv.159-62), ma si tingono i capelli e comprano parrucche (vv.163-8) [è questa una piccola differenza con i tempi nostri, laddove sappiamo che anche gli uomini ora ricorrono abbondantemente alla cosmetica e a questi accorgimenti].

La donna ovidiana non manda odore di caprone sotto le ascelle (v.193); non ha le gambe irte di duri peli (v.194), corregge il colorito del viso troppo acceso o troppe esangue (vv.199-200), riempie lo spazio  tra i sopraccigli e sottolinea gli occhi con cenere o croco, cioè con colore grigio e marrone chiaro (vv.201-204), ma non deve esporre i vasetti di creme sopra la toilette (vv.209-10) e far conoscere i propri segreti di bellezza (vv.221-27).

Egli, come sappiamo, dedicò espressamente alla cosmesi un trattatello, il Medicamina faciei foeminarum, scritto verosimilmente tra la stesura del II e III libro dell’Ars[10], e purtroppo giuntoci incompiuto (ne restano solo 100 versi). Quel che resta è comunque molto interessante.

Nel lungo proemio dei Medicamina, di 50 versi esatti, Ovidio difende l’importanza del suo argomento come cònsono ai tempi suoi, ormai lontani dall’antica morale quiritaria, tutta semplicità, frugalità e rozzezza.

Nei vv.3-10, caratterizzati dall’anafora della parola iniziale cultus (al v.7 con poliptoto cultus- culta), il Nostro dispiega un bell’elogio, appunto, del cultus (poi ripreso in Ars III,101ss.:Ordior a cultu….)[11]:

 

Fa poi il paragone tra le antiche Sabine, paghe della loro rustica vita in campagna, e le fanciulle del suo tempo, con i capelli profumati e pietre preziose al collo e alle orecchie (vv.17-22).

E riprende un argomento già trattato nell’Ars (I,503-22 e III, 443-6)[12]e che non è certamente estraneo a noi lettori moderni--- laddove dice che ora anche gli uomini tengono molto al loro aspetto (23-5).

La modernità di Ovidio rifulge anche là dove dice che:

                                  est etiam placuisse sibi quaecumque voluptas  (v.31)

 

Come già nei Remedia (vv.249-90,vedi supra ), Ovidio dice di non riporre alcuna fiducia nella magia e in alcune pratiche oscure vòlte a conservare la bellezza, piuttosto ha più fiducia nell’attrattiva costituita dal buon carattere e dal buon comportamento:

 

                                Prima sit in vobis morum tutela, puellae:

                                  ingenio facies conciliante placet.

                               Certus amor morum est; formam populabitur aetas,

                                  et placitus rugis vultus aratus erit;

                               tempus erit, quo vos speculum vidisse pigebit

                                  et veniet rugis altera causa dolor.

                               Sufficit et longum  probitas perdurat in aevum,

                                 perque suos annos hinc bene pendet amor.(vv.43-50)

 

Può sembrare strano che Ovidio sottolinei la caducità della bellezza esteriore rispetto a quella dei costumi in un’opera tutta dedicata alla bellezza, ma ciò si spiega pensando che quello era un motivo topico dell’elegia latina[13], ed egli non vi si sottrae perché, come dice Rosati a proposito dei vv.43-50, “egli deve bilanciare l’audacia della sua operazione, [cioè] dell’esaltazione della cosmesi, fugando i sospetti e le possibili accuse di insegnare un’arte cortigiana, un’arte moralmente eversiva: con il richiamo finale alla probitas, ponendola a fondamento della relazione d’amore, Ovidio mira a mostrare l’assimibilità del cultus e delle pratiche cosmetiche nella vita sociale, senza guasti per il sistema etico tradizionale”.[14]

E infine, negli ultimi 50 versi, il Nostro ammannisce diligentemente quattro ricette utili ad esaltare la luminosità della pelle del volto, ricette che a noi moderni appaiono un po’ buffe, basate come sono su erbe, fiori, elementi naturali, ma anche molto attuali, perché possono rientrare facilmente, per larga parte, nel campo, oggi molto di moda, dell’erboristeria

Leggendo queste ricette possiamo dire che le notazioni di Ovidio in questo campo, siano esse dell’Ars o dei Medicamina, stanno degnamente alla base di quella estetica e di quella cosmetica corporea che ai giorni nostri stanno vivendo una stagione di affermazione e diffusione di massa senza precedenti.

 


[1] Concordano in pieno su questa lettura sia C.Lazzarini nella Nota introduttiva  e nel commento di Ovidio/ Rimedi…cit., e sia P.PINOTTI, Remedia amoris,introd.,testo e commento a cura di P.P., Bologna 1988, Pàtron Editore. Entrambe ricordano che, per quanto attiene l’elemento “medico” nei Remedia Ovidio può essere stato influenzato dai Theriakà e Alexiphàrmaka di Nicandro di Colofone ( sec.III a.C.), oltre che dal Therapeutikòs dello stoico Crisippo (sec. III a.C.) che, come testimonia Cicerone in Tusc.4,73 ,voleva curare anche i mali dell’anima.

[2] La Pinotti (op.cit.,p.16) ci ricorda  che il Giuramento di Ippocrate si apriva  nel nome di Apollo iatròs, medico.

[3] Acquista qui il sapore e la pregnanza di una massima – marcata dalle cesure tritemimera e eftemimera-- questo antico precetto medico dell’opportunità dei tempi terapeutici, opportunità che rientra nell’ideale del kairòs sotteso a tutta la trattazione dei Remedia. Anche nel Corpus Hippocraticum si dava molta importanza a propinare le medicine a tempo opportuno …

[4] Per descrivere i difetti fisici delle donne egli chiaramente si ispira ad Orazio (sat.I,2 e 3) e a Lucrezio (IV, 1145 ss.).

[5] Da notare che nell’Ars Amatoria O., sviluppando in senso opposto queste argomentazioni dei Remedia, consigliava agli innamorati di minimizzare i difetti dell’amica per ingraziarsela (Ars II,641-80) e alle donne di celare il loro difetti (Ars  III, 261-310) per piacere agli uomini.

[6] E.PARATORE,Storia della letteratura latina, Firenze 1961, Sansoni Editore, p.499. Il giudizio rimane immutato anche nell’ultima edizione riveduta e accresciuta  dell’opera, Firenze 1986,Sansoni Editore,p.491.

[7] E.Paratore, infatti, si è fatto promotore del I Congresso Internazionale Ovidiano, tenutosi a Sulmona nel 1958 (i cui Atti sono stati pubblicati a Roma nel 1959) che, insieme a Ovidiana/ Recherches sur Ovide,publièes a l’occasion du bimillenaire de la naissance du poète, par N.I.Herescu, Paris, Société d’edition “Les Belles Lettres” 1958 (cui ha partecipato lo stesso Paratore) e a Ovidianum/Acta conventus omnium gentium Ovidianis studiis fovendis, cur.N.Barbu,E.Dobroiu,M.Nasta,Bucarest 1976, hanno segnato la vigorosa ripresa di interesse e di studi su Ovidio, divenuti ormai inarrestabili.

[8] Prende spunto da questo verso il titolo di E.MALASPINA, Nimia veritas/ Il vissuto quotidiano negli scritti esilici di Ovidio, Romae- In aedibus “Herder”,a. MCMXCV, dove l’autrice asserisce essere stato l’esilio l’unica occasione còlta dal Nostro per dire cose vere e “vissute”, e non giocose finzioni.

[9] Cfr.Trist.V,1,33-4, e passim.Sull’argomento si veda anche il mio scritto Ovidio e la Poesia,”Rivista di Cultura Classica e Medievale”23,1981,pp.63-108.

[10] Ce lo dice Ovidio stesso in Ars III, 205-8: Est mihi , quo dixi vestrae medicamina formae,/ parvus, sed cura grande,libellus,opus: / hinc quoque praesidium laesae petitote figurae; / non est pro vestris ars mea rebus iners.

[11] Elogio del cultus anche in Ars 3,113 ss. Cultus è, secondo me, una parola fondante della civiltà latina, e quindi della civiltà occidentale in genere. Dovrebbe essere didatticamente valorizzata mettendone in risalto la polisemia per cui si può parlare di cultus come “coltivazione” a proposito dei campi, degli studi, della persona, e, infine, nella religione latino-cristiana, dei santi.

[12] Il lungo squarcio di Ars I,505-22 dedicato alla toilette maschile è gustosissimo, e merita quindi di essere letto.

[13] Cfr. Hor.carm.I,25 ; IV,10 e 13; Tibull.I,8,41 ss.; Prop.III,25,31 ss..

[14] G.Rosati, op.cit.,pp.71-2.


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