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Vitruvio, la vita e l’opera
(tratto da Vitruvio, Architettura, introduzione di Stefano Maggi), Bur 2002
L’autore dell’unico trattato di architettura pervenutoci dall’antichità
risulta a tutt’oggi avvolto da non pochi dubbi e incertezze, difficili da
sciogliere, riguardanti aspetti anche macroscopici della sua figura, quali
l’origine geografica o la cronologia della sua attività.
Gli studi più recenti hanno, però, enormemente contribuito a far luce
sull’ambiente in cui Vitruvio ha operato, sulla natura della sua opera,
sulla sua personalità di architetto.
Prima di entrare nel vivo della questione, allora, pare utile un breve
excursus sulla figura dell’architetto nel mondo antico (fino all’epoca di
Vitruvio - e oltre).
Architetto: il termine latino, architectus, reca in sé una certa
ambiguità per noi moderni. Oggi sembra stabilita una distinzione (in fondo
non così netta, forse) tra l’architetto, che disegna un edificio, e
l’ingegnere, che dirige e supervisiona l’azione reale del costruire. In
antico, questa distinzione non pare sempre applicabile. Nel mondo romano
architectus era prima e principalmente colui che disegnava l’edificio;
poteva essere - e spesso era chiamato a essere - appaltatore o consulente
nella stipula del contratto, supervisore della costruzione, ispettore,
verificatore dei lavori. Nell’ambito dei lavori pubblici, il campo d’azione
e le funzioni di un architectus erano ancora più ampie: il trattato
vitruviano è in questo senso illuminante, subito a partire dalla prefazione
al libro I, là dove si tratta della formazione dell’architetto.
È forse con Erodoto (III, 5) - stando alla documentazione a nostra
disposizione – che il termine architekton può avere il senso che noi gli
diamo; non sappiamo, invece, quando dall’arcaico e generico tekton
(artigiano che lavora il metallo e il legno) si sia passati all’altrettanto
generico composto, indicante il capo dei tektones. Mansuelli si chiedeva,
giustamente, di quanto la definizione sia stata più recente della funzione,
che intuitivamente sulla base del concetto di organizzazione di cantiere
possiamo ritenere molto antica.
Il termine architekton, comunque, ha corrisposto a un numero di incombenze
tecniche e amministrative cresciute nel tempo, tra le quali anche la
progettazione (che è, invece, la prerogativa dell’architetto contemporaneo).
Il termine latino corrispondente, architectus, semplice traslitterazione dal
greco, compare con Flauto. Nel latino arcaico, privo di grecismi, è
probabile l’uso di termini quali machinator e magister, soprattutto.
Nella terminologia antica è assente una specifica indicazione per
l’urbanista: esso è semplicemente l’architetto che interagisce strettamente
con il politico, cui compete l’effettiva responsabilità della pianificazione
urbanistica.
Nella tradizione arcaica l’urbanista corrisponde al fondatore, all’ecista,
all’«inventore» della città (eroe o personaggio storico che sia).
L’interesse di ciò sta nel concetto sostanziale della primordiale unità
delle attività tecniche, da cui discendono le arti: Dedalo, capostipite di
generazioni di «operatori artistici», è l’eclettico, versatile autore di
statue e del labirinto.
Nel mondo reale, i sardi Rhoikos e Theodoros - Vitr., VII, praef., 12 -
realizzano templi e «labirinti» e fondono il bronzo; il cretese Chersiphron–
Vitr. X, II, 11 – costruisce «macchine» per il trasporto di elementi da
costruzione colossali. Dunque, l’architetto non è solo progettista, ma anche
esecutore e «meccanico». Inoltre, l’architetto arcaico è autore di scritti
sulle opere che egli stesso realizza.
La matrice artigianale è confermata dalle testimonianze scritte circa
l’educazione e la pratica di bottega.
Se è ampiamente documentata la versatilità culturale dell’architetto in
quest’epoca, non altrettanto chiaramente emerge dalle fonti la sua posizione
sociale. Nello pseudoplatonico Amanti, 135 b-c, vi è un esplicito
riferimento alla categoria degli architetti come poco numerosa e
privilegiata. Per l’età classica possediamo il nome di un «urbanista»,
Ippodamos di Mileto, «inventore» – secondo la tradizione – della nemesis,
cioè della divisione interna della città; a questo architetto, filosofo,
meteorologo (Aristotele, Pol., 1267 b 35), gli Ateniesi assegnarono una casa
al Pireo.
Nel IV secolo v’è una certa qual elaborazione della paideia dell’architetto
con Pytheos, come Vitruvio (I, I, 12) ci testimonia: essa deve coprire un
arco enciclopedico, in vista delle infinite implicazioni che la professione
impone. Dunque, la formazione non sembra più possibile nell’ambito della
famiglia e del cantiere: la nuova figura di architetto è quella di un vero
intellettuale.
La filosofia si impadronisce della dottrina della città (Aristotele in
primis). Si consolida il rapporto tra politici e architetti: Vitruvio (II,
VIII, 10-11) attribuisce alla genialità di Mausolo la scelta del sito e i
criteri distributivi di Alicarnasso; sempre Vitruvio (II, praef. 1-4) ci
ricorda come, di fronte alla fantasia progettuale di Deinokrates, Alessandro
Magno ponga realisticamente sul tavolo della discussione le esigenze della
sussistenza di Alessandria.
Con l’ellenismo arriverà una sorta di preparazione universitaria.
Dopo il IV secolo, emerge prepotente la scientificità dell’architettura,
riflessa tra l’altro dall’alto numero di trattati, diligentemente elencati
dallo stesso Vitruvio.
II ruolo intellettuale dell’architetto si completa con un rinnovato
interesse per la matematica, come si evince dal caso di Hermogenes (fine III
- inizi II secolo a.C.); senza, però, che venga meno la polivalenza del
termine (e delle funzioni), in senso anche burocratico-istituzionale, su più
livelli (dai più modesti – la manutenzione delle strade, ad esempio – ai più
alti – come la curatela delle grandi opere pubbliche di carattere sacro).
E a Roma?
Certo un’architettura che possa dirsi romana sembra attualizzarsi ben prima
del «mondo della figura». Nel secondo quarto del II secolo a.C. Antioco IV
di Siria si rivolge a un architetto italico, il cittadino romano P.
Cossutius, per la ripresa dell’Olympieion pisistrateo (secondo forme
esemplari corinzie) nella capitale morale e artistica della grecità, Atene.
Gli sviluppi dell’architettura romana, prima della resezione compatta della
cultura ellenistica, sono legati a sistemi strutturali quali l’arco, la
volta, il conglomerato, di contro al trilitismo e ai materiali nobili dei
Greci; a presupposti empirici e alla pratica di una modesta ingegneria, di
contro alla disciplina dei rapporti di logica matematica dei Greci. Alla
sostanziale invariabilità tecnica di quelli, fa conseguentemente riscontro
la continua possibilità innovativa di questi, per i quali forse il risultato
estetico non era aprioristicamente perseguito, ma casuale (quello della
priorità o meno della ricerca tecnica sull’elaborazione formale è uno dei
grandi temi ancora in discussione). La pratica, dunque, aveva posto basi di
tale importanza da resistere anche alla copertura formale classicista.
Una delle costanti più evidenti dell’architettura romana è rappresentata
dall’associazione polimaterica, che ha forse come punta espressiva massima
la rivoluzione del conglomerato (analoga a quella, moderna, del cemento
arenato), e, più tardi, l’uso esteso del laterizio.
Con l’uso del conglomerato cementizio la struttura dell’edificio risponde a
concetti dinamici e non statici, fondati su rapporti di forze e non
dimensionali, che, nell’adeguamento alla cultura ellenistica, vengono
«regolarizzati» secondo canoni ritmici con gli ordini applicati.
Tutto ciò è detto per identificare i poli di interesse dell’architetto
romano, che dunque presuppongono anche cognizioni di fisica ed esperienza di
reazioni chimiche.
Prima di Vitruvio, sono noti alcuni (numerosi, in percentuale!) nomi di
architetti: C. Mucius, che realizzò per Mario il tempio di Honos et Virtus,
dopo la guerra cimbrica; L. Cornelius, praefectus fabrum di Lutazio Catulo
come console, architetto dello stesso personaggio politico come censore.
Certo, a Roma, avevano operato anche architetti greci: Hermodoros di
Salamina, autore del tempio di Iuppiter Stator per Q. Cecilio Metello
Macedonico (e forse del tempio di Nettuno in Circo). Nel campo dell’edilizia
privata, si devono ricordare Cyrus, impegnato nelle costruzioni di Cicerone,
e Vettius Chrysippus (nelle lettere di Cicerone compaiono altri nomi di
architetti: Corumbus, Rufio, Numisius, Cluatius, Diphilus).
E siamo, così, alla nostra storia: al momento di Vitruvio.
LA VITA
Ci sfuggono i termini precisi dell’origine e della carriera di questo
personaggio: al di là di una prosopografia rischiosa, l’interesse della
critica si è concentrato oggi sul tentativo di ricostruzione del profilo
sociale, del contesto professionale e amministrativo, dell’ambiente,
insomma, nel quale egli visse e operò.
Come scriba armamentarius, svolse la sua attività sotto Cesare e poi sotto
il giovane Ottaviano. Egli stesso (in I, praef., 2) sintetizza la propria
carriera: «...assieme a M. Aurelio e P. Minidio e Gn. Cornelio fui pronto ad
occuparmi della fornitura e della riparazione di baliste e altre macchine da
getto».
L’appartenenza all’ordo garantiva piena realizzazione professionale e una
buona integrazione sociale. Diverse potevano essere le carriere, a seconda
dei patronati, delle raccomandazioni, dei vincoli con i responsabili
politici. Nel caso specifico, le competenze da un lato, dall’altro i
rapporti con il potere portarono Vitruvio ad assumere, al servizio di
Agrippa, a partire verosimilmente dal 33 a.C., anche responsabilità nel
campo delle acque (cfr. Frontino).
Il ritiro dall’attività professionale, maturato nei primi anni del
principato di Augusto, potrebbe aver coinciso con una carriera municipale:
il racconto della concezione e della realizzazione (curavi) nella colonia di
Fano di una basilica sembra introdurre nella sua storia un’indicazione di
responsabilità politica diretta.
Di origine probabilmente piccolo-borghese, Vitruvio riceve la sua formazione
sia in ambito familiare (cfr. VI, praef., 4-6) sia grazie al magistero di
precettori, figure che riunivano in sé l’esperienza teorica e la
professionalità di architetti.
L’accesso all’ordo, che indubbiamente raggruppava una parte non trascurabile
della élite intellettuale, segna in qualche modo la realizzazione di una
volontà di promozione sociale (cfr. VI, praef., 5).
Nello spazio che resta libero tra una pratica professionale riconosciuta e
apprezzata, che assicura indipendenza economica, e un’attività intellettuale
speculativa si colloca verosimilmente l’impresa della stesura del trattato.
La definizione iniziale pare quella di una fatica con la quale si chiude la
carriera di uno specialista (cfr. I, praef., 3): il munus è il prolungamento
e l’ampliamento di officium dei doveri della sua cartiere.
LA DATAZIONE DEL TRATTATO
Vitruvio, dunque, è ancora un architetto-ingegnere di tradizione
ellenistica: tali sono le sue esperienze personali, i suoi gusti, il suo
pensiero - non poteva essere altrimenti!
Dopo la fase preparatoria, ancora alla fine dell’età repubblicana, viene la
fase della redazione. E qui, preliminarmente, si deve aprire una questione:
fu questa redazione continua o in più tempi? Proprio Ferri fu tra quelli che
ritennero vi fossero stati due momenti nella produzione dell’opera: un primo
- ancora in epoca cesariana - comportò la diffusione di opuscoli che
trattavano problemi circoscritti; un secondo - ormai augusteo - vide
l’assemblaggio di queste pubblicazioni e il loro sviluppo per raggiungere il
numero di dieci libri, in modo da stabilire la decade pitagorica,
espressione numerica della perfezione (si spiegherebbe così - secondo A.
Kessissoglu - l’aggiunta di libri come l’VIII, il IX e il X, estranei
all’aedificatio).
Ora, a dispetto della grande unità vantata nella prima prefazione (scritta,
verosimilmente, al momento della pubblicazione definitiva), una sfaldatura,
una cesura in effetti esiste ed è dichiarata dall’autore stesso in VII, XIV,
3, anche se non comporta automaticamente distanza cronologica tra le parti.
Numerose, poi, sono le cesure minori, che farebbero pensare a una redazione
alquanto caotica. Un esempio: la chiara aggiunta degli ultimi tre capitoli
del libro IV, i quali vogliono essere il completamento del «trattato sugli
ordini», che occupa tutto il libro III e si conclude chiaramente a IV, VI,
6. Anche il libro II (in cui si tratta dell’evoluzione dell’umanità, dei
principi delle cose, dei materiali da costruzione) a rigore non è compreso
nelle partes architecturae (cfr. I, III, 1). Strana è la collocazione del
capitolo sulle fondamenta nel cuore del libro III (III, IV). Allo stesso
modo, il concetto generale di symmetria occupa III, I, 1-4, invece di stare
all’inizio della trattazione.
Dunque, l’impressione è quella di scarsa coerenza dell’opera.
Andare oltre non si può. L’unica certezza, potremmo dire, allora, sembra
essere che la concezione originaria - si badi bene: non la stesura -
comprendesse solo i libri della aedificatio (sei o sette che fossero) e che
la stesura - questa volta sì - abbia conosciuto fasi successive; si
arriverebbe col tempo al corpus completo, in cui entrano tutte le attività
che all’epoca erano di competenza dell’architetto.
Noi non conosciamo come Vitruvio lavorasse, né quanto tempo sia trascorso
tra l’assemblaggio delle schede e la loro elaborazione.
Vi sono, però, nel trattato, nella sua forma compiuta, indizi che consentono
di fissare qualche elemento di cronologia assoluta. La prefazione al libro
I, in realtà prefazione all’intera opera, contiene allusioni a fatti
dell’anno 29 a.C. (chiusura del tempio di Giano, trionfo dei giorni 13-14-15
agosto); il libro III offre preziosi riferimenti a monumenti urbani, nessuno
dei quali posteriore agli anni 27-23 a.C. Queste e altre indicazioni ci
orientano verso la fine del secondo triumvirato e i primissimi anni del
principato per il completamento delle fasi essenziali della redazione,
dunque al decennio 35-25 a.C. (non si può escludere che alcune prefazioni
siano state scritte dopo, per aggiornare il trattato).
L’accettare questa datazione ha implicazioni di rilevante peso.
Innanzitutto, si può ritenere che Vitruvio non sia stato impegnato nel
grande programma di rinnovamento urbano promosso a partire dal sesto
consolato del princeps (28 a.C.), quando ormai il funzionario aveva concluso
o stava per concludere la sua carriera.
Ciò spiegherebbe il suo apparire spesso legato a una lunga tradizione, che
egli cerca di salvare, codificandola, di fronte ai nuovi rivolgimenti in
campo architettonico-urbanistico. È l’ideologia della fine dell’ellenismo; è
proprio la sensazione di essere alla fine di un’epoca, la più alta,
insuperabile, al di là della quale può esservi solo regresso, declino.
Dopo la «fine della storia» verrà Augusto: il nuovo regime, in fondo, è un
ritorno all’aurea aetas. Ma questa è un’altra storia, e Vitruvio non ha il
tempo di viverla.
La lunga crisi politica dai Gracchi a Cesare fa nascere l’idea secondo la
quale, con le istituzioni e le strutture sociali, anche le conoscenze e le
tecniche accumulate nei secoli rischiassero la disgregazione e la
dispersione.
Di qui prende corpo una generale volontà di salvare tutto il bagaglio
culturale e tecnico attraverso una sistematica operazione di raccolta e
riordino del sapere: Cicerone e Varrone sono gli esponenti più grandi e più
noti di questo movimento di idee.
In questo stesso movimento si inserisce il progetto di Vitruvio. Indicativo
il fatto che egli, nel primo capitolo del libro II, inserisca l’evoluzione
della propria disciplina in una vera e propria «antropologia globale»,
mostrandosi vicino quindi a Lucrezio e, appunto, a Cicerone e Varrone.
La difficoltà, per Vitruvio come per gli altri (più che per gli altri, in
relazione al suo personale grado di cultura), era quella di trasporre in
latino nozioni trattate sino a quel momento solo in greco.
Si apre, dunque, un nuovo problema: quello della lingua (senza mai
dimenticare, comunque, una questione di base: la difficoltà, direi congenita
per questo campo di attività, di passare dal disegno - che è il normale
strumento dell’architetto - alla scrittura). In un’epoca in cui è ancora il
greco la lingua tecnica per definizione, la scelta del latino risponde alla
volontà di ampliare il bacino di utenza dell’opera.
Essa significa pure rivendicare, anche nel campo letterario, la posizione di
preminenza raggiunta ormai da Roma.
LA LINGUA
È a lungo esistito un mito negativo, quello del cattivo latino di Vitruvio.
Esso si basava su un errore di fondo della critica: si voleva confrontare il
suo latino con quello dei suoi contemporanei, Cicerone su tutti; si voleva
contrapporre a una prosa classica una prosa non classica.
La svolta nella storia degli studi avviene nel 1982, grazie a un lavoro di
Callebat, nel quale finalmente si analizza la lingua di Vitruvio all’interno
di quello che è il genere del trattato, senza prescindere, cioè, dalle sue
finalità didattiche, dalle esigenze interne a un sapere che ambiva a
divenire specialistico. Era, in fondo, quanto lo stesso Vitruvio aveva
indicato nella prefazione al libro V. Ai nostri giorni - estate del 2000 -
si può addirittura proporre un passo di Vitruvio all’esame di maturità!
Quando Vitruvio incomincia a scrivere il suo trattato, il linguaggio
dell’architettura non esiste (se si esclude il libro varroniano dei
Disciplinarum libri dedicato a questa ars).
Creare un linguaggio significa, anzitutto, creare nuove parole. Numerosi
sono i termini attestati per la prima volta: neoformazioni lessicali o forme
gergali trasposte in un testo scritto (naturalmente si deve sempre fare i
conti con lo stato frammentario della tradizione).
A volte i termini rimangono unici. Questi hapax e queste prime attestazioni
si dividono in due gruppi: le parole formate a partire da una parola latina
e i termini derivati dal greco (traslitterazioni di parole attestate in
greco, presunte neoformazioni). Tutti sono ulteriormente definibili come
tecnicismi.
Oltre ai tecnicismi, gli astratti sono tra le caratteristiche principali del
nuovo linguaggio. Gli astratti - secondo Elisa Romano - costituiscono la
caratteristica forse più vistosa e, addirittura, diventano il segno di una
lingua raffinata: «luogo di convergenza dell’analisi scientifica e
dell’identificazione tecnica», essi rappresentano un valido strumento sia
per l’esposizione teorica sia per l’indicazione pratica.
È possibile, dunque, definire il linguaggio vitruviano un «linguaggio di
confine», sotto più punti di vista. Esso porta a una scrittura diseguale,
oscillante tra ridondanza (accumulazione di complementi, di sinonimi...) e
brevità (sottrazione, riduzione di elementi), a volte alla ricerca della
simmetria, altre volte disposta a concedere qualcosa - per esigenze
didattiche - sul piano dello stile, che diventa ripetitivo ed elencativo.
Vitruvio potrà risultare - come da alcuni è stato detto - uno scrittore
stilisticamente irrisolto, ma l’ammirazione per il pioniere resta: la sua
lingua veramente «contiene le premesse per il linguaggio dell’architettura
moderna» (E. Romano).
DISEGNI
L’opera prevedeva anche disegni, pochi, indicati nel testo con i termini
forma, schema, diagramma, exemplar, raccolti generalmente in extremo libro,
vale a dire alla fine di ogni libro.
Questo pur scarso patrimonio è andato completamente perduto: gli schizzi che
si trovano in margine a certi manoscritti medievali sono assolutamente
frutto di invenzione.
L’ambizione di Vitruvio era quella di portare la prassi architettonica
(quella del disegno, appunto) al livello di ars liberalis attraverso la
scrittura: «Ho esposto tutte le teorie dei sacri templi come mi sono state
tramandate, ho distinto gli ordini e i rapporti modulari con le loro
ripartizioni, e ho spiegato le diversità delle loro configurazioni e con
quali divergenze sono tra loro distinte, per quanto ho potuto esprimermi con
gli scritti», afferma in IV, VIII, 7. In tale prospettiva, ogni ricorso al
disegno sarebbe equivalso a un’ammissione di sconfitta.
LE FONTI
Le attuali tendenze della storiografia vitruviana su questo argomento
delineano una visione d’insieme articolata e stratificata. Molte, scalate
nel tempo e, a volte, mediate, sembrano infatti essere le fonti di Vitruvio:
quelle orientali, in particolare microasiatiche, sono chiaramente
preponderanti, ed Ermogene ne è in qualche modo il campione.
Per molto tempo si è pensato a una fonte unica: Ermogene, appunto, il grande
architetto microasiatico di fine III-inizi II secolo a.C. (Bimbaum, Choisy);
Piteo, il progettista del celebre mausoleo di Alicarnasso, della seconda
metà del IV secolo a.C. (Carpenter); Ermodoro di Salamina, attivo a Roma
nella seconda metà del II secolo a.C. (Schlikker); C. Mucio, discepolo dello
stesso Ermodoro, di epoca mariana (Riemann).
Per ammissione dello stesso Vitruvio (cfr. VII, praef., 10 e sgg.), lunga è
la lista delle sue fonti, più lunga se si considerano anche quelle che il
trattatista non vuole svelare, come di costume (ma che si indovinano).
Non tutte sono fonti dirette: come già detto, le condizioni concrete della
trasmissione del sapere tecnico a Roma, alla fine della Repubblica,
comportano il ricorso a diversi intermediari. Ancora una volta è lo stesso
Vitruvio a illuminarci: il solo autore di cui egli rivendichi una lettura
diretta, e certo difficoltosa (ut potuero), è Aristosseno di Taranto (V, IV,
1, per i problemi di acustica). Per gli altri, anche grandi, non v’è
certezza. Così per Ermogene, la cui autorità è più volte riconosciuta.
Il più utilizzato tra gli intermediari è certamente Varrone: egli, di poco
anteriore al nostro, tramanda in una forma immediatamente assimilabile
settori interi del sapere ellenistico nei campi più diversi.
In generale, gli studi moderni ci restituiscono un’immagine molto vasta,
come si diceva, della cultura di Vitruvio; anche quando di seconda mano,
anche in campo non strettamente tecnico-architettonico (Posidonio, per la
teoria dei climi; Archimede, per la spirale applicata al capitello ionico;
Eudosso - attraverso i commentari di Ipparco -, per lo gnomone, ma anche per
la città ideale. Questa personalità, in particolare, potrebbe essere
responsabile del profondo interscambio tra architettura e cosmologia, dalla
critica più datata ritenuto puramente convenzionale).
Non si deve dimenticare, nel processo di trasmissione del sapere che
Vitruvio intende codificare, il molo di primo piano giocato dai
praeceptores, dagli specialisti della generazione precedente la sua, per una
via che è quella dell’oralità.
Ultima, ma non meno pesante fonte di informazione, viene l’esperienza
diretta (le campagne al seguito di Cesare: la conoscenza di numerosi (?)
luoghi del Mediterraneo).
Libro I. Dopo una prefazione con
dedica ad Augusto e un breve riassunto dei temi svolti nel complesso dei
dieci libri (questo carattere introduttivo fece la grande fortuna del libro
I in età umanistica), Vitruvio tratta della formazione e della cultura
dell’architetto, facendovi confluire più tradizioni. Le fonti filosofiche,
seppur filtrate, vanno dalla metafisica aristotelica allo stoicismo, alle
discussioni metodologiche del De oratore ciceroniano. Una larga parte nella
definizione del sapere dell’architetto è debitrice della tradizione
dell’enciclopedismo ellenistico: la fonte principale sembra essere Varrone
con i suoi Disciplinarum libri. Ma, forse, il modello che maggiormente opera
è ancora una volta quello ciceroniano, con la figura di artifex, che
conosciamo dal De oratore e dall’Orator, applicabile a tutte le arti; dalla
riflessione etica di Cicerone (De officiis) dipende anche l’elenco delle
virtutes derivanti dallo studio della filosofia.
Nei capitoli IV-VII è esposta la teoria urbanistica della formazione della
città, con la costruzione delle mura, la disposizione delle strade in
funzione dei venti, la distribuzione degli spazi e degli edifici pubblici.
Anche in questo caso Vitruvio si colloca nel solco di una tradizione
composita, che parte dalla medicina ippocratica, da Platone e Aristotele,
probabilmente Empedocle (attraverso dossografie), e in cui confluisce la
manualistica ellenistica (Filone di Bisanzio), nonché l’esperienza diretta
di ingegnere militare.
Altre ancora possono essere le fonti; appare chiara, comunque, già da questo
primo libro la tendenza - già rilevata - a far uso di manuali, dossografre,
antologie.
È merito di Guido A. Mansuelli l’aver individuato come dal punto di vista
tecnico l’allineamento all’esperienza romana non impedisca una linea di
impostazione ambiziosa e anche coraggiosa: quella che impernia il discorso
architettonico sul problema urbanistico; la coscienza, dunque, del
condizionamento che la città impone all’operare architettonico, anche se il
dilatarsi delle trattazioni specifiche sembra portare talora a isolare in sé
tipologie e tecniche.
Libro II. Dopo la prefazione
aneddotica (Dinocrate e Alessandro) di carattere paradigmatico, morale,
precettistico, che raccorda questo al precedente libro, vi è la cosiddetta
antropologia vitruviana (evoluzione dell’umanità e nascita dell’edilizia),
di impostazione stoica (Posidonio, Lucrezio, Cicerone, Vagone, Apollodoro di
Atene). Segue la teoria atomistica: i principi delle cose sono il vero punto
di partenza dell’attività architettonica (che non è, quindi, la creatività
dell’architetto, ma la natura stessa). L’arte dà piena espressione alle
qualità intrinseche dei diversi materiali da costruzione. Tutto ciò in
accordo con l’idea più generale che le forme perfette, e perciò canoniche,
siano costitutive della natura e che quindi basti scoprirle. Ecco allora la
necessità di questa premessa alla normativa, intesa come estrinsecazione e
volgarizzazione dei canoni oggettivi; è stato ragionevolmente proposto di
vedervi l’influsso delle correnti epicuree, così in voga nel periodo di
trapasso tra tarda repubblica e principato (circolo di Mecenate).
Viene poi l’esposizione dei materiali da costruzione: terre (e quindi
mattoni crudi - l’impiego di mattoni cotti diventa rilevante dall’età di
Cesare: Vitruvio, dunque, sembra basarsi sulla precettistica anteriore -,
sabbia, calce, pozzolana), pietre (soprattutto materiali prossimi a Roma -
manca il marmo, la cui diffusione comincia con l’età cesariana -, tipi di
muratura), legname (trattazione condotta, oltre che sulla base delle
conoscenze personali, sulla scia della Historia pantarum di Teofrasto).
Nell’ambito di questa rassegna è la celebre descrizione di Alicarnasso: essa
rivela un fondamento dell’immagine urbana che sembra ricondursi a istanze
progettuali (e insieme coglie efficacemente anche quella dimensione
verticale, cioè edilizia e monumentale della città, che noi oggi cerchiamo
faticosamente di recuperare attraverso gli autori antichi).
La fortuna di questo libro (e del successivo) fu grande già nell’antichità,
come risulta leggendo Columella, Plinio il Vecchio, Emiliano Palladio,
Isidoro (cui si possono aggiungere gli scrittori gromatici).
Libro III. Tratta
dell’architettura templare, innanzitutto delle disposizioni generali del
tempio, delle sue configurazioni e categorie e delle relative articolazioni.
Si affrontano poi l’ordine ionico e il suo sistema modulare (dorico,
corinzio e tuscanico saranno oggetto di trattazione nel libro IV). L’ampio
spazio dedicato all’architettura templare è evidentemente dovuto alla
considerazione che se ne aveva come branca più nobile e significativa
dell’architettura stessa. La precedenza accordata all’ordine ionico si può
giustificare con l’adesione vitruviana alla tradizione microasiatica
incarnata da Ermogene (e prima da Piteo), che riteneva lo ionico appunto
l’ordine per antonomasia. In Ionia, del resto, si afferma la pratica del
trattato su singoli edifici templari ad opera di grandi architetti
dell’arcaismo. Rispetto a questa tradizione, sia nella sua linea più antica,
sia in quella più recente, la trattazione vitruviana si presenta con un
connotato decisamente precettistico e teorico, svincolato com’è dal singolo
monumento: essa è riferita al «tempio perfetto», il che ben si spiega con la
temperie classicistica affermatasi a partire dal 150 a.C. circa.
Dunque, dopo una prefazione moraleggiante dedicata al successo
professionale, che non sempre arride ai più bravi e competenti, si passa a
trattare il concetto di simmetria, vale a dire il sistema modulare: insito
nell’ordine cosmico, e quindi nel corpo umano, esso deve improntare tutta
l’architettura, in particolare quella templare. Dopo i criteri
classificatori e le ripartizioni per categorie, si prevede la costruzione di
un tempio.
Libro IV. Continua e conclude la
trattazione dell’architettura templare. Base di tutto il discorso sembra
essere ancora - ovviamente - la tradizione ermogeniana, con importanti
apporti da altri, trattatisti (tra i quali si segnalano Sileno con il suo De
symmetriis doricorum e Filone Attico con il De aedium sacrarum symmetriis).
Nella breve prefazione si rivendica il merito di aver dato un ordine
compiuto alla disciplina, mai raggiunto negli scritti settoriali dei suoi
predecessori: e questo senza attingere all’originalità, ma con una chiara
adesione alle teorie tradizionali (ut mihi traditae sunt).
Si inizia con l’ordine corinzio (con excursus sulla nascita degli ordini
architettonici); si passa alla genesi delle trabeazioni in pietra dagli
assetti lignei originari; segue l’ordine dorico. Vengono poi la
configurazione interna degli edifici templari, l’orientamento, le porte. Si
conclude con l’esame delle tradizioni estranee ai templi peripteri o ad essi
connesse: innanzitutto i templi tuscanici (e qui si fa sentire la
rivalutazione varroniana delle tuscanicae dispositiones nella temperie
antiquaria tardorepubblicana), poi i templi rotondi, quelli a cella
trasversale, i greco-tuscanici e gli pseudoperipteri; infine gli altari.
Libro V. È dedicato alle aree
pubbliche. Vitruvio si muove lungo la linea della tradizione pitagorica di
Ippodamo di Mileto, poi macedone, fino all’ottica neopitagorica di Varrone:
di qui il carattere «anale» prima che «architettonico» in senso stretto
della trattazione.
Dopo una prefazione letteraria (sulla difficoltà della materia), la
trattazione parte dalla piazza (quella greca - l’agorà - quadrata; quella
italica – forum – rettangolare, in funzione dei giochi gladiatori in origine
là ospitati), per concentrarsi poi sui tipi edilizi ad essa pertinenti:
portici, basiliche, erari, carceri, curie. Si passa a edifici decentrati
quali il teatro, le terme, i ginnasi, e si termina con le istallazioni extra
moenia (fuori le mura) dei porti.
Come di consueto, gran parte delle configurazioni architettoniche pertinenti
all’ambito greco sono riferibili alla temperie ermogeniana, cioè alla
cultura architettonica tra III e II secolo a.C., con particolare riguardo
all’ambito ionico-pergameno.
Ma la gran parte delle tipologie trattate pertiene alla cultura
architettonica italico-romana. Il monumento più recente - e «personale» -
viene a essere la basilica di Fano.
La lunga descrizione di questo edificio risponde a diverse esigenze: a parte
il fatto indicativo che la basilica sia intesa quale foro coperto, quindi in
senso urbanistico (cfr. libro II), vi è il desiderio, tutto letterario, di
cimentarsi nel genere della composizione ecfrastica (descrittiva), con
illustri precedenti anche vicini (Varrone; ma anche - in altro territorio -
Virgilio: descrizione delle porte istoriate del tempio di Giunone a
Cartagine, Aen., I, 441-506). Inoltre, emerge l’esigenza di propone, oltre
al modello ideale, una versione aggiornata, rispondente sia al contenuto
politico sia alla valenza monumentale riferite alla tipologia in quel
momento storico. Infine, vi è il tentativo di accreditarsi presso il
principe e la sua cerchia non solo per il trattato normativo tradizionale,
ma anche per proposte e soluzioni personali professionalmente notevoli. E,
per quella che ne è la descrizione, la basilica di Fano si discosta dal
paradigma in uso sino a quel momento, per la preponderanza delle funzioni
politiche e simboliche legata a un’organizzazione dell’impianto nel
complesso forense che valorizza la profondità e l’assialità dell’edificio
(con un’essenzialità compositiva tipica dell’atticismo: ciò suggerisce che
al termine di un itinerario culturale eclettico, fortemente intriso di
asianesimo, Vitruvio sia approdato alla scelta estetica dominante nella
prima età imperiale - perché imposta dal potere stesso?).
Libro VI. Tratta dell’edilizia
privata, dei metodi e dei rapporti modulari costituenti le symmetriae delle
case d’abitazione.
Nella prefazione vi è un elogio della cultura e un attacco agli architetti
suoi contemporanei, privi di tale bagaglio; di qui l’esigenza del trattato,
che, peraltro, si rivolge direttamente anche ai committenti, il cui peso
diviene sempre maggiore. Dunque, un munus, il suo, sempre ispirato
all’ideale eclettico tardorepubblicano di humanitas, fortemente connotato di
cosmopolitismo (in omni civitate civis) e a destinazione ecumenica.
Dopo norme generali di adeguamento degli edifici alle diversità
geografico-climatiche (in nome dell’istanza naturalistica che accompagna la
concezione stessa di architettura - per il tramite sempre di Varrone e,
prima, di Posidonio - e nei termini della necessità, cioè della funzionalità
del vivere quotidiano, più cogente che per gli impianti pubblici), si passa
alla teoria di base delle costruzioni, quella dei rapporti modulari, con le
deroghe del caso (per la natura del luogo, per l’uso, per l’aspetto
esterno).
Si descrivono poi le configurazioni degli ambienti: dall’atrio alle ali,
tablini, fauci; dal peristilio ai triclini e sale particolari, senza
ignorare i problemi di orientamento ottimale.
Si discute il rapporto tra tipo di residenza e posizione sociale del
proprietario.
Vengono illustrate, infine, le ville e le case greche. Si chiude con la
trattazione relativa alle fondazioni degli impianti: problemi statici
relativi all’intelaiatura delle porte, archi di scarico, pilastri angolari,
strutture murane, sostruzioni. Queste ultime prescrizioni sembrano basate
per lo più sull’adozione di gran parte delle soluzioni proposte in impianti
di domus e villae contemporanee a Vitruvio.
Sul piano documentario, questo libro è forse il più prossimo alla società
dell’autore: testimonia fedelmente il concentrarsi della ricerca sulla
concezione dello spazio interno da un lato, dall’altro sulla sensibilità
paesistica.
Libro VII. In stretto collegamento
con il libro VI, si tratta delle rifiniture degli edifici di abitazione
privata.
Con ciò si conclude - a detta dello stesso autore (cfr. VII, XIV, 3) - la
trattazione relativa alla aedificatio, cioè la sezione più ampia e compatta
dell’opera, cui sono state dedicate le cure maggiori. I tre libri seguenti,
indipendentemente dall’ipotesi che siano stati aggiunti a un piano
originario che non li prevedeva, danno una certa impressione di
giustapposizione, denunciando, se non altro, una minore coesione con la
struttura complessiva del trattato.
Il carattere conclusivo del libro è chiaramente denunciato dal lungo e
importante proemio, in cui si affronta il tema centrale, decisivo per la
genesi e lo sviluppo del trattato stesso, della tradizione scritta, delle
fonti. E si tratta di un vero «elogio della civiltà scritta», almeno per la
prima parte; segue il tema proprio dell’utilizzo delle fonti, con una
rassegna che ne ospita più di quaranta, senza che si possa determinare con
sicurezza quelle di impiego diretto e quelle di impiego indiretto (cfr.
Premessa). A questo tema si intreccia quello, pure fondamentale, del sapere
architettonico come sapere scritto e quindi la definizione del progetto
vitruviano di portare la tradizione latina in materia alla codificazione
scritta (e colmare così una lacuna rispetto ai Greci).
Viene, poi, la parte tecnica, con le trattazioni sulle pavimentazioni, sui
lavori a stucco, sui soffitti a volta, sulle decorazioni parietali - uno dei
loci vitruviani più famosi è forse quello in cui, nell’ambito di una storia
della pittura parietale dell’antichità, si esprime un giudizio estetico e
insieme morale nei confronti della «moda depravata» dei suoi giorni che
segna la dissoluzione del sistema architettonico (la fase finale del
cosiddetto secondo stile; Ferri pensava al quarto stile), del marmo, dei
colori naturali e artificiali (secondo lo schema codificato, a noi noto a
partire dal De lapidibus di Teofrasto).
Il libro VII è stato spesso fonte diretta di Plinio per la sua Naturalis
historia.
Libro VIII. È dedicato
all’idrologia e all’idraulica. Esso pare avere un molo autonomo e sganciato
dal piano originario dell’opera - come fosse un trattato de aquis a se
stante -, seppur pertinente. Ferri (cfr. nota a VIII, praef.) pensò si
trattasse di un’opera anteriore, poi rifusa nel corpus. Oggi si è più
propensi a credere poco plausibile una datazione alta, per la probabile
collaborazione di Vitruvio con Agrippa in qualità di curator aquarum dopo il
33 a.C. e per l’utilizzo di fonti come le opere del futuro re numidico Giuba
II, entrato nell’entourage di Ottaviano dopo Azio (31 a.C.).
Un libro, comunque, definito dalla critica strano, per l’assenza di una
dedica ad Augusto (presente in tutte le altre praefationes), ma soprattutto
per la struttura: l’organizzazione in quattro grandi sezioni (metodi per il
ritrovamento dell’acqua; caratteristiche e diverse qualità dell’acqua;
analisi cui sottoporre l’acqua; tecniche di conduzione dell’acqua) viene di
fatto disattesa per la tendenza (qui forse più pesante che altrove) alla
digressione, che se da un lato fa perdere il filo della narrazione,
dall’altro potrebbe essere vista come spinta verso la sistematizzazione
enciclopedica, anticipatrice in un certo senso dell’opera pliniana (secondo
E. Romano).
Libro IX. La gnomonica ne è il
contenuto. Anch’esso apparentemente slegato dagli altri libri, potrebbe far
pensare a un’appendice rispetto al piano originario dell’opera, se non fosse
che la gnomonice è definita una delle tre parti dell’architettura
nell’indice preliminare di I, III, 1. Resta, comunque, un’impressione come
di trascuratezza.
La struttura risulta così ripartita: dopo una lunga praefatio, vi è una
trattazione astronomica, cui finalmente segue la sezione dedicata alla
gnomonica (cap. VII: analemma; cap. VIII: orologi veri e propri, solari e ad
acqua).
Difficile spiegare una struttura così squilibrata. Forse la lunga
digressione astronomica risponde al gusto del pubblico, alla moda
contemporanea, testimoniata dalla ricca letteratura astronomica di età
cesariana e augustea (da Arato, tradotto da Cicerone e poi Germanico, a
Manilio, a Igino, ai Fasti di Ovidio).
Libro X. L’ultimo argomento, quello
delle machinationes, rende completo il corpus architecturae, come Vitruvio
insiste a dire. Ma l’idea di un libro dedicato alla meccanica (in un senso
più ampio di quello che noi gli attribuiamo, il termine indica non solo
meccanismi e marchingegni concreti - e i loro principi di funzionamento -,
ma anche, in senso astratto, i «marchingegni della mente» - gli stratagemmi,
ad esempio) all’interno di un trattato di architettura appare alla critica
tutt’altro che scontata. Se è vero, infatti, che Vitruvio si riaggancia alla
tradizione della trattatistica ellenistica di meccanica, è anche vero che
proprio l’opera di Filone di Bisanzio, la Sintassi meccanica (fine III
secolo a.C.), escludeva l’architettura. Il tentativo vitruviano di
unificazione era ampiamente giustificato innanzitutto dalla pertinenza
tematica, ma soprattutto dalla sua esperienza personale di ingegnere
meccanico. Sicché, senza riprendere le vecchie ipotesi relative a opuscoli
preesistenti e a una presunta prima redazione del trattato, è lecito
formulare il sospetto di una concezione auto-noma del libro, in cui si
riversa il materiale tecnico messo insieme in margine all’esperienza
militare dell’autore. Mancano le digressioni, il che sembra collocare il
libro stesso in una prospettiva opposta alla tendenza enciclopedica propria
dei libri VIII e IX.
La struttura è la seguente: nei capp. I e III si tratta della meccanica
teorica; nei capp. II e IV-IX della meccanica pratica; nei successivi della
meccanica militare (capp. X-XV, macchine da guerra; cap. XVI, poliorcetica).
LA NATURA DEL TRATTATO
Sono ancora numerose le oscillazioni interpretative della critica
relativamente alla vera natura dell’opera vitruviana: strumento strettamente
specialistico o opera erudita di carattere enciclopedico, destinata non solo
ai tecnici, ma anche a un pubblico colto di ambito più vasto e più generico?
La risposta più plausibile, forse, è che si tratti dell’una e l’altra cosa
insieme.
E. Romano considera la massiccia presenza di astratti come un indice
dell’orientarsi della scrittura verso la dimensione teorizzante, secondo la
lezione di Callebat, e insieme un segnale della tensione del tecnico verso
l’indicazione pratica.
È questo un buon punto di partenza per qualche considerazione, insieme a
quanto scritto da Gros nella stessa sede (la già più volte ricordata
Introduzione all’edizione italiana nei Millenni), e cioè che il De
architectura non è, e non vuole essere, un saggio sull’«arte di ben
costruire con poche spese», come sarà il trattato di Philibert Delonne,
indirizzato diretta-mente a coloro che egli chiama «operai» della
costruzione. Il De architectura è un’opera a uso dei responsabili, e prima
di tutto dei responsabili politici; v’è in esso tutta la vocazione di uno
specialista, professionalmente abituato a spiegare i principi della sua arte
e giustificarne la pratica; si fa, inoltre, sentire l’atmosfera di un’epoca
in cui l’architettura, come strumento e obiettivo del potere, riveste una
importanza mai raggiunta prima.
Quasi una ripresa del concetto espresso da Mansuelli a proposito di un’opera
che è Io specchio di un periodo di fermenti e di recezioni, di
sperimentazioni e di grandi programmi; un periodo nel quale l’architettura
romana cerca un assestamento fra la tecnologia avanzata e i temi raffrenati
della sistematica del classicismo; il De architectura come trattato, dunque,
in cui è viva la preoccupazione di portare a sistema, appunto, una materia
contraddittoria e varia nella stessa realtà dell’operare.
È vero che le indicazioni pragmatiche - pur considerando il continuo
interscambio con la teoria - dovettero costituire per Vitruvio un vademecum
specialistico da usare per excerpta, senza che fosse necessario tener conto
ogni volta dell’intera impalcatura teorico-estetica e retorico-letteraria
della sua opera. Ma molti sono gli indizi nel De architectura che fanno
credere a un maggior peso delle esigenze di astrazione filosofica rispetto
alle reali possibilità applicative. Un caso per tutti è quello del modulo:
secondo B. Wesenberg, infatti, esso corrisponde in Vitruvio più a uno
strumento teoretico che a un principio utilizzato con costanza nella pratica
di cantiere; convinzione condivisa anche da D. Theodorescu e 1.J. Coulton.
Il credere che i principi vitruviani abbiano un valore di massima, nella
loro oscillazione tra nonna sistematica e consiglio pratico-orientativo,
porta alla riconferma di una caratteristica dell’architettura romana già da
tempo messa a fuoco: quella di una grande duttilità, dell’assenza di una
rigidità applicativa maniacalmente prescritta e perseguita, pur nell’ovvia
presenza di archetipi fondamentali di riferimento - per usare un termine
molto caro a certe scuole (o tendenze) dell’architettura contemporanea.
Ancora Mansuelli sembra cogliere nel segno, quando, a commento di un passo
di Vitruvio, VI, VIII, 9 (cum vero venuste proportionibus et symmetriis
habuerit auctoritatem, tunc fuerit gloria area architecti), richiama il
concetto ciceroniano della species pulchritudinis che dirige la mano
dell’artista (nel caso specifico Fidia): tale concetto idealistico
nell’empirico e positivista Vitruvio è sì l’unico esplicito enunciato antico
sulla creatività artistica dell’architetto, ma è anche, per ciò stesso,
cifra emblematica della sua libertà!
Vi sono ancora detrattori di Vitruvio, meglio sarebbe dire fraintenditori,
che negano effetti estesi del trattato sulla pratica, e dunque una scarsa
corrispondenza nell’architettura romana delle prescrizioni là contenute.
Svariati sono, però, i pareri critici di segno opposto. Secondo Gros, le
indicazioni sul rapporto aedes augusti/basilica contenute in V, I, 7, oppure
la trattazione sulla casa romana, in particolare sull’atrium, in VI, III,
1-3, se messe in rapporto agli edifici archeologicamente documentati,
mostrano un alto grado di attualità.
Del resto, come finemente notava Mansuelli, Vitruvio, là dove parla di
Cossutius (VII, praef., 15), precisa in maniera emblematica le qualità
dell’architetto: magna sollertia, scientia summa; e, nella fattispecie,
ricorda le proporzioni della cella e la distributio ad symmetriam degli
epistili e degli altri elementi che egli ha applicato nell’Olympieion di
Atene: dalla base scientifica, cioè, si arriva al vigile controllo dei
particolari, dove entra la «mano dell’architetto».
Come l’aspirazione di Vitruvio a redigere un manuale è raggiunta attraverso
una selezione di componenti strutturali e formali tratta dalle realizzazioni
all’interno della classe architettonica, così, nel campo delle esperienze
reali (e, dunque, della documentazione archeologica), si possono recuperare
le libere applicazioni degli architetti; se nel De architettura «il n’y a
jamais qu’un type par catégorie: toute variante est comme aberrante, et à
titre excluse du traité» - come dice Gros -, nella realtà archeologica si
recupera proprio l’impressione di una sorta di «poetica della variante»,
derivata dalla solida pratica e dal tecnicismo empirico che ben
caratterizzano l’architettura romana.
Se l’obiettivo specifico di Vitruvio è quello di esprimere ciò che egli
definisce potestas artis, ovvero tutte le virtualità contenute nella techne
del costruttore, non deve stupire il ritrovare applicazioni le più svariate,
ma corrette, di un aspetto normativa del suo discorso.