Breve storia della veterinaria

 

Antiche civiltà

Le più antiche notizie che abbiamo sulla veterinaria riguardano il governo degli animali, secondo regole igieniche e zootecniche piuttosto che secondo precetti terapeutici. Ciò quando nelle diverse civiltà, oltrepassato il periodo istintivo-empirico, la medicina era già appannaggio della casta sacerdotale che dirigeva l'alta scienza, e faceva poi "praticare" secondo le sue direttive da "medici pratici" di grado inferiore. La medicina dei bruti dovette essere esercitata da "pratici" di grado inferiore, giacché esercitata lo fu certamente, e alcune legislazioni antiche, come quella assira, parlano inequivocabilmente di medici e di veterinarî, dei quali sono fissati i relativi stipendî. Circa le primitive notizie sulla veterinaria è ancora completamente accettabile il pensiero di G. B. Ercolani (1851) che resta tuttora lo storico maggiore degli scrittori di case veterinarie. Egli scrive: "Nelle opere dei primi scrittori della medicina dei bruti, sono di maggiore importanza i precetti igienici e più conformi a verità, di quello che siano le dottrine dei morbi, dei quali pochi sono i descritti e per lo più in modo scarso e manchevole. Il qual fatto chiaramente ci comprova come la tradizione soltanto fosse per lungo tempo la guida di coloro che si occuparono della medicina dei bruti, per cui quando la medicina umana dopo molti passi progressivi cominciò a elevarsi a deduzioni e precetti generali, in quella dei bruti cominciarono invece i dettami igienici del buon governo degli animali, i quali come immutabili, la tradizione ricordava e veniva perfezionando". Questo giudizio è stato interamente confermato dai recenti ritrovamenti e dalle interpretazioni di tavolette, di papiri, d'iscrizioni funerarie, di pitture e di sculture.

 

Le notizie più antiche sull'arte veterinaria le troviamo presso i popoli della Mesopotamia, presso i primitivi Sumeri, molto tempo prima della fondazione dei grandi imperi assiro e babilonese, durante i quali l'agricoltura e l'allevamento degli animali appaiono molto progrediti. Le rovine delle grandi città imperiali Ninive e Babilonia, con le opere accumulate nelle loro biblioteche, ci hanno conservato documenti preziosi anche degli antichi Sumeri che, forse verso il IV millennio a. C., ci lasciarono vere e proprie opere di medicina. Dalle più che 20.000 tavolette di argilla ritrovate e conservate nel British Museum, risalenti a oltre 2500 anni prima dell'era cristiana, risulta che già in quei tempi nella Mesopotamia si conosceva l'anatomia degli animali offerti in sacrificio. La stele di Susa, conservata al Louvre, ci assicura che nella Mesopotamia, sotto il re Hammurabi (1955-1913 a. C.) era fissato il compenso per l'opera del medico e del veterinario. Presso questi popoli la scienza è tutta nelle mani della casta sacerdotale della quale fa parte il medico, ma solo un certo alto grado di medico, mentre altri medici "pratici" non sembra che ne facciano parte. Non sappiamo se ne fosse partecipe anche il veterinario, come l'editto di Hammurabi farebbe credere, ma è probabile che il medico degli animali facesse parte di quei sanitarî non compresi nella casta sacerdotale. È certo comunque che presso Assiri e Babilonesi la veterinaria era coltivata, e con particolare riguardo all'igiene zootecnica. Si sa infatti che gli animali erano trattati bene, i cavalli tenuti in scuderie separati dai bovini, erano strigliati e unti, e usati esclusivamente a sella. I bovini servivano per i lavori rurali; gli asini per i carri. Si praticavano cure contro gli ectoparassiti dei cani; e sappiamo che la carne suina, come pure l'urina dei bovini, erano usate a scopo medicinale. Erano già d'uso comune il salasso e la cauterizzazione.

 

Della conoscenza della veterinaria presso gli antichi abitatori dell'Egitto abbiamo notizie e documenti maggiori, datici da papiri, da pitture sepolcrali, da sculture, da documenti varî. Troviamo anche in Egitto la veterinaria sviluppata soprattutto in relazione all'agricoltura e all'allevamento. La zootecnica aveva raggiunto un'alta perfezione; erano bene conosciuti e bene applicati i metodi di specializzazione per la produzione di latte e di carne. La pratica dell'ingrassamento era applicata sistematicamente e si erano raggiunti risultati straordinarî nell'ingrassamento dei buoi, specialmente di quelli destinati ai sacrifici. I bassorilievi di Luxor ce ne offrono bellissimi esempî. Sembra che queste forme di straordinario ingrassamento fossero ottenute con alimentazione esclusiva di pasta di grano e assoluto riposo. Anche i metodi di selezione erano conosciuti e applicati; e l'assistenza ostetrica nelle femmine domestiche molto curata. Negli antichi tempi già si trovano veterinarî specializzati nella cura di particolari specie animali: medici dei buoi, medici dei polli, medici di antilopi che erano allevate allo stato domestico in veri e proprî greggi, apprezzatissime per la loro carne. Solo più tardi abbiamo notizie anche di medici del cavallo, animale che compare in Egitto relativamente tardi, forse dopo la 13ª dinastia. Dal papiro Ebers scritto tra il 1553 e il 1550 a. C., conservato a Dresda, e da quello di Brugsch (1200 a. C.), conservato a Berlino, risulta che in quei tempi in Egitto si faceva già l'ispezione delle carni con scopi strettamente igienici. I sacerdoti escludevano anche dall'alimentazione le carni che, non perfettamente sane, erano ritenute non adatte per i sacrifici. Si avevano notizie anatomiche acquistate non solo dagli animali destinati ai sacrifici, ma anche da cadaveri umani destinati all'imbalsamazione.

 

Gl'Indiani ebbero in grande onore la medicina dell'uomo e degli animali e l'alta casta sacerdotale fu depositaria assoluta della scienza medica. Il Rāmāyaa c'informa che fino dagli antichi tempi esistettero presso questi popoli grandiosi allevamenti di cavalli. Il codice di Manu ci tramanda le norme igieniche e profilattiche per gli animali adottate già nell'antichissima India e c'informa della retribuzione dei medici e dei veterinarî, com'è esplicitamente indicato nell'Avesta. La legislazione del sapiente re Aśoka (272-231 a. C.) perfezionerà queste norme di tutela degli animali fino alla costruzione di vere e proprie infermerie. Interessante può essere il constatare come secondo il Suśruta, testo fondamentale dell'antica medicina indiana, è fatto preciso obbligo agli studenti d'imparare il salasso sugli animali. Questo può indurci a credere che anche la veterinaria fosse studiata o almeno si avesse buona pratica chirurgica degli animali. Si deve all'India anche un manuale scritto dal veterinario Caraka nel sec. I a. C., riesumato da G. Molin e più tardi da G. B. Ercolani, che ne rinvenne una traduzione italiana tra i codici della Biblioteca Riccardiana di Firenze. Quest'opera in 45 capitoli ci dà uno specchio dello sviluppo che la veterinaria indiana aveva raggiunto in quell'epoca; opera che ebbe notevole influenza sull'esercizio della medicina dei bruti, attraverso la tradizione araba e per tutto il Medioevo. Essa ci fa conoscere parecchie delle malattie del cavallo allora note e i sistemi di cura usati. Il salasso, la cauterizzazione, lo svuotamento di ascessi, l'applicazione di setoni e di vescicatorî, l'uso di pomate e empiastri (alcuni razionali, ma i più bizzarri e insensati), l'uso di clisteri e di purganti, sono mescolati a norme igieniche ora razionali, ora dettate da credenze superstiziose.

Anche presso i Persiani l'arte veterinaria era nota e si conoscono due opere persiane, tradotte dal sanscrito, l'una che tratta della veterinaria in generale e l'altra delle malattie del cavallo.

Presso gli antichi Ebrei la veterinaria era pure in onore e abbastanza progredita nelle provvidenze igieniche e zootecniche, come ci assicurano i sacri testi d'Israele, che ci hanno tramandato anche notizie anatomiche tratte dagli animali destinati ai sacrifici, notizie sull'idrofobia e sulle qualità terapeutiche del latte di capra, come si rileva dal Vecchio Testamento. Così come il Talmūd ci assicura della severa e illuminata ispezione delle carni alimentari, delle quali erano ritenute pure ed atte alla consumazione solo quelle che non avevano lesioni patologiche: delle quali erano note e individuate le degenerazioni caseose, i tumori del polmone, alcune lesioni epatiche.

 

Grecia

Nella storia della medicina veterinaria la Grecia ha un posto preminente dovuto essenzialmente allo spirito del suo popolo e allo sviluppo della sua attivissima civiltà. Ai primordî il popolo greco ereditò il suo sapere e la pratica medica dai popoli orientali con i quali era venuto a contatto e che già avevano un ricco corredo di cognizioni mediche controllate dalle classi dirigenti, ma dovette avere anche un patrimonio di cognizioni empiriche diffuse nel popolo e praticate dai profani, delle quali si hanno indubbie tracce. In questo sviluppo della medicina demotica la pratica veterinaria dovette avere un largo posto in un popolo dedito con grande cura alla pastorizia e all'allevamento dei grandi domestici. Non solo, ma il regime di libertà in cui il popolo greco visse e il sistema dei medici professionisti funzionarî di stato e "periodeuti" (περιοδεται "medici viaggianti"), sui quali si svilupparono successivamente la medicina sacerdotale asclepiadea e quella ippocratica, dovettero essere fecondi anche per la medicina dei bruti che probabilmente si giovò senza limiti dei progressi via via compiuti dalla medicina popolare fiorentissima.

Si aggiunga che la veterinaria molto probabilmente fu parte di questa medicina demotica che traeva le sue origini dalle ormai lontane sorgenti comuni della medicina istintiva; lo fu certamente quando la scuola d'Esculapio, abbandonata ogni forma ieratica esteriore sotto la spinta erompente delle nuove dottrine filosofiche della scuola italica, aprì i suoi templi a tutti i sapienti e a tutti i bramosi di apprendere; lo fu ancora quando sulla traccia degl'ippocratici la medicina popolare aveva allargato i suoi orizzonti nel clima meraviglioso della civiltà greca. Così nella Grecia la veterinaria pone i suoi primi e saldi fondamenti nella scia della medicina umana sperimentale, risultato di un'esperienza e di un'osservazione ormai molte volte secolari. Tuttavia le vaste nozioni che possediamo sull'arte veterinaria dei Greci le abbiamo indirettamente, perché nessun testo originale di veterinaria è giunto fino a noi.

Non occorre aggiungere, naturalmente, che la medicina veterinaria non raggiunse certo l'altezza della medicina umana, certamente non ebbe di questa il profondo travaglio e che certamente, infine, fu ritenuta anche presso i Greci di rango inferiore alla medicina umana.

Sicuro è comunque che nel terreno su cui fiorirono rigogliose le scuole mediche, mise le sue radici la medicina dei bruti, che solo allora raggiunse per la prima volta un razionale sviluppo attraverso l'acuta osservazione dei fatti morbosi e l'attenta comparazione dei sintomi. Infatti nella raccolta degli scritti della scuola ippocratica troviamo intomo all'arte veterinaria le prime ampie notizie, sebbene incomplete e spesso alterate dalla tradizione manoscritta. Tutto ciò che sappiamo prima dell'epoca ippocratica è ancora molto impreciso. Nell'Iliade e nell'Odissea si trovano, numerosi rifermenti alla medicina veterinaria, alle ferite degli animali particolarmente del cavallo che fu nell'antica Grecia curato più di ogni altro animale, probabilmente per il suo impiego bellico. Può sorprendere in Omero la precisione anatomo-topografica delle indicazioni, ciò che farebbe ritenere che nozioni anatomiche fossero già allora d'uso corrente. Nell'Iliade si accenna anche a una pestilenza che colpì muli e cani, dai quali poi si propagò agli uomini: ciò fa pensare che già allora si avesse anche per le malattie dei bruti il concetto del contagio. Nei tempi omerici in Grecia l'arte sanitaria non è più riservata a una casta, ma è già esercitata da professionisti che vi si dedicano liberamente.

Intorno ai medici di maggior fama sorsero scuole mediche pratiche, famose quelle di Cirene e quella di Crotone nella Magna Grecia, sorta prossima alla scuola filosofica pitagorica.

Nel sec. V a. C. i sapienti dell'Italia meridionale e della Sicilia, cioè di quella scuola filosofico-medica che lo stesso Aristotele chiamò "scuola italica", pongono per la prima volta nel mondo il concetto pitagorico del metodo scientifico. Alcmeone di Crotone afferma per primo che il cervello e non il cuore è la sede delle sensazioni; ed egli, medico, seziona animali a scopo di studio e si occupa delle cause della sterilità del mulo. Il poeta e filosofo pitagorico Epicarmo, anch'egli siracusano, tratta delle malattie del bestiame in un trattato andato disperso. Infine a Ippocrate di Coo, oltre al fondamento della medicina umana scientifica, si deve direttamente o indirettamente anche lo sviluppo di quella medicina veterinaria razionale che fiorì rigogliosa in Grecia. Ippocrate stesso s'occupò, f0rse da un punto di vista comparativo, delle malattie degli animali ed egli stesso vi accenna.

Da Senof0nte possiamo attingere indicazioni precise sul cane e sul cavallo: egli insegna il buon governo di questo e la buona conservazione degli zoccoli, tratta della castrazione e si occupa di alcune malattie contagiose degli animali.

Aristotele ci assicura che in quel tempo la veterinaria era bene sviluppata. Gli scritti di lui rispecchiano certamente i testi degl'ippocratici sulle malattie del cavallo, asino, bove, cane, maiale, cammello, elefante, delle quali egli si occupa sistematicamente, nei libri VIII e IX della sua Storia degli animali, parlandoci di affezioni corrispondenti alla gotta, alla morva, alla rabbia, alle coliche, alla polmonite, all'angina, alla panicatura, ecc. Medico, ha cognizioni anatomiche vaste e precise acquisite nella pratica delle dissezioni degli animali, cognizioni che egli coordina con il suo altissimo spirito di osservazione, sì che si può ritenere il fondatore dell'anatomia comparata. Aristotele descrive per primo i quattro stomachi dei ruminanti e il fenomeno della ruminazione, che ancora affatica la mente dei moderni fisiologi, la molteplicità della placenta, la funzione dei cotiledoni. Sostiene la necessità della patologia comparata, che gl'ippocratici del resto avevano già istituito: "Omnibus pene morbis quibus laborat homo, equum quoque tentari atque ovem".

 

La scuola di Alessandria

Spostatosi l'asse della civiltà e della politica dalla Grecia ad Alessandria, le scuole mediche fiorirono nella metropoli egiziana, dove si fusero le tradizioni orientali e le speculazioni della scuola italica e delle accademie greche.

Grande sviluppo e rinomanza, accanto a quella di Erofilo e di Erasistrato, raggiunge la scuola empirica in cui un altro italico, Eraclide di Taranto (sec. II a. C.), doveva raggiungere grande fama. Attraverso questa scuola pratica, la medicina dei bruti si trasfonde con l'opera degli ippiatri greci nel mondo romano.

L'epoca alessandrina porta a un grande sviluppo della chirurgia veterinaria che, secondo quanto afferma Apsirto, progredisce qui di pari passo con la chirurgia umana.

 

La scuola medica cartaginese

Ebbe pure una bella tradizione e grande sviluppo. Un illustre rappresentante ebbe essa in Magone di Cartagine, condottiero e ippiatra, la cui opera andò dispersa, dopo essere stata largamente consultata dagli scrittori di cose veterinarie Varrone e Columella, che lo ricordano in varî momenti, così come dai compilatori dell'Hippiatrica.

 

Roma

L'epoca romana è generalmente considerata come poco brillante per la veterinaria, e tale fu anche per la medicina, dato lo scarso interesse che i medici trovarono presso i Romani e la mancanza di vere e proprie scuole mediche. Tuttavia l'intenso e razionale allevamento del bestiame, la cura particolare e l'amore da cui fu circondato il cavallo vogliono che questo giudizio circa la medicina dei bruti sia modificato, almeno in parte.

Già Varrone parlando del medicus pecorum per indicare nettamente il medico degli animali, vuole anche che il magister pecoris, l'armentarius, sia sempre fornito di un manuale, opus ad medendium, per le malattie del bestiame, poiché egli riconosce, come lo riconobbero i Greci, che anche negli animali, come nell'uomo, vi sono malattie che reclamano il soccorso del medico e alcune che possono essere curate anche dal pastore. Queste notizie di Varrone ci confermano che anche presso i Romani, come già presso i Greci, vi furono veri e proprî veterinarî che dovevano avere una certa cultura e una sicura pratica dell'arte loro, ma che vi era anche un esercizio empirico della veterinaria affidata all'armentarius, al magister pecoris, al pastore, il quale, anche secondo Columella, "veterinariae medicinae prudens esse debet". Quest'organizzazione medica e veterinaria era quella stessa che vigeva in Grecia e quella che si usò nei grandi agglomerati di animali cone si avevano negli eserciti, nei quali generalmente vi fu un medicus veterinarius o medicus equarius, soprintendente al servizio veterinario, che fu sempre persona colta e che aveva alle sue dipendenze dei pratici, dei maniscalchi forse, dislocati nei diversi reparti.

Alcune legioni romane avevano i loro veterinarî che seguivano gli eserciti come gli altri tecnici. E secondo i "digesti" i veterinarî avevano il 6° grado con gl'ingegneri e gli architetti, mentre i medici avevano il 3° grado. Altre volte i veterinarî erano al seguito diretto dell'imperatore, secondo quanto asserisce Taruntenio Paterno segretario di Marco Aurelio. Al seguito dei corpi di cavalleria nel sec. II d. C. vi furono certamente dei veterinaria, delle infermerie per quadrupedi secondo Igino, così come vi erano negli allevamenti (Columella). È noto l'editto di Diocleziano che fissa lo stipendio per il veterinario. Non crediamo che siano esistite scuole di veterinaria e non sappiamo come si formassero i veterinarî professionisti, che certamente vi furono. È però certo che anche nel mondo romano, vicino a medici veterinarî preparati all'esercizio professionale, esistessero dei pratici di rango inferiore, incolti e rozzi. Comunque l'organizzazione dei servizî veterinarî e lo sviluppo meraviglioso degli allevamenti presuppongono una conoscenza veterinaria di cui si deve dare atto ai Romani. L'assistenza sanitaria agli animali nel mondo romano appare come un'attività strettamente legata all'agricoltura. Degli agronomi romani, di molti che hanno scritto di cose di veterinaria, ricorderemo coloro la cui opera appaia più importante allo scopo nostro.

Catone il Censore, nel suo De re rustica tratta di malattie del bestiame in modo molto vago e superstizioso, ma la superstizione e gli incantesimi sono il substrato di molte trattazioni degli scrittori romani. Varrone parla poco delle malattie dei bruti, ma ci dà informazioni preziosissime sull'organizzazione zootecnica e zooiatrica dei Greci e dei Romani.

Columella nel VI-VII libro del suo De re rustica tratta di molte malattie degli animali domestici, quasi sempre con molta semplicità e chiarezza. La sua opera è assai preziosa perché ci fa conoscere molti degli antichi cultori dell'arte veterinaria greci e latini, e ci offre uno specchio preciso di quali fossero le condizioni della medicina dei bruti fino al suo tempo. Egli ci fa conoscere particolarità tecniche; ci parla dell'uso del "travaglio" ("macchina") per il contenimento dei grossi domestici, ci assicura dell'esistenza di infermerie (valetudinaria) per quadrupedi.

Plinio parla di malattie degli animali in modo superficiale senza apportare nessun fattore; così come il grande medico Galeno, che accenna solo incidentalmente a qualche malattia dei bruti.

 

Gli ippiatri greco-romani

A questo periodo detto degli "agronomi", poco brillante e soprattutto poco originale per la medicina dei bruti, succede un periodo di più grande e di più vera attività veterinaria, di cui ci è testimone una raccolta di scritti in lingua greca del sec. IV d. C. compresa sotto il nome di Hippiatrica (‛Ιππιατριχe) o Ippiatrica e dovuta a varî ippiatri greci, alcuni dei quali furono valentissimi veterinarî e veri maestri.

Dopo che la Grecia perdette la sua libertà, medici e veterinarî greci si sparsero nel mondo romano tramandando nei secoli l'alta tradizione della medicina greca. La raccolta Hippiatrica infatti mostra che i varî compilatori si sono serviti largamente di notizie di epoche anteriori, anche molto antiche, e hanno aggiunto poi ciò che l'esperienza più recente e quella propria ha loro suggerito. In essi l'osservazione dei sintomi è molto attenta ed acuta per giungere a diagnosi differenziali precise; la cauterizzazione praticata in forma eccellente, tanto che alcuni riuscivano ad applicarla senza che ne restassero cicatrici; l'armamentario chirurgico è vario e ricco; il salasso trattato con intelligente ampiezza per la scelta dei vasi, per la quantità del sangue sottratto, per l'emostasi.

La terapia e la farmacologia, specialmente sui derivativi e i topici, erano discretamente sviluppate, sebbene non all'altezza delle altre branche della loro arte. Fra gl'ippiatri, varî sono degni di ricordo e primo fra tutti Apsirto da Clazomene (sec. IV d. C.) che compì i suoi studî forse ad Alessandria e fu veterinario capo degli eserciti di Costantino il Grande. Pelagonio, che sembra sia vissuto anch'egli nel sec. IV, fu ippia tra inferiore certo ad Apsirto. Allo stesso secolo appartiene il libro De veterinaria medicina di Palladio recentemente scoperto. Di età press'a poco contemporanea deve essere anche la Mulomedicina che va sotto il nome di Chirone, non si sa se per ricordo del centauro o perché effettivamente l'autore portasse questo nome. Ierocle, vissuto verso il 400 d. C., scrisse due libri dell'Hippiatrica dedicati a Basso, ancora inediti.

Teomnesto, veterinario militare di Licinio imperatore d'Oriente, che lo onorò della sua amicizia assegnandogli un alto grado, fu ippiatra valoroso e personale, scrittore brillantissimo e colto.

Oltre all'opera degl'ippiatri altra degna di rilievo per l'importanza che ebbe per tutto il Medioevo e per le discussioni appassionate che sul suo valore suscita anche oggi, è l'opera Artis veterinariae, sive digestorum Mulomedicinae libri IV di P. R. Vegezio (450-510 d. C.), che utilizza Columella, Pelagonio, Chirone e Apsirto. La sua opera è la più completa che si abbia dell'epoca romana, ricca di notizie interessantissime per lo sviluppo della veterinaria.

Vegezio è l'ultimo degli scrittori romani di veterinaria. Quelli che seguono per varî secoli ne parlano incidentalmente in opere di vario contenuto e in ogni modo di nessun valore. La medicina dei bruti, come quella dell'uomo, decade col Medioevo.

Nella decadenza della civiltà romana la medicina veterinaria resisterà più a lungo per opera degl'ippiatri nella corte di Bisanzio, che trasmetteranno la tradizione greco-romana, e della cui attività in questo periodo ci rimangono due opere scritte in greco sulla medicina dei piccoli animali, De re accipitaria o Hierakosophion e il Cynosophion sulla medicina dei cani, forse ambedue (ma certamente almeno la prima) scritte da Demetrio Pepagonanos, archiatra dell'imperatore Michele VIII (1251-1281).

Nel primo Medioevo la letteratura e la pratica veterinaria sono interamente opera di pratici arabi, i quali, seguaci e continuatori degl'ippiatri greci e romani, le riportarono a nuovo splendore.

 

Gli Arabi

Agli Arabi dobbiamo essere molto grati per averci conservato i fondamenti della veterinaria greco-romana di fronte al decadimento profondissimo della medicina umana; sicché non è avventata l'affermazione che in quel periodo la medicina dei bruti, come quella che aveva mantenuto il suo antico contenuto razionale, fu certamente superiore di non poco alla medicina dell'uomo. Dei numerosi trattati arabi i più noti sono: il "libro dell'agricoltuia" Kitāb al-Falāah) di Ibn al-Awwām di Siviglia nel sec. XII; e l'altro "la medicina veterinaria" di Abū Bekr Ibn Berd, già consultato dall'Ercolani (1851) sui codici della biblioteca Riccardiana di Firenze in una traduzione di un Mosè di Palermo, e tradotto recentemente in tedesco da R. Fröhner (1931). Questo arabo, veterinario del sultano mamelucco di Egitto al-Melik an-Nāsir, esercitava la sua arte nel 1320 e dalle descrizioni che egli fa dei suoi interventi è chiara la conoscenza e l'imitazione che egli pratica degli scrittori della Hippiatrica. Egli s'innalza però anche a problemi generali, parla della differenza tra l'uomo e il cavallo come pazienti, dell'influenza della natura animale sulle misure terapeutiche; si occupa delle malattie degli zoccoli accennando alla ferratura come mezzo terapeutico.

 

I maniscalchi

La tradizione veterinaria, attraverso i pratici arabi, si trasmette poi nei primi secoli dopo il Mille ai pratici italiani, ai "marescalchi o maniscalchi" italiani, e anche agli spagnoli e ad altri. È allora, in Italia, una magnifica fioritura di pratici che presto, sempre sulle orme degl'ippiatri greco-romani e di Vegezio, acquisteranno gran nome e verranno ricercati da tutte le corti di Europa. Pratici intelligenti, depositarî per tradizione familiare della pratica veterinaria, questi "marescalchi" italiani sono acutissimi osservatori che portano un contributo originale e spesso definitivo specialmente alla patologia dei piedi del cavallo e all'arte del ferrare che già prima del Mille era diffusa dappertutto in Europa. In questo tempo risorge in Italia e si continua, allargandosi e perfezionandosi, un primato indiscutibile di pratica veterinaria. Nel rifiorire del pensiero artistico, medico, scientifico, filosofico italiano, anche la medicina veterinaria conquista il suo primato, all'ombra della fiorentissima scuola medica italiana, iniziando poi col Ruini la sua ricerca nettamente scientifica. Tralasciando i minori, ricordiamo Giordano Ruffo di Calabria (1250-1260), "imperiale maniscalco maggiore" e cavaliere di Federico II, autore originale di un "libro di mascalcia" che fu celebre per molti secoli. Il lucchese p. Teodorico Borgognoni, dell'ordine dei predicatori, vescovo di Cervia (1205-98) autore di un'opera ili chirurgia umana e d'un trattato di veterinaria (Mulomedicina ex dictis medicorum mulomedicorum sapientium) compilato sulle conoscenze degl'ippiatri greci, P. Vegezio, G. Ruffo, Alberto Magno, ma con osservazioni originali e profonde sulla ferratura del piede mancino col ferro a bastone. Pietro De Crescenzio (1233-1310) di antica famiglia bolognese, nella sua opera Dell'agricoltura dedica il IX libro alle malattie degli animali attingendo agli agronomi romani e a Giordano Ruffo. Lorenzo Rusio (1288-1347) veterinario a Roma scrisse il suo Libro di mascalcia che si diffuse presto in Europa ed ebbe molte edizioni in varie lingue, compilato sulla conoscenza degl'ippiatri, del Ruffo e di Alberto Magno, ma anche su propria diretta osservazione. Dino di Pietro Dini, discendente di una famiglia di maniscalchi fiorentini, autore di una "Mascalcia" (1352-59) in lingua italiana, compilata su testi precedenti specialmente sull'opera di Vegezio, ma anche ricca di originali osservazioni personali, di precetto d'igiene e di zootecnia. È il primo il Dini a fare una divisione tra "malattie chirurgiche e fisiche" portando il suo contributo di chiarificazione e d'innovazione. È interessante nell'opera del Dini la rassegna che egli fa di numerosi maniscalchi del suo tempo nelle varie città italiane.

Agostino Columbre di S. Severo, maniscalco del re Ferdinando d'Aragona, scrisse verso il 1518 I tre libri sulla natura dei cavalli e del modo di medicare le loro infermità, importantissima opera perché è la prima che contiene sistematiche nozioni di anatomia quali fino allora si avevano del cavallo e del bove e perché vi appaiono nuovi concetti sullo studio delle malattie. Il Columbre per queste sue innovazioni segna una data nella medicina veterinaria: perché con la sua riassuntiva opera anatomica si chiude il periodo dell'imitazione degli antichi testi e s'inizia nell'anatomia un periodo nuovo di ricerca e di osservazione sistematica. Questo nuovo indirizzo si afferma con Carlo Ruini (1530?-1598) senatore bolognese, autore di un'opera Dell'anatomia e delle infermità del cavallo, con la quale l'arte veterinaria inizia il suo cammino nel tempo moderno su una base nettamente scientifica. L'anatomia del Ruini è infatti la prima opera fondamentale dell'anatomia veterinaria moderna. Anche la parte sulle infermità del cavallo è buona, poiché il Ruini conobbe tutti gli autori precedenti e poté ordinare in un nesso nosologico razionale e chiaro le diverse malattie; ma la sua fama maggiore e più vera gli viene dalla sua opera anatomica, per cui egli è ritenuto il fondatore dell'anatomia veterinaria. Questa dovette molto agli anatomici umani da Leonardo al Vesalio, a B. Eustachi. L'ultimo più e meglio degli altri osservò e descrisse organi e apparecchi dell'uomo e degli animali, comparandoli con acutissimo intelletto e preparando una solida base ai ricercatori posteriori.

Il Ruini visse nel clima di questa ricerca appassionata operosa e fortunata che sorgeva d'ogni dove e per lui particolarmente dallo studio bolognese: e fu anch'egli ricercatore originale indipendente e razionale. Fu il primo moderno che portò l'arte veterinaria al posto che doveva conquistare due secoli dopo, e che diede all'Italia un primato che nessuno poté contenderle. Purtroppo il Ruini fu solo; il suo esempio e la sua opera non furono proseguiti; la veterinaria continuò a essere in Italia e nel mondo un insieme di empirismo rozzo e ignorante e forse dopo il Ruini attraversò il suo più triste periodo. Ché nulla di nuovo si era fatto, mentre i vecchi maestri, gl'ippiatri e gli agronomi, erano ormai dimenticati o sconosciuti dalla misera massa dei maniscalchi, e una nuova categoria di pratici, quella degli "scudieri", sorgeva a occuparsi non di medicina veterinaria, ma del cavallo, del suo maneggio, della sua ferratura. Fu Federico Grisone da Napoli (autore, forse nel 1530, di un'opera sugli "ordini di cavalcare, ecc.") il fondatore di una scuola di equitazione divenuta celebre in tutta Europa nel secolo XVI. Un altro scudiero dello stesso tempo, Cesare Fiaschi da Ferrara, fu autore di un Trattato dell'imbrigliare, maneggiare e ferrare cavalli (Bologna 1539). Il Fiaschi fu però peritissimo nella difficile arte del ferrare, che egli nella terza parte del suo trattato dimostra di conoscere profondamente e alla quale portò il contributo di conoscenze originali di grande interesse, che lo pongono tra i grandi podologi.

 

Altre nazioni

Mentre in Italia forivano numerosi e valenti i pratici, quelli più noti cui abbiamo brevemente accennato e altri molti di cui abbiamo dovuto tacere, in altre nazioni era pure coltivata l'arte veterinaria, e nei varî tempi erano state compilate opere diverse. Ricorderemo Alberto Magno vescovo di Ratisbona (1193-1280) autore di un'opera De animalibus, che fu molto nota e imitata anche in Italia; Vincent de Beauvais (1184-1264) che nel suo Speculum naturae tratta delle malattie degli animali.

Nella Spagna specialmente fiorirono ottimi pratici veterinarî, continuatori degl'ippiatri arabi. Ricorderemo Juan Álvarez Salamiellas, di cui conosciamo un pregevolissimo codice, un trattato incompleto di manescalcia et albeyteria et fisica de las bestias del sec. XV, in 96 capitoli, conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi. Il re di Napoli, Alfonso V d'Aragona, fece compilare (1435-1443) da Don Manuel Díaz, col concorso dei più celebri veterinarî del tempo, un Libro de Albeyteria; mentre altre opere erano poco dopo compilate da F. de la Reyna e Juan de Vinuesa. Lo sviluppo della veterinaria nella Spagna era notevole nel sec. XVI; e il servizio veterinario era regolato già da disposizioni giuridiche.

Nel sec. XIV in Castiglia gli esercenti l'arte veterinaria venivano esaminati e sorvegliati da una superiore autorità che si chiamava "protoalbeiterato" e già nel 1563 v'era una netta distinzione tra i "pratici" che potevano soltanto ferrare i cavalli, e gli speciali competenti che potevano esercitare la medicina dopo essere stati esaminati e giudicati dall'autorità; prestavano giuramento e potevano intervenire a dichiarare i difetti del cavallo nei contratti di compravendita (W. Riech, 1932). In Germania, nel Medioevo, sembra esistessero uomini dediti a quest'arte, quali Zachareis nel 1326 a S. Giovanni in Val di Sage; Ubrich nel 1388 a Ulma; mastro Hans nel 1474 a Gottinga; il vescovo Peter von Schauemberg di Würzburg (1424-69); il conte Giorgio di Mantfurt (1545). Tuttavia fino al Rinascimento non vi si era compreso il concetto del veterinario come fu inteso più tardi. Vi erano noti gli agronomi romani e più Vegezio, varie volte tradotto in tedesco: in una versione del 1532 di questo autore romano per la prima volta il latino mulomedicus fu tradotto in Thierarzt, che però non fu ancora un veterinario, ma un "pratico", poiché in Germania la veterinaria nel sec. XVII stava tutta in mano ai maniscalchi (R. Fröhner, 1927). Tuttavia dobbiamo ricordare un pratico, maniscalco e costruttore di ferri chirurgici, Martin Bogme (1559-1636) che godette a Berlino molta fama e fu autore di un'opera di medicina dei cavalli. Nel secolo seguente un altro pratico, J. A. Gaab, scudiero che aveva ricevuto la sua prima educazione in Francia, servendo anche nell'esercito, fu poi veterinario alla corte di Brandeburgo (1737-70), autore di una Medicina pratica del cavallo (1767). Abile chirurgo, ideatore di una "sonda gastrica", ebbe anche allievi che istruiva presso la scuderia di Ansbach.

In Inghilterra fino al 1600 furono numerosissimi gl'Italiani praticanti l'arte veterinaria, tanto che F. Heusinger, lo storico della medicina, afferma che la veterinaria inglese deve essere riguardata come avente la sua origine e il suo sviluppo in Italia. In Inghilterra nel sec. XV, secondo un'ordinanza di Londra, si aveva la distinzione tra maniscalco, maresciallo e veterinario: quest'ultimo solo era il "medico" dei cavalli. I maniscalchi praticavano la ferratura, consigliavano nella compravendita e potevano anche "consigliare" una cura, che doveva però essere lasciata sempre al veterinario; altrimenti essi erano condannati a indennizzo nel caso che la cura fosse andata male. Il maresciallo era il "maestro di stalla" nelle grandi scuderie, e questo titolo rimase fino al sec. XVIII. È noto fra gli altri il maestro maresciallo italiano Annibale alla corte di Enrico VIII. F. Herbert nel 1523 adopera la parola horse-leach per medico dei cavalli; e T. Blundeville, quando scrive la sua opera (1565), I quattro principali scopi della cavallerizza, non conosce ancora la parola veterinarius. La parola veterinarian ricorre per la prima volta in T. Browne (1646). Carlo II diede ai maniscalchi curanti di Londra uno stato corporativo, a capo del quale nel 1675 troviamo il "maresciallo ferratore" Andrea Snape, discendente da una famiglia che da oltre 200 anni esercitava l'arte, autore del primo trattato inglese di anatomia veterinaria (1683) e noto plagiatore del Ruini. Nei primi decennî del sec. XVIII accanto ai maniscalchi per i cavalli comparvero anche medici per i bovini e per piccoli animali. Ma già varî medici umani cominciarono a occuparsi di veterinaria. Nel 1765 un altro della famiglia Snape aprì un ospedale per cavalli, nel quale anche s'insegnava la professione: ma il tentativo fallì e l'ospedale equino fu chiuso nel 1778. Nel 1789, per iniziativa del francese Vial de Sainbel, fu fondata a Londra una scuola privata di medicina veterinaria, di cui fa animatore J. Hunter; e nel 1823 un'altra ne venne fondata a Edimburgo da William Dick. Una scuola statale fu fondata dal governo reale soltanto nel 1844.

Anche in Francia la tradizione degl'ippiatri greco-romani e arabi era penetrata profondamente, continuatavi anche da numerosi maniscalchi italiani, ricercati dalle grandi scuderie gentilizie. Nel 1479 vi compare un trattato sulla pastorizia, scienza e pratica, che Jehan de Brie scrisse per incarico di Carlo V, e che forma la prima memoria di patologia ovina. Pochi decennî dopo il medico Jean Ruel curava la prima edizione dell'Hippiatrica, che usciva a Parigi nel 1530, in lingua latina; mentre una traduzione francese era preparata nel 1563 da un altro medico, J. Massé, che vi aggiungeva anche un prontuario di veterinaria. Nel 1599 comparve un'opera di anatomia, cioè Hippostologie, il primo lavoro di anatomia che si avesse in Francia; ad opera anch'esso di un medico, Jehan Heroard. Nel sec. XVII sorgono in Francia i grandi scudieri, che ebbero il loro capostipite in Federico Grisone e i famosi cavallerizzi e ippofili, veri maestri dell'arte del maneggio e del governo del cavallo, ma empirici, ignoranti e spesso presuntuosi, nell'arte di conoscere e di curare le malattie. In questo tempo l'arte veterinaria segnava un decisivo regresso di fronte al fervore delle scienze sperimentali che alitava d'ogni parte intorno. Nel 1664 Jacques de Solleysel, già iniziato in Germania allo studio delle malattie e del maneggio del cavallo, pubblicò il suo Parfait marechal, che ebbe presto l'onore di varie edizioni tedesche e inglesi, trattato d'igiene ippica e zoognosia, di ferratura e malattie del cavallo: compilazione tratta dai precedenti maniscalchi, in nulla originale e qualche volta peggiorata, ma spesso sfrondata dalle ridicole assurdità del tempo. Solo per la ferratura, che pure in gran parte prese da quella di Grisone, si notavano ordine e chiarezza encomiabili. L'opera dei Saunier, padre e figlio, niente di nuovo ci porta: comparsa nel 1734 sotto il titolo La parfaite connaissance des chevaux, fa però uno sfacciato plagio di alcune tavole anatomiche del Ruini. E nulla di nuovo rappresenta l'Anatomia generale del cavallo, che F. A. Garsault (1693-1778) tradusse dall'opera inglese di A. Snape, che aveva a sua volta plagiato il Ruini; né le altre opere di questo scudiero. Così come nessun nuovo contributo arreca l'opera di F. R. La Guerrinière, professore all'accademia di equitazione di Caen (morto nel 1751).

Lo spirito dei nuovi tempi si riflette invece già in G. Lafosse padre, scudiero del re, morto nel 1765, che nei suoi lavori sulla morva (il primo pubblicato a Parigi, nel 1749), in quelli sullo zoccolo del cavallo e sulla ferratura, e specialmente nelle sue Observations et découvertes faites sur les chevaux (1754), dimostra una cultura e delle conoscenze che sopravvanzavano non poco quelle dei colleghi del suo tempo. Osservatore attento, uomo colto, amante della sua arte, lasciò nella medicina veterinaria un'orma presto fatta più profonda da suo figlio Filippo Stefano. Nato questi a Parigi (1738-1820) ed educato dal padre nell'arte dello scudiero, studiò prima anatomia umana, e poi quella del cavallo di cui tenne corsi dimostrativi. S'iscrisse più tardi alla facoltà di medicina di Parigi. Uomo molto colto, fu assai buon anatomico, ottimo podologo e chirurgo abilissimo. Non conobbe gl'ippiatri greco-romani, e la sua cultura, specialmente di medicina interna, risente di questa lacuna. Autore della Guide du Maréchal (1766, Parigi), di un Cours d'Hippiatrique (1772), di un Dictionnaire raisonné d'hippiatrique (1775), e di numerose altre opere di veterinaria, scrisse anche molte memorie critiche e polemiche sulle scuole veterinarie di recente f0ndazione e particolarmente contro il Bourgelat.

 

Le scuole

Ma già maturavano i tempi perché la veterinaria fosse tratta dal suo decadimento e riportata alla sua funzione di presidio per la salute degli animali, per la ricchezza agricola e anche per la salute dell'uomo. Nei primi decennî del sec. XVIII le terribili pestilenze che colpirono i bovini di quasi tutta l'Europa e contro le quali inutilmente si erano arrovellati gl'incolti e rozzi empirici, posero dinnanzi ai governi e agli uomini più illuminati il problema della cura degli animali domestici.

Furono i grandi medici dell'epoca, B. Ramazzini, G. M. Lancisi, A. Vallisnieri, F.-B. Sauvage che s'occuparono allora delle gravi epizozie che infierivano sul bestiame e richiamarono alla necessità che anche le malattie dei bruti fossero studiate razionalmente. Sorsero allora in Francia, per iniziativa di C. Bourgelat, le prime scuole di veterinaria: la prima a Lione nel 1761, la seconda ad Alfort nel 1762, segnando la più luminosa data della medicina veterinaria. C. Bourgelat (1713-1779) prima avvocato, appassionatosi alle cure del cavallo, studiò medicina umana, convincendosi profondamente che per la comprensione delle malattie degli animali era necessario possedere le conoscenze mediche che si avevano per le malattie dell'uomo. Divenne così tenace assertore della necessità di istituti di studio per la medicina dei bruti. Egli scrisse molte opere: d'ippiatrica, di materia medica, storia della veterinaria, esteriore conformazione, anatomia, apparecchi e bendaggi, fratture e malattie infettive. Il governo francese gli affidò la fondazione della scuola di Lione e di quella di Alfort, di cui fu direttore fino alla sua morte. L'essere stato l'ideatore e il fondatore delle scuole di veterinaria fu il suo vero e grande merito. Ben presto accorsero in Francia allievi di ogni parte d'Europa e le scuole si diffusero naturalmente per ogni dove. In Italia, dove già prima del 1700 era sorto a Perugia "un lettorato" per la veterinaria dipendente da quello studio di medicina, le scuole si diffusero numerose: a Torino (1769), a Padova (1774), a Bologna (1783), a Ferrara (1786), a Modena e Milano (1791), a Napoli (1796), a Roma (1806), a Pisa (1818). E sorgevano inoltre quelle di Dresda (1774), Copenaghen (1776), Vienna (1777), Hannover (1778), Karlsruhe (1784), Londra (1789), Monaco e Berlino (1790), Madrid (1793). Le scuole francesi, dirette prima dal Bourgelat, ebbero poi a capo Ph. Chabert, quella di Lione e P. Flandrin quella di Alfort. Tuttavia fondate le scuole non fu subito trovato il giusto indirizzo da dare loro: chi voleva che le scuole di veterinaria fossero il primo passo per quelle di medicina; chi ne voleva fare un ramo dell'economia rurale. Soltanto con l'andare degli anni le diverse nazioni corressero e modificarono i primi tipi di programmi, adattandoli alla loro economia e ai loro particolari bisogni. Comunque, con la f0ndazione delle scuole, la medicina dei bruti trovò la sua strada e poté assidersi molto onorevolmente scienza tra le altre scienze. In Italia alcune delle scuole fondate tra il sec. XVIII e il XIX scomparvero, altre ne sorsero. Scomparvero molto presto quelle di Padova, di Ferrara, di Roma e recentemente quella di Modena (1923). A quelle preesistenti di Torino, Milano, Napoli, Bologna, Perugia, Pisa, Parma, Camerino, si aggiunsero invece nel 1927, quelle di Messina e di Sassari. Successivamente varie provincie si arricchivano di Stazioni sperimentali per le malattie infettive del bestiame, ottimamente attrezzate e organizzate.

Con la fondazione delle scuole la veterinaria si orienta presto sulle orme della medicina umana seguendone l'organizzazione e il metodo scientifico, ma cercando anche di svilupparsi in un suo campo indipendente verso un'autonomia che maturerà più tardi. Nella seconda metà del sec. XVIII erano comparse molte opere di medicina veterinaria in parte dovute a illustri medici, come L. Vitet, F. Vicq d'Azir, J.-J. Paulet, in parte a distintissimi veterinarî che furono maestri e capiscuola, quali Ph. Chabert, P. Flandrin, il fondatore della moderna fisiologia veterinaria, J.-B. Huzard, E. Tessier e altri in Francia; il conte F. Bonsi, A. Zanon, C. G. Brugnone, U. Bonfanti, Odoardi, Baronio, ecc., in Italia: molte altre opere apparivano in ogni parte d'Europa. Col sec. XIX la medicina veterinaria s'afferma saldamente in ogni ramo delle scienze mediche e biologiche.

L'anatomia e la fisiologia. - Nel nostro sguardo attraverso il cammino percorso dalla veterinaria abbiamo più volte accennato a conoscenze anatomiche che i più antichi popoli dovettero avere dagli animali uccisi per i sacrifizî divini o adibiti all'alimentazione. Ma non è facile apprezzare fino a qual punto essi sapessero usare di queste cognizioni nel campo medico. Anche nella Grecia omerica, asclepiadea e ippocratica le cognizioni anatomiche sono scarse e poco attendibili. Dobbiamo scendere alla scuola pitagorica ad Alcmeone di Crotone e più ad Aristotele per avere notizie sistematiche. Aristotele è considerato, oltre che dell'anatomia umana e della anatomia comparata, anche il fondatore dell'anatomia e della fisiologia veterinaria, cui gl'ippiatri come gli agronomi, e tanto meno Vegezio, nulla di nuovo apportarono. Galeno, studiando sulle scimmie e sui cani, portò una maggiore chiarificazione nella miologia e nella conoscenza del sistema nervoso e del cervello, ch'egli studia sul bue. La sua anatomia e le sue cognizioni di fisiologia sono quelle che dominano per tutto il Medioevo e il Rinascimento sia nella medicina umana sia in quella dei bruti. L'anatomia veterinaria deve giungere al sec. XVI per avere con Agostino Columbre un'opera anatomica sistematica, sia pure di trita compilazione imbastita sulle misere conoscenze di Vegezio e precedente di poco l'opera fondamentale moderna di Carlo Ruini. Questi, liberatosi dai legami del passato, concepì e scrisse, su osservazioni ed esperienze proprie, il primo trattato scientifico moderno sull'anatomia del cavallo. Più tardi portarono notevoli contributi all'anatomia e alla fisiologia veterinaria J. Girard (1770-1852), P. Flandrin, L. Leroy (1760-1820), H.-C. Goubaux (1820-1890), G. B. Ercolani (1817-1873), H. Bouley (1814-1885), E. F. Gurlt (1794-1882), J.-B.-A. Chaveau (1827-1917), A. Lemoigne (1821-1912), A. T. Leisering (1820-1892), E. Sertoli (1842-1910), P. Marey, M. Collin, W. Ellenberger (1848-1929), G. Paladino (1842-1917).

 

L'anatomia patologica

La conoscenza macroscopica di lesioni anatomo-patologiche era già acquisita da tempi antichissimi nella pratica dell'ispezione dei visceri degli animali destinati all'alimentazione o ai sacrifici. Certamente nell'alta antichità si conobbero diverse lesioni polmonari, alcune cisti parassitarie in varî organi, la cirrosi e la distomatosi epatica. È poi noto come Vitruvio riferisca che era buona pratica esaminare il fegato degli animali che vivevano in una zona per decidere della sua salubrità prima di porvi gli accampamenti. Ippocrate aveva notato varie specie di cisti del polmone e del cervello; e Aristotele parla di lesioni del polmone e del fegato, dei calcoli della vescica, cui gl'ippiatri e Vegezio aggiunsero i calcoli salivari, i polipi del naso, diversi tumori e varie altre lesioni.

Queste nozioni si allargarono attraverso le diverse età dei "marescalchi" e degli "scudieri" e dei primi "veterinarî"; ma l'insegnamento dell'anatomia patologica entra un po' tardi nei programmi delle scuole di veterinaria. Quando vi entra, eccellono in questi studî A. Alessandrini (1786-1861), C. J. Fuchs (1801-1872), E. F. Gurlt, A. Bruckmüller (1823-1883), W. Schütz (1839-1921); e gl'Italiani G. B. Ercolani, F. Brazzola (1859-1921), S. Rivolta (1832-1893); G. Piana (1852-1915); V. Colucci (1846-1918); F. De Gasperi (1881-1934).

 

La patologia medica e la batteriologia

Non si hanno tracce di questa disciplina nell'antichità prearistotelica ed è ancora Aristotele che sembra accennare a qualche cosa di non ben definito nel cavallo e nell'asino. Se ne occupa poi brevemente Columella, che si diffonde di più nella patologia del bove, ma sono gl'ippiatri e Vegezio i valorosi fondatori di questa parte della medicina veterinaria. Essi conoscevano varie affezioni dell'apparato digerente e dei suoi annessi, milza e fegato, e avevano classificato varie forme di colica; varie malattie dell'apparato respiratorio, di quello urinario e della circolazione: conoscevano la pericardite del cavallo; varie lesioni del sistema nervoso come la paraplegia, l'epilessia, la vertigine, la commozione cerebrale; e varie lesioni dell'apparato genitale maschile e femminile. Conoscevano anche diverse malattie infettive e contagiose: la morva, la peste, l'adenite, il carbonchio, il tifo, la rabbia, la scabbia. In Columella si trovano anche note sulla patologia degli uccelli. Dino Dini per primo divise le affezioni degli animali in chirurgiche e mediche.

Con l'istituzione delle scuole la patologia medica e la batteriologia veterinaria ebbero un grande sviluppo per la geniale attività di chiarissimi patologi e batteriologi; citeremo qui i nomi di E. Delafond (1805-61), G. Haubner (1806-82), G. B. Ercolani, S. Rivolta, H. Bouley, F. Roloff (1830-85), P. Megnin, Dickeroff, C. Cadéac ed E. Nocard, E. Perroncito, P. Oreste (1839-1934), L. Sani (1891-1930).

 

La chirurgia

Fu questo certamente il campo di maggiore attività nel tempo antico. La castrazione, il salasso, la cauterizzazione furono interventi noti ai popoli antichissimi. Columella e Vegezio ci parlano del travaglio come mezzo di contenimento già noto in antico e attraverso gl'ippiatri si conosce un buon armamentario chirurgico. Le operazioni che questi ottimi veterinarî praticavano erano molte ed eseguite con buonissima tecnica, continuata attraverso gli Arabi e i maniscalchi fino agli scudieri e alla fondazione delle scuole. Con queste si ebbe una fioritura di valentissimi chirurghi, patologi, clinici e operatori, che spesso si valsero delle innovazioni della chirurgia umana e spesso furono essi stessi innovatori geniali. Ricorderemo Ph.-É. Lafosse (figlio) e C. Bourgelat, Bracy Clark (1770-1860), E. v. Hering (1789-1881), U. Leblanc, L. Brambilla, G. Müller, R. Bassi (1830-1914), N. Lanzillotti-Buonsanti (1846-1924), A. Vachetta (1846-1933), Th. Schmidt, E. Frohner, D. Bernardini (1875-1926) e un'elettissima schiera di viventi in ogni parte del mondo.

 

L'oculistica

L'oculistica fu poco conosciuta e Columella, gli ippiatri e Vegezio ce ne dànno poche notizie: tuttavia ai loro tempi già si conosceva la cateratta, l'ulcera corneale, lo stafiloma, lo pterigio, l'entropion: Vegezio praticava la paracentesi oculare. Cenni di malattie degli occhi si trovano nell'opera di G. Ruffo, in quella del Rusio, di F. Grisone e in quella del Ruini. Molto interessanti le monografie di F. Bonsi, di L. Vitet, di É.-G. Lafosse, J.-B. Huzard, F. Toggia, C. G. Brugnone, G. Pozzi, U. Leblanc, G. Müller, P. Oreste, N. Lanzillotti-Buonsanti, B. Blazekovic, J. Bayer, G. Schlamp, N. Hirschberg, A. Vachetta.

 

La podologia

Questa branca occupò un buon posto nella chirurgia di ogni tempo. Anche gli antichi si preoccupavano molto che le unghie dei grandi domestici fossero buone. Se ne occupò Senofonte; Apsirto nell'Hippiatrica ne parla diffusamente e fa una classificazione dei difetti dello zoccolo; Vegezio discorre di ascessi e di operazioni di dissolatura. Le malattie dei piedi furono molto curate dai pratici arabi particolarmente da Abū Zakarīyā' Yaià (sec. XII); e i maniscalchi italiani divennero peritissimi in questa pratica e nell'arte di ferrare. G. Ruffo, Teodorico vescovo di Cervia, P. Crescenzi, D. Dini, L. Rusio, G. Fiaschi; gli spagnoli Manuel Díaz, F. de la Reina, Juan de Vinuesa, Fernando Calvo ed E. Manganas nel sec. XVI scrissero di podologia, come poi G. Ruini, J. Solleysel, F.-A. Garsault.

Con la fondazione delle scuole altri Italiani continuarono la brillante tradizione; basterà citare: G. Brugnone, C. Brambilla, R. Bassi, A. Vachetta, G. Fogliata, E. Chiari. All'estero si distinsero Ph. Chabert, Bracy Clarck, E. Bouley, M. Watrin, A. Goyou, A. Riquet, A. Leisering, G. Hartmann, E. Delperier, G. Peuch, G. Chardier, P. Poret, M. Pader, J. Turner, G. Flemming, G. Thary e altri molti.

 

La zootecnia e l'igiene

Abbiamo già detto come in varie epoche la veterinaria consistesse particolarmente nell'arte di allevare, selezionare e ingrassare gli animali e come quest'arte fosse coltivata insieme con norme igieniche di buon governo presso Assiri e Babilonesi, Ebrei, Egizî, Greci e Romani. Virgilio, Columella e altri scrittori latini ci dicono cose molto interessanti, così come i posteriori scrittori che s'occupano di agricoltura e di allevamento del bestiame. Certo che l'osservazione e l'esperienza in questo ramo della veterinaria avevano acquisito alla pratica ottimi risultati che si mantennero anche nel Medioevo e nel Rinascimento. Ma con la fondazione delle scuole e particolarmente in tempi recenti la zootecnia ha acquistato in ogni parte del mondo un'importanza e uno sviluppo enormi, sì che impossibile sarebbe citare qui i nomi dei suoi cultori, ormai innumerevoli.

Di questi, ricorderemo solo alcuni che nel sec. XIX concorsero a dare una base scientifica alla pratica zootecnica: G. Brugnone, J. Girard, E. Delafond, E. Barthélemy, A.-G. Goubeaux, M. Guénon, J. Magne, F. Lecoq, C. Lessona, R. Bassi, G. Barrier, P. Baron, G. Sanson, A. Cornevin, B. Tempelini, G. Tombari, A. Lemoigne, S. Baldassarre, G. Fogliata, E. Marchi, C. Pucci.

 

Bibliografia

A. Zanon, Saggio di storia della medicina-veterinaria, Venezia 1770; F. Heusinger, Recherches de pathologie comparée, Kassel 1853; G. B. Ercolani, Ricerche storico-analitiche sugli scrittori di veterinaria, Torino 1851-54; E. A. Hering e G. W. Schrader, Biographisch-literarisches Lexicon der Thierärzte, Stoccarda 1863; F. Eichbaum, Grundriss der Geschichte der Thierheilkunde, Berlino 1885; L. Postolka, Geschichte der Thierheilkunde, Vienna 1887; L. Moulé, Histoire de la méd. vétérinaire, in Rec. de méd. vétérinaire, Parigi 1890-91; A. Vachetta, Unicuique suum. Rivendicazioni storico-chirurgiche, in Annali delle università toscane, 1921; W. Wolsing, Zur Geschichte der Tierheilkunde, in Berliner tierär. Wochen, 1926-27; R. Fröhner, Unsere Standesvorfahren, in Arch. f. wiss. u. prakt. Tierheilk., 1927; E. Leclainche, La médecine vétérinaire chez les Grecs et chez les Romains, in Rec. méd. vétér., 1927. H. J. Sevilla, L'hippiatrique byzantine du IVe siècle, in Rec. méd. vétér., 1922, 1929, 1933, 1936; Fr. Bullock, Notes on the early history of the veterinary surgeon in England, in Vet. Rec., 1929; F. Simon, Das Corpus Hippiatricorum Graecorum von E. Oder und C. Hoppe in seiner Bedeutung, in Chir. klin. tierärtz. Fak. Univ. München, 1930; V. Chiodi, La veterinaria attraverso i secoli, in Ann. Veterinario Italiano, Roma 1934-35; E. Leclainche, Histoire de la médecine vétérinaire, Tolosa 1936.

 

G. Vatti, Voce «Veterinaria» sull'Enciclopedia Treccani (1937); disponibile on line


Home del Certamen sulla veterinaria (2014)

Home