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La
musica colta in Occidente
spunti di riflessione sul rapporto tra linguaggio verbale e linguaggio
musicale
Avevo
inizialmente pensato di dedicare questo mio intervento ad un unico tema,
ma dato il tempo relativamente breve a mia disposizione ho poi preferito
lidea di fornirvi una serie di flash, per così
dire, di spunti di riflessione su un argomento altrimenti decisamente
troppo complesso per poter essere affrontato in modo approfondito in questa
sede. Tale argomento è, come forse avrete già avuto modo
di vedere dal programma distribuito, il rapporto, o meglio alcuni dei
rapporti che si sono creati fra linguaggio verbale e linguaggio musicale,
tra parola, anche poetica, e musica, nella storia della musica cosiddetta
colta dellOccidente, quella che più correntemente
viene definita musica classica.
La scelta di affrontare questo argomento
vuole avere come obbiettivo indiretto quello di illuminare
la parola, e anche la parola poetica, da una prospettiva un po diversa
da quella dei poeti presenti in queste serate, ed evidenziarne anche le
possibilità di contatto, relazione, intreccio con la musica, considerata
a sua volta come un linguaggio. Queste possibilità sono state,
e forse ancora oggi sono, talmente numerose da far quasi pensare che siano
infinite. Si può affermare che lintreccio parola musica
sia stato cercato e creato dalluomo dellOccidente sin dagli
albori della nostra civiltà musicale, per i più diversi
motivi e con i più diversi scopi. Mi pare anzi che nel tempo di
queste origini si sia manifestata la tendenza a ricondurre in un certo
senso lignoto o il meno noto, cioè il fatto musicale, al
già noto, ovvero la parola, il linguaggio verbale.
Dimostrandovelo,
vi fornisco anche il primo spunto di riflessione; dobbiamo risalire la
corrente del tempo fino allXI secolo, e ricordare un nome, quello
del monaco Guido dArezzo, al quale in pratica dobbiamo i nomi delle
note che ancora oggi noi utilizziamo: do, re, mi, fa, sol, la, si. Guido
era musico e didatta, e il suo problema era facilitare ai suoi allievi
cantori la memorizzazione dellaltezza delle note, dei suoni, che
ovviamente non poteva essere loro suggerita da uno strumento, perché
allora il canto religioso, il famoso gregoriano, avveniva senza accompagnamento.
Guido utilizzò un sistema ingegnoso ed efficace; fece imparare
ai suoi cantori un inno a san Giovanni Battista in latino, la lingua del
gregoriano; i suoni corrispondenti ad ogni prima sillaba di ogni versetto
di tale inno formavano una sequenza continua, senza buchi:
la nostra scala musicale. Ebbene, a quei suoni Guido diede il nome utilizzando
proprio la sillaba corrispondente; nacque così la sequenza UT (queant
laxis) RE(sonare fibris) MI(ra gestorum) FA(muli tuorum) SOL(ve polluti)
LA (bii reatum) S(ancte) J(ohannes). Lut venne tempo dopo sostituito
dal do.
Questo
permetteva ai cantori di memorizzare molto più facilmente i suoni
della sequenza, attraverso il nome e il fatto di impararli appunto in
sequenza, e perciò consentiva loro di riconoscerli anche allinterno
di altri canti e in ordine sparso. Loperazione di Guido è
di importanza capitale per la nostra musica, perché è un
operazione di nominazione, di riconoscimento di entità
sonore fino ad allora senza nome; la sua idea fu talmente efficace da
resistere per secoli, fino ai giorni nostri, senza subire alterazioni.
Le note sono rimaste do, re, mi, fa, sol, la, si. A questo punto vorrei
spostarmi con voi molto più avanti nel tempo, diciamo nella prima
metà del 600.
La
seconda tappa di questo mio discorso ruota intorno alla figura del compositore
Claudio Monteverdi, nato a Cremona nel 1567 e morto a Venezia nel 1643.
Monteverdi è, come Guido, un personaggio chiave nella storia
della musica occidentale, e soprattutto dal punto di vista che a noi in
questa sede interessa, vale a dire quello del rapporto parola musica.
Allepoca di Monteverdi la musica era essenzialmente polifonica,
cioè a più voci, voci che cantavano simultaneamente eseguendo
ciascuna una diversa melodia, armoniosamente fusa alle altre. Questo aveva
spesso come conseguenza una difficoltosa comprensione del testo cantato,
che veniva per così dire spezzato fra le varie voci,
ciascuna impegnata in un percorso autonomo rispetto alle altre. Monteverdi
è il musicista che rompe questa tradizione, comprendendo quanto
la parola sia importante, quanto valore abbia anche nel rapporto, fino
ad allora per essa svantaggioso, con la musica, quanto di conseguenza
vada resa comprensibile e valorizzata. Perché? Perché la
parola ESPRIME IL SENTIMENTO, o, come allora si usava dire, l affetto.
E allora, come agisce concretamente Monteverdi per effettuare questa valorizzazione?
Prima
di tutto riduce gradualmente il numero delle voci, e quindi delle melodie
eseguite, fino ad arrivare ad una sola voce che esegue ununica melodia,
cantando il testo poetico, ora restituito alla sua integrità e
dignità; quindi introduce un accompagnamento strumentale alla voce,
per dare sostegno e pienezza allesecuzione. Dunque,
da più voci a una voce; dalla polifonia, canto a più voci,
alla monodia, canto a voce sola; da una prevalenza della musica sulla
parola al rovesciamento di questo rapporto a favore della parola, e specificamente
della poesia, che però con Monteverdi non va a prevalere a sua
volta sulla musica, ma a compenetrarsi con essa in modo equilibrato e
tale che le due discipline possano reciprocamente alimentarsi, trarre
linfa vitale e pregnanza espressiva luna dallaltra. Varrà
forse la pena di aggiungere a margine che tale vera e propria rivoluzione
sarà poi anche alla base della nascita del teatro musicale, dellopera,
in cui il brano vocale è monodico, con accompagnamento di uno strumento
o di tutta lorchestra.Dunque,
Guido dArezzo, Claudio Monteverdi. Ovvero i protagonisti di due
momenti assolutamente fondamentali per una definizione della musica attraverso
la parola e in rapporto alla parola. Cè però da dire
che con queste due figure ci muoviamo in un passato molto lontano, addirittura
remoto nel caso di Guido. Cosa succede invece nel nostro tempo, nel nostro
secolo, anzi nel secolo che si è appena chiuso? Data la piena appartenenza
dei nostri ospiti poeti al tempo presente, vale la pena di avvicinarci
un po alla nostra epoca e alla nostra realtà, con un altro
grosso nome, a cui si lega un terzo momento cruciale della storia della
nostra musica colta.
Questo
nome è quello di Arnold Schoenberg, nato a Vienna nel 1874 e morto
a Los Angeles nel 1951. Schoenberg va senzaltro considerato come
uno dei padri della musica del 900, della musica, diciamo, moderna
e contemporanea; quella musica ancora oggi tanto discussa, ancora
oggi spesso ritenuta, un po a torto un po a ragione, difficile
allascolto, tanto osteggiata da pubblico e critica quando i suoi
pionieri la sottoposero per le prime volte alla loro attenzione nelle
sale da concerto. Ma perché, da parte di questi compositori, queste
proposte così provocatorie, così incomprensibili,
perché quei grovigli di note così sgradevoli, quella disgregazione
programmatica, voluta, quasi esibita, delle forme musicali della tradizione?
Quelle forme (la sonata, il concerto per strumento solista e orchestra,
il quartetto ecc.) rendevano un brano musicale solido, strutturato, un
organismo che poteva essere seguito, nellascolto, dai suoi inizi,
nel suo svolgimento logico e coerente, fino alla conclusione; ora tutto
questo non era più possibile, il pubblico era disorientato, confuso,
e la critica faticava a capire dove questi musicisti intendessero andare
a parare, quali messaggi volessero esprimere (o, nel caso della
critica conservatrice e benpensante, lo capiva benissimo ma non poteva
accettarlo). Il mondo di Schoenberg e dei musicisti suoi contemporanei
è un mondo che sta cambiando, sta passando dalla civiltà
dell800 a quella moderna, anche attraverso immani tragedie, come
quelle delle due guerre. Questi compositori si sentono testimoni di enormi,
epocali trasformazioni, e vogliono parlarne, raccontarle nella loro musica.
Spesso, peraltro, le loro vicende biografiche li portano ad osservare
con preoccupazione e disperazione le follie e la violenza del loro tempo
e della società in cui vivono, da emarginati: sono ebrei (lo sono,
oltre a Schoenberg, i suoi allievi Berg e Webern, ma anche Mahler e altri
ancora), non provengono dai ceti abbienti, spesso non hanno alle spalle
un percorso di formazione musicale regolare ed accademico, ma compiuto
invece da autodidatti, e gli ambienti accademici
continueranno a tenerli ai margini anche dopo la loro emersione. Era praticamente
impossibile pensare di esprimere dei contenuti e delle idee così
negativi servendosi degli strumenti tradizionali del linguaggio musicale;
come dire la tragedia di quei tempi, come poterla riversare nella musica
utilizzando solo suoni armoniosi, consonanti, e forme perfette, equilibrate,
conchiuse? Occorreva qualcosa di nuovo, di diverso.
Occorrevano
un nuovo linguaggio e delle nuove forme (perché le opere dei nuovi
compositori non sono, come può sembrare, prive di forma; sono solo
formalmente organizzate in modo diverso, meno facile ed immediato, ma
godono comunque di una loro organizzazione interna, fra laltro molto
rigorosa). Cè
unopera di Schoenberg, che si intitola Pierrot Lunaire,
del 1912, che ci mostra molto bene tutti questi elementi, e inoltre risulta
particolarmente significativa rispetto al nostro tema, il rapporto parola
musica. Si tratta di una serie di brani per voce femminile e otto
strumenti, su testi del poeta simbolista belga Giraud tradotti in tedesco
da Hartleben. Il Pierrot Lunaire è unanimamente considerato
un manifesto dellespressionismo musicale, che ci propone in musica
le stesse tematiche dellespressionismo figurativo: gli orrori della
guerra, una società in disgregazione, violenta e razzista, lemarginazione
dei relitti di questa società, e anche unesplorazione dei
più profondi e inquietanti abissi dellanimo umano. La caratteristica
più straordinariamente innovativa del Pierrot resta,
a livello musicale, linvenzione da parte di Schoenberg di un nuovo
modo di usare la voce, che non è né propriamente canto né
propriamente recitazione. In tedesco si chiama Sprechgesang,
ovvero canto parlato, e consiste in una particolarissima emissione
della voce, che non intona perfettamente la nota e non la tiene a lungo,
ma la lascia subito per passare a quella successiva, come nel parlare
noi non ci soffermiamo a lungo su ogni sillaba che pronunciamo, ma subito
passiamo a quella che la segue nella parola o nella frase. Lo Sprechgesang
risulta particolarmente adatto allespressione dei contenuti testuali,
che ci parlano di una realtà deformata e allucinata, surreale e
sanguinosa; questo Pierrot non ha più nulla della delicatezza e
della dolcezza a cui siamo abituati ad associare la sua maschera, ma è
una caricatura, inquietante e drammatica, un simbolo delle paure e delle
violenze che luomo del 900 vive, compie o subisce.
Ci
troviamo dunque di fronte a un caso estremamente interessante di lavoro
di un musicista sulla parola per potenziare le capacità e le possibilità
espressive della musica: nel Pierrot lo Sprechgesang alimenta
ed esalta il forte senso di straniamento e angoscia già comunicato
dalla musica, molto basata sulla dissonanza, il contrasto stridente di
suoni e timbri strumentali, gli strappi improvvisi dati dal passaggio
brusco dal piano al forte , lirregolarità
ritmica, lintonazione volutamente imprecisa. Siamo così giunti
allultima tappa di questo nostro breve percorso; con essa vorrei
coinvolgere nel discorso uno dei più grandi protagonisti della
poesia del 900: Eugenio Montale. Montale è un poeta che può
offrirci molti spunti di riflessione sul rapporto poesia musica,
perché fu talmente vicino alla musica da rischiare
quasi di diventare cantante professionista e perché la sua poesia
resta densissima di contenuti e riferimenti musicali. Forse pochi sanno
che Montale studiò privatamente canto lirico con il baritono Ernesto
Sivori dal 1915 al 1923. Ebbe a dichiarare più tardi che fare il
cantante avrebbe sacrificato la sua intelligenza, facendo ironia su unottusità
e una scarsa cultura che allepoca si dovevano riscontrare nei cantanti
piuttosto frequentemente, a causa di unimpostazione del loro corso
di studio che tendeva a farne dei divi del Belcanto spesso tristemente
ridicoli. Ma lallontanamento di Montale dagli studi musicali e dallidea
della carriera non significò affatto un allontanamento dalla musica;
egli ricoprì lincarico di critico musicale del Corriere dInformazione
fra il 1954 e il 1967, trattando vari argomenti e parlando di vari compositori
(gli operisti italiani, ma anche i nostri compositori dinizio secolo,
Leoncavallo, Mascagni, Puccini, la triade viennese Haydn/ Mozart/ Beethoven,
e altri ancora), e riferimenti alla musica sono presenti in interviste
da lui rilasciate, discorsi, appunti, e soprattutto nelle sue poesie.
Pubblicate
nel 1922, le prime poesie montaliane sono dedicate ognuna a uno strumento
musicale diverso, e la raccolta si intitola Accordi. Anche
fra le opere a lungo inedite troviamo alcuni esempi interessanti, come
Musica silenziosa o Suonatina di pianoforte. In
Ossi di seppia le prime 4 poesie formano una tetralogia: I
limoni, Corno inglese, Quasi una fantasia,
Falsetto, dal titolo complessivo di Movimenti.
Ma si potrebbero riportare altre testimonianze. Per i giovani della generazione
di Montale, la nuova musica era quella di compositori come Debussy e Ravel,
la nuova pittura quella degli Impressionisti, e lassociazione Debussy/
Impressionismo, che per la verità lo stesso compositore aveva sempre
rifiutato ritenendola decisamente semplicistica, valeva per il poeta come
per tutti i suoi contemporanei. Porterò ora un esempio di come
alcune prove poetiche di Montale intendano muoversi nella stessa direzione
della musica debussyana. (
) avevo sentito i Mintrels
di Debussy (uno dei Preludi per pianoforte, n.d.r), e nella prima edizione
del libro (Ossi di seppia, n.d.r), cera una cosetta
che si sforzava di rifarli: Musica sognata (
)
dice Montale nel Quaderno genovese. (Lettura della poesia).
La
poesia di Montale aderisce alla musica di Minstrels di Debussy
innanzitutto a livello tematico; si parla infatti di tre menestrelli fragili
e umili, che ricordano molto gli evanescenti personaggi della fantasia
musicale di Debussy, compresi i protagonisti della sua opera Pelleas
e Melisande. Ma il livello più importante a cui laccostamento
si può attuare resta quello fonico; come nel Preludio debussyano
abbiamo lelemento caratteristico dellacciaccatura, qui già
dai primi versi abbiamo la sonorità graffiante e ricorrente delle
R: Ritornello, Rimbalzi/ TRA le veTRAte (
)
e poi più avanti ACRE GRoppo di note soffocate (
),
e ancora più volte fino alla fine, ad inseguire il gioco fonico,
peraltro non nuovo per Montale. Qui però esso non è più,
come fino ad allora, fine a se stesso, ma mira a riprodurre il carattere
scanzonato e divertito del Preludio. Come qui il tema ricompare variato
alla fine, così nella poesia di M. troviamo alla fine la ripresa
del secondo verso. Non si tratta di un semplice omaggio al musicista,
ma di un esperimento linguistico a metà fra musica e poesia, un
messaggio completo in cui la parola SI FA musica, in senso letterale e
non solo simbolico, per arrivare a dire ciò che altrimenti non
può dire meglio della musica. Nel Quaderno genovese Montale stesso
ci dice: E un fatto che le lettere tendono sempre di più
alla musicalità e al colore e ancora (
) e, in
fondo, diciamo pure tutta la coraggiosa verità: la letteratura
E MUSICA. Lelemento che in parte effettivamente accomuna
la musica debussyana e la pittura impressionista, e che tanto affascina
Montale da indurlo a tentare una sua traduzione poetica, è
quello della leggerezza incorporea, dellassenza di forza e peso,
del confondersi e mescolarsi di colori e/o sonorità che però
non significa assenza di conenuti e significati, inconsistenza concettuale.
Tutto ciò emerge con chiarezza inequivocabile dalla montaliana,
giovanile Suonatina di pianoforte: (lettura della poesia).
Cogliamo qui la polemica verso la musica di Ravel, giudicata invece vuota
e fragile, e per questo contrapposta alla musica di Debussy, definito
da Montale grande homme de lettres, uno che per le sue canzoni
d a camera non si accontentava di poeti mediocri, ma sceglieva Verlaine,
Baudelaire, Maeterlinck. Come dire che non esistono una sensibilità
letteraria, una musicale, una pittorica, ma solo la sensibilità
artistica, e partendo da tale presupposto possiamo comprendere come la
poesia possa farsi musica e la musica poesia.
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