Laura Montingelli - Parole e musica

 

 

       

La musica colta in Occidente
spunti di riflessione sul rapporto tra linguaggio verbale e linguaggio musicale

Avevo inizialmente pensato di dedicare questo mio intervento ad un unico tema, ma dato il tempo relativamente breve a mia disposizione ho poi preferito l’idea di fornirvi una serie di “flash”, per così dire, di spunti di riflessione su un argomento altrimenti decisamente troppo complesso per poter essere affrontato in modo approfondito in questa sede. Tale argomento è, come forse avrete già avuto modo di vedere dal programma distribuito, il rapporto, o meglio alcuni dei rapporti che si sono creati fra linguaggio verbale e linguaggio musicale, tra parola, anche poetica, e musica, nella storia della musica cosiddetta “colta” dell’Occidente, quella che più correntemente viene definita “musica classica”.

La scelta di affrontare questo argomento vuole avere come obbiettivo “indiretto” quello di illuminare la parola, e anche la parola poetica, da una prospettiva un po’ diversa da quella dei poeti presenti in queste serate, ed evidenziarne anche le possibilità di contatto, relazione, intreccio con la musica, considerata a sua volta come un linguaggio. Queste possibilità sono state, e forse ancora oggi sono, talmente numerose da far quasi pensare che siano infinite. Si può affermare che l’intreccio parola – musica sia stato cercato e creato dall’uomo dell’Occidente sin dagli albori della nostra civiltà musicale, per i più diversi motivi e con i più diversi scopi. Mi pare anzi che nel tempo di queste origini si sia manifestata la tendenza a ricondurre in un certo senso l’ignoto o il meno noto, cioè il fatto musicale, al già noto, ovvero la parola, il linguaggio verbale.

Dimostrandovelo, vi fornisco anche il primo spunto di riflessione; dobbiamo risalire la corrente del tempo fino all’XI secolo, e ricordare un nome, quello del monaco Guido d’Arezzo, al quale in pratica dobbiamo i nomi delle note che ancora oggi noi utilizziamo: do, re, mi, fa, sol, la, si. Guido era musico e didatta, e il suo problema era facilitare ai suoi allievi cantori la memorizzazione dell’altezza delle note, dei suoni, che ovviamente non poteva essere loro suggerita da uno strumento, perché allora il canto religioso, il famoso gregoriano, avveniva senza accompagnamento. Guido utilizzò un sistema ingegnoso ed efficace; fece imparare ai suoi cantori un inno a san Giovanni Battista in latino, la lingua del gregoriano; i suoni corrispondenti ad ogni prima sillaba di ogni versetto di tale inno formavano una sequenza continua, senza “buchi”: la nostra scala musicale. Ebbene, a quei suoni Guido diede il nome utilizzando proprio la sillaba corrispondente; nacque così la sequenza UT (queant laxis) RE(sonare fibris) MI(ra gestorum) FA(muli tuorum) SOL(ve polluti) LA (bii reatum) S(ancte) J(ohannes). L’ut venne tempo dopo sostituito dal do.

Questo permetteva ai cantori di memorizzare molto più facilmente i suoni della sequenza, attraverso il nome e il fatto di impararli appunto in sequenza, e perciò consentiva loro di riconoscerli anche all’interno di altri canti e in ordine sparso. L’operazione di Guido è di importanza capitale per la nostra musica, perché è un operazione di “nominazione”, di riconoscimento di entità sonore fino ad allora senza nome; la sua idea fu talmente efficace da resistere per secoli, fino ai giorni nostri, senza subire alterazioni. Le note sono rimaste do, re, mi, fa, sol, la, si. A questo punto vorrei spostarmi con voi molto più avanti nel tempo, diciamo nella prima metà del ‘600.

La seconda tappa di questo mio discorso ruota intorno alla figura del compositore Claudio Monteverdi, nato a Cremona nel 1567 e morto a Venezia nel 1643. Monteverdi è, come Guido, un personaggio – chiave nella storia della musica occidentale, e soprattutto dal punto di vista che a noi in questa sede interessa, vale a dire quello del rapporto parola – musica. All’epoca di Monteverdi la musica era essenzialmente polifonica, cioè a più voci, voci che cantavano simultaneamente eseguendo ciascuna una diversa melodia, armoniosamente fusa alle altre. Questo aveva spesso come conseguenza una difficoltosa comprensione del testo cantato, che veniva per così dire “spezzato” fra le varie voci, ciascuna impegnata in un percorso autonomo rispetto alle altre. Monteverdi è il musicista che rompe questa tradizione, comprendendo quanto la parola sia importante, quanto valore abbia anche nel rapporto, fino ad allora per essa svantaggioso, con la musica, quanto di conseguenza vada resa comprensibile e valorizzata. Perché? Perché la parola ESPRIME IL SENTIMENTO, o, come allora si usava dire, l’ “affetto”. E allora, come agisce concretamente Monteverdi per effettuare questa valorizzazione?

Prima di tutto riduce gradualmente il numero delle voci, e quindi delle melodie eseguite, fino ad arrivare ad una sola voce che esegue un’unica melodia, cantando il testo poetico, ora restituito alla sua integrità e dignità; quindi introduce un accompagnamento strumentale alla voce, per dare sostegno e “pienezza” all’esecuzione. Dunque, da più voci a una voce; dalla polifonia, canto a più voci, alla monodia, canto a voce sola; da una prevalenza della musica sulla parola al rovesciamento di questo rapporto a favore della parola, e specificamente della poesia, che però con Monteverdi non va a prevalere a sua volta sulla musica, ma a compenetrarsi con essa in modo equilibrato e tale che le due discipline possano reciprocamente alimentarsi, trarre linfa vitale e pregnanza espressiva l’una dall’altra. Varrà forse la pena di aggiungere a margine che tale vera e propria rivoluzione sarà poi anche alla base della nascita del teatro musicale, dell’opera, in cui il brano vocale è monodico, con accompagnamento di uno strumento o di tutta l’orchestra.Dunque, Guido d’Arezzo, Claudio Monteverdi. Ovvero i protagonisti di due momenti assolutamente fondamentali per una definizione della musica attraverso la parola e in rapporto alla parola. C’è però da dire che con queste due figure ci muoviamo in un passato molto lontano, addirittura remoto nel caso di Guido. Cosa succede invece nel nostro tempo, nel nostro secolo, anzi nel secolo che si è appena chiuso? Data la piena appartenenza dei nostri ospiti poeti al tempo presente, vale la pena di avvicinarci un po’ alla nostra epoca e alla nostra realtà, con un altro grosso nome, a cui si lega un terzo momento cruciale della storia della nostra musica “colta”.

Questo nome è quello di Arnold Schoenberg, nato a Vienna nel 1874 e morto a Los Angeles nel 1951. Schoenberg va senz’altro considerato come uno dei padri della musica del ‘900, della musica, diciamo, “moderna e contemporanea”; quella musica ancora oggi tanto discussa, ancora oggi spesso ritenuta, un po’ a torto un po’ a ragione, difficile all’ascolto, tanto osteggiata da pubblico e critica quando i suoi pionieri la sottoposero per le prime volte alla loro attenzione nelle sale da concerto. Ma perché, da parte di questi compositori, queste proposte così “provocatorie”, così incomprensibili, perché quei grovigli di note così sgradevoli, quella disgregazione programmatica, voluta, quasi esibita, delle forme musicali della tradizione? Quelle forme (la sonata, il concerto per strumento solista e orchestra, il quartetto ecc.) rendevano un brano musicale solido, strutturato, un organismo che poteva essere seguito, nell’ascolto, dai suoi inizi, nel suo svolgimento logico e coerente, fino alla conclusione; ora tutto questo non era più possibile, il pubblico era disorientato, confuso, e la critica faticava a capire dove questi musicisti intendessero “andare a parare”, quali messaggi volessero esprimere (o, nel caso della critica conservatrice e benpensante, lo capiva benissimo ma non poteva accettarlo). Il mondo di Schoenberg e dei musicisti suoi contemporanei è un mondo che sta cambiando, sta passando dalla civiltà dell’800 a quella moderna, anche attraverso immani tragedie, come quelle delle due guerre. Questi compositori si sentono testimoni di enormi, epocali trasformazioni, e vogliono parlarne, raccontarle nella loro musica. Spesso, peraltro, le loro vicende biografiche li portano ad osservare con preoccupazione e disperazione le follie e la violenza del loro tempo e della società in cui vivono, da emarginati: sono ebrei (lo sono, oltre a Schoenberg, i suoi allievi Berg e Webern, ma anche Mahler e altri ancora), non provengono dai ceti abbienti, spesso non hanno alle spalle un percorso di formazione musicale regolare ed accademico, ma compiuto invece da autodidatti, e gli ambienti accademici 
continueranno a tenerli ai margini anche dopo la loro emersione. Era praticamente impossibile pensare di esprimere dei contenuti e delle idee così negativi servendosi degli strumenti tradizionali del linguaggio musicale; come dire la tragedia di quei tempi, come poterla riversare nella musica utilizzando solo suoni armoniosi, consonanti, e forme perfette, equilibrate, conchiuse? Occorreva qualcosa di nuovo, di diverso.

Occorrevano un nuovo linguaggio e delle nuove forme (perché le opere dei nuovi compositori non sono, come può sembrare, prive di forma; sono solo formalmente organizzate in modo diverso, meno facile ed immediato, ma godono comunque di una loro organizzazione interna, fra l’altro molto rigorosa). C’è un’opera di Schoenberg, che si intitola “Pierrot Lunaire”, del 1912, che ci mostra molto bene tutti questi elementi, e inoltre risulta particolarmente significativa rispetto al nostro tema, il rapporto parola – musica. Si tratta di una serie di brani per voce femminile e otto strumenti, su testi del poeta simbolista belga Giraud tradotti in tedesco da Hartleben. Il “Pierrot Lunaire” è unanimamente considerato un manifesto dell’espressionismo musicale, che ci propone in musica le stesse tematiche dell’espressionismo figurativo: gli orrori della guerra, una società in disgregazione, violenta e razzista, l’emarginazione dei relitti di questa società, e anche un’esplorazione dei più profondi e inquietanti abissi dell’animo umano. La caratteristica più straordinariamente innovativa del “Pierrot” resta, a livello musicale, l’invenzione da parte di Schoenberg di un nuovo modo di usare la voce, che non è né propriamente canto né propriamente recitazione. In tedesco si chiama “Sprechgesang”, ovvero “canto parlato”, e consiste in una particolarissima emissione della voce, che non intona perfettamente la nota e non la tiene a lungo, ma la lascia subito per passare a quella successiva, come nel parlare noi non ci soffermiamo a lungo su ogni sillaba che pronunciamo, ma subito passiamo a quella che la segue nella parola o nella frase. Lo Sprechgesang risulta particolarmente adatto all’espressione dei contenuti testuali, che ci parlano di una realtà deformata e allucinata, surreale e sanguinosa; questo Pierrot non ha più nulla della delicatezza e della dolcezza a cui siamo abituati ad associare la sua maschera, ma è una caricatura, inquietante e drammatica, un simbolo delle paure e delle violenze che l’uomo del ‘900 vive, compie o subisce.

Ci troviamo dunque di fronte a un caso estremamente interessante di lavoro di un musicista sulla parola per potenziare le capacità e le possibilità espressive della musica: nel “Pierrot” lo Sprechgesang alimenta ed esalta il forte senso di straniamento e angoscia già comunicato dalla musica, molto basata sulla dissonanza, il contrasto stridente di suoni e timbri strumentali, gli strappi improvvisi dati dal passaggio brusco dal “piano” al “forte” , l’irregolarità ritmica, l’intonazione volutamente imprecisa. Siamo così giunti all’ultima tappa di questo nostro breve percorso; con essa vorrei coinvolgere nel discorso uno dei più grandi protagonisti della poesia del ‘900: Eugenio Montale. Montale è un poeta che può offrirci molti spunti di riflessione sul rapporto poesia – musica, perché fu talmente vicino alla musica da “rischiare” quasi di diventare cantante professionista e perché la sua poesia resta densissima di contenuti e riferimenti musicali. Forse pochi sanno che Montale studiò privatamente canto lirico con il baritono Ernesto Sivori dal 1915 al 1923. Ebbe a dichiarare più tardi che fare il cantante avrebbe sacrificato la sua intelligenza, facendo ironia su un’ottusità e una scarsa cultura che all’epoca si dovevano riscontrare nei cantanti piuttosto frequentemente, a causa di un’impostazione del loro corso di studio che tendeva a farne dei divi del Belcanto spesso tristemente ridicoli. Ma l’allontanamento di Montale dagli studi musicali e dall’idea della carriera non significò affatto un allontanamento dalla musica; egli ricoprì l’incarico di critico musicale del Corriere d’Informazione fra il 1954 e il 1967, trattando vari argomenti e parlando di vari compositori (gli operisti italiani, ma anche i nostri compositori d’inizio secolo, Leoncavallo, Mascagni, Puccini, la triade viennese Haydn/ Mozart/ Beethoven, e altri ancora), e riferimenti alla musica sono presenti in interviste da lui rilasciate, discorsi, appunti, e soprattutto nelle sue poesie.

Pubblicate nel 1922, le prime poesie montaliane sono dedicate ognuna a uno strumento musicale diverso, e la raccolta si intitola “Accordi”. Anche fra le opere a lungo inedite troviamo alcuni esempi interessanti, come “Musica silenziosa” o “Suonatina di pianoforte”. In “Ossi di seppia” le prime 4 poesie formano una tetralogia: “I limoni”, “Corno inglese”, “Quasi una fantasia”, “Falsetto”, dal titolo complessivo di “Movimenti”. Ma si potrebbero riportare altre testimonianze. Per i giovani della generazione di Montale, la nuova musica era quella di compositori come Debussy e Ravel, la nuova pittura quella degli Impressionisti, e l’associazione Debussy/ Impressionismo, che per la verità lo stesso compositore aveva sempre rifiutato ritenendola decisamente semplicistica, valeva per il poeta come per tutti i suoi contemporanei. Porterò ora un esempio di come alcune prove poetiche di Montale intendano muoversi nella stessa direzione della musica debussyana. “(…) avevo sentito i “Mintrels” di Debussy (uno dei Preludi per pianoforte, n.d.r), e nella prima edizione del libro (“Ossi di seppia”, n.d.r), c’era una cosetta che si sforzava di rifarli: “Musica sognata” (…)” dice Montale nel Quaderno genovese. (Lettura della poesia).

La poesia di Montale aderisce alla musica di “Minstrels” di Debussy innanzitutto a livello tematico; si parla infatti di tre menestrelli fragili e umili, che ricordano molto gli evanescenti personaggi della fantasia musicale di Debussy, compresi i protagonisti della sua opera “Pelleas e Melisande”. Ma il livello più importante a cui l’accostamento si può attuare resta quello fonico; come nel Preludio debussyano abbiamo l’elemento caratteristico dell’acciaccatura, qui già dai primi versi abbiamo la sonorità graffiante e ricorrente delle “R”: “Ritornello, Rimbalzi/ TRA le veTRAte (…)” e poi più avanti “ACRE GRoppo di note soffocate (…)”, e ancora più volte fino alla fine, ad inseguire il gioco fonico, peraltro non nuovo per Montale. Qui però esso non è più, come fino ad allora, fine a se stesso, ma mira a riprodurre il carattere scanzonato e divertito del Preludio. Come qui il tema ricompare variato alla fine, così nella poesia di M. troviamo alla fine la ripresa del secondo verso. Non si tratta di un semplice omaggio al musicista, ma di un esperimento linguistico a metà fra musica e poesia, un messaggio completo in cui la parola SI FA musica, in senso letterale e non solo simbolico, per arrivare a dire ciò che altrimenti non può dire meglio della musica. Nel Quaderno genovese Montale stesso ci dice: “E’ un fatto che le lettere tendono sempre di più alla musicalità e al colore” e ancora “(…) e, in fondo, diciamo pure tutta la coraggiosa verità: la letteratura E’ MUSICA”. L’elemento che in parte effettivamente accomuna la musica debussyana e la pittura impressionista, e che tanto affascina Montale da indurlo a tentare una sua “traduzione” poetica, è quello della leggerezza incorporea, dell’assenza di forza e peso, del confondersi e mescolarsi di colori e/o sonorità che però non significa assenza di conenuti e significati, inconsistenza concettuale. Tutto ciò emerge con chiarezza inequivocabile dalla montaliana, giovanile “Suonatina di pianoforte”: (lettura della poesia). Cogliamo qui la polemica verso la musica di Ravel, giudicata invece vuota e fragile, e per questo contrapposta alla musica di Debussy, definito da Montale “grande homme de lettres”, uno che per le sue canzoni d a camera non si accontentava di poeti mediocri, ma sceglieva Verlaine, Baudelaire, Maeterlinck. Come dire che non esistono una sensibilità letteraria, una musicale, una pittorica, ma solo la sensibilità artistica, e partendo da tale presupposto possiamo comprendere come la poesia possa farsi musica e la musica poesia.