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Il
gioco degli specchi
La riflessione filosofica di Vladimir Jankélévitch e la
musica di Claude Debussy
Premessa
Qualche parola di chiarimento circa limpostazione
del mio lavoro, che ho voluto sintetizzare, fissare nel titolo.
Perché, infatti, Il gioco degli specchi?
Perché il pensiero filosofico di Vladimir Jankélévitch
e la musica di Claude Debussy rimandano in modo davvero sorprendente luno
allaltra, proprio come specchi che si riflettano scambievolmente
e incessantemente ununica immagine.
Questa immagine, nel caso di Jankélévitch e Debussy, è
la loro affine visione del mondo, della realtà, delle cose.
Ma cè di più: il filosofo riteneva che non solo il
proprio pensiero, ma il pensiero filosofico in generale non avesse la
possibilità di cogliere e comprendere a fondo il reale, prerogativa
questa che la tradizione occidentale sin dalle più remote origini
sempre gli aveva attribuito, se non comportandosi come la musica,
per così dire, cioè compiendo lo sforzo sovrumano di prendere
le distanze dalla propria razionalità, per vestire i panni irrazionali
della musica stessa.
Dunque il caso della coppia Jankélévitch/
Debussy non è un analogo più tardivo di quella, famosa,
Nietzsche/ Wagner. Infatti qui abbiamo una parte di una speculazione filosofica
di ampio respiro dedicata ad una polemica e demolitoria disamina della
musica wagneriana, mentre la filosofia di Jankélévitch non
si limita ad occuparsi parzialmente della musica di Debussy, anzi, ne
fa il proprio principale oggetto (vogliamo qui isolare le riflessioni
di Jankélévitch sulle questioni della morale, che pure tanta
parte hanno avuto nel quadro della sua produzione scritta), e mira ad
assorbirne le caratteristiche di leggerezza, trasparenza ed evanescenza
che le consentono di cogliere il reale dietro le apparenze.
Dal canto suo, la musica debussyana vede detta e spiegata filosoficamente
se stessa dalla parola di Jankélévitch come mai prima era
avvenuto, né più tardi avverrà. E questo senza che
la musica esca appesantita o, peggio, snaturata dallessere stata
prescelta come oggetto di speculazione filosofica, proprio perché
il pensiero di Jankélévitch vuole assomigliare alla musica,
e non spiegare la musica, fin quasi a rinunciare a se stesso; sicuramente
rinunciando ad una razionalità in cui non crede più.
I. Vladimir Jankélévitch,
o della musicologia filosofica
Le premesse fondamentali del pensiero di Vladimir
Jankélévitch si trovano in quello di Henri Bergson.
In un certo senso il primo si presenta come espansione del secondo. Infatti
il problema centrale è, per luno e per laltro, quello
del tempo; Jankélévitch arriva ad affermare: Il tempo
è lunico problema della filosofia (1).
Già Bergson criticava nella metafisica tradizionale la tendenza
a ridurre la realtà a concetti, metodo che non avrebbe mai potuto
restituire lessenza della temporalità.
Questultima poteva essere colta, secondo Bergson, non con lanalisi,
che spiega cosè un oggetto dicendoci ciò che esso
non è, ma con lintuizione.
E arriviamo così ad unaltra categoria fondamentale per il
pensiero di Bergson e di Jankélévitch.
Le loro filosofie partecipano intensamente a quella forte crisi che attraversa,
e altera irreversibilmente, ogni manifestazione del pensiero, della cultura
e dellarte nel XX secolo.
In
esse il segno di questa crisi sta proprio nel rifiuto della ratio
filosofica, che è poi come dire lessenza del pensiero occidentale,
nella piena ed assoluta convinzione che essa non garantisca la conoscenza
del reale per ciò che esso è. La conoscenza del reale e
del vero si può raggiungere intuendo, non speculando (benché
nemmeno lintuizione, secondo Bergson, basti a se stessa).
La temporalità di Bergson e di Jankélévitch non è
né quella cronologica né quella psicologica, ed è
questo il trait dunion fra il loro pensiero filosofico
e la musica.
Infatti
anche nella musica il tempo non è né meramente cronologico,
né meramente psicologico, ma è qualcosa di ancora diverso.
Allora per la filosofia occuparsi della musica vuole dire entrare in contatto
con un contesto in cui la temporalità forse si lascia cogliere
più facilmente, non ci sfugge dalle mani come sabbia.
Ma cè un altro buon motivo perché
la filosofia si avvicini alla musica: larte in generale fa da modello
alla filosofia, perché realizza limmersione nella realtà
sensibile e ci mostra aspetti inediti del reale, ovviando così
allinsufficienza della nostra ragione, ma anche della nostra intuizione.
Occorre poi sottolineare unaltra questione scottante: quella dello
statuto ontologico del reale. Vale a dire: di quale reale stiamo parlando?
Cosè il reale?
Per Bergson, ed anche per Jankélévitch, il reale non è
affatto una cosa sola, statica, sempre uguale a se stessa. Il reale è
invece durata, e dunque cambiamento, mutamento incessante
che il pensiero razionale e le categorie filosofiche tradizionali non
possono cogliere e imprigionare.
Torniamo ora alla questione della temporalità
musicale.
La musica - dice Jankélévitch è larte
del temporale. Affermare questo significa, da parte sua, porre le
premesse per poi sottolineare anche la non-cosalità
della musica, il suo porsi come realtà derealizzata.
Prima ancora della musica, a monte della musica stessa, queste prerogative
riguardano il suono singolo e isolato. Il suono è impalpabile,
evanescente, nasce dal nulla per tornare nel nulla, non lascia tracce,
come il fumo o la nebbia. E la musica è fatta di questo fumo.
E proprio per questo che essa illustra meglio di ogni filosofia
che cosè il reale, nellaccezione bergsoniana e jankélévitchiana:
La musica attesta il fatto che lessenziale in tutte le cose
è non so che dinafferrabile e dineffabile; [
]
la cosa più importante del mondo è proprio quella che non
si può dire (2).
Ecco perché nel caso di Jankélévitch si può
parlare di una musicologia filosofica, e, si potrebbe forse aggiungere,
di una filosofia musicologica: la filosofia rinvia alla musica, perché
qui più che altrove il reale si manifesta per ciò che è,
e quindi la filosofia parla della musica per parlare del reale altro,
cioè alludendo a questo reale, come la musica vi allude.
Questultima infatti, e qui sta la fondamentale
presa di coscienza dei compositori del 900, non sa e non può
esprimere come il linguaggio verbale. E non è in grado
di farlo perché in essa non cè niente da esprimere,
nessun contenuto, nessun senso. Tutti i sensi che noi crediamo di trovare
in essa, in realtà li annettiamo alla musica attraverso la speculazione,
e neanche tanto forzatamente, poiché la musica è, da questo
punto di vista, una sorta di contenitore vuoto, disposto ad accogliere
in se stesso di tutto.
Resta però il fatto che la musica allude allinesprimibile,
e questo emerge con chiarezza proprio nel nostro secolo, perché
essa finalmente si libera delle categorie formali pseudoespressive
in cui è stata imprigionata, secondo Jankélévitch,
fino al secolo scorso.
Quella di Jankélévitch è una filosofia della ricerca
incessante, del dubbio, della rinuncia alla certezza pretenziosa e ingiustificata,
e anche alla verbosità che nasce da questa certezza. Egli, cioè,
assorbe nella propria filosofia le caratteristiche che ravvisa nella musica,
e ritiene che il compito della filosofia non debba essere che quello di
cercare di intravedere il reale altro, facendo costante riferimento
alla musica stessa: [
]non si dovrebbe scrivere sulla
musica, ma con la musica e musicalmente, restando complici
del suo mistero [
] (3).
Lo stesso modo di scrivere di Jankélévitch riflette le caratteristiche
del suo pensiero: è cioè libero, elastico, morbido e antieloquente;
è una scrittura che vuole avere la stessa liquidità e la
stessa assenza di forma della musica, vuole poter tornare sul già
detto e avvolgervisi intorno come le volute di fumo o le spirali di un
arabesco (e si potrebbe notare che quella dellarabesco è
una delle forme o delle categorie centrali del pianismo debussyano).
Del resto il tema dellerranza , del vagare incessantemente spinti
da un anelito di ricerca, scaturisce anche dalla condizione biografica
di Jankélévitch; ebreo, egli è profondamente consapevole
dei segni che la tragedia secolare del suo popolo poteva aver lasciato
nella sensibilità degli intellettuali come lui, nel loro stesso
modo di pensare, sempre inquieto e insofferente rispetto agli schemi precostituiti,
nonché venato di quello humour che è a sua volta spia di
un errare del pensiero senza meta, dopo la demolizione delle verità
fasulle.
II. La rivoluzione silenziosa di Claude Achille
Che cosè e come si manifesta quella
crisi del linguaggio musicale che trova agli inizi del secolo un suo iniziatore
in Claude Debussy?
Intanto bisogna sottolineare che essa non è che un aspetto particolare
di una crisi di ben più ampie proporzioni, cioè quella della
visione del mondo dellOccidente, che comincia a sgretolarsi già
sul finire dell800 ed è principalmente, e sostanzialmente,
crisi di una civiltà.
Il soggetto non si ritrova più nel mondo, è smarrito, confuso,
iperstimolato da molteplici e contraddittori input esterni, e di conseguenza
non è più in grado di utilizzare il linguaggio che era per
lui abituale. Non riesce cioè più ad esprimersi. Ecco cosa
viene meno: la capacità/possibilità di dire. E una
totale, tragica afasia, che ha radici nella perdita di identità
delluomo occidentale : Oh, parola, parola che mi manchi!
dice Mosè, nel Mosè e Aronne di Schoenberg,
straordinaria e terribile testimonianza di questo smarrimento.
Anche il linguaggio tradizionale della musica, il secolare linguaggio
tonale, comincia a scricchiolare sotto il peso di queste difficoltà
di espressione, che generano naturalmente la ricerca di alternative.
Questi
cedimenti cominciano a manifestarsi proprio nella musica di Debussy. Con
lui, infatti, si introducono nella musica occidentale degli elementi che
spingono verso trasformazioni radicali e irreversibili, soprattutto verso
la fuoriuscita dalla tonalità.
Mario Bortolotto, nellIntroduzione al suo Fase seconda,
ha elencato con particolare meticolosità queste novità radicali.
Cito testualmente: distruzione del discorso musicale
orientato, condotto secondo una retta e una sola; successione temporale
la quale non fa che esporre ciò che come significato è
simultaneo, presenza cioè di più eventi musicali contemporanei,
di vere e proprie compenetrazioni; abolizione conseguente
del classico arco romantico, tendente ad un Hohepunkt [
],
e ancora: tecnica di accostamenti [
]; tendenza sempre più
marcata allasimmetria ritmica, metrica, fraseologica, rifiuto delle
forme prestabilite [
]; subordinazione a questa concezione di immobilità
spaziale della vecchia dinamica armonica [
] (4).
Ora, quella crisi dellespressività musicale che nellottica
di Adorno e della scuola di pensiero adorniana costituisce lirreparabile
tragedia della musica del nostro secolo, nella prospettiva di Jankélévitch
è un punto di svolta indubbiamente difficile, ma inevitabile e
positivo, perché prelude ad un affrancamento dalla certezza, ormai
ingombrante, della supposta, ma non effettiva, espressività della
musica.
E precisamente il linguaggio musicale completamente
e radicalmente nuovo di Debussy, trasparente, fragile, fatto di sonorità
ora cristalline ora velate, ma sempre sospese in una dimensione del tutto
particolare, fuori dallo spazio e dentro un tempo che è istante
ma anche continuità incessante (forse la migliore incarnazione
della durée bergsoniana), precisamente tale linguaggio,
dicevo, attesta con forza laffrancamento da quella certezza e il
potere allusivo della musica rispetto ad un regime ontologico insostanziale,
lunico autentico regime ontologico che esista e si possa conoscere.
La rivoluzione di Debussy non si serve di magniloquenti dichiarazioni
programmatiche, ma agisce direttamente sulla musica . Sbriciola le sue
certezze tonali dal di dentro, per così dire, allentando
le maglie dellimpianto armonico tradizionale, trattando i suoni
singoli e gli accordi come entità sonore, prima che armoniche,
liberando queste entità dalla gabbia dei metri e dei ritmi rigidi
della tradizione, rifiutando il concetto di sviluppo di unidea tematica
e soppiantandolo con quello di accostamento di frammenti, a volte solo
di singoli punti sonori (abbiamo visto tutto questo con Bortolotto);
rivalutando (anzi, forse prendendo per la prima volta seriamente in considerazione
nella storia della musica occidentale) la potenza espressiva, leloquenza
sconvolgente del silenzio. La musica di Debussy è fatta in uguale
misura di suono e di silenzio.
Dunque rivoluzione silenziosa, in quanto
realizzata in silenzio e col silenzio. E rivoluzione del linguaggio musicale
funzionale al dire lunica cosa che la musica sa e può dire:
lessere inconsistente, labile, provvisorio del reale, che se può
essere alluso dalla musica, non può certamente esserlo dalla parola
(e rieccoci a Schoenberg): La musica dice Debussy
incomincia là dove la parola è impotente ad esprimere,
e questa sua convinzione emerge con particolare evidenza dove parola e
musica si incontrano, cioè nellopera, e quindi nel Pelléas
et Mélisande, di cui più avanti parleremo .
Nelle nostre precedenti osservazioni è possibile cogliere, in due
punti nodali del discorso, una implicita contrapposizione tra mondo francese
e mondo tedesco, che è ben nota, ma sulla quale vale ora la pena
di tornare, anche perché in questa contrapposizione risulta coinvolta
la stessa figura di Jankélévitch.
Si è detto che la crisi dellespressività
musicale è vissuta come tragedia irreparabile da uno dei più
grandi rappresentanti della musicologia filosofica tedesca, Theodor W.
Adorno, e in generale dalla civiltà musicale tedesca, mentre quella
francese, che non è meno conscia della necessità di una
dolorosa rottura con il passato (e che peraltro non si incarna nella sola
figura di Debussy, ma anche ad esempio nel graffiante Satie o nelloggettivo
Ravel), reagisce diversamente anche a livello di posteriore riflessione
filosofica, con Jankélévitch.
Si è altresì osservato che la rivoluzione silenziosa di
Debussy non abbisogna di magniloquenti dichiarazioni programmatiche.
Si potrebbe allora aggiungere che non solo non ne ha bisogno, ma non vi
ricorrerebbe mai, data la totale sfiducia nella capacità della
parola di dire effettivamente qualcosa di sostanziale.
Lo spaventoso vuoto spinto della parola
Debussy lo vede lucidamente, lo sente risucchiare laria fino a consumarne
lultimo granello nel Gesamtkunstwerk wagneriano, oggetto in questo
senso di totale (nonché ironica) repulsione.
Occorre forse aggiungere che Jankélévitch non amava la musica
di Wagner, e che le sue allusioni ad essa sono state poche, ma sempre
pungenti? Occorre sottolineare come i suoi interessi musicologici si siano
sempre rivolti ad un universo musicale diametralmente opposto a quello
wagneriano, un universo tutto costruito sul frammento, sul pezzo breve,
sulla fraseologia spezzata ed esitante, sulla sospensione data dal silenzio,
sul bagliore istantaneo, sul movimento circolare ed ipnotico?
Questo è luniverso musicale di Debussy, ma anche di Faurè
e Ravel, per restare in Francia, di Rimsky-Korsakov e Musorgskij, e più
tardi anche di Prokofiev, in Russia, e ancora di Janacek e Bartok, nella
periferica area slava, di Albeniz e Mompou, volendo guardare alla Spagna.
Non ritengo tuttavia inutile ricordare, a margine, la posizione assunta
da Adorno in merito al rapporto Debussy/ Wagner nella sua Filosofia
della musica moderna, posizione che può aiutarci a non liquidare
sbrigativamente la questione in termini di mera opposizione.
Dice Adorno: La natura adinamica della musica francese può
forse risalire al suo nemico giurato Wagner, a cui pure si suol rimproverare
una dinamica insaziabile.[
]. In realtà linstancabile
dinamica di Wagner che alla fine, essendo priva di contrapposizioni, si
annulla, nasconde un che di illusorio e di vano.[
]. La tristesse
fisica dellimpressionismo è lerede del pessimismo filosofico
wagneriano.(5).
Vale
a dire, in sintesi, che Debussy senza Wagner non avrebbe potuto esistere,
e che esistette in rapporto a lui non solo per contrapposizione ma, in
un certo senso, anche per continuità!
Cerchiamo ora di approssimarci ulteriormente alle riflessioni di Jankélévitch
sulla musica di Debussy, di zoomare, per così dire,
su alcuni punti che ritengo di particolare importanza. Per farlo, ci serviremo
di alcune delle categorie che il filosofo elaborò per parlare di
questa musica, categorie che hanno in parte assunto anche il ruolo di
strutture portanti del suo stesso pensiero.
III. I significati filosofici del nuovo linguaggio di Debussy
nellanalisi di Jankélévitch
Abbiamo visto come per Jankélévitch
il reale altro si possa afferrare intuitivamente, e come,
a suo giudizio, la musica vi sappia alludere meglio di qualsiasi altra
arte.
Ma nella sua filosofia lidea che gli enti debbano per forza alludere
ad un reale inteso come verità trascendente viene meno. Il che
equivale a dire che dietro le apparenze, ed anche dietro le apparenze
sonore, il reale è il nulla.
Lapparenza, per Jankélévitch, significa in sé.
Le cose esistono senza cause e senza fini, solo per esistere. Questo è
il grande mistero dellEssere, il mistero ontologico.
Allinterno di tale contesto teorico si colloca primariamente linteresse
di Jankélévitch per Debussy. Infatti per lui la musica debussyana
è lespressione più profonda e più intensa
di quel mistero (6).
Come lEssere a cui allude, anche questa musica esiste senza perché,
senza dover dire né spiegare niente.
In particolare, Debussy spesso allude a quel momento del vivere quotidiano
di tutti gli esseri in cui la consapevolezza dellesistere sembra
farsi più intensa, ma sembra anche più legata a quella della
propria fine, ossia della morte. Questo momento è il Mezzogiorno:
il tempo dellimmobilità di tutte le cose nellaria che
vibra infuocata.
Qui le citazioni dobbligo sono due: Dallalba
a mezzogiorno sul mare, primo tableau de La Mer, e naturalmente
il Preludio al pomeriggio di un fauno, entrambi lavori attraversati
e lacerati da un profondo senso di eternità/caducità delle
manifestazioni della Natura. Laddove essa dispiega completamente il proprio
splendore, nellaccecante luce meridiana, là comincia già
il suo declino, già abbiamo la profezia della sua morte.
A mezzogiorno tutto si ferma, esiste nellimmobilità. Ma immobilità
non equivale a stabilità. Limmobilità
può rivelarsi anche nel movimento apparente, che è per eccellenza
quello circolare, continuamente e ossessivamente legato allo stesso percorso.
Il movimento circolare si ripete incessantemente.
E infatti unaltra categoria che Jankélévitch individua
nella musica debussyana è quella della ripetizione/circolarità.
A questo proposito si potrebbero ricordare la terza Image
per pianoforte, Mouvement, dove in realtà abbiamo una
vorticosa stagnanza, un agitarsi delle terzine per non andare
da nessuna parte, il dinamismo nervoso dell Isle joyeuse,
o ancora, in ambito sinfonico, le Rondes de printemps, fra
le Images per orchestra. Fra le opere dellultima stagione
creativa, lo studio Pour le cinq doigts è legato alla
stessa idea.
La possibilità di ripetere della musica è, secondo Jankélévitch,
una delle prerogative che non solo la distanziano dal linguaggio verbale,
ma pure la rendono superiore ad esso. Infatti quando parliamo la ripetizione
non è mai gradita a chi ascolta, a meno che non si configuri come
artificio retorico per rilevare un concetto rispetto agli altri. In musica,
invece, una frase o un frammento ripetuti non sono un riempitivo, vuoto
di senso (come non lo è il ripresentarsi del tema in un'opera ciclica
o del Leitmotiv in Wagner). Anzi, qui (come in poesia) ripetere giova
a far meglio comprendere.
E poi, panta rei, tutto scorre; dunque anche qualcosa
che si ripropone, per il fatto stesso di riproporsi non può più
essere identico a se stesso, non può più avere lo stesso
significato.
Il falso movimento, il movimento apparente, che
si caratterizza per linsistenza, ha in sé una sorta di potere
ipnotico, incantatorio, magico.
La magia della musica di Debussy è però una magia
bianca, molto diversa da quel perverso potere che sottrae luomo
alla propria Ragione e lo fa preda del furor panico.
Dice Jankélévitch: Cave carmen!
Guardati dal carme incantatorio! Il che però non vuol dire: rifiutate
in generale di essere incantati. Questo implica che si possa distinguere
fra incantesimo e incanto[
] (7).
Ancora una volta, insomma, ci troviamo in presenza di quello straordinario
Giano bifronte che è la musica, che incanta con Orfeo, ma strega
con le Sirene.
E la musica di Debussy è senzaltro da assimilare alla benefica
musica orfica.
Lincanto è una categoria su cui Jankélévitch
insiste molto, chiamandolo charme, termine che noi in italiano
connettiamo allidea di fascino e grazia.
Cosè esattamente questo charme della musica?
E la sua capacità di mostrarci la straordinaria varietà,
le innumerevoli forme, i colori cangianti della Natura, con la leggerezza
e la provvisorietà che sono propri delle stesse creature che essa
trasforma in armonie e sonorità suggestive e avvolgenti.
Abbiamo detto la provvisorietà.
Infatti il mistero dellEssere non è solo mistero della vita
senza causa e senza scopo, ma anche mistero della morte. Se non sappiamo
perché esista la vita, la più grande tragedia è che
non sappiamo perché esista la morte. Il momento di esplosione della
vita, il mezzogiorno, è anche il primo momento in cui si preannuncia
la morte, lo scandalo dellannientamento (8).
Il mistero della morte è il mistero per eccellenza
(9), il quale nella musica debussyana si può manifestare
tipicamente attraverso la contrazione e intensificazione dei ritmi, che
reagiscono al pericolo imminente.
Il grande e inconsolabile dolore causato dalla
morte ventura o venuta promana da tante pagine debussyane, che sono, al
contrario, di una agghiacciante staticità. Il gelo della morte
è alluso talvolta attraverso il gelo dellinverno: The
snow is dancing, allinterno del Chidrens corner,
Des pas sur la neige, uno dei Preludi. Ma in altri casi si
esprime attraverso unausterità definita crudele
(10), ed è quella dei Dodici Studi, che sono
il testamento spirituale di Debussy, la sua ultima composizione, ormai
proiettata non solo al di là della tonalità, ma anche dell
impressionismo/simbolismo.
Tuttavia, il mistero della morte trova la sua silenziosa celebrazione
nel Pelléas, lunica, straordinaria opera di Debussy.
Qui, nellantidramma dove lazione si svolge nellinteriorità
dei personaggi, e tutto è avvolto dal mistero, la fine di Mélisande
è una fine tragicamente silenziosa e silenziosamente tragica. Mélisande
muore senza che linutilità delle parole soffochi la sua morte,
una morte evanescente come la sua vita e come, in fondo, la vita di ogni
creatura.
La contraddizione assoluta che informa la vicenda
di sé, ossia quella fra necessità e impossibilità
di amare, non può che risolversi nella morte, nellannientamento
delloggetto amato.
Qui, peraltro, il mistero della morte si consuma attraverso il mistero
del destino, che colpisce e riguarda ciascuno dei personaggi, ed è
per tutti ugualmente tragico e inspiegabile.
Ora, poiché ciò che sarebbe veramente
importante dire non si può dire, ma vi si può solo alludere,
nella musica debussyana il silenzio riesce ad essere più eloquente
non solo delle parole cantate nel Pelléas, ma della
stessa sua musica.
La trama del discorso musicale si sfilaccia, lasciando ampi momenti di
vuoto che segnano già il cammino poi ripreso da Webern.
La stessa dichiarazione damore fra Pelléas e Mélisande,
che è il nodo cruciale della vicenda, è fatta più
di silenzio che di parole.
Ma molti esempi possono essere portati anche dalle opere strumentali:
nel repertorio sinfonico, i tre Nocturnes sono straordinari dialoghi fra
sonorità ora pulviscolari ora festose e sgargianti e la potenza
evocatrice del silenzio, così come i tre schizzi de La Mer;
fra i lavori pianistici, quasi tutti i Preludi del I Libro e parte di
quelli del II giocano anche su questo elemento (un titolo per tutti: La
cathédrale engloutie).
Dice Jankélévitch: [
] se lesistenza, che
ci rappresentiamo fragile, superficiale e provvisoria, tende asintoticamente
verso il nulla, la musica, esaurendo a poco a poco tutte le combinazioni
possibili, tende inesorabilmente verso il grande anno del
silenzio. (11). E ancora: [
] si può
distinguere un silenzio antecedente e un silenzio conseguente [
].
Questo doppio silenzio bagna la musica di Claude Debussy [
]
(12).
Nello stesso Pelléas cè un silenzio iniziale
carico di promesse (13) e cè
un silenzio finale, che sta a rappresentare il nulla al quale fa
ritorno la vita (14).
Ma il silenzio non è, comunque, il non-essere
assoluto, che la nostra mente peraltro non sa nemmeno immaginare, e non
è mai totale. Il silenzio più tipico è
quello delle parole; la musica è il silenzio delle parole, ma al
tempo stesso riempie quel silenzio. Imponendo al Logos di tacere, la musica
esercita appieno il proprio incantamento, diffonde intorno a sé
il proprio charme.
Ecco perché essa non dice, ma preferisce alludere. Quella debussyana,
in particolare, è tutta un fitto reticolo di allusioni a realtà
umane e naturali che essa suggerisce fra le righe, ma non rappresenta
e non descrive. Tantè che Debussy volle sempre porre i titoli
dei suoi Preludi alla fine, in modo discreto, e non solo per un capriccio
da esteta.
Questo, tra laltro, la dice lunga sul rapporto tra Debussy e la
musica: il compositore infatti, con questa scelta, sembra dirci: Questa
musica lho scritta io, ma ora è di tutti, e a ciascuno può
suggerire ed evocare immagini diverse. Perciò siete liberi di associarla
a ciò che volete.
Un atteggiamento che definirei profondamente moderno e, al tempo stesso,
ammirevolmente etico.
Del resto Debussy non si attiene ad una concezione soggettivista della
musica; viceversa, partecipa pienamente alla svolta oggettivista attuata
dal modernismo. Prende cioè le distanze dalla propria musica, anche
attraverso lartificio dello humour e dellironia. Non vuole
prendersi troppo sul serio, perché guai a diventare la parodia
di se stessi, e guai a voler essere espressivi! Satie aveva
aperto la strada in questo senso, e Debussy e Ravel imparano bene la lezione
del suo oggettivismo.
Questa tendenza nasce anche dalla volontà di tornare ad aderire
al reale in quanto tale, senza il tramite della percezione psicologica,
ed ha tra le sue conseguenze la scomparsa della figura umana dalla musica.
Debussy ci parla di pesci doro, mare, vento,
neve, brughiere, foglie che si agitano alla brezza primaverile, nuvole;
ci parla persino di Sirene! Ma della presenza delluomo ci viene
detto attraverso la sua assenza: in Canope, Preludio del II
Libro, o nelle Six épigraphes antiques per pianoforte
a quattro mani, ad esempio, dove si fa riferimento ad un passato aureo
ma lontanissimo e alla tomba, come luogo del ricordo che eterna la presenza.
Mi piace sottolineare, a conclusione di questo excursus fra alcuni luoghi
topici della filosofia di Jankélévitch e della musica di
Debussy, come sia stato possibile per me collegarli luno allaltro
seguendo un ordine molto diverso da quello in cui mi erano stati sottoposti
nei testi di riferimento. Ritengo che questo sia una prova significativa
della profonda coerenza di un pensiero filosofico e di un linguaggio musicale.
Se cè coerenza, come si può rilevare qui, in un certo
senso cambiando lordine degli addendi il risultato non cambia.
I punti di partenza e di arrivo, nonché le tappe intermedie del
ragionamento, possono mutare; ma la logica regge, il filo conduttore non
si spezza.
IV. Alcune osservazioni critiche sulla filosofia di Jankélévitch
Leggere un libro come Debussy e il mistero
significa, a mio giudizio, fare una lettura prima di tutto gradevole,
per come il libro stesso è scritto, e poi anche illuminante, perché
quando Jankélévitch si concentra sulla musica di Debussy
riesce ad entrare nelle sue pieghe più segrete e riposte, e a svelarcele
con grazia e delicatezza, e al tempo stesso in modo intrigante.
Leggere invece La musica e lineffabile equivale ad entrare
prima di tutto in contatto con il pensiero filosofico di Jankélévitch,
e di conseguenza seguirlo anche nelle sue riflessioni sulla musica in
generale, e su quella di Debussy in particolare.
Personalmente ho apprezzato Jankélévitch
quasi più per le sue qualità di musicologo e scrittore che
non per i contenuti del suo pensiero, e ritengo che, volendo, questi aspetti
della sua figura di intellettuale si possano anche considerare e valutare
separatamente.
Egli infatti, senza dubbio, ha nei confronti della musica una sensibilità
particolare, e ne sa scrivere in modo non semplicemente accattivante,
ma denso sotto il profilo concettuale.
La sua filosofia può naturalmente trovare consenso, perché
è una filosofia solida dal punto di vista delle motivazioni e delle
giustificazioni di ciò che afferma. Niente viene proposto o imposto
come verità assoluta da accettare come dogma. Tutto è spiegato
e ha un senso logico nel quadro delle sue riflessioni.
Tuttavia ho avuto la sensazione che lo Jankélévitch
meritevole della definizione di filosofo sia prima di tutto
quello degli scritti sulla morale, perché questo deve essere stato
per lui il vero punto di partenza per elaborare un sistema filosofico
di interpretazione del mondo e della realtà nella loro interezza.
Forse, da parte mia, si verifica lerrore di correre col pensiero
a giganti della storia della filosofia occidentale, e in particolare a
due nomi della modernità che non bisognerebbe scegliere come pietre
di paragone, ossia Kant e Hegel, i quali mi hanno sempre impressionato
per la loro capacità di creare un sistema filosofico realmente
onnicomprensivo. In altri termini, è come se le loro filosofie
mi dessero la sensazione di potermi spiegare veramente tutto, di darmi
tutte le risposte, di estirpare il dubbio alla radice.
Ciò non toglie, inutile dirlo, che altre figure della storia del
pensiero possano colpire e affascinare proprio per la loro parzialità,
sia nelletà moderna che nellantichità.
Jankélévitch mi piace, perché ama una musica che
amo anchio, sa esaltarne le qualità e la profondità.
Ma leggere i suoi scritti sulla musica non mi ha dato risposte a domande
universali, e inoltre, piuttosto che pensare che esista della musica buona
e della musica cattiva (leggi: Debussy e affini versus Wagner), preferisco
credere che tutta la musica abbia qualcosa da dirci, da insegnarci, da
regalarci, e che, come lo stesso Jankélévitch sostiene,
lo sappia fare in virtù della sua magica e misteriosa superiorità
rispetto alla parola.
Note
(1)Desidero precisare che nel mio lavoro si trovano brevi
citazioni di cui non ho potuto specificare la provenienza, citazioni fatte
dal Prof. Migliaccio durante il seminario La questione della temporalità
musicale, abbinato al corso del Prof. Piana tenutosi presso lUniversità
Statale di Milano nellanno accademico 1998/ 99, o che erano contenute
nei testi che ho letto, i quali non davano indicazioni in questo senso.
Quando non ho fornito lindicazione numerica è stato per questo
motivo.
Per quanto concerne le indicazioni che seguono, si segnala la mancanza
della città di pubblicazione della versione italiana de La
musica e lineffabile.
(2) B. BERLOWITZ, V. JANKÉLÉVITCH, Quelque
part dans linachevé, Parigi, Gallimard, 1978,
pag. 247.
(3) ib., pag. 248.
(4) M. BORTOLOTTO, Fase seconda, Torino, Einaudi, 1969,
pag. 21.
(5) TH. W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, Torino,
Einaudi, 1959, pag. 184-186.
(6) V. JANKELEVITCH, Debussy e il mistero, Bologna, Il
Mulino, 1991, pag. 142.
(7) V. JANKELEVITCH, La musica e lineffabile, Tempi
Moderni Edizioni, 1985, pag. 8.
(8) ib., pag. 140.
(9) ib., pag. 36.
(10) ib., pag. 40.
(11) ib., pag. 178.
(12) ib., pag. 180.
(13) ib., pag. 181.
(14) ib., pag. 181.
Musiche di Claude Debussy citate
Opere per pianoforte
Childrens corner, in particolare :
- The snow is dancing
Images
I e II serie, in particolare:
- Mouvement
- Canope
Lisle joyeuse
Preludi, I e II Libro, in particolare:
- Des pas sur la neige
- La cathédrale engloutie
Six épigraphes antiques per pf. a quattro mani
Studi, in particolare :
- Pour le cinq doigts
Opere sinfoniche
Images, in particolare :
- Rondes de printemps
La Mer
Nocturnes
Prélude à laprès-midi dun faune
e inoltre
Pelléas et Mélisande
Bibliografia
TH.
W. ADORNO, Filosofia della musica moderna, Torino, Einaudi, 1959.
M. BORTOLOTTO, Fase seconda, Torino, Einaudi, 1969.
E. FUBINI, Vladimir Jankélévitch e lestetica dellineffabile:
da Debussy alle avanguardie,
in C. DE INCONTRERA (a cura di), Allombra delle fanciulle in fiore.
La musica in Francia nelletà di Proust, Monfalcone, 1987,
pagg. 371-382.
V. JANKELEVITCH, Debussy e il mistero, Bologna Il Mulino, 1991.
V. JANKELEVITCH, La musica e lineffabile, Tempi Moderni Edizioni,
1985.
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