Il
titolo del mio intervento è Volti dellutopia. Perché
volti dellutopia? Perché ho cercato di indagare taluni aspetti
dellatteggiamento utopico delluomo nel corso della storia,
principalmente dal punto di vista estetico-letterario, al fine di riproporre
un tratto di esso spesso accantonato o dimenticato ossia la dimensione
utopica dellarte.
Probabilmente,
in unepoca come la nostra dove le ideologie sono cadute, in cui
assistiamo a rapidi cambiamenti, grandi accelerazioni, repentine trasformazioni,
in cui si aprono dinanzi a noi scenari inquietanti, è necessario
riscoprire il senso e il significato del nostro porsi in relazione con
lopera darte, come esperienza di segno utopico grazie alla
quale possiamo ritrovare la dimensione più autentica della nostra
umanità.
Cominciamo
con una citazione tratta da Il mondo nuovo, noto romanzo di A.Huxley.
"Le
utopie appaiono oggi assai più realizzabili di quanto non si credesse
un tempo. E noi ci troviamo attualmente davanti a una questione ben più
angosciosa: come evitare la loro realizzazione definitiva? (
) Le
utopie sono realizzabili. La vita marcia verso le utopie. E forse un secolo
nuovo comincia; un secolo nel quale gli intellettuali e la classe colta
penseranno ai mezzi devitare le utopie e di ritornare a una società
non utopistica, meno perfetta e più libera" (N.Berdjaeff).
Dunque
Huxley, tramite Berdjaeff, ci invita a diffidare delle utopie perché
realizzabili.
Nellaccezione
comune, invece, per utopia si intende unidea, un progetto, una visione
sociale e politica altamente desiderabile, ma irrealizzabile.
Due
posizioni antitetiche?
Sicuramente,
se dessimo retta soltanto a noi stessi, ci piacerebbe immaginare un mondo
in cui esista soltanto la felicità, pieno damore e armonia,
in cui il lavoro sia una libera creatività, e, per converso, i
bisogni, il dolore, le sofferenze che viviamo ogni giorno finalmente scomparirebbero.
Questa
immaginazione possiede tratti costanti che ritroviamo sia nella storia
dellumanità che nella nostra piccola storia personale.
Ogni
civiltà elabora il suo paradiso perduto: leden, dove era
semplice avere la cosa più bella e lingiustizia era sconosciuta,
letà delloro, oppure il paese della cuccagna dove scorrono
fiumi di latte e miele e si passano le giornate giocando. In fondo, ci
fa piacere pensare che nei meandri oscuri del passato brillassero pietre
preziose per noi ormai irraggiungibili. In ogni caso, lo sguardo è
rivolto allindietro, e limmaginazione è legata alla
memoria di un tempo una volta felice. Questo il volto dellutopia
rivolta al passato.
Ma
cè lutopia che punta lo sguardo in direzione del futuro
e, di conseguenza, non dà garanzie sicure. E stata descritta
dagli scienziati e dai filosofi e i poeti lhanno cantata: pensiamo
alla Repubblica di Platone, allUtopia di Tommaso Moro, a La città
del Sole di Campanella, al sogno di restaurazione dellimpero universale
di Dante e a molte altre.
Qualcosa
di nuovo accade però nellepoca della rivoluzione industriale.
In quel periodo chi coltivava utopie era persuaso che il progresso tecnico
e sociale avrebbe liberato luomo e sviluppato una sempre maggiore
razionalità. Su questi presupposti si sarebbero risolti i conflitti
sociali e si sarebbe realizzata una vera armonia tra luomo e la
natura. Emblematico in tal senso un romanzo del 1839, Viaggio in Icaria
di Etienne Cabet, tra laltro ricordato da Baudelaire nella sua poesia
Il viaggio. Nel paese degli icariani la macchina ha risolto il problema
del lavoro, e il tempo libero viene utilizzato per listruzione e
per divertimenti intelligenti. In tal modo, luomo è liberato
dal bisogno, si raggiunge luguaglianza tra i cittadini e la democrazia
si afferma quale miglior forma di governo.
Dunque,
progresso tecnico e progresso sociale erano perfettamente saldati in ogni
rappresentazione possibile del mondo futuro.
Ma
oggi possiamo ancora immaginare il futuro in termini ottimistici ? Se
guardiamo alla letteratura del secolo appena trascorso, la risposta è
no. Ha prefigurato distruzioni, mostri, violenze orribili. Anziché
elaborare una realtà possibile, per mezzo delle invenzioni dellimmaginazione,
lutopia diventa anti-utopia, trasforma il positivo in negativo.
Ciò
lo possiamo cogliere attraverso due esempi tra i molti possibili.
In
uno dei primi racconti anti-utopici, Noi (1920) il russo Zamjatin rappresenta
un mondo controllabile in toto. La città era stata interamente
isolata dalla natura: i suoi palazzi di vetro permettevano al Potere di
controllare i Numeri, cioè i cittadini. Gli alimenti erano sintetici
e una legge sulla sessualità fissava quali e quanti dovevano essere
i rapporti sessuali che i Numeri potevano avere. I bambini erano immediatamente
presi in consegna dallo Stato che dava loro uneducazione di tipo
scientifico: in questo contesto gli uomini sviluppavano comportamenti
e abitudini automatiche e metallico era persino il timbro della voce.
Nel
più celebre tra i romanzi anti-utopici Il mondo nuovo (1932) di
Aldous Huxley, viene espressa con grande efficacia quella prospettiva
che ritiene ormai del tutto incontrollabili gli effetti della scienza.
Si è determinata una frattura epocale: il corso normale della vita
è modificato e irreversibile è la sopraffazione dellartificiale
sul naturale. Vi si descrive una società pianificata in nome del
razionalismo produttivistico e gli uomini, sessualmente e biologicamente
rafforzati, nascono e crescono come prodotti industriali fabbricati in
serie.
Anche
nel cinema si può notare ciò: pensiamo ai robot di Blade
runner di Scott o agli opprimenti labirinti di Metropolis di Fritz Lang:
la macchina esercita il suo dominio incontrastata e la scienza è
un potere egemone, non uno strumento del pensiero per allargare le frontiere
della conoscenza.
E
allora lutopia che guarda al passato, ci appare un consolante percorso
di fuga dai sentieri della storia. Lutopia che dirige, invece, lo
sguardo al futuro riesce a intravedere soltanto un mondo mostruoso, disumanizzante.
Questi dunque sono i soli volti dellutopia? Solo questo riusciamo
a immaginare?
Proviamo
allora pensare a un altro volto che può assumere lutopia.
Proviamo allora a pensare ad unutopia senza sistematicità
che ha il suo cuore nellarte (luogo non-luogo per eccellenza).
Abbiamo
visto che automatismi e supporti materiali (la macchina, il denaro ecc.)
sostituiscono luomo in tante sue attività e disposizioni
razionali, lasciandolo in una condizione di indeterminatezza.
Ciò
ha due conseguenze fondamentali. Da un lato, luomo viene alleggerito
da una serie di attività gravose, cui provvede la macchina, dallaltro,
deve preoccuparsi di non farsi assorbire o annichilire dalla potenza della
tecnica, in quanto, altrimenti, la sua esistenza sarebbe un sotto-vivere,
un rimanere al di sotto delle sue possibilità inespresse.
Allora
pienezza e senso della vita è possibile ritrovarli in tempi e luoghi
virtuali: in un altrove che non si situa nella serie degli eventi e degli
spazi in cui siamo quotidianamente collocati, in unalterità
con la quale ci poniamo in relazione: lopera darte.
Quando
ciò accade, attraversiamo spazi logicamente non percorribili, varchiamo
con il desiderio e con limmaginazione la soglia che divide il reale
dallimmaginario, facciamo ingresso in un mondo senza spessore che
appare più significativo di quello in cui tridimensionalmente ed
effettivamente viviamo, o, per dirla con parole diverse, in una zona di
irrealtà che è più vera di ogni realtà che
ci circonda (non vera da un punto di vista logico o percettivo , ma perché
la cogliamo come luogo di realizzazione di possibilità che non
si danno nel mondo). Allora in tale relazione con lopera darte,
in cui seguiamo il suo ritmo, il suo tempo interno, i suoi colori, le
sue forme, i suoi suoni, i suoi simboli, si dispiega la dimensione utopica
dellarte come luogo non-luogo in cui si apre un altro mondo.
Larte
costituisce un secondo mondo e appare paradossalmente come un modo di
potenziamento del reale, come lapparizione sensibile di un mondo
più vero di quello presentato dalla percezione dellesistente
e dai pensieri quotidiani, da cui pure prende spunto. Come sosteneva J.P.
Sartre, a proposito di chi, leggendo un romanzo, dimentica tutto ciò
che lo circonda, larte genera nelluomo una "coscienza
annodata", che esclude ciò che in quellistante non lo
attira, ossia la realtà percettiva non pertinente, quella posta
oltre la pagina, la cornice, la scena, lo spazio visivo o il campo sonoro
in cui prende forma il mistero delle bellezza: "quella zona in cui
non siamo mai stati ma che ci sembra di conoscere da sempre, quasi fosse
un intero paese straniero perduto ed ogni tanto riconquistato" (I.
Bonnefoy).
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