Sergio Lagrotteria - La parola alle cose

 

 

       

Nella poesia del Novecento, ma non solo nella poesia, assistiamo ad un fenomeno importante: le cose non sono più mere "cose", semplici oggetti che fanno da sfondo ai veri protagonisti della poesia (l'uomo, Dio, la natura, i sentimenti, gli avvenimenti storici, eccetera), ma diventano soggetti degni di interesse, di attenzione, entità che forse covano una loro vita segreta, che hanno un'essenza inascoltata da scoprire.
Certamente, se guardiamo al Seicento, troviamo, sia in pittura che in letteratura, nature morte in abbondanza o poesie che esprimono, all'interno di un gusto sottile e incline alla meraviglia, le singolari qualità di taluni oggetti (non dimentichiamo poi le wunderkammer), tuttavia nel Novecento le cose acquistano una presenza rilevante.
Possiamo in qualche modo cogliere questa tendenza se gettiamo uno sguardo, sia pure fugace, su alcune figure particolarmente significative: il pittore Giorgio Morandi e i poeti Francis Ponge e Rainer Maria Rilke, in quanto delineano tre prospettive diverse ed egualmente interessanti sulle cose.


Morandi: pittore di nature morte, di bottiglie, bicchieri, caraffe: questo il cliché in cui viene generalmente relegato il pittore bolognese. Con lui viene meno la centralità della figura umana che ha caratterizzato la pittura europea. Egli osserva una scatola o un lume con lo stesso animo con cui un pittore del passato era rivolto a un personaggio mitologico o religioso, e ne ricava accenti nuovi. Il silenzio in pittura si afferma con lui: ogni rumore o frastuono scompare. E questa condizione permette di vederli davvero, gli oggetti. Essi ci guardano, ci accompagnano nella vita, ma soprattutto sono un riflesso della nostra vita interiore. Morandi dipinge magari lo stesso oggetto cambiando prospettiva e ciò è un riverbero dell'intimo sentire, del tempo che passa, di un momento umorale particolare. L'uomo carica gli oggetti con cui condivide la vita quotidiana di significati legati alla realtà interiore sia pure senza compiacimenti estetizzanti. La sua ispirazione si attua in forme per nulla naturalistiche che avvolgono le cose di impalpabili modulazioni della luce, che appare calma, immateriale, filtrata dai moti dell'animo, e in virtù della quale esse appaiono immobili e solitarie eppure straordinariamente ricche di pathos. Si passa da dipinti a colori densi e dal tratto relativamente sommario a dipinti caratterizzati da una trama cromatica di più delicata e morbida consistenza, rigorosamente castigata, che sottilineano il progressivo affinarsi del lirismo morandiano, segno di una crescente serenità. Non tutte le cose sono oggetto della sua pittura, ma solo una ristretta cerchia: quelli di uso quotidiano, casalingo, che accompagnano la sua vita, perché attraverso queste cose riesce a ricreare il massimo di interiorità.

I suoi quadri sono, in fondo, il diario, apparentemente monotono, in realtà affascinante, di una vita ostinatamente condotta alla ricerca delle proprie emozioni.
Ponge, poeta francese, che aderì per breve tempo al movimento surrealista, stringendo rapporti con Bréton ed Eluard, secondo un giudizio critico ormai acquisito, è il poeta degli oggetti. Egli si afferma piuttosto tardivamente, grazie a un saggio di Jean Paul Sartre dedicato alla raccolta Il partito preso delle cose, uscita nel 1942. Introducendosi nell'universo delle cose, prende la parola in loro favore, perché tutto ciò che si può intendere e trascrivere è già nelle cose, prima del nostro arrivo. Esse sono entità condannate al silenzio e mute per definizione. Ogni oggetto è come un forziere chiuso nel suo impenetrabile silenzio, che il poeta deve scardinare per mostrarne il lato autentico. La scrittura deve imparare a riprodurre la concretezza del mondo, per cui la poesia deve guardarsi dal creare dovrà limitarsi a mostrare la verità del mondo stesso. Ovviamente servendosi delle parole, ma con un'operazione particolare: di "parlare contro le parole" per sradicare il linguaggio dalle sue menzogne. Ponge così si inserisce in qualche modo nella scia del simbolismo mallarmeano con questa esigenza di parola-verità, pur giungendo a esiti assai distanti dal Simbolismo. Vi è il proposito di scrivere partendo dalla semplicità delle cose, anche più insignificanti, per non tradirle, di parlarle sfrondando le pastoie del linguaggio ordinario. E allora rispunterà l'umile sublimità del quotidiano, delle forme, dei colori: da un semplice ciottolo alla crosta rugosa di un tozzo di pane. Esemplificativa in tal senso la poesia L'ostrica:"E' un mondo testardamente chiuso. Eppure si può aprire[...] All'interno si trova tutto un mondo, da bere e da mangiare: sotto un firmamento (propriamente parlando) di madreperla, i cieli di sopra si accasciano sui cieli di sotto, per non formare più che una pozzanghera, un sacchetto vischioso e verdastro che fluisce e rifluisce all'odore e alla vista, frangiato sui bordi da un merletto nerastro".

Nello sforzo di adeguarsi completamente al reale, considerato in sé, non in relazione all'uomo, Ponge si sofferma non solo su oggetti della natura o quotidiani, a portata di mano, ma anche su cose invisibili come l'elettricità, invisibile in sé, ma ben avvertibile quanto agli effetti: in più l'elettricità secondo i tradizionali canoni poetici è un oggetto impoetico.
Ponge, che non disdegna la lingua della scienza e della tecnica, anch'essa tradizionalmente impoetica, punta a scoprire il mondo mediante metafore inedite e ardite usate come se fossero le più naturali, servendosi anche del poemetto in prosa o del saggio breve. D'altronde il mondo, a ben guardare, non è che una ricca miniera di oggetti che non finisce mai di sorprendere.


Rilke, sebbene rispetto agli altri due sia cronologicamente anteriore, mi sembra la figura più affascinante e più lungimirante, e su di essa mi soffermerò un po' di più. Una linea continua dell'arte rilkiana è "la poesia delle cose", che trova la sua prima consacrazione lirica nel Buch der Bilder (Il libro delle immagini), 1902, dallo stile leggermente affettato e dai toni per lo più descrittivi. La scoperta della pittura di Cézanne e la frequentazione dello scultore Rodin lo portano a meditare sulla necessità di imparare a rappresentare la cosa singola, circoscritta nei suoi limiti spaziali e precisata nelle sue forme corporee.

Per comprendere il significato del mondo delle cose in Rilke, risulta di notevole importanza una lettera del poeta praghese a Marie von Thurn und Taxis-Hohenloe del 6 settembre 1915 in egli mostra sconforto circa la possibilità di creare figure poetiche grandi e vigorose che si oppongano l'orrore della realtà con l'unico modo possibile vale a dire la disposizione integralmente umana di cogliere con i nostri sensi la bellezza enigmatica, ma incontestabile delle cose del mondo.

Questo è il cuore del pensiero poetico rilkiano, che troverà la sua più alta realizzazione nelle Elegie duinesi, frutto di quel "innominabile turbine" creativo, come egli lo chiamerà, che oltre alle Elegie vedrà nascere i Sonetti a Orfeo.

In particolare, nel castello svizzero di Muzot, Rilke compone il 9 febbraio 1922 la parte centrale della Nona elegia, momento rilevante del suo percorso perché alla desolazione e insensatezza della nostra esistenza il poeta pare finalmente individuare un possibile approdo e, nel segno della poesia, un sicuro riscatto.

"Esistere è molto", egli proclama; sebbene siamo esseri effimeri, nonostante il nostro poter vivere ogni cosa "soltanto una volta", l'esistenza è qualcosa di "irrevocabile". L'essenza dell'umano essere-nel-mondo si incentra nella dimensione terrena del rapporto con le cose. Noi esistiamo forse per "dire", afferma Rilke, e in particolare per rivelare nel nostro dire la vera natura delle cose. La nostra sostanza, il nostro "qui" è quello della parola, per quanto trascorriamo l'esistenza in un tempo "incalzato" da cambiamenti incessanti, accelerati, da "un fare senza volto" con cui Rilke si riferisce in maniera sibillina alla nuova età dell'industrializzazione e all'affermarsi di un pensiero astratto, privo di contatto col mondo della vita.

La concretezza degli oggetti, la loro familiare intimità con i sensi dell'uomo, sono messe in pericolo, secondo Rilke, dai meccanismi della modernità, che dal suo caos partorisce oggetti puramente funzionali, senz'anima e senza memoria.

Si legga a questo proposito quanto egli scrive in una lettera del 13 novembre 1925 indirizzata al suo traduttore polacco Witold von Hulewicz:"Per i nostri avi, una "casa", una "fontana", una torre loro familiare, perfino un indumento personale, il loro mantello, erano qualcosa di infinitamente, più che per noi, di infinitamente più familiare; quasi ogni cosa era un vaso in cui ritrovavano qualcosa dell'uomo e rintracciavano l'umano. Ora dall'America sbucano fuori cose vuote e indifferenti, pseudo-cose, aggeggi ingannavita...Una casa come si intende in America, una mela americana o un grappolo d'uva sorto lì, non hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il tralcio in cui erano riposte la speranza e la pensosità dei nostri padri...".

E allora da "qui", su questa terra, dobbiamo dunque opporre resistenza alle forze ostili ("i magli"), e da "qui" levare il nostro canto, tramite il quale "ogni cosa terrena che effimera noi stranamente / sollecita" avrà la sua autentica redenzione.


E' necessario rinvenire nella poesia, nella musica, nella pittura o nella scultura forme espressive che preservino la cosa dall'annientamento. E' questo il significato ineludibile della formula rilkiana che si trova nella Settima e nella Nona elegia della "trasformazione del visibile in invisibile". Compiere sugli oggetti la metamorfosi dell'invisibile non significa privarli della loro concretezza, anzi ogni poeta o artista deve fare come Cézanne per il quale il colore è da usare non come ornamento o per fini mimetici, "ma solo per fare con esso la cosa", in quanto, sotto il suo sguardo e la sua cura artistica, il semplice oggetto si fa cosa come intimamente non sapeva d'essere.

Si chiarisce allora il compito dell'artista contemporaneo. Vedere è il compito da far rispettare all'artista, così come il dipingere, lo scrivere, lo scolpire, e via dicendo, come confermato dalla lettera sopracitata. Bisogna saper individuare e conquistare la "parola" (ogni artista in relazione alla sua disciplina), proprio quella che, come la genziana riportata dal monte, testimonia dell'esperienza che il "viandante" ha vissuto. Ciò significa, in altre parole, creare una lingua nuova che dica la bellezza delle cose, la loro caducità, la loro innocenza in maniera tale che l'angelo, essere privilegiato del Creato che vive nel regno dell'invisibile, si stupisca, perché noi esseri per natura effimeri gli portiamo col canto della poesia o con l'arte tutta la bellezza, il senso profondo, la felicità e lo splendore delle cose, effimere come noi, compagne di viaggio su questa terra.