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Nella
poesia del Novecento, ma non solo nella poesia, assistiamo ad un fenomeno
importante: le cose non sono più mere "cose", semplici
oggetti che fanno da sfondo ai veri protagonisti della poesia (l'uomo,
Dio, la natura, i sentimenti, gli avvenimenti storici, eccetera), ma diventano
soggetti degni di interesse, di attenzione, entità che forse covano
una loro vita segreta, che hanno un'essenza inascoltata da scoprire.
Certamente, se guardiamo al Seicento, troviamo, sia in pittura che in
letteratura, nature morte in abbondanza o poesie che esprimono, all'interno
di un gusto sottile e incline alla meraviglia, le singolari qualità
di taluni oggetti (non dimentichiamo poi le wunderkammer), tuttavia nel
Novecento le cose acquistano una presenza rilevante.
Possiamo in qualche modo cogliere questa tendenza se gettiamo uno sguardo,
sia pure fugace, su alcune figure particolarmente significative: il pittore
Giorgio Morandi e i poeti Francis Ponge e Rainer Maria Rilke, in quanto
delineano tre prospettive diverse ed egualmente interessanti sulle cose.
Morandi:
pittore di nature morte, di bottiglie, bicchieri, caraffe: questo il cliché
in cui viene generalmente relegato il pittore bolognese. Con lui viene
meno la centralità della figura umana che ha caratterizzato la
pittura europea. Egli osserva una scatola o un lume con lo stesso animo
con cui un pittore del passato era rivolto a un personaggio mitologico
o religioso, e ne ricava accenti nuovi. Il silenzio in pittura si afferma
con lui: ogni rumore o frastuono scompare. E questa condizione permette
di vederli davvero, gli oggetti. Essi ci guardano, ci accompagnano nella
vita, ma soprattutto sono un riflesso della nostra vita interiore. Morandi
dipinge magari lo stesso oggetto cambiando prospettiva e ciò è
un riverbero dell'intimo sentire, del tempo che passa, di un momento umorale
particolare. L'uomo carica gli oggetti con cui condivide la vita quotidiana
di significati legati alla realtà interiore sia pure senza compiacimenti
estetizzanti. La sua ispirazione si attua in forme per nulla naturalistiche
che avvolgono le cose di impalpabili modulazioni della luce, che appare
calma, immateriale, filtrata dai moti dell'animo, e in virtù della
quale esse appaiono immobili e solitarie eppure straordinariamente ricche
di pathos. Si passa da dipinti a colori densi e dal tratto relativamente
sommario a dipinti caratterizzati da una trama cromatica di più
delicata e morbida consistenza, rigorosamente castigata, che sottilineano
il progressivo affinarsi del lirismo morandiano, segno di una crescente
serenità. Non tutte le cose sono oggetto della sua pittura, ma
solo una ristretta cerchia: quelli di uso quotidiano, casalingo, che accompagnano
la sua vita, perché attraverso queste cose riesce a ricreare il
massimo di interiorità.
I
suoi quadri sono, in fondo, il diario, apparentemente monotono, in realtà
affascinante, di una vita ostinatamente condotta alla ricerca delle proprie
emozioni.
Ponge, poeta francese, che aderì per breve tempo al movimento surrealista,
stringendo rapporti con Bréton ed Eluard, secondo un giudizio critico
ormai acquisito, è il poeta degli oggetti. Egli si afferma piuttosto
tardivamente, grazie a un saggio di Jean Paul Sartre dedicato alla raccolta
Il partito preso delle cose, uscita nel 1942. Introducendosi nell'universo
delle cose, prende la parola in loro favore, perché tutto ciò
che si può intendere e trascrivere è già nelle cose,
prima del nostro arrivo. Esse sono entità condannate al silenzio
e mute per definizione. Ogni oggetto è come un forziere chiuso
nel suo impenetrabile silenzio, che il poeta deve scardinare per mostrarne
il lato autentico. La scrittura deve imparare a riprodurre la concretezza
del mondo, per cui la poesia deve guardarsi dal creare dovrà limitarsi
a mostrare la verità del mondo stesso. Ovviamente servendosi delle
parole, ma con un'operazione particolare: di "parlare contro le parole"
per sradicare il linguaggio dalle sue menzogne. Ponge così si inserisce
in qualche modo nella scia del simbolismo mallarmeano con questa esigenza
di parola-verità, pur giungendo a esiti assai distanti dal Simbolismo.
Vi è il proposito di scrivere partendo dalla semplicità
delle cose, anche più insignificanti, per non tradirle, di parlarle
sfrondando le pastoie del linguaggio ordinario. E allora rispunterà
l'umile sublimità del quotidiano, delle forme, dei colori: da un
semplice ciottolo alla crosta rugosa di un tozzo di pane. Esemplificativa
in tal senso la poesia L'ostrica:"E' un mondo testardamente chiuso.
Eppure si può aprire[...] All'interno si trova tutto un mondo,
da bere e da mangiare: sotto un firmamento (propriamente parlando) di
madreperla, i cieli di sopra si accasciano sui cieli di sotto, per non
formare più che una pozzanghera, un sacchetto vischioso e verdastro
che fluisce e rifluisce all'odore e alla vista, frangiato sui bordi da
un merletto nerastro".
Nello
sforzo di adeguarsi completamente al reale, considerato in sé,
non in relazione all'uomo, Ponge si sofferma non solo su oggetti della
natura o quotidiani, a portata di mano, ma anche su cose invisibili come
l'elettricità, invisibile in sé, ma ben avvertibile quanto
agli effetti: in più l'elettricità secondo i tradizionali
canoni poetici è un oggetto impoetico.
Ponge, che non disdegna la lingua della scienza e della tecnica, anch'essa
tradizionalmente impoetica, punta a scoprire il mondo mediante metafore
inedite e ardite usate come se fossero le più naturali, servendosi
anche del poemetto in prosa o del saggio breve. D'altronde il mondo, a
ben guardare, non è che una ricca miniera di oggetti che non finisce
mai di sorprendere.
Rilke,
sebbene rispetto agli altri due sia cronologicamente anteriore, mi sembra
la figura più affascinante e più lungimirante, e su di essa
mi soffermerò un po' di più. Una linea continua dell'arte
rilkiana è "la poesia delle cose", che trova la sua prima
consacrazione lirica nel Buch der Bilder (Il libro delle immagini), 1902,
dallo stile leggermente affettato e dai toni per lo più descrittivi.
La scoperta della pittura di Cézanne e la frequentazione dello
scultore Rodin lo portano a meditare sulla necessità di imparare
a rappresentare la cosa singola, circoscritta nei suoi limiti spaziali
e precisata nelle sue forme corporee.
Per
comprendere il significato del mondo delle cose in Rilke, risulta di notevole
importanza una lettera del poeta praghese a Marie von Thurn und Taxis-Hohenloe
del 6 settembre 1915 in egli mostra sconforto circa la possibilità
di creare figure poetiche grandi e vigorose che si oppongano l'orrore
della realtà con l'unico modo possibile vale a dire la disposizione
integralmente umana di cogliere con i nostri sensi la bellezza enigmatica,
ma incontestabile delle cose del mondo.
Questo
è il cuore del pensiero poetico rilkiano, che troverà la
sua più alta realizzazione nelle Elegie duinesi, frutto di quel
"innominabile turbine" creativo, come egli lo chiamerà,
che oltre alle Elegie vedrà nascere i Sonetti a Orfeo.
In
particolare, nel castello svizzero di Muzot, Rilke compone il 9 febbraio
1922 la parte centrale della Nona elegia, momento rilevante del suo percorso
perché alla desolazione e insensatezza della nostra esistenza il
poeta pare finalmente individuare un possibile approdo e, nel segno della
poesia, un sicuro riscatto.
"Esistere
è molto", egli proclama; sebbene siamo esseri effimeri, nonostante
il nostro poter vivere ogni cosa "soltanto una volta", l'esistenza
è qualcosa di "irrevocabile". L'essenza dell'umano essere-nel-mondo
si incentra nella dimensione terrena del rapporto con le cose. Noi esistiamo
forse per "dire", afferma Rilke, e in particolare per rivelare
nel nostro dire la vera natura delle cose. La nostra sostanza, il nostro
"qui" è quello della parola, per quanto trascorriamo
l'esistenza in un tempo "incalzato" da cambiamenti incessanti,
accelerati, da "un fare senza volto" con cui Rilke si riferisce
in maniera sibillina alla nuova età dell'industrializzazione e
all'affermarsi di un pensiero astratto, privo di contatto col mondo della
vita.
La
concretezza degli oggetti, la loro familiare intimità con i sensi
dell'uomo, sono messe in pericolo, secondo Rilke, dai meccanismi della
modernità, che dal suo caos partorisce oggetti puramente funzionali,
senz'anima e senza memoria.
Si
legga a questo proposito quanto egli scrive in una lettera del 13 novembre
1925 indirizzata al suo traduttore polacco Witold von Hulewicz:"Per
i nostri avi, una "casa", una "fontana", una torre
loro familiare, perfino un indumento personale, il loro mantello, erano
qualcosa di infinitamente, più che per noi, di infinitamente più
familiare; quasi ogni cosa era un vaso in cui ritrovavano qualcosa dell'uomo
e rintracciavano l'umano. Ora dall'America sbucano fuori cose vuote e
indifferenti, pseudo-cose, aggeggi ingannavita...Una casa come si intende
in America, una mela americana o un grappolo d'uva sorto lì, non
hanno nulla in comune con la casa, il frutto, il tralcio in cui erano
riposte la speranza e la pensosità dei nostri padri...".
E
allora da "qui", su questa terra, dobbiamo dunque opporre resistenza
alle forze ostili ("i magli"), e da "qui" levare il
nostro canto, tramite il quale "ogni cosa terrena che effimera noi
stranamente / sollecita" avrà la sua autentica redenzione.
E' necessario rinvenire nella poesia, nella musica, nella pittura o nella
scultura forme espressive che preservino la cosa dall'annientamento. E'
questo il significato ineludibile della formula rilkiana che si trova
nella Settima e nella Nona elegia della "trasformazione del visibile
in invisibile". Compiere sugli oggetti la metamorfosi dell'invisibile
non significa privarli della loro concretezza, anzi ogni poeta o artista
deve fare come Cézanne per il quale il colore è da usare
non come ornamento o per fini mimetici, "ma solo per fare con esso
la cosa", in quanto, sotto il suo sguardo e la sua cura artistica,
il semplice oggetto si fa cosa come intimamente non sapeva d'essere.
Si
chiarisce allora il compito dell'artista contemporaneo. Vedere è
il compito da far rispettare all'artista, così come il dipingere,
lo scrivere, lo scolpire, e via dicendo, come confermato dalla lettera
sopracitata. Bisogna saper individuare e conquistare la "parola"
(ogni artista in relazione alla sua disciplina), proprio quella che, come
la genziana riportata dal monte, testimonia dell'esperienza che il "viandante"
ha vissuto. Ciò significa, in altre parole, creare una lingua nuova
che dica la bellezza delle cose, la loro caducità, la loro innocenza
in maniera tale che l'angelo, essere privilegiato del Creato che vive
nel regno dell'invisibile, si stupisca, perché noi esseri per natura
effimeri gli portiamo col canto della poesia o con l'arte tutta la bellezza,
il senso profondo, la felicità e lo splendore delle cose, effimere
come noi, compagne di viaggio su questa terra.
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