Da
Monteverdi a Bach
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La Fuga in fa diesis minore del Secondo Libro del
Clavicembalo ben temperato di Bach ricorda (casualmente? volutamente?)
la cellula ritmico-espressiva del celebre Lamento dArianna: Lasciatemi
morire: un topos monteverdiano quantaltri mai carico
di suggestioni emotive.
Possiamo
chiederci: cè un superiore destino in grado di modellare
lesistenza degli uomini di genio e stabilire fra loro affinità
di percorso?
A
distanza di più di un secolo la vita di Claudio Monteverdi (Cremona
1567- Venezia 1643) e quella di Johann Sebastian Bach (Eisenach 1685-Lipsia
1750) a noi sembrano scorrere parallele.
Notiamo
tre fasi esistenziali comuni. La prima in cui i due musicisti sono impegnati
nel repertorio da chiesa, che per Monteverdi significa lesordio
compositivo con i mottetti delle Sacrae cantiuncolae licenziate alletà
di quindici anni sotto la guida di MarcAntonio Ingegneri, suo insegnante
e maestro di cappella nel duomo di Cremona, e per Bach lapprendistato
organistico da Lüneburg a Weimar. La seconda fase segnata dal servizio
di corte e dalla produzione profana (musica dintrattenimento e madrigali
di Claudio Monteverdi per il duca di Mantova; pagine strumentali di Johann
Sebastian per la corte di Köthen). E infine una terza che costituisce
per entrambi un ritorno alla prima e che vede i musicisti impegnati nel
repertorio sacro-liturgico: come maestro di cappella della basilica marciana
l'italiano e il tedesco come Kapelmeister presso la chiesa di San Tommaso
a Lipsia.
Da
notare poi una più sostanziale affinità di metodo che consiste
nel fatto che sia Monteverdi che Bach utilizzano di frequente a uso liturgico
precedenti lavori profani: cantate l'uno, madrigali l'altro. E mai il
contrario.
Così
l'amore terreno, il sentimento umano, il patire e il gioire degli uomini,
sembrano idealmente collocarsi nella prospettiva del sacro, al modo che
la "selva selvaggia aspra e forte" è la via verso la
meta finale del viaggio dantesco. Il travestimento spirituale, la parodia
(come si dice in gergo musicale) diventa insomma l'omaggio - il solo possibile
- che l'uomo con la sua sensibilità limitata e contingente rende,
attraverso l'espressione dell'arte, all'Essere superiore.
Luomo
Monteverdi
Ci
siamo spesso domandati che uomo fosse Monteverdi. Il ritratto che
vorremmo tentare si affida a qualche congettura, che meriterebbe di essere
approfondita.
Illetterato
(Omo sanza lettere come diceva di sé Leonardo), sgrammaticato,
geniale, figlio della terra cremonese, animo contadino, forte, scontroso
e ombroso: non ha la parlantina sciolta dei toscani come Rinuccini
che riescono a farsi valere e a farsi pagare dalleconomo ducale
di Mantova. Lamenta le promesse del duca Vincenzo Gonzaga non mantenute,
i ritardi, i privilegi concessi solo a parole, l'affaticamento per il
troppo lavoro. Il padre, di professione cerusico (uomo appena abbiente),
a giudicare da una lettera pervenuta in cui perora la causa del figlio
che non vorrebbe più tornare a Mantova , scrive in modo più
appropriato di Claudio, che usa invece grafie diverse per una stessa parola
e talora singarbuglia tra verbi e sintassi.
Però
sentiamo che è geniale ciò che sta sotto le espressioni
epistolari, e ci domandiamo se quel limite, quel muro contro cui cozzare,
quelle fatiche dello scrivere e dell'esprimersi non siano il segno della
lotta del genio contro linerzia bruta della materia. E non sia anche
per contrappasso la rivincita contro le regole dei pedanti senzanima,
e il modo di far emergere il nuovo che altri non vede e non sente: cioè
quella seconda prattica dell'estetica monteverdiana (enunciata dal
fratello Giulio Cesare nella prefazione degli Scherzi Musicali del 1607),
un'estetica che metta lorazione (la poesia) prima della musica e
che vuole dipingere musicalmente gli affetti veri, il dolore, la gioia,
la disperazione e la speranza con le cadenze più appropriate della
melodia e del ritmo.
Crediamo
inoltre che esista un legame fra il sentire di un autore e le sue origini,
la sua terra. La Bassa pianura cremonese esprime, a noi pare, una dimensione
orizzontale, offerta senza scampo ai freddi nebbiosi dell'inverno e alle
calure estive, con un paesaggio - campi alberi rogge coltivi - che narra
soprattutto la condizione storica di un lavoro di generazioni ciclicamente
speso per educare la natura e trarne frutto e che ha temprato nei secoli
un carattere insieme volitivo e rassegnato, servizievole eppure sotterraneamente
ribelle verso lingiustizia e la fatica.
Lepistolario
monteverdiano è a questo proposito una spia. Oltre a fatti cruciali,
come limmatura morte della moglie Claudia e della Romanina
(la cantante che avrebbe dovuto interpretare l'Arianna, se non fosse deceduta
avanti la prima, e che era stata collocata per volere del duca di lei
innamorato presso la famiglia di Monteverdi e da questi trattata sino
agli ultimi suoi giorni come una figlia), le lettere mostrano le pieghe
del carattere per un verso arrendevole e disponibile a ogni richiesta
ducale; e dallaltro insofferente della scarsa considerazione per
le sue necessità primarie. Insofferenza che non manca di essere
continuamente ribadita da Venezia dove finalmente Monteverdi troverà
una degna sistemazione nella serenissima Repubblica.
Nel
repertorio sacro monteverdiano (e pensiamo soprattutto al Magnificat
del celebre Vespro del 1610) la dimensione orizzontale è spesso
affidata al cantus firmus che fa da sfondo e guida, come un tenor
fiammingo, al gioco contrappuntistica e plastico delle altre voci. Citando
il gregoriano con note lunghe e di uguale valore, un poco ossessive, lautore
sembra voler esprimere il canto della propria terra dorigine e della
propria anima antica.
Sono
momenti in cui avvertiamo il sussurro del grembo più oscuro e materno
della religione e non un semplice espediente dellantica polifonia.
Per
contrasto su questo tappeto emozionale Monteverdi innesta il gioco dei
rimandi imitativi, degli echi, dei motti più scaltri delle voci
soliste, le frasi accordali, le sillabazioni del salmo recitato,
quasi il Cielo della Sacra Scrittura fosse da rappresentare con i colori
più smaglianti fra ombre e luci e la potestà divina nel
momento dellira con i ritmi scultorei della Battaglia: genere peraltro
di moda anche nella musica organistica.
Bisogna
pur dire che le conquiste della liuteria cremonese e bresciana, i colori
della tavolozza strumentale che spazia dai violini ai chitarroni, dai
cornetti ai tromboni, rendevano quanto mai estroverso il rito veneziano:
lucente a suo modo come i mosaici doro bizantini. Esso era segno
di distinzione civile e religiosa, una sorta di blasone pubblico per una
Città che ricordava la propria potenza sui mari (ora in declino),
e anche una sfida contro la liturgia più castigata che Roma imponeva.
Come
è fatto un Vespro
Il
Vespro è il penultimo servizio dellUfficio del giorno. Si
celebra al cadere della sera, da cui il nome. Oltre a un certo numero
di versetti e di responsori, a una lectio e una preghiera
(Oremus) e una finale benedizione, esso consiste in una serie di salmi,
generalmente cinque, tratti dalla Bibbia e tutti conclusi dallaggiunta
di un Gloria , ai quali fa seguito il Magnificat. Ognuno di questi brani
cantati è preceduto e seguito da unantifona.
Tra
lultimo salmo e il Magnificat viene cantato un inno, il cui testo
è in rapporto alla ricorrenza ecclesiastica del giorno. Allo stesso
modo anche le antifone sono state scelte in ragione della festa da celebrare.
Per il nostro programma i testi di canto gregoriano si rifanno ai
primi vespri In Nativitate Domini della vigilia di Natale.
Fin
dal Rinascimento si usava cantare in polifonia linno e il
Magnificat in occasione delle feste solenni, pratica che veniva realizzata
alternatim (alternativamente), vale a dire un versetto in polifonia e
quello seguente in canto gregoriano, a turno.
Intorno
al 1570 circa divenne prassi costante nellItalia settentrionale
cantare a più voci anche i cinque salmi. Lo stile concertato, nato
qualche decennio dopo, produsse ulteriori e rilevanti conseguenze.
Lintonazione
del gregoriano (cantus planus), che era parte rilevante del Vespro nel
Medio Evo e nel Rinascimento, divenne accessoria e fu confinata essenzialmente
alle antifone. Non solo: esse dovettero adeguarsi a una sorta di mensurizzazione
per conformarsi meglio (o fu invece effetto di una sorta di imitazione?)
della musica figuralis.
Inoltre
la presenza degli strumentisti divenne d'obbligo a Venezia durante le
maggiori solennità (tra queste, festa di prima grandezza il Natale),
quando il Doge si recava a San Marco per ascoltare i Vespri. In tali occasioni
era prevista l'ostensione della celebre Pala d'oro, il capolavoro di oreficeria
posto dietro l'altare e ciò comportava il canto dei salmi vespertini
in due chori. Le antifone successive al salmo vennero di frequente soppresse
e sostituite da mottetti liberi o da canzoni strumentali, mentre il celebrante
a bassa voce recitava il testo dellUfficio. In alcuni libri cerimoniali
era fatto divieto allofficiante, pena una multa, di interrompere...
la musica.
Il
Vespro di Natale
I
brani scelti dal Maestro Andrea Marcon ci restituiscono una probabile
e assai credibile officiatura natalizia. Basandosi su studi e ricerche
del musicologo Denis Stevens, il programma del concerto fa leva essenzialmente
sui salmi che Monteverdi ha radunati nella Selva Morale e Spirituale del
1640. A essi si aggiungono il brano introduttivo del Vespro della
Beata Vergine del 1610, vale a dire il festosissimo Domine
ad adjuvandum, unico esempio del genere pervenutoci, che cita fra
laltro la Toccata avanti lOrfeo; un brano delle
giovanili Sacrae Cantiucolae del 1582, e brani strumentali
e vocali di altri maestri veneziani, secondo un uso tipico non solo a
Venezia.
Questi
brani succedanei aggiunti in loco antiphonae rendono ancora
più vario e festoso il Vespro natalizio. Nella visione intimista
del Natale moderno, edulcorata e manichea, la presenza degli ottoni e
di momenti di sfarzoso tripudio sembrano quasi fuori luogo.
In
realtà - come lo stesso Bach insegna - la nascita del Redentore
va salutata con lomaggio al re dei re (Magnificatus est rex pacificus
super omnes reges universae terrae, come dice unantifona), e dunque
con una musica che squarcia il buio della notte.
A
Venezia, come in tutto il mondo cristiano, Natale era considerato, come
già abbiamo detto, festa di prima grandezza. Ci sono pervenute
lettere dei procuratori di San Marco che invitano Claudio Monteverdi a
rientrare velocemente da Modena per affrettare i preparativi e la messa
in scena (ci scusiamo di questa definizione profana eppure attinente)
del Vespro e della Messa solenne di Natale.
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