Venerdì 31 Maggio 2002

 

Lettere al direttore

Nuova cultura per il dibattito sulle centrali


Mentre infuria la polemica sulle centrali a gas localizzate nella Bassa, mi permetta di intervenire sull’argomento. Ciò che più mi sorprende è la «casualità» delle localizzazioni. Ho contato cinque o sei siti interessati da insediamenti di questo tipo come la ubicazione fosse questione indifferente. Ma ora la polemica si è concentrata sui due comuni nei quali i progetti sono in avanzata fase istruttoria e rispetto ai quali si è già svolta la conferenza di servizi presso il Ministero. Alludo a Mairano e Offlaga. Mancando qualsiasi indicazione sovraccomunale (tornerò sul punto), la scelta dei due siti è dipesa da decisioni unilaterali dei privati e dalla accoglienza (o non opposizione) degli amministratori locali che ci vedono una opportunità economica per i loro Comuni. Trattandosi di scelte strategiche, di rilevatissima incidenza economica, produttiva ed ambientale, la «casualità» rappresenta un fattore di intrinseca debolezza. Come giustificare la localizzazione soltanto con la disponibilità dell’area e con il (tacito o manifesto) consenso dell’amministrazione comu- nale? Nella polemica è intervenuto qualche giorno fa anche l’Assessore Regionale, Nicoli Cristiani, per sottolineare due elementi rilevanti per la localizzazione: la prossimità dei vettori elettrici (cioè delle linee ad alta tensione) e la disponibilità della rete del gas. Il teorema è utile: basti pensare che, se la centrale è distante dal vettore elettrico, bisogna convogliare l’energia prodotta, in soprassuolo o sottosuolo, interessando, anzi compromettendo, altri ambiti territoriali. Ma se tali elementi devono orientare la scelta localizzativa, ebbene i siti idonei si riducono: i due elementi, infatti, hanno carattere oggettivo e non si prestano a speculazione di alcun tipo. Sotto questo profilo la localizzazione in Mairano o Offlaga non mi sembra coerente con il teorema: soprattutto quella di Mairano (che pure l’assessore predilige, la cui distanza dal vettore si misura in quasi quattro kilometri, interessando il territorio di altri Comuni (Capriano del Colle e Dello) sui quali verrebbero a gravare i disagi all’attraversamento del conduttore elettrico senza i vantaggi economici connessi alla localizzazione della centrale. Ai due elementi ne aggiungerei un terzo: la prossimità delle aree di consumo. Se, ad esempio, l’area dell’hinterland bresciano è «energivora» per l’altissima concentrazione di attività produttive (industriali, in primis), questo elemento indurrebbe a preferire siti ad essa più vicini. L’insieme di questi elementi per tacere di altri, più tecnici, sui quali non mi pronuncio - fa apparire ancor meno spiegabile la «casualità» delle scelte in discussione, in cui i tre elementi si combinano poco o punto, mentre denuncia la carenza di uno strumento di pianificazione territoriale di area vasta - quale è il piano territoriale di coordinamento provinciale - rimasto allo stadio di mera intenzione. Il tema ha sollevato un altro, più generale, problema. I comitati spontanei, sorti come funghi, protestano che la costruzione delle centrali avrebbe effetti sconvolgenti dal punto di vista sia del terreno agricolo sia dell’ambiente. L’argomento indurrebbe anche ad altre riflessioni, ma mi fermo a queste due. A proposito del terreno agricolo, ci si chiede se sia giusto sacrificarlo alle centrali. E la risposta dei comitati è negativa perché esso rappresenta una risorsa non rinnovabile, una volta consumata. L’obiezione, però, è più radicale: non si tratta soltanto di sacrificare un bene materiale (la terra coltivata), ma di attentare alla conservazione di quei valori sui quali si è formata nei secoli la civiltà contadina con il suo ricchissimi patrimonio di cultura, tradizioni, storia, arte, e con il corredo di tecniche costruttive e colturali, di idiomi, di costumi, ecc., degni di conservazione. Il moderno pianificatore non può non ponderare i valori in gioco e chiedersi se il sacrificio del suolo agricolo si giustifichi con i vantaggi derivanti da insediamenti di tipo industriale. Non è in gioco soltanto il sacrificio di terreno agricolo, ma la trasformazione di un vasto comprensorio con strutture e infrastrutture radicalmente diverse da quelle materializzate nell’appoderamento, negli insediamenti agricoli e nei borghi rurali. Anche l’ente o gli enti preposti alla panificazione territoriale ed alla programmazione energetica devono porsi un problema analogo: è giusto imporre ad una comunità rurale il sacrificio di risorse non rinnovabili per soddisfare esigenze più generali? Se sì, a quali condizioni, con quali cautele, con quali «risarcimenti»? È un tema attualissimo, sicuramente non semplice, e non solo per le centrali, i cui termini meritano una valutazione non episodica e, men che meno emotiva. Ma poiché il dibattito è, allo stato, soltanto locale, per la latitanza dei livelli territoriali superiori, ogni comunità si sente a pieno titolo, investita del problema della conservazione dei valori di cui è depositaria, da custodire e trasmettere ai propri figli. Le regole dello sviluppo economico (e di quello edilizio in particolare) si sono imposte anche nelle comunità rurali, travolgendo le deboli difese del suolo agricolo, esposto al travolgente ritmo della urbanizzazione, in ciò favorite da una concezione del suolo agricolo non quale risorsa in sé, da tutelare per la funzione «agricola» cui è deputato, ma quale semplice intervallo, fisico e temporale, tra spazi edificati e, quindi in attesa di trasformazione. Il ritornello della giurisprudenza amministrativa è eloquente: «In sede di formazione del piano regolatore il verde agricolo non è imposto ai fini della salvaguardia di interessi agricoli, ma come mezzo di disciplina urbanistica del territorio, allo scopo di evitare addensamenti edilizi ed espansioni pregiudizievoli ad un corretto insediamento urbano in un territorio» o di «impedire in determinate zone un’ulteriore edificazione, anche a fini di tutela ambientale». Come si vede, la cultura dominante sacrifica senza batter ciglio il territorio agricolo sol che emergano interessi più qualificati o, meglio, più forti, anche se la giurisprudenza recente attribuisce alla zona agricola «anche una valenza conservativa dei valori naturalistici». Non è bastato - come si è visto in un ventennio - l’argine di natura eminentemente produttivistica, elevato dalla legge regionale n. 93/80 in difesa dei «suoli a cultura specializzata, irrigui o ad elevata produttività». Ben venga, quindi, il dibattito sulle centrali se esprime una nuova sensibilità culturale e, soprattutto, se sollecita un approfondimento della tematica territoriale ed ambientale, inducendo le comunità locali e gli amministratori della Bassa (ma il discorso non conosce confini) a riflettere sul proprio futuro.

INNOCENZO GORLANI

Brescia

http://www.giornaledibrescia.it/giornale/2002/05/31/45,LETTERE/T1.html



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