Nuova cultura per il dibattito
sulle centrali
Mentre infuria la polemica
sulle centrali a gas localizzate nella Bassa, mi
permetta di intervenire sull’argomento.
Ciò che più mi sorprende è la
«casualità» delle localizzazioni. Ho
contato cinque o sei siti interessati da
insediamenti di questo tipo come la ubicazione
fosse questione indifferente. Ma ora la polemica si
è concentrata sui due comuni nei quali i
progetti sono in avanzata fase istruttoria e
rispetto ai quali si è già svolta la
conferenza di servizi presso il Ministero. Alludo a
Mairano e Offlaga. Mancando qualsiasi indicazione
sovraccomunale (tornerò sul punto), la scelta
dei due siti è dipesa da decisioni unilaterali
dei privati e dalla accoglienza (o non opposizione)
degli amministratori locali che ci vedono una
opportunità economica per i loro Comuni.
Trattandosi di scelte strategiche, di rilevatissima
incidenza economica, produttiva ed ambientale, la
«casualità» rappresenta un fattore
di intrinseca debolezza. Come giustificare la
localizzazione soltanto con la disponibilità
dell’area e con il (tacito o manifesto)
consenso dell’amministrazione comu- nale?
Nella polemica è intervenuto qualche giorno fa
anche l’Assessore Regionale, Nicoli
Cristiani, per sottolineare due elementi rilevanti
per la localizzazione: la prossimità dei
vettori elettrici (cioè delle linee ad alta
tensione) e la disponibilità della rete del
gas. Il teorema è utile: basti pensare che, se
la centrale è distante dal vettore elettrico,
bisogna convogliare l’energia prodotta, in
soprassuolo o sottosuolo, interessando, anzi
compromettendo, altri ambiti territoriali. Ma se
tali elementi devono orientare la scelta
localizzativa, ebbene i siti idonei si riducono: i
due elementi, infatti, hanno carattere oggettivo e
non si prestano a speculazione di alcun tipo. Sotto
questo profilo la localizzazione in Mairano o
Offlaga non mi sembra coerente con il teorema:
soprattutto quella di Mairano (che pure
l’assessore predilige, la cui distanza dal
vettore si misura in quasi quattro kilometri,
interessando il territorio di altri Comuni
(Capriano del Colle e Dello) sui quali verrebbero a
gravare i disagi all’attraversamento del
conduttore elettrico senza i vantaggi economici
connessi alla localizzazione della centrale. Ai due
elementi ne aggiungerei un terzo: la
prossimità delle aree di consumo. Se, ad
esempio, l’area dell’hinterland
bresciano è «energivora» per
l’altissima concentrazione di attività
produttive (industriali, in primis), questo
elemento indurrebbe a preferire siti ad essa
più vicini. L’insieme di questi elementi
per tacere di altri, più tecnici, sui quali
non mi pronuncio - fa apparire ancor meno
spiegabile la «casualità» delle
scelte in discussione, in cui i tre elementi si
combinano poco o punto, mentre denuncia la carenza
di uno strumento di pianificazione territoriale di
area vasta - quale è il piano territoriale di
coordinamento provinciale - rimasto allo stadio di
mera intenzione. Il tema ha sollevato un altro,
più generale, problema. I comitati spontanei,
sorti come funghi, protestano che la costruzione
delle centrali avrebbe effetti sconvolgenti dal
punto di vista sia del terreno agricolo sia
dell’ambiente. L’argomento indurrebbe
anche ad altre riflessioni, ma mi fermo a queste
due. A proposito del terreno agricolo, ci si chiede
se sia giusto sacrificarlo alle centrali. E la
risposta dei comitati è negativa perché
esso rappresenta una risorsa non rinnovabile, una
volta consumata. L’obiezione, però,
è più radicale: non si tratta soltanto di
sacrificare un bene materiale (la terra coltivata),
ma di attentare alla conservazione di quei valori
sui quali si è formata nei secoli la
civiltà contadina con il suo ricchissimi
patrimonio di cultura, tradizioni, storia, arte, e
con il corredo di tecniche costruttive e colturali,
di idiomi, di costumi, ecc., degni di
conservazione. Il moderno pianificatore non
può non ponderare i valori in gioco e
chiedersi se il sacrificio del suolo agricolo si
giustifichi con i vantaggi derivanti da
insediamenti di tipo industriale. Non è in
gioco soltanto il sacrificio di terreno agricolo,
ma la trasformazione di un vasto comprensorio con
strutture e infrastrutture radicalmente diverse da
quelle materializzate nell’appoderamento,
negli insediamenti agricoli e nei borghi rurali.
Anche l’ente o gli enti preposti alla
panificazione territoriale ed alla programmazione
energetica devono porsi un problema analogo: è
giusto imporre ad una comunità rurale il
sacrificio di risorse non rinnovabili per
soddisfare esigenze più generali? Se sì,
a quali condizioni, con quali cautele, con quali
«risarcimenti»? È un tema
attualissimo, sicuramente non semplice, e non solo
per le centrali, i cui termini meritano una
valutazione non episodica e, men che meno emotiva.
Ma poiché il dibattito è, allo stato,
soltanto locale, per la latitanza dei livelli
territoriali superiori, ogni comunità si sente
a pieno titolo, investita del problema della
conservazione dei valori di cui è depositaria,
da custodire e trasmettere ai propri figli. Le
regole dello sviluppo economico (e di quello
edilizio in particolare) si sono imposte anche
nelle comunità rurali, travolgendo le deboli
difese del suolo agricolo, esposto al travolgente
ritmo della urbanizzazione, in ciò favorite da
una concezione del suolo agricolo non quale risorsa
in sé, da tutelare per la funzione
«agricola» cui è deputato, ma quale
semplice intervallo, fisico e temporale, tra spazi
edificati e, quindi in attesa di trasformazione. Il
ritornello della giurisprudenza amministrativa
è eloquente: «In sede di formazione del
piano regolatore il verde agricolo non è
imposto ai fini della salvaguardia di interessi
agricoli, ma come mezzo di disciplina urbanistica
del territorio, allo scopo di evitare addensamenti
edilizi ed espansioni pregiudizievoli ad un
corretto insediamento urbano in un territorio»
o di «impedire in determinate zone
un’ulteriore edificazione, anche a fini di
tutela ambientale». Come si vede, la cultura
dominante sacrifica senza batter ciglio il
territorio agricolo sol che emergano interessi
più qualificati o, meglio, più forti,
anche se la giurisprudenza recente attribuisce alla
zona agricola «anche una valenza conservativa
dei valori naturalistici». Non è bastato
- come si è visto in un ventennio -
l’argine di natura eminentemente
produttivistica, elevato dalla legge regionale n.
93/80 in difesa dei «suoli a cultura
specializzata, irrigui o ad elevata
produttività». Ben venga, quindi, il
dibattito sulle centrali se esprime una nuova
sensibilità culturale e, soprattutto, se
sollecita un approfondimento della tematica
territoriale ed ambientale, inducendo le
comunità locali e gli amministratori della
Bassa (ma il discorso non conosce confini) a
riflettere sul proprio futuro.
INNOCENZO GORLANI
Brescia
http://www.giornaledibrescia.it/giornale/2002/05/31/45,LETTERE/T1.html