INDICATORI ED ORIENTATORI

Quando si parla di indicatori, si è consapevoli che non è tanto la quantità dei dati e dei numeri che può consentire di analizzare un fenomeno ed avviare un processo di cambiamento, bensì la qualità degli indicatori impiegati.

Gli indicatori servono a misurare un fenomeno, l'andamento di specifiche dinamiche.

Gli indicatori sono importanti, sono sempre stati basilari per l’uomo, almeno da quando, sul finire del Quattrocento, nel caso delle civiltà occidentali, l'arte della misurazione comincia a manifestarsi come strumento di ragionamento razionale per sviluppare la creatività umana. L'Umanesimo ed il Rinascimento hanno rappresentato una svolta epocale anche sotto questo profilo; hanno aperto la strada alla civiltà moderna con la convinzione che molti misteri della realtà umana potessero essere svelati e affrontati con strumenti di osservazione e misurazione adeguati.

Tale basilare considerazione deve però illuminare la funzione e la natura degli indicatori. Infatti non sono state le tecniche di misurazione a determinare la suddetta svolta epocale, ma l’essere umano in quanto tale. E' l'umanità che ha inventato la misura, perché, in un certo periodo storico, ha concepito il proprio sviluppo in modo diverso da quanto aveva fatto prima. L'essere umano ha cioè espresso una visione del futuro a sua misura (antropocentrica), ove egli era in grado di determinare il proprio sviluppo, arrivare a dominare la natura in modo razionale; e, a tal fine, ha prodotto strumenti sempre più raffinati e tecnologicamente avanzati per valutare ed orientare tale sviluppo.

Questa cultura fa parte dell’eredità trasmessa all’uomo di oggi; egli non sa vivere senza indicatori; essi fanno parte del modo quotidiano di operare; gli dicono cosa vedere, leggere, sentire, nella misura in cui egli lo vuole.

Il tema degli indicatori è al centro del dibattito sui modelli utili a monitorare lo sviluppo sostenibile (Bossel, 1996).

Ad esempio, la crescita del PIL (Prodotto Interno Lordo, il più "macro" indicatore statistico che esprime il valore monetario dei beni e servizi prodotti in un anno all'interno di un paese) viene spesso considerata come un segnale di economia sana.

Una ragione che porta a tale considerazione è la correlazione tra livello di ricchezza in termini monetari e livello di consumo di una nazione: più consumi si hanno meglio si sta. E' evidente che il PIL niente dice sulla qualità di tali consumi; essa è legata a cosa e come si consuma. E questo dipende da molti fattori sociali, culturali, psicologi, storici.

E’ noto il seguente esempio paradossale: il PIL assume la congestione del traffico come un indicatore della ricchezza di un paese (maggior consumo di benzina), non rilevando come ciò sia nocivo per popolazioni ed ambiente. Lo stesso succede per l’energia e l’intensità di trasporto di un’economia.

Il PIL, ovviamente, niente può dire sul livello di coesione sociale, di qualità ambientale, di protezione individuale, di condizioni fisiche e mentali della popolazione, di capacità e creatività intellettuale dei cittadini di un paese. Sono note le critiche e le riserve espresse da più parti su tale indicatore come affidabile misuratore del benessere. Esse provengono dal mondo scientifico, inclusi gli artefici dei metodi di contabilità nazionale, quali Simon Kuznets e le organizzazioni internazionali quali l'ONU, la FAO, l'OCSE e la stessa Unione Europea. Ma anche da uomini politici di grande notorietà, ad esempio Robert Kennedy, secondo il quale il PIL misura tante cose, escluse quelle che danno valore alla vita umana.

Usando indicatori diversi da quelli convenzionali, si può scoprire che paesi con la migliore quota di PIL pro capite possono avere un basso indice di sviluppo umano (HDI, Human Development Index, che combina il reddito nazionale a parametri quali il livello di istruzione, la speranza di vita, etc.) ed un ancora più basso indice di sviluppo umano "verde" (Green HDI, che include indicatori ambientali quali l’effetto serra, emissioni di gas climalteranti, intensità energetica, qualità dell’aria, biodiversità, etc.).

Va infine ricordato come nuovi indicatori (ad esempio, l'ISEW, Index of Sustainable Economic Welfare) trovano difficoltà a causa delle gravi lacune degli attuali sistemi di osservazione. Infatti, spesso mancano dati ora diventati indispensabili, mentre quelli disponibili sono stati determinati secondo i precedenti valori interpretativi di crescita, sviluppo, progresso ed hanno registrato solo quello che si credeva fosse, in tal senso, significativo.

In vari settori di attività, indagini sui fattori di pressione ambientale dimostrano la necessità di modificare gli indicatori di carattere macro o generale, per adattarli alle caratteristiche degli specifici sistemi ambientali, economici e socio-culturali (ecosistemi).

E' allora evidente che la scelta degli indicatori, deve essere fatta localmente, sempre pensando globalmente. Gli indicatori vanno formulati per rendere visibile quanto sta accadendo in un determinato territorio e verso quale direzione si sta indirizzando lo sviluppo locale.

Ruolo determinante giocano i valori e le visioni di sviluppo delle comunità locali; valori e visioni che cambiano in ragione della consapevolezza e della conoscenza di dinamiche, prospettive, opzioni ed alternative; valori e visioni che, per mettere in atto processi di cambiamento, devono essere condivise, ossia determinate dalle popolazioni interessate.

Inoltre, indicatori che sembrano agire verso la sostenibilità possono produrre effetti contrari. E’ noto il principio enunciato dall'economista W. S. Jevons nel lontano 1865. Egli predisse che, aumentando l'efficienza energetica del carbone tramite un suo più attento e razionale uso, si sarebbe incrementato il suo consumo, dato che la domanda aggregata sarebbe aumentata proprio in ragione del minor uso di carbone utilizzato per ottenere una produzione di energia eguale a quella precedentemente ottenuta.

Quindi, adottando un indicatore basato sull’efficienza energetica del carbone, si potrebbe stimolare l’eco - efficienza aziendale producendo l’effetto contrapposto di non sostenibilità nell’uso delle risorse. Occorrerebbe invece determinate un set di misuratori che orientano a non consumare il carbone.

Il caso dei trasporti è ancora più evidente. Si potrebbe aiutare l’impresa ad usare veicoli stradali di trasporto merce a bassissimo consumo di derivati dal petrolio, o addirittura introdurre flotte veicolari "solari". Nel breve periodo si avrebbero miglioramenti nella riduzione delle emissioni. Ma, se la soluzione funzionasse davvero, dopo qualche tempo si avrebbe una congestione di traffico, legittimata dall’indicatore. Anche in questo caso, sarebbe più opportuno, discutere su quali orientatori scegliere per stimolare una logistica sostenibile. Sarebbe, allora, importante monitorare la dinamica di riduzione della domanda di mobilità, misurando l’effetto di sostituzione di trasporto con tecnologia, l’accesso a beni e servizi senza ricorrere al trasporto ed il necessario e contemporaneo spostamento del traffico da strada alla combinazione mare — ferrovia.

L’indicatore non è quindi solo un numero; rappresenta l'esplicitazione della complessa volontà dell'essere umano; viene scelto dall'uomo e dimensionato sulla base dei suoi valori di riferimento.

Gli orientatori aprono delle prospettive. Gli orientatori cambiano. Sono come occhiali, lenti che servono ad osservare il percorso che si vuole seguire. E per questo vengono cambiati continuamente.

L’orientatore serve a facilitare una visuale complessa. Esso rompe quella che sembra essere l’immediata realtà, ossia la consueta percezione di essa; influenza la vita stessa dell’indicatore. All’inizio esiste una sorta di simbiosi tra orientatore ed indicatore. Quest’ultimo, nei suoi primi anni di vita (nell’infanzia) è influenzato dalla creatività e dallo spirito innovatore del suo compagno di strada (l’orientatore), trova piacere a sentirsi guidato nel prefigurare il futuro. Poi vengono gli anni della maturità, ed il rapporto tra i due si sfilaccia fino a contrapporsi.

L’indicatore diventa il garante di modelli di vita concepiti secondo valori divenuti ormai convenzionali e conformisti. L'orientatore, da provetto agente di cambiamento, tende a dissacrare tali valori ed a formularne nuovi, cerca di seguire nuove visioni del futuro, di compiere nuove scelte, aprire opzioni e decidere nuove modalità comportamentali.

Questa non è altro che una metafora. Ma va nuovamente ricordato che dietro l’indicatore e l’orientatore c’è il genere umano, la sua conoscenza, il suo sapere. E tra il genere umano c’è sempre chi sceglie il proprio ruolo, o come indicatore o come orientatore. In realtà, come la storia dell’umanità ha costantemente dimostrato, spesso non sono gli indicatori a mancare, bensì gli orientatori.

E questi ultimi mancano perché manca la capacità di determinare valori di riferimento, visioni di sviluppo elaborate e condivise dalle comunità locali e di lungo termine, ossia la capacità di agire con un pensiero strategico rivolto alle future generazioni.

Infine, è vero che alcuni indicatori hanno una valenza generale e trasversale. Essi hanno un ruolo di sintesi; sono utili per inquadrare il fenomeno osservato in un sistema più ampio e confrontarlo con quanto avviene in altre esperienze e situazioni (benchmarking).