EQUITÀ

L’uguaglianza è stata una delle grandi promesse delle Rivoluzione Francese ed i suoi valori sono stati alla base dell’era industriale e del confronto - scontro tra pensiero liberale, socialista e comunista dell’era moderna.

Cambiamenti sostanziali sono stati introdotti, in vari periodi, nel quadro normativo di molti paesi per ridurre i conflitti derivanti dalle disparità sociali. Durante la fine dello scorso secolo e nella prima metà di quello attuale, la virulenza della "questione sociale" ha portato ad una estesa legislazione del lavoro ed all’introduzione di meccanismi ridistribuivi in vari Stati.

Contemporaneamente, la crescita della capacità di spesa di vasti strati sociali divenne la base della produzione di massa, tipica del periodo fordista (si veda, per esempio, Lutz 1984). A seguito della grande depressione degli anni ‘20 (con il New Deal americano), sono state formulate teorie e politiche più esplicitamente orientate allo sviluppo, all’occupazione ed alla redistribuzione dei redditi (Keynes, Roosevelt, etc.). Dopo la seconda guerra mondiale, le disparità fra paesi e regioni divennero la principale preoccupazione politica. Con il Piano Marshall (un vasto programma di trasferimenti di sostegno allo sviluppo di varie aree dell’Europa), i principi fordisti e keynesiani sono stati applicati con successo ad intere economie nazionali.

Anche la parità fra uomini e donne è diventata una questione di pubblico dominio, sostenuta dai movimenti femminili e femministi che hanno fortemente plasmato le nostre società, a partire dal secolo scorso.

L’equità di genere si è così caratterizzata, insieme all’equità sociale, come un concetto fondamentale che ha interessato milioni di persone e numerosi popoli del mondo.

La sociologia ha analizzato e teorizzato a lungo i concetti centrali del dibattito su povertà, spoliazione, benessere, equità, uguaglianza, etica, distribuzione di reddito, di ricchezza e di opportunità. Si tratta di un dibattito che coinvolge la nozione di bisogni (psicologici, sociali, economici e culturali, ed oggi ambientali), utilizzata come una questione basilare per studiare il funzionamento della società (ad esempio, T. Parsons e la scuola del funzionalismo strutturale).

Da questa ricca esperienza emergono discordanze su molti aspetti. Si discute se sia possibile definire i bisogni in termini assoluti o relativi e valutarli oggettivamente o soggettivamente; se sia giusto ed utile stabilire chi debba decidere e come debba farlo (mercato, governo, stato, politici, gruppi, comunità, individui, tecnocrati e programmatori). Il significato stesso di bisogno è oggetto di disaccordo. E’ difficile, se non impossibile, identificare la giusta combinazione di domanda e offerta (mercato) in modo da rispondere ai bisogni di un mondo così variegato, nei suoi livelli di reddito e nei suoi stili di vita. Ed anche ammesso che si giunga ad una comune valutazione e determinazione dei bisogni "giusti", è difficile identificare quali strutture sociali siano adeguate a rispondere ad essi (attività, organizzazioni, istituzioni, leggi, comportamenti, valori, stili di vita, etc.).

Infatti, oggetto della discussione non è solo e tanto la produzione di beni e servizi, ma l’essenza dell’umanità, di popolazioni e culture di tipo diverso e di individui con bisogni differenti: psicologici, economici, sociali, culturali, etc.

Le suddette difficoltà sono quindi determinate dai contenuti e dai significati che l’essere umano assegna alla sua società, ma tutto ciò genera spesso un circolo vizioso e tautologico, dato che bisogni e modi per soddisfarli sono anch’essi socialmente determinati.

Nulla esiste che abbia in sé un valore oggettivo, stabilito una volta per sempre e conservato permanentemente. Bisogni, modi per soddisfarli e le loro relazioni sono parti di un processo mediato dal significato che essi acquisiscono nel contesto specifico nel quale avviene l’interazione sociale; e gli attori dell’interazione sociale sono pienamente legittimati a decidere del loro futuro per mezzo di confronti, conflitti, negoziazioni, accordi.

Si tratta del modo di essere insito nella natura del genere umano; una specificità antropocentrica che deve uscire dal contesto di pensiero che lo ha spesso separato dalla natura e dalle altre specie viventi.

Pur non esistendo, quindi, valori in sé e per sé oggettivi, il dibattito sui bisogni deve includere anche gli altri stakeholders (interlocutori) della natura. Molti di loro non possono parlare (o perché non umani o perché non ancora nati). Deve quindi crescere la consapevolezza del genere umano non soltanto sulla quantità ma anche sulla qualità dei suoi bisogni. Da tale consapevolezza dipende il modo in cui vengono usate le risorse ambientali per il bene di tutto il Pianeta Terra.

Per le suddette motivazioni, il raggio di azione della politica sociale (nella quale istruzione, salute, condizione femminile assumono una particolare importanza) deve incorporare l’uso delle risorse ambientali nella discussione sulle politiche dei redditi e dei profitti, della povertà e della ricchezza, della produttività e degli investimenti, diventando determinante ai fini dello lo sviluppo sostenibile (Adriaanse, 1995).

Come espresso anche dalla Dichiarazione di Rio nel 1992, è questo il significato di equità, come la prima delle priorità dello sviluppo sostenibile tesa a soddisfare i bisogni degli esseri umani rispettando le diverse culture e specificità individuali, collettive e biologiche esistenti sul Pianeta.

Scienziati, filosofi e pensatori di varie discipline, i governi firmatari della Dichiarazione di Rio (delle sue convenzioni ed i suoi protocolli), i governi firmatari del Protocollo di Kyoto nel 1997, tutti insieme hanno espresso un accordo nell’affermare che il suddetto significato di equità deve trovare applicazione sia all’interno della singola comunità sociale, sia tra comunità diverse, sia tra generazioni (presenti e future).

Tale accordo prevede che alle generazioni future dovrebbero essere riservate almeno le stesse opportunità della generazione attuale, dando loro un esempio positivo di come fare per collaborare con le altri componenti della natura terrena, invece di minacciarne l’esistenza e le potenzialità.

Inoltre, è chiaro che garantire uguali opportunità nell’accesso alle risorse implica un cambiamento nei correnti modelli di sviluppo e di vita, nel rapporto fra le comunità più ricche e quelle più povere del mondo.

Molte fra queste ultime potrebbero essere considerate creditrici se si prendesse in considerazione il grande trasferimento di risorse naturali storicamente avvenuto verso le prime. E’ ampiamente riconosciuto che i modelli di consumo della parte più ricca del Pianeta hanno come conseguenza la spoliazione di risorse della parte più povera.

Perciò l’equità richiede imperativamente una riduzione di questi alti livelli di consumo al fine di garantire una distribuzione sostenibile delle risorse.

Questo significa riconsiderare (e non esportare verso altri paesi) modelli e stili di vita dei paesi industrializzati occidentali, adottando un approccio multiculturale e le filosofie della moderazione.

Come principio, ovviamente, l’equità non si applica soltanto alle relazioni fra il Nord (o Primo Mondo) ed il Sud (Terzo o Quarto Mondo), ma anche all’interno dei paesi sviluppati al fine di combattere la povertà presente nelle loro comunità.

Il nuovo significato di equità investe quindi la capacità di una società di governare se stessa senza compromettere le opportunità di sviluppo delle altre. Questo significa che ricchezza, benefici e rischi derivanti dall’uso o dalla trasformazione dei sistemi naturali devono essere distribuiti, riconoscendo il contributo che ciascuna componente della società apporta all’impegno comune di affermare stili di vita favorevoli allo sviluppo sostenibile.