Diverse le motivazioni che, nel corso di almeno tre periodi storici
cadenzati e distinti, spinsero gli intellettuali americani a trasferirsi
per periodi più o meno lunghi nel "Vecchio Paese",
quell'Europa a cui appartenevano e a cui li richiamavano le loro origini.
A cavallo tra `800 e `900, a spingere verso l'Europa Henry James ed
Edith Wharton, Gertrude Stein e la sua amica e compagna Alice Toklas
fu l'angustia culturale del loro paese, la cappa di puritanesimo sotto
cui la loro diversità personale e intellettuale si sentiva
soffocare.
Negli anni Venti la cappa di puritanesimo aveva forse in parte cominciato
a sollevarsi, ma sull'orizzonte incombevano le durezze della crisi
economica finalmente esplosa con il crollo di Wall Street nel `29.
A fare da tramite e da anfitriona per la nuova ondata di emigrati
fu l'acuta, inquieta intelligenza di Gertrude Stein, che li definì
scherzosamente la "Lost Generation", la "Generazione
Perduta" (altri li chiamarono i "Sad Young Men", i
"Giovani Tristi") e spalancò loro le porte del suo
salotto parigino.
Vi arrivò Fitzgerald, vi passò per breve tempo Sherwood
Anderson, vi entravano e uscivano E.E. Cummings, Archibald McLeish,
John Dos Passos; vi si istallò con la sua massiccia presenza
un giovanotto ("un ventitreenne di straordinario bell'aspetto",
secondo le parole della stessa Stein) che si era coperto di insanguinata
gloria sul fronte italiano della Grande Guerra e già appariva
predestinato a diventare uno dei numi tutelari della letteratura degli
Stati Uniti: Ernest Hemingway.
Diverse ancora le motivazioni che, negli anni Cinquanta, spinsero
un'altra ondata di intellettuali e artisti di varia specializzazione
(scrittori, pittori, jazzisti) a raccogliersi a Parigi attorno alla
mitica (e programmaticamente sgangherata) redazione della Paris Review.
L'angusta realtà che li aveva spinti all'emigrazione non era
più quella del puritanesimo ma quella dell'intolleranza maccartista
abbattutasi sul loro paese dopo lo slancio di solidarietà e
rinnovamento del New Deal.
Una realtà che Hemingway aveva fatto preannunciare da Robert
Jordan in una pagina fatidicamente memorabile di Per chi suona la
campana. Come tanti altri intellettuali imbevuti di spirito roosveltiano,
Jordan è partito di slancio per andare a combattere contro
il fascismo in Spagna. Ma, così facendo, si è autoimposto
il marchio di "rosso": al ritorno, riflette con amarezza,
scoprirà probabilmente che nell'università in cui insegnava
non c'è più posto per lui. Com'è noto, lui non
tornerà, ma per molti volontari reduci dalle battaglie dell'antifascismo
europeo le cose sarebbero andate esattamente così.
Nella presunta riscoperta della libertà in Europa, comunque,
questi esponenti della terza emigrazione non erano più "Sad
Young Men": erano, anzi, sfrenatamente allegri - giovani, irriverenti,
vincitori di due guerre mondiali, ricchi dei loro non molti dollari
in un'Europa che si curava ancora le profonde piaghe della guerra
-, capaci di demenziali follie in nome di un "esistenzialismo"
frettolosamente ingerito e sommariamente assimilato, come ha ricordato
un maestro del giornalismo narrativo, il calabro-americano Gay Talese.
Lo fece in uno scintillante articolo apparso nel 1960 su Esquire e
intitolato "Looking for Hemingway", in cui appunto ricostruiva
clima e vicende della redazione parigina della Paris Review. Hemingway
non era più a Parigi, viveva i suoi accigliati autoesili, ma
loro si erano trasferiti in massa lì proprio nel suo ricordo.
Più che seduti nel chiuso della redazione della rivista, i
redattori lavoravano tumultuosamente di cervello nei café della
Rive Gauche, discutendo articoli e pezzi creativi mentre tenevano
ansiosamente d'occhio la terribile mangiasoldi di quei tempi, la "pinball
machine", il flipper, in attesa che venisse il loro turno di
piazzarsi ai pulsanti.
Così facendo, con giovanilissima irriverenza e irruenza, riuscivano
a editare una rivista destinata a rimanere mitica negli annali della
letteratura mondiale. Bevevano assenzio, come fa Robert Jordan in
Per chi suona la campana, si trasferivano in massa in Spagna per fremere
di emozione per le strade di Pamplona con l'alito rovente dei torelli
sul collo, nel riverente ricordo di Fiesta e di Morte nel pomeriggio.
Ma "Papa" Ernest non era più lì. E, se fosse
stato lì, sarebbe probabilmente inorridito nel vederli, esattamente
come loro ostentavano orrore alla vista degli sciami di "turisti"
loro compatrioti che avevano cominciato ad affollare Parigi e l'Europa.
Come era arrivato, il ventitreenne Ernest Hemingway, nell'aperto ma
esigente salotto di Gertrude Stein dalla lontana e sonnolenta cittadina
di Oak Park, nell'Illinois, dove era nato il 21 luglio 1899, figlio
di un malinconico medico e di un'ispirata seguace delle arti che avrebbe
voluto farne un musicista? Il viaggio era stata lungo, nonostante
la giovane età.
Prima tappa, Kansas City, città in pieno boom, dove il ragazzo
Ernest si trasferisce a 18 anni per fare il cronista praticante presso
un giornale. Intimidito ma ferreamente motivato a imparare il mestiere,
tesserino infilato nella tesa del cappello e taccuino in mano, corre
qua e là a fare gavetta. Ma, passati pochi mesi di assestamento
ed esperienza, la sua sete di novità, la sua curiosità
vitalistica, il suo spirito avventuroso prevalgono.
In Europa imperversa la Grande guerra, e lui vuole andarci a tutti
i costi, anche se un difetto all'occhio sinistro lo ha fatto scartare
alla visita di leva. Non demorde: si aggrega alla Croce Rossa e si
distingue sul fronte carsico, dove ha il primo massiccio contatto
con quella "morte" che successivamente avrà un'importanza
basilare nella sua carriera letteraria quanto nella vicenda personale,
due fenomeni sempre tesi a comporsi in un unicum totalizzante. Viene
ferito gravemente da un mortaio austriaco, ottiene la Medaglia al
Valore dalle autorità italiane. Trascorre la convalescenza
a Milano e in Lombardia: ha visto e sperimentato tutto ciò
che gli servirà, di lì a qualche anno, per scrivere
Addio alle armi.
La guerra, le visioni di morte, la stessa constatazione di quanto
sia facile morire lo hanno segnato profondamente nello spirito oltre
che nella carne. Congedato, torna a Oak Park, dove tuttavia non riesce
più a inserirsi. Poco più che ventenne, ha vissuto e
visto troppo per potersi riadeguare alla routine della provincia americana.
Litiga con la (mai sopportata) madre, scappa a Chicago, dove campa
scrivendo articoli per il "Toronto Star" e facendo lo sparring
partner per i boxeur. Appartiene ormai senza scampo alla schiera dei
"Giovani tristi", malati di Europa. Decide di tornarci,
di trasferirsi a Parigi, un posto dove "l'arte viene presa sul
serio" (Sherwood Anderson).
Parigi non poteva significare che Gertrude Stein, con il suo fondamentale
credo letterario di concisione, semplicità, pregnanza narrativa.
Ci arrivò pronto ad assorbire come una spugna visioni, sensazioni
e suggestioni. Se ne andò e tornò più volte,
dando il via a una vera e propria forma di inquieto pendolarismo personale
e culturale. Ormai non aveva più ventitré anni ma ventisei.
A un certo punto parve che "tutti questi giovanotti avessero
ventisei anni", ha scritto ancora Gertrude Stein: "Era evidentemente
l'età giusta per quel luogo e quei tempi".
Ebbene, a ventisei anni Ernest Hemingway aveva già assorbito
tutto ciò che gli serviva per la sua carriera letteraria in
fieri: il senso della guerra, la Spagna, il viaggio ramingo, l'idea
fissa dell'uomo come essere che vive soltanto per confrontarsi con
la morte. "La vita di ciascun uomo finisce nello stesso modo",
avrebbe dichiarato, secondo un articolo pubblicato postumo in Sunday
Times. "A distinguere un uomo dall'altro sono solamente i particolari
del modo in cui è vissuto ed è morto."
E lui aveva assistito alla morte di tanti uomini, aveva perduto il
padre per un suicidio che avrebbe dovuto essergli premonitore e che
invece aveva suscitato in lui uno sdegno feroce, aveva visto combattere
con le unghie e con i denti, si era sentito penetrare nel sangue la
Spagna dei toreri e degli intellettuali, delle chiromanti gitane e
dei combattenti antifascisti. A fare da collante per il tutto si aggiunga
una sapienza letteraria istintiva che partiva, dall'alto, dalle estenuate
tensioni linguistiche di Mark Twain. "Tutta la letteratura americana",
avrebbe scritto in Verdi Colline d'Africa, "viene da un solo
libro di Mark Twain: Huckleberry Finn." Ma a fare da solido sostegno
a questa sapienza istintiva c'era la lezione delle visionarie capacità
narrative di Jack London, cementate dalla breve ma intensa esperienza
di praticante cronista.
Di tutto ciò non sapevamo niente noi, ginnasiali turbolenti
dell'Italietta poco più che postbellica che ci passavamo avidamente
di mano in mano Per chi suona la campana. Le pagine in cui la guapa
Maria si infila nel sacco a pelo di Robert Jordan erano consunte,
piene di orecchie. Una novità sconvolgente, per quei tempi
di estremo pudore ipocrita, di cui il famoso puritanesimo da cui Hemingway
e i suoi simili fuggivano non era probabilmente che un'ombra pallida.
A Roma si prendeva a schiaffi una signora soltanto perché aveva
osato sedersi in un caffè all'aperto esibendo le spalle nude.
Di lì a poco - ma non tanto poco -, una malcapitata danzatrice
del ventre turca che aveva osato concludere il suo spettacolo con
il gesto che in quell'antica arte scenica è canonico da secoli,
lo scoprimento del seno, avrebbe provocato un putiferio tale da far
chiudere il locale e da ispirare a Federico Fellini il nocciolo de
La dolce vita. Che tempi.
Letteratura, per noi ginnasiali inquieti e curiosi, doveva significare
sentimenti non soltanto "buoni" ma addirittura "sublimi".
Dante Alighieri e Alessandro Manzoni, naturalmente, Petrarca e Leopardi,
Alfieri e Berchet. Le cavalline storne e gli asini bigi. Senza, soprattutto,
dimenticare le maestrine dalla penna rossa, le piccole vedette lombarde,
i piccoli scrivani fiorentini, il buon Garrone e il perfido Franti.
Pochissimi, ardimentosi, osavano spingersi fino al Verga.
Ricordo un coscienzioso direttore di biblioteca pubblica che convocò
perentoriamente nel suo ufficio mia madre per significarle quanto
poco consono gli sembrasse che un adolescente chiedesse in prestito
i romanzi di Vitaliano Brancati. Lasciò velatamente intendere
che appartenevano di pieno diritto a quei libri che, secondo l'arguto
motto di un celebre statista padre della patria, "gli adolescenti
leggono con una mano sola". Di nuovo: che tempi.
Una mano o due, per fortuna, la madre perentoriamente convocata era
del tutto convinta che la cultura abbia la sua inestirpabile radice
nei libri. Firmò senza battere ciglio l'autorizzazione a che
suo figlio prendesse in prestito tutti i libri che voleva. Secondo
lei, leggere non avrebbe mai potuto fare male a nessuno. La copia
di Per chi suona la campana che feci passare di mano in mano, con
dovizia di orecchie di riferimento per i punti "scottanti"
(come viene da sorridere, adesso, vedendo che cosa consente di esporre
a qualsiasi sguardo la semplice pubblicità televisiva di una
mutanda o di un deodorante!), apparteneva alla sua biblioteca personale.
Che novità incredibile! Che immediatezza di linguaggio, che
fulminante crudezza di situazioni. Concludere le frasi dei nostri
primi timidi esperimenti letterari con i canonici "... dissi
... disse", sembrava diventato un obbligo imprescindibile. Soltanto
molto più tardi, rileggendo i libri di Hemingway in americano,
avremmo capito (ma non tutti) quanta sapienza letteraria possa andare
persa nella traduzione: in tutte le traduzioni, si badi bene, anche
le più eccelse. La sequela di "dissi-disse" dei romanzi
americani, quando viene trasposta nella nostra lingua è probabilmente
meglio renderla con verbi diversi: dissi, replicò, ripetei,
ribatté, riflettei, considerò. Già basterebbe
considerare che gli americani scrivono "disse" anche nelle
frasi interrogative, dove per noi è d'obbligo scrivere "chiese".
Poco male. Anzi: molto bene. Ancora oggi, leggere Per chi suona la
campana è un'esperienza di intensa emozione, una magnifica
lezione dal vivo di scrittura creativa. Ri-leggerlo in americano,
poi, significa scoprire un autentico patrimonio di preziosità
letterarie mai adeguatamente apprezzate. Il profumo di latinità,
per esempio, che (ben al di là delle sommarie semplificazioni
"dissi-disse") promana dalle conversazioni di Robert Jordan
e dei suoi compagni spagnoli di lotta partigiana, la sanguigna Pilar,
il torpido Pablo, l'onesto Anselmo, la guapa Maria, lo zingaro, gli
altri. Conversazioni sempre condotte con il thou-thee, ovvero con
il tu-te, che nella lingua inglese - e ancora di più in quella
americana - appartiene ormai soltanto alle formulazioni arcaiche,
sostituita dal più immediato e semplicistico you, che serve
alla stessa stregua per il tu come per il voi unificando le due forme
verbali della seconda persona singolare e plurale.
Per l'orecchio istintivamente letterato di Hemingway, in questa specifica
occasione, lo you non sarebbe mai potuto bastare. Gli spagnoli parlano
con il "tu", e proprio da questo uso del "tu"
derivano la musicalità e una certa solennità della loro
lingua. Di conseguenza, per rendere queste cadenze musicali e solenni
(esempio: invece di "have you?", "hast thou?",
eccetera), Hemingway mette in atto una sequela di autentici miracoli
di equilibrismo linguistico - più che mai riconducibili a Mark
Twain, al suo uso magistrale di dialetti, sottodialetti, idioletti
e inflessioni locali -, mescolandola in maniera inscindibile con la
sua visionarietà narrativa alla Jack London e ottenendone un
effetto letterario esplosivo. Un effetto, purtroppo, che nella traduzione
italiana - essendo per noi il tu un fatto del tutto normale -, non
può che andare perduto. Si pensi, per tentativo di esempio,
alle singolari tonalità e coloriture che assumerebbe un romanzo
contemporaneo in cui i personaggi dovessero essere fatti parlare con
il voi invece che con il lei.
Il lettore che non conosce l'americano prenda dunque con molte riserve
le critiche italiane che parlano di Hemingway come di uno scrittore
povero di stile, tutto trama e niente lingua. Non è affatto
così, e Per chi suona la campana ne costituisce l'esempio principe.
Ma a quei tempi (fine anni `40) le traduzioni venivano fatte e rifatte
con cura certosina, sicché, anche se qua e là privato
del piacere di cogliere alcune finezze, il lettore non anglofono troverà
comunque straordinario appagamento nel tumultuoso, inarrestabile svolgersi
della vicenda, nel secco splendore delle descrizioni ambientali (probabilmente
impareggiate nella prosa hemingwaiana), nell'emergere prepotente dalla
pagina di personaggi come Pilar o il vecchio Anselmo, magnifico, dolente
preannunzio di un altro grande vecchio hemingwayano: quello tutto
solo, sulla sua barca, alle prese con il grande pesce spada e con
il mare.
La vicenda partigiana di Robert Jordan, la sua inevitabile marcia
verso una morte più volte annunciata, con il suo contorno di
sangue e violenza, di combattenti popolani e di popolani filosofi,
di esotismo ispanico e di suggestioni gitane, di "sombra y sol"
come nella più canonica delle arene di tori, è uno specchio
variegato e fedelissimo dell'arte di Ernest Hemingway, un'arte che
non comincia là dove finisce la vita ma che con la vita si
confonde fino a renderli due fatti non semplicemente paralleli ma
indistinguibili.
Il partigiano antifascista volontario Robert Jordan non è semplicemente
una proiezione dell'autore; Robert Jordan è Ernest Hemingway,
per il semplice motivo che i libri di "Papa" Hemingway sono
una proiezione della sua vita e, reciprocamente, sulla sua vita proiettano
le loro ombre: un progressivo e sempre più amaro rimuginare
sulla sorte dell'uomo nel suo confronto obbligato con la morte.
Tante volte ferito nella carne (e nello spirito) nell'avventuroso
ma non lungo dipanarsi della sua vita, da un certo punto in avanti
Ernest Hemingway dovette andare convincendosi sempre più della
vanità delle cose umane. Se per tutta la gioventù aveva
manifestato un feroce sdegno per il cedimento del padre, per la sua
mancanza di coraggio davanti alle difficoltà della vita, già
in Per chi suona la campana il lettore coglie toni totalmente diversi.
Al trasfigurato ricordo del suicida, Robert Jordan dedica pensieri
di profonda delicatezza e commozione. Al momento di mettersi letterariamente
nei suoi panni, Hemingway aveva con ogni probabilità intuito
per chi era in procinto di suonare la campana, aveva già avvistato,
in fondo alla discesa precipite che stava diventando la sua vita,
quale ne sarebbe stata la conclusione inevitabile. Anche per lui,
come già per il padre, un atto di suprema codardia rivalutato,
umanizzato in quanto atto di suprema autoaffermazione: il suicidio.
Di fronte al doppio colpo di fucile con cui il 2 luglio 1961, all'età
di quasi 63 anni, Ernest Hemingway si tolse la vita, non è
forse possibile pensare ad altro se non all'unica conclusione possibile
di una vita tutta strenuamente vissuta come inscindibile altra faccia
dell'arte. All'inevitabile proiettarsi nella realtà delle morti
di Robert Jordan, di Francis Macomber, del torero Finito e dei tanti
mitizzati attori del vitalistico e tragico spettacolo detto corrida.
La definitiva autoaffermazione del vecchio costretto ad avventurarsi
da solo nel mare della vita.