Leggere questo romanzo è stata per me al tempo
stesso una prova e una grande soddisfazione: lo dico perché
era da tempo che un libro non mi procurava entrambe queste sensazioni,
forse dalla lettura di "Guerra e pace", che pure mi aveva
colpito in modo molto diverso.
La prova è stata quella di riuscire ad addentrarmi in una scrittura
del tutto peculiare nel panorama, tra l'altro alquanto ricco, della
letteratura americana del primo novecento, una scrittura antitetica
a quella asciutta di Hemingway o a quella pragmatica di Fitzgerald,
non a caso definita barocca.
La scrittura di Faulkner è infatti al tempo abbondante e, se
non oscura, direi complessa, e risente forse più della scrittura
di qualunque altro autore dell'insegnamento di James Joyce, dell'Ulysses
e specificamente del monologo di Molly Bloom.
Nel flusso di coscienza Faulkneriano si trovano mescolati diversi
toni, dall'esistenziale al quotidiano, dall'eterno all'elementare,
e le cose appaiono e scompaiono colla rapidità di un'ombra,
collegate (o scollegate?) senza l'evidenza di nessi causali.
Leggere richiede perciò una profonda collaborazione, è
inutile restare passivi ad osservare gli avvenimenti, che invece richiedono
la nostra partecipazione, necessitano che noi stessi ci mettiamo in
gioco, costruendo nessi, collegando, ricordando frasi. Si potrebbe
dire allora che la scrittura di Faulkner si rivolga soprattutto a
un pubblico elitario, a una nicchia (e questo piega allora anche lo
scarso successo di pubblico che il romanzo ebbe alla sua pubblicazione
nel 1929).
Ma al tempo stesso la difficoltà non fa che aumentare il piacere
di capire, il piacere di vivere una nuova esperienza: la difficoltà
e la soddisfazione sono perciò le facce opposte di una stessa
medaglia.
Attilio Bertolucci parlando de "L'urlo e il furore" lo descrisse
come un poema sinfonico in quattro tempi: diviso in quattro capitoli
il romanzo infatti descrive la decadenza di una famiglia del Sud,
i Compson, e lo fa in modo del tutto peculiare, fissando, in tutta
la parabola della decadenza, quattro giorni in cui incentrare temi
e storie di più ampio respiro. Ognuno dei capitoli si svolge
nell'arco di una giornata, e se nei primi tre la vicenda è
vissuta soggettivamente, cogli occhi di uno dei protagonisti, solo
nel capitolo finale, incentrato sulla governante nera della famiglia,
Dilsey, la prospettiva cambia e ci troviamo di fronte a una descrizione
oggettiva e chiarificante.
Il risultato è appunto quello di un'opera sinfonica, in cui
i vari tempi non si possono reggere se non assieme, e solo nell'unione
esprimono pienamente il loro significato e la loro potenzialità.
Sarebbe pertanto assurdo, molto piu' che per ogni altro libro, giudicare
"L'urlo e il furore" senza averlo letto per intero.
Tantissime sono le cose che si potrebbero dire, su ognuno dei vari
capitoli, e non mi sembra il caso di doverlo fare adesso: non posso
però esimermi da un accenno allo straordinario primo capitolo
e al "monologo" (in un'accezione un po' ampia) di Benjy.
Benjy infatti non parla, percepisce e basta: percepisce ombre, colori,
soprattutto odori, e non comunica, incapace di emettere altro se non
suoni gutturali. Benjy percepisce ombre, le percepisce meccanicamente
e non è in grado di correlarle, di disporle nello spazio e
nel tempo: Benjy assume perciò il ruolo di spettatore passivo,
di occhio virtuale, di macchina fotografica degli avvenimenti: registra
senza dare né senso né valore. Attraverso lo sguardo
lucido di Benjy gli avvenimenti tragici scorrono come puro e semplice
manifestarsi, come un segnale dell'insensatezza, come "il suono
grave e disperato di ogni muto tormento sotto il sole".
Attraverso gli occhi di Benjy ci pare chiaro anche che in realta'
nessuno degli altri personaggi può agire davvero, avvolto com'è
dall'insensatezza del Fato.
Ed è perciò nella mancanza di parole di Benjy che apre
il libro, che piu' che mai si alza vibrante l'urlo di Faulkner contro
un'esistenza insensata, ingovernabile, spesso incomprensibile: l'urlo
contro una vita già definita nel Macbeth (e da qui il titolo
del romanzo) "..racconto detto da un idiota, pieno di urlo e
di furore, che non significa nulla"
Gianni Migliarese