Ringraziamo il poeta Valerio Magrelli per essere qui e per introdurre
l'argomento della discussione di oggi leggiamo la scheda introduttiva:
Perché la poesia e perché i poeti? La domanda
è del filosofo Martin Heidegger, il quale si chiese quale
fosse il senso della parola poetica in un mondo, quello della tarda
modernità, che sembra dare poco valore alla parola, un mondo
colmo di rumore, stordito dalle luci delle immagini, inebriato dalla
velocità. Questo mondo non lascia spazio a ciò che
non è immediatamente utilizzabile e le parole della poesia,
lente, appartate, quasi timorose, non sono immediatamente utilizzabili
o, se si vuole, hanno un diverso grado di utilità. Perché
dunque la poesia? Qual'è il suo posto nell'era di Internet,
dell'informazione globale, della comunicazione massificata? Perché
oggi si scrive e perché si legge poesia? Sono attività
residue? È il retaggio di altri tempi? Ma innanzi tutto c'è
da chiedersi, come fa Mario Luzi, uno dei più grandi poeti
italiani di questi anni, se questo esercizio, probabilmente marginale,
che è la poesia, sia in grado di cantare qualcosa di pari
alla vita. È su questo terreno che la poesia da sempre si
misura. Non è mai stata il centro del mondo e neppure un
linguaggio di largo consumo e sicuramente non ha mai cambiato il
corso della storia. Ieri, come oggi, da quando l'Occidente è
entrato nella parabola della modernità, la poesia raccoglie,
custodisce, testimonia i battiti del tempo umano, "la calda
fuggitiva onda del cuore", come scrive Reiner Maria Rilke nelle
Elegie Duinesi, un vero monumento della poesia del Novecento.
Professor Magrelli, perché scrive poesie? Cosa lo ha
spinto a cominciare e soprattutto qual è l'oggetto della
sua poesia?
Non è facile rispondere, così, a caldo, dopo queste
parole e dopo questi nomi, ovvero i numi tutelari del secolo appena
trascorso, all''interrogativo di Heidegger su cosa siano i poeti,
tanto meno alla riflessione di Rilke su come la poesia si intrecci
con la nostra vita. L'unica possibile risposta, almeno per me, adesso,
posto dinanzi a delle telecamere, ossia in uno spazio diverso, artefatto,
particolare, potrebbe essere, forse, un suggerimento: tornare alla
materialità propria del fatto poetico. Si fa poesia per vedere
qual'è la tenuta d'una parola, il collante tra un'esperienza
ed un'altra trasposta in parole. Si fa poesia così come si
prova a montare un uovo. Ecco, c'è un'immagine molto bella,
partorita dall'immaginazione di un poeta italiano, Giancarlo Maiorino,
immagine che ci parla proprio del cuore della poesia come di un
tuorlo. Mi pare bella. Altri poeti parlano di un nucleo, di un centro
che è l'espressione del fatto poetico. Ma il tuorlo, come
metafora, è qualcosa di diverso, perché è qualcosa
di vivo, di nucleare, e, allo stesso tempo, di vivo. Per questo
motivo io insisto sul fatto che si fa veramente poesia nello stesso
modo in cui si pasticciano le uova di una frittata, ovvero per vedere
se la frittata che verrà fuori terrà il bianco della
chiara o il rosso. Per iniziare a parlare di poesia, (soprattutto
all'ombra delle testimonianze che abbiamo appena ascoltato) credo
sia opportuno ritornare proprio alla sua elementarità. Un
grandissimo poeta francese, Stephan Mallarmé, a un pittore
che gli aveva detto: "Io ho un sacco di idee, potrei scrivere
tante poesie", rispose: "La poesia non si fa con le idee,
si fa con le parole". Io aggiungerei alla frase di Mallarmé:
con le sillabe, con le doppie, con tutta la sostanza letterale possibile.
Secondo Lei, quindi, la poesia può parlare di qualsiasi
cosa, oppure per essa esistono degli oggetti privilegiati? Se è
così, qual'è la differenza tra narrativa e poesia
?
La ringrazio perché questa domanda è davvero cruciale.
La poesia può parlare di qualsiasi cosa. Molto spesso si
fa riferimento alla poesia come a un gioco linguistico. Questo è
un tipo di definizione assai giusto. Aggiungerei, allora, un altro
nome fondamentale per la riflessione linguistica ed estetica del
Novecento, quello di Ludwig Wittgenstein, un altro filosofo. L'idea
della poesia come gioco linguistico è giusta, ma dovremmo
aggiungere che ogni poesia è un gioco diverso dall'altro.
Quindi, tenendo conto di quest'analogia, non dobbiamo immaginare
che ogni poesia sia una variante all'interno di un unico gioco linguistico.
Ogni testo è contemporaneamente la partita giocata e le regole
da giocare. Quindi la poesia del Novecento è Rilke, ma è
anche Gozzano, è anche Sandro Penna, è anche l'invettiva
di Dario Bellezza, è anche la pornografia insita nell'espressività
di tanti poeti, lo squarcio e la "cancellazione" di Sgrò.
La poesia è qualcosa di veramente vario, come possiamo pensare
nella loro varietà tutte le specie animali. Questo è
un aspetto importante, perché altrimenti si assegna sempre
alla poesia una fascia pre-determinata di appartenenza tipologica.
A me è sempre piaciuto molto questo aspetto di "mescolanza"
della poesia, una caratteristica in grado di mescolare il fiume
e il tramonto all'autobus, al traffico, all'ingorgo. Ecco, la poesia
ha a che vedere con il reale, non concepito nell'atto del suo rispecchiamento,
ma nella sua invenzione, nella sua negazione, che riguarda e può
riguardare tutto l'ambito del reale. Non dobbiamo pensare alla poesia
come, purtroppo si è visto tanto spesso in televisione, una
lettera d'amore con il violino in sottofondo. La poesia rappresenta
veramente un giro del linguaggio in 360 gradi. Ciò non è
un caso, ora non vorrei rispondere troppo a lungo, ma insomma se
tanta parte dell'arte del Novecento si è spinta fino a parlare
del corpo, delle feci, degli escrementi, facendone oggetto di poesia
e di narrativa, a cominciare dall'Ulisse di James Joyce, qualcosa
vorrà pur dire. L'altra domanda, quella sulla differenza
tra poesia e prosa, per ora la vorrei rimandare, perché mi
pare che la risposta potrebbe essere fluviale.
Secondo Lei, in che modo ci si può accostare alla poesia?
Pensa che la velocità con cui si muove la società
contemporanea possa minacciare, in qualche modo, la fruizione e
la creazione poetica?
In realtà io sono del parere esattamente contrario. Io non
credo che qualcosa del reale possa minacciare la poesia, se non
l'estinzione dell'uomo in quanto animale sociale. La poesia si fonda
sulla comunicazione, anche quando vuole predicare la fine stessa
della comunicazione. Se noi volessimo coerentemente affermare che
la comunicazione è finita volendo, contemporaneamente, abbandonare
l'afasia concettuale che ne deriverebbe, allora non dovremmo neanche
scrivere. A proposito - solo per fare un esempio - di Rimbaud, sono
state dette delle parole molto belle da parte di Blancheau, un grande
pensatore francese. Blancheau reagì in modo molto severo
rispetto all'idea di Rimbaud di aver voluto scegliere il silenzio.
Secondo Blancheau, in realtà, Rimbaud aveva scelto di dire
in silenzio. La sua, forse, fu una vera e propria fuga eroica Qualche
tempo fa in televisione è andato in onda il film, bruttissimo,
sull'amore tra Rimbaud e Verlaine, in cui Rimbaud era impersonato
da Leonardo Di Caprio. Credo che raramente un attore sia stato scelto
con tanto acume. Ebbene, questo eroe leggendario, questo fanciullo,
piombò nel mondo letterario parigino, e lo mise a soqquadro.
C'è un critico italiano che molto opportunamente ha definito
la poesia di Rimbaud come "un senso che schianta e fugge".
Dopodiché questa figura di angelo ribelle, che poi abbandonò
in silenzio, potrebbe sembrare che si sia trasformato nella negazione
della poesia, ma in realtà anche nella rinuncia al poetare
lui, Rimbaud, in realtà, rimase un poeta, forse il più
letterato fra i poeti della sua epoca. Per tornare a rispondere
alla Sua domanda, vorrei dirLe, francamente, che non c'è
nulla del reale che la poesia debba temere, soprattutto nel momento
stesso in cui si sente necessitata a dirlo. La leggerezza potrebbe
essere un tema straordinario, anzi è stato un tema straordinario.
Vorrei tanto leggerVi la poesia di un autore italiano, proprio di
questi anni, che in un numero della Rivista Il Verri, rispondendo
alla domanda: "Perché scrivete?", ha pubblicato
un testo. Sono tre strofe. Io Vi leggerò l'ultima. Della
poesia, risponde l'autore, è importante l'uso non il senso:
"Più che al profumo di una rosa l'essere somiglia a
un radiatore, riscaldato con i tubi della grammatica, con l'acqua
della sintassi". A me pare molto bella questa immagine, molto
forte, ovviamente legata a una tradizione assai ricca di riferimenti.
Penso per esempio a W. H. Auden, che usò linguaggi tecnologici
degradati, parlando del motore diesel, del termosifone, e così
via. Questa però è la dimostrazione di come chi voglia
manovrare il linguaggio, può usare qualsiasi strumento. Può
parlare di politica come può parlare di animali del sottosuolo.
C'è un poeta italiano, Bacchini, che ha scritto dei libri
splendidi sull'esistenza e sulla creaturalità delle talpe.
Poco fa si parlava di Internet. Chi va a pensare a cosa fa una talpa
sotto terra. Queste poesie sono bellissime. Credo, anzi, spero di
aver risposto con qualche esempio concreto.
Io credo che comunque la poesia sia stata un po' abbandonata
in questi tempi. Secondo Lei cosa è riuscito a sostituirla?
Anche in questo mi trovo d'accordo con la scheda introduttiva,
quando si dice che la poesia non è mai stata un linguaggio
maggioritario. Forse in civiltà remote avveniva che i poeti
cantassero i vincitori delle Olimpiadi, come se noi oggi decantassimo
i vincitori dei Campionati di Calcio. Peraltro dei poeti italiani
lo hanno fatto, anche bene. Penso a Roberto Mussapi che ha scritto
una poesia in onore di Marco Tardelli, una specie di citazione,
ovviamente. Si può fare tutto, ma si fa in una maniera marginale,
perché il linguaggio è fatto per essere usato. Chi
si sofferma sul linguaggio, invece di usarlo, chi va a pesca e invece
di tirare su i pesci si mette a osservare la canna, evidentemente
è destinato a rendere partecipi soltanto pochissime persone
di questa sua passione. Io tra l'altro sono assolutamente contrario
ai tentativi di proselitismo. Alcune iniziative, anche con le migliori
intenzioni, spingono i poeti verso il pubblico. Questo è
giusto fino a un certo punto. Chi abita in un piccolo centro, in
una provincia, e non ha mai visto un poeta, è giusto che
abbia la possibilità di conoscerlo, per scoprire se magari
l'ambito in questione gli interessi o meno. Ma da qui a andare a
cercare il lettore, come se si vendessero dei fustini di detersivo,
insomma, mi sembra che ce ne passi. La poesia è essenzialmente
una mania. C'è chi ha la mania degli scacchi e chi ha la
mania dei francobolli e chi ha la mania di collezionare le confezioni
di zucchero che si vendono ai bar, oppure i pacchetti di sigarette.
Sono manie, certo, più o meno degne, perché più
o meno complesse. Il giocatore di scacchi è più ricco,
da questo punto di vista, del giocatore di dama, perché deve
padroneggiare un numero di regole più ampio. Tutto qua. Per
cui, sì, io credo che la poesia debba conoscere tutti i suoi
potenziali lettori, ma non debba cercare di acquisirne altri. Concludo,
citando per esempio uno dei festival più celebri, che ebbe
luogo nei pressi di Roma, il celebre Festival di Castelfusano, quando
ci furono migliaia di spettatori sulla spiaggia, per sentire dei
poeti che recitavano versi. La verità, però, è
che molti di questi spettatori erano stati attirati con l'attrattiva
di sentire Patti Smith, per cui ci furono poeti ai quali furono
tirati barattoli, pomodori, panini, e così via. Credo che
quello sia stato un classico esempio di equivoco, forse perseguito
per le ragioni più nobili, ma che non mi vede assolutamente
d'accordo con l'idea dell'iniziativa.
Professore ci sono dei poeti che Lei ritiene indispensabili
per la storia della poesia in generale? Le faccio questa domanda
perché per me Leopardi è uno di questi.
Sì, potrebbe anche essere, ma questo anche mi fa un po'
paura, perché nel momento in cui un poeta viene dichiarato
indispensabile, inevitabilmente, in ciascuno di noi, inizia a formarsi
un senso di risentimento, un senso di sfida. Questo poi nell'adolescenza
è, se possibile, ancora più amplificato. Io ho finito
per insegnare Letteratura francese e per studiare - per anni e anni
- il tedesco, proprio perché in Italia mi obbligavano a leggere
e a studiare i poeti italiani. Se mi avessero fatto leggere Rilke
e Baudelaire probabilmente sarei diventato un italianista. Quindi,
ogni volta che c'è un canone imposto, si creano inevitabilmente
i presupposti per un suo smantellamento. Detto questo è evidente
che una figura come Leopardi proprio per la ricchezza del suo pensiero,
del suo pensiero sulla lingua, non è aggirabile. Però
non so, ecco, in Italia abbiamo questa ricchezza quasi unica al
mondo, da un punto di vista linguistico, data dalla presenza dei
dialetti. Io credo che poeti come Belli a Roma o Porta a Milano
o, per certi versi, anche Di Giacomo a Napoli, - ma potrei fare
tanti altri nomi - potrebbero, per altro, risultare altrettanto
indispensabili. Mi viene in mente che esiste per esempio una collana
di poesia, della Marsilio, che pubblica poesie in dialetto. Ecco,
uno degli ultimi titoli è in friulano, è un po' sulla
scia di Pasolini. L'autore in questione si chiama Flavio Santi,
il suo è un testo molto interessante, perché, forse
per la prima volta, (ma i casi non sono soltanto questi, altri se
ne potrebbero trovare) in maniera tanto esplicita, tratta attraverso
il modulo espressivo del dialetto delle questioni contrassegnate
da un'enorme e attualissima quotidianità. Ad un certo punto
il poeta dice di essere andato a vedere un film di David Cronenberg
e racconta la trama di Videodrome. È strano vedere questo
friulano arcaico improvvisamente lacerato dalle parole più
abituali, questo italiano che diviene sempre più anglicizzato
in modo atipico, e così via. Quindi, su questo punto, le
possibilità in base alle quali un autore possa essere considerato
"ineliminabile" sono veramente sterminate.
Professore, Lei non pensa che nella musica pop d'autore, canzoni
di autori come De Gregori, Battisti, possano essere definite come
delle vere e proprie poesie?
Questo è un altro punto dolente della discussione in corso,
dolente e gradevole insieme, diciamo. Io, personalmente, adoro moltissimi
di questi testi e di queste musiche. Credo che, in particolare,
la scuola italiana, considerata da Napoli a Genova passando per
Roma, su su, fino al Piemonte, dove troviamo Paolo Conte sia particolarmente
ricca da un punto di vista poetico. Stiamo parlando di una tradizione
che ha avuto l'intelligenza, attraverso Fabrizio De André,
di mescolare la propria capacità di cantare dei temi importantissimi,
solo per fare qualche esempio, con cantautori e poeti della scuola
francese. Alcuni di questi autori tradussero testi di canzoni e
poesie di Georges Brassens e di tanti altri grandissimi cantautori.
Allo stesso modo è interessante, per esempio, nella musica
giovanile, osservare questo fenomeno di meticciato culturale ed
espressivo in grado di mescolare la nostra lingua, una lingua essenzialmente
poetica, con il linguaggio ritmico inglese del rap, (che peraltro
anche in Francia, oggi, è molto diffuso e penetrato). Detto
questo, però, per me la poesia e la musica sono assolutamente
incommensurabili. Mi è capitato spesso di tornare su questo
punto problematico. La poesia, anche considerata come lirica, gioca
soltanto con il testo scritto, magari persino con la sua disposizione
visiva. Ma lo spazio e il campo della poesia è dato da un
foglio di carta o è, se vogliamo - prima si parlava di Internet
-, da uno schermo che interfaccia con una mente di silicio, oppure
è uno schermo al plasma, quello che vogliamo. Comunque sia
stiamo parlando di uno schermo, di uno spazio bidimensionale. Quelle
sono le regole del gioco. È come chiedersi, altrimenti: come
giocherebbe a palla a nuoto un calciatore? Sarebbe come strapparlo
dal suo spazio di gioco e immergerlo in un altro elemento. Sì,
visto dall'alto, più o meno c'è una palla , ci stanno
due porte, gli schemi sembrano gli stessi....Peccato che cambi lo
spazio vitale di manovra, passando dall'acqua madre della piscina
di gioco al campo di calcio. Stiamo parlando, quindi, di due cose
incommensurabili. Leggere il testo di una canzone, come se fosse
una poesia, vuol dire massacrarlo, vuol dire mandarlo allo sbaraglio,
vuol dire prendere un giocatore di palla a nuoto e fargli giocare
una partita di calcio. Questi riferimenti, lo ripeto, non vogliono
tanto banalizzare la questione della scrittura o del canto, quanto
ritornare all'idea della composizione poetica concepita come un
gioco linguistico, proprio nel senso in cui venne organizzato concettualmente
da Wittgenstein - a cui facevo riferimento prima. Vorrei soltanto
concludere, mi sembra fondamentale, con quella battuta in cui Wittgenstein
parla proprio delle regole specifiche di un gioco. Lui dice, in
un gioco come il tennis ad esempio, alcuni parametri sono fissati:
la battuta non può uscire dal triangolo, la palla nel singolo
non può andare in corridoio (altri corridoi e altri spazi,
però - fateci caso - sono aperti). Non esiste nessuna regola,
nel tennis, che limiti l'altezza di un pallonetto. Io trovo molto
interessante questo sguardo poetico a questo gioco, che ci fa immaginare
una partita magari sospesa perché appunto un lob è
sparito a a seimila metri di altezza, senza che l'arbitro possa
però, sulla base delle regole, intervenire. Dovremmo iniziare
a ragionare, ripeto, sul testo, non per limitarlo, ma per iniziare
a comprenderlo, proprio in termini di sistemi di regole.
Professore, cosa fa di un poeta un grande poeta? Abbiamo scelto
una poesia letta dallo stesso Eugenio Montale, tratta dalla raccolta
Ossi di Seppia, che Le vorremmo proporre.
Forse un mattino, andando in un'aria di vetro arida,
rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore
di ubriaco.
Poi, come su uno schermo, si accamperanno di gitto
alberi, case, colli, per l'inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi ed io me ne andrò, zitto,
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
Ci sono poeti, o almeno ritenuti tali che, nel corso di cinquant'anni,
sono scomparsi dalla circolazione. Gli esempi sarebbero numerosissimi,
per varie ragioni. Può anche accadere, penso alla musica
- che il più grande musicista probabilmente mai esistito,
Johann Sebastian Bach, venga ritenuto, semplicemente, per secoli,
il padre di un discreto musicista, finché a un certo punto
un direttore d'orchestra ritrova le sue opere, torna a dedicare
a loro l'attenzione che meritano e lo impone all'attenzione dei
suoi contemporanei. Quel che voglio dire è questo: la questione
della fama, diciamo, della borsa - valori della carriera poetica
di uno scrittore, è legata quindi qualcosa di simile a percorsi
carsici. A volte c'è un inabissamento, lungo magari tre secoli,
e dopo tutto ciò la creatività di un autore ritorna
alla luce. Quindi non dobbiamo pensare che esistano categorie estetiche
fissate per sempre. Detto questo - non mi voglio contraddire, ma
le due cose sono entrambe parzialmente vere -, esistono dei testi
e, dunque, degli autori che non potranno mai subire una sorte del
genere. Perché, quando si parla di Dante Alighieri, evidentemente
si fa riferimento a un corpus quasi geologico, ineliminabile? Perché
la Commedia ha - io tornerei soprattutto a far ricorso a questa
parola - una complessità tale da renderla insopprimibile
da qualsiasi prospettiva storica si guardi? Voi pensate anche a
quella composizione - fu proprio il poeta Giorgio Caproni a notare
questo - ,a quelle rime intrecciate che sono le terzine dantesche.
È come una specie di corda, di fune intrecciata. Come si
fa a tagliare una fune, composta da centocinquantamila piccoli spaghi
che si legano, si stringono? Ecco perché poi un'opera non
viene meno, perché è come la campata di un ponte,
che è fatta di materiali non soltanto enormi, ma enormemente
embricati e incastrati tra loro. Perché Shakespeare è
Shakespeare?Questa domanda è anche il titolo di un interessante
libro di Vladimir Nabokov, completamente rivolto a Shakespeare.
L'interrogativo resta: Perché Shakespeare è Shakespeare?
Perché William Shakespeare ha un proprio peso specifico.
Potrei andare avanti con altri paragoni. Insomma, siamo di fronte
ad una scala di densità oggettive. È come la tabella
degli elementi chimici. Ci sono degli elementi che sono pieni di
energia, che grondano potenza, che perdono e prendono elettroni
da tutte le parti. Questa è la grandezza d'un poeta. Attenzione
però, non bisogna, ancora una volta, confondere questa forza
con i mezzi che, di volta in volta, usa. Il fatto che Dante sia
Dante, non dipende dal fatto che egli abbia scritto un poema lunghissimo,
perché dei poeti assolutamente eterei - e io citavo prima
Sandro Penna, ma potrei citare tantissimi frammenti di poeti greci
- riescono a ottenere lo stessa risultato, magari con due righe.
Perché Saffo è, ormai, questa presenza così
leggendaria, per non dire nutritiva per chiunque l'abbia studiata?
Perché gli bastano due versi per cantare la vera e propria
lacerazione dell'amore. Noi dovremmo sempre tenere presente la poesia
come un fenomeno posto a ridosso della realtà effettiva,
altrimenti finiremmo per allontanarcene tragicamente. Per capire
quello che è successo nei giorni scorsi, un fatto così
tragico come quello di un ragazzo che prende la propria ex ragazza
e la sgozza, bisogna capire qual è la forza dell'amore, dell'eros
greco, che è innanzi tutto violenza. Io veramente, leggendo
questa cronaca spaventosa, pensavo a quella descrizione dell'amore
come danno. L'eros è un demone che piomba nella vita delle
persone, che le distrugge, che le devasta. Sta a noi, poi, riuscire
ad addomesticare questa forza, che però non ci appartiene.
Ecco, l'innamorato è una sorta di posseduto, di indemoniato,
in qualche modo. Questo ci dice la poesia, se noi riusciamo ad ascoltarla.
Però, ripeto, ascoltare una poesia è difficile come
studiare una partita a scacchi. Certamente è più facile
accendere la radio o buttarsi sul divano a vedere il televisore.
L'unica cosa che vorrei aggiungere - prima non l'ho detto -, è
che esiste un dato abbastanza indicativo; mentre in Italia - continuo
con l'immagine degli scacchi - i giocatori di questo gioco sono
poche migliaia, in Russia sono forse trenta milioni. Perché?
Perché gli scacchi sono insegnati a scuola. Quindi io, personalmente,
pur avendo, dapprima, parlato contro il proselitismo poetico vorrei
aggiungere delle considerazioni. Evitare di esercitare un proselitismo
poetico svolto in maniera troppo invasiva ed insistente non vuol
dire rifiutare ai giovani una educazione essenziale che la scuola
dovrebbe fornire, ovvero una educazione alla poesia, che manca completamente,
a mio parere, salvo i casi ovviamente del singolo insegnante, e
l'educazione alla musica. Questo potrà sembrare strano, ma
io trovo che in questa direzione si dovrebbe ancora fare moltissimo.
È impensabile che chi esca da una scuola non conosca i rudimenti
dell'armonia musicale, non sappia usare una chitarra. Ecco, per
me se ci fosse ancora un esame di maturità, io inserirei
- questa sarebbe una formula intelligente di materia complementare!
- un esame in cui uno studente dovrebbe portare almeno tre canzoni
di cantautori, suonandole di fronte alla commissione. Dovremmo lacerare
questo velo di effusiva confusione che circonda il concetto di "poesia"
così come è percepito dalla maggior parte delle persone.
Un grande poeta francese, Paul Valéry, diceva: "Chi
ama la poesia vaga ha un concetto vago di poesia". E l'unico
modo per uscire da questo equivoco è tornare, a mio parere,
ad una esperienza diretta del testo.
Professore, perché il poeta, specialmente in passato,
era quasi sempre un appartato e un emarginato? Secondo Lei la solitudine
e l'emarginazione sono condizioni necessarie alla produzione poetica?
No, non sono d'accordo con questa concezione del rapporto "vita
sociale - produzione letteraria", perché molti poeti,
al contrario, erano ricchi, ben voluti e amati da tutti, o quasi.
Mi rifaccio in particolare a quella lunga tradizione che dall'antichità
arriva fin all'inizio dell'Ottocento, che il filone della poesia
di corte. Il poeta è una specie di jukebox, in questa tradizione
è concepito come una sorte di scriba. Il mecenate, il principe
di turno, andava da lui e gli diceva: "Bene questo è
il tema, che mi è venuto in mente: Ho scelto quattro note,
Ve le lascio - il problema si poneva anche musicalmente, quante
melodie furono composte su un tema lasciato "graziosamente"
al compositore, dal sovrano? - Voi restate in cucina con la servitù
a comporre. Io vado a caccia. Poi torno e mentre mangio, i musici
mi faranno sentire le Vostre variazioni composte sulla mia idea"
(la storia delle Variazioni Goldberg di Bach, è solo una
leggera "variazione" su questo tema). Quante composizioni
sono nate in questa maniera, musicali e anche poetiche? Quel che
in realtà vorrei dire è che per millenni la poesia
è stata asservita ai regnanti, fino al momento in cui, per
usare il titolo di un celebre testo, assistiamo alla consacrazione
storica dello scrittore, ovvero alla nascita, direi più che
dello scrittore, dell'intellettuale nel senso moderno del termine.
Non c'è più un mecenate, non c'è più
un principe. Vengono meno le dediche. Fino a tutto il Settecento,
quando Voi aprivate un libro, vedevate nelle prime due o tre pagine
i frontespizi: "Al vescovo di ...", "Al principe
di ...". Perché? Perché erano loro che pagavano
la pensione di questi scrittori, che altrimenti avrebbero dovuto
scegliere un altro lavoro. Quindi c'era proprio un rapporto di committenza
e, dunque, di asservimento diretto, un rapporto di lavoro terribile.
C'è un grande romanzo del Novecento: La morte di Virgilio,
di Broch, che parla della fine di questo grandissimo poeta, che
di fatto non aveva fatto altro che aderire al programma di propaganda
politica del suo imperatore, Ottaviano Augusto. Augusto gli dettava
le cose da dire. Certamente, la grandezza dello scrittore stava
nell'appropriarsi di questo materiale e di farlo suo. Ma per non
allontanarci direi che, in molti casi del Novecento, tutto questo
si è rivisto all'interno del rapporto tra partito politico
e poeta e/o scrittore. Quanti poeti, anche molto grandi, spesso
si sono prestati, in questo caso però perché, probabilmente,
condividevano le idee di un regime, (ma forse anche per Virgilio
era lo stesso) a cantare dei temi politici che non gli appartenevano?
Mi sono un po' dilungato, però, per dire come in effetti
l'immagine del poeta, appartato, solitario, appartenga piuttosto
agli ultimi due secoli, è necessario rivolgere lo sguardo
alla storia ed analizzare i fatti. La figura del poeta solitario
nasce e si afferma con la stagione romantica. In quella tradizione
assistiamo ad uno strappo relazionale tra l'artista e la società.
Nasce la moda e il concetto de la Bohème, che poi ritroviamo,
nella sua divulgazione più nota, centrata in pieno dall'opera
di Puccini; il pittore nelle soffitte di Parigi, col baschetto e
la tavolozza, che muore di freddo perché non ha una lira.
Lì, effettivamente, assistiamo al salto dello snodo che collegava
direttamente la produzione intellettuale di una determinata officina
estetica ad un centro di potere, l'espressione storica di un'ideologia.
L'immagine che nasce è quella di un poeta isolato, solitario,
slegato. Oggi com'è situato il poeta? Ancor oggi credo che
in giro ci sia un po' di tutto. In certi paesi anglosassoni, per
esempio, continua addirittura ad esistere la "carica"
del poeta laureato. In Inghilterra, per esempio, c'è qualcosa
di simile al "poeta di corte". Ma oggi sono i grandissimi
poeti coloro che accettano questi titoli. Essi lo fanno, ovviamente
,con un profondo senso di ironia e di distacco.
Un'ultima domanda: secondo Lei, si può fare a meno della
poesia?
Assolutamente sì, malgrado quanto purtroppo si sente dire
in senso contrario. Assolutamente sì, se decidiamo di retrocedere
nella barbarie umana e culturale insomma, in un senso strettamente
tecnico. Il barbaro per gli antichi è colui che non parla
il linguaggio, cioè colui che lo balbetta. "Bar-ba-ro"
è colui che balbetta, che vive nella lallazione, questo i
Greci pensavano degli altri popoli. Forse i Greci sono stato il
popolo più razzista della storia che si possa immaginare.
Chi rinuncia a riflettere sullo strumento che fa dell'uomo "l'uomo
in quanto uomo", cioè il linguaggio, può tranquillamente
vivere, ma vive appunto ad un livello subumano. Purtroppo il Novecento
è stato un secolo che non ha fatto altro che parlarci di
questo e quindi la risposta deve essere positiva. L'augurio, evidentemente,
è che questo non accada. Ma io penso che non accadrà,
perché esiste quasi una funzione biologica, per cui da qualche
parte nel corpo c'è sempre un piccolo numero di cellule dedicate,
votate per così dire, alla cura del linguaggio.
Intervista realizzata con gli studenti del Liceo Classico "Umberto
I" di Napoli il 15 Febbraio 2001