Un Posto al sole... a Bologna

Patrizio Rispo
Alberto Bader - produttore creativo
Giacomo Manzoli
- docente di istituzioni di storia del cinema

Patrizio Rispo: Dieci anni è una scommessa vinta: siamo ufficialmente il prodotto più lungo della Rai, la serialità più lunga mai andata in onda. E’ partito come una scommessa, nessuno ci credeva, anzi all’inizio era difficilissimo creare una squadra di professionisti perché molti la snobbavano; nasceva dalla voglia di Minoli e della Sellerio, che allora faceva parte del consiglio di amministrazione della Rai. C’era la voglia di salvare il Centro di Produzione di Napoli che stava in grandissima crisi. Per cui si pensava di dare una produzione a grandi respiri e si è provato con una telenovela che aveva però una storia abbastanza snobbata da una certa cultura spesso occidentale. Però Minoli l’ha vista ancora una volta lunga perché, al di là del format australiano che aveva degli impedimenti di innocenza, di candore che erano lontani dalla realtà nostra italiana, lui ha avuto la capacità e la forza di sostenere un prodotto che allora non aveva la misura nella recitazione, nella regia, nella scrittura. Siamo partiti da un format australiano però abbiamo avuto il sostegno della Rai e di Minoli che ci ha consentito, cosa che dovrebbe fare sempre un ente di Stato, di fare sperimentazione.
Noi abbiamo messo a punto il prodotto, cosa che con i tempi che oggi si vivono difficilmente ti consentono di fare: qua o funzioni alla seconda puntata o sei chiuso. Invece noi abbiamo avuto la possibilità di mettere a punto, di adattare le storie alla realtà italiana, di inserire la commedia: dico questo perché ne sono direttamente interessato, è stata una grandissima scommessa mettere la commedia in una soap ed è stato un successo! Un successo però raggiunto dopo un anno e mezzo di assestamenti, di messe a punto, di aggiustamenti. Oggi siamo al decimo anno, non solo ma questo mese abbiamo avuto delle grandi dosi giornaliere di complimenti perché battiamo i record di ascolto ogni giorno, su Raitre che è una rete abbastanza difficile, in concorrenza con Striscia la notizia, Affari tuoi. Abbiamo il peggio contro ma i nostri non ci mollano, nemmeno in concorrenza con Sanremo: abbiamo uno zoccolo duro che è sui 2.800.000 spettatori e sono lì inchiodati, non si muovono come se non abbiano altra vita al di là della poltrona di fronte al televisore, a quell’ora li troviamo sempre lì.

Alberto Bader: Patrizio è testimone di tutti i 10 anni per cui è il testimone migliore. Oltre ad essere il personaggio bandiera del nostro prodotto, anche come vi ha detto è la persona che ha seguito fin dall’inizio la nascita di questa avventura. Io sono da 4 anni a Un posto al sole e devo dire che quello che a me interessa di più non è tanto il passato quanto il futuro perché la mia responsabilità è anche quella di cercare di portare per altri 10 anni questo prodotto, ovviamente con l’aiuto di tutti, sia gli autori che gli attori. Ci sono stati parecchi cambiamenti da quando ho preso io la parte di produzione, dopo Chiara Toschi che già aveva fatto un lavoro di 3 anni prima del mio, e diciamo che i cambiamenti sono stati alcuni scelti altri naturali nel senso di personaggi che sono voluti uscire e soprattutto il cambiamento del caposcrittore che è stato forse uno dei cambiamenti maggiori. Da Wayne Doyle, che è stato caposcrittore dall’inizio del format, cambiammo e scegliemmo di affidare la scrittura a un ragazzo napoletano di 32 anni che si chiama Paolo Terracciano e che ha fatto da assistente a Wayne partendo da dialoghista, facendo poi tutto il percorso dall’inizio e oggi, oramai da 4 anni, ha in mano il prodotto dal punto di vista della scrittura. La scrittura nella soap è la base, così come nel cinema. Almeno per come la vedo io la scrittura e gli attori sono i due pilastri fondamentali della narrazione.

Giacomo Manzoli: Prima citava giustamente i pregiudizi che ci sono in Italia verso questo tipo di prodotto audiovisivo. Ho visto da Fazio recentemente Umberto Eco, sicuramente il massimo intellettuale italiano contemporaneo. Fazio gli ha chiesto ”cosa guardi in televisione” e lui ha risposto “i telegiornali e poi le fiction italiane poliziesche: La Squadra, Distretto di Polizia”, in quanto appassionato di romanzo poliziesco. Chi ama la commedia, chi ama il melodramma ovviamente può rivolgersi verso un tipo di prodotto come Un posto al sole. Ma io avevo prima di tutto una curiosità: tu hai nominato giustamente l’appellativo con cui questa serie viene definita prima soap opera italiana, ma è tecnicamente una soap opera? Perché io avrei dei seri dubbi, a me non sembra affatto e quindi volevo chiedere cosa ne pensate e come andrebbe tecnicamente definita.

Alberto Bader: Secondo i parametri del by the book, sul manuale del bravo soapoperista Un posto al sole non c’entra nulla con la soap opera, se non per struttura di produzione. Così come è giusto dire che nonostante veniamo da un format australiano in realtà il nostro prodotto è sempre stato fin dall’inizio riscritto per l’Italia, e in particolare per Napoli. Diciamo che le cose che ci allontanano dalla soap opera…più facile forse dire quelle che ci avvicinano: non abbiamo una fine e già questo è un primo punto tecnico di scrittura, per cui tutte le storie sono fatte per durare, i personaggi sono fatti per durare nel tempo…

Patrizio Rispo: …una vita parallela quindi, non è episodica. Anche la morale dei personaggi ha una sua morale, anche la scrittura…proprio una vita parallela.

Alberto Bader: Questo infatti è il punto di vista degli attori. E’ importante perché per loro è proprio una vita nel vero senso della parola. Tutte le mattine si svegliano, si vestono e parlano come il personaggio. Questo è proprio un aspetto della soap opera. La soap poi ha altre caratteristiche che sono quella di andare in onda il pomeriggio, cosa che noi non facciamo perché siamo in un access prime time, e ha la caratteristica di avere principalmente il melodramma, mentre noi abbiamo tre linee per struttura narrativa che comprendono la parte melò, molta commedia come ha detto Patrizio, e soprattutto una linea sociale. Questa è legata al nostro editore essendo Raitre e Rai Fiction in particolare ed è condivisa dal nostro capostruttura Francesco Nardella in Rai Fiction, e condivisa anche dal direttore di Raitre e da tutte le persone che si occupano del prodotto. La linea sociale vuol dire portare dei temi quotidiani o dei microtomi o dei macrotemi sui personaggi, che in realtà tutti i giorni svolgono una narrazione per il pubblico, e avvicinarli anche a temi che sono appunto non proprio da soap opera, se non in maniera diversa. Ad esempio se si parla di adozione, piuttosto che di droga, noi ne parliamo avendo dei consulenti esterni che consigliano gli scrittori su come affrontare l’argomento. Ovviamente a volte le conseguenze di queste storie hanno anche del melò perché chiaramente poi si tratta di raccontare una storia, però l’impostazione è quella di precisione assoluta che è richiesta anche dai nostri spettatori che si aspettano di vedere la realtà, cioè di non avere un prodotto patinato, sognante, di stampo “soap opera”. Il pubblico si aspetta un prodotto di fiction, che alla sera alle 20:30 rispecchi in qualche modo la vita quotidiana, cosa che è diversa per chi invece guarda una soap opera classica il pomeriggio da solo. Il nostro prodotto si consuma in famiglia, si consuma con più persone che ne parlano, lo vedono e discutono, per cui i temi devono essere necessariamente più vicini alla realtà che al sogno.

Patrizio Rispo: Il nostro pubblico riunisce per quella mezzora il nonno, il padre, il bambino, il magistrato, il carcerato, che trovano motivo di discussione. Infatti io riscontro una valenza importantissima perché noi lanciamo degli argomenti, magari in maniera semplice, che poi possono essere approfonditi magari con altri programmi o con una discussione familiare più approfondita, però la nostra ispirazione è dalla cronaca. Lanciamo sempre un seme che spesso viene raccolto con grandissima gratitudine da parte del pubblico, oppure dagli anziani che sono riconoscenti perché portiamo una fetta di realtà in casa loro, realtà che magari vivono pochissimo, per cui in questo modo le persone anziane vedono il mondo del nipote, degli adolescenti, con cui sempre meno hanno un contatto quotidiano. Questa è la valenza più importante del nostro prodotto.

Giacomo Manzoli: Quello che io trovo interessantissimo è questo versante popolare proprio nell’accezione gramsciana del termine. Mi sembra che ci sia proprio un rispecchiamento continuo fra chi fa il prodotto e il pubblico che lo fruisce nel senso che, anche per riallacciarmi alla questione della serialità, serialità vuol dire anche il ritorno dell’identico: ci sono delle cose che uno ritrova sempre, ha un effetto quasi rassicurante sapere che a quell’ora, su quel canale, quel giorno si ritroveranno quei volti e andrà avanti questa vita parallela. Ma c’è una ragione per cui si prova piacere a seguire questa vita parallela ed è che nel rispecchiamento coi personaggi uno fonda la propria identità, si riconosce, negozia anche la propria esistenza, i conflitti che lo riguardano. Fra l’altro il pubblico non è vero che si prende tutto, è estremamente selettivo, sa scegliere benissimo, ci mette un po’ per abituarsi; quando le cose cominciano a prendere una piega che non lo soddisfa questo prodotto non serve più agli obiettivi che si era prefissato e il pubblico lo abbandona molto rapidamente. Un’altra cosa che incuriosiva molto è sapere come vi rapportate con il pubblico cioè quali sono i sistemi, nuovamente sul piano tecnico, per instaurare questo continuo feedback, capire che cosa va, che cosa il vostro pubblico di riferimento richiede, di che cosa ha bisogno, quali sono i conflitti forti, le forze che in quel momento agitano la società e che vale la pena immettere all’interno del telefilm.

Alberto Bader: Sicuramente una cosa che non facciamo è seguire quelli che possono essere gli eventuali segnali del pubblico, anche perché noi scriviamo con 4 mesi di anticipo rispetto alla messa in onda per cui tecnicamente diventa impossibile; o meglio, una volta che è andato in onda ed è andato male noi abbiamo già scritto e abbiamo anche continuato. E’ chiaro che abbiamo modo di leggere i dati in maniera costruttiva per i personaggi più che per le storie, però io penso che la base di tutto sia il fatto che i nostri autori vivono nel mondo. Come prende il tram il caposcrittore lo prendono tutti gli altri, sia gli editori che gli story liner; poi essendo appunto serializzato noi abbiamo proprio una scansione anche di responsabilità sui vari scrittori, per cui c’è chi dialoga, c’è chi inventa le storie a lungo termine, insomma siamo molto suddivisi. C’è il gruppo dei 12 di base e poi ci sono vari dialoghisti in tutta Italia che lavorano da casa su un episodio alla volta. I 12 scrittori presenti sono il 99% napoletani, per cui abbiamo anche una missione di formazione in questo senso. Sicuramente Napoli oggi è la città che produce la fiction in maniera seriale e in maniera migliore; non c’è altra città in Italia che abbia queste due esperienze diverse tra di loro però su una struttura simile. Sicuramente il fatto che siamo tanti autori, come diceva giustamente il professore, ci permette anche di non patire di questo male del grande deus ex macchina o del regista con la sciarpa e il cappellone che decide per tutti o l’autore che sia.

Patrizio Rispo: Ogni storia, ognuno di loro apporta un’energia e un mondo che gli appartiene. Sai quanti registi sono passati da noi? Io neanche sapevo esistessero in Italia: 150 registi in 10 anni. Parecchi ne abbiamo lanciati, Muccino e tanti altri hanno fatto Un posto al sole; quindi vedi quanto sia servito anche a questo altro tipo di professionalità fare Un posto al sole perché magari un regista fra un film e i successivi aveva un buco nel quale poi molti cadevano e facevano altri lavori e si sarebbero proprio persi. Invece pensavano al loro film però avevano la possibilità di lavorare, di mettere a punto un prodotto, di avere respiro economico; anche sceneggiatori hanno trovato lavoro da noi.

Alberto Bader: E’ molto importante che si cominci a pensare, soprattutto per quel pubblico snob a cui Patrizio faceva riferimento prima, che questo è un mestiere, fare fiction per la televisione è un mestiere, e chiaramente uno dei primi passi per imparare il mestiere è la lunga serialità.

Patrizio Rispo: Però la lunga serialità ti consente anche di avere una dignità che difficilmente questo mestiere ti permette di avere. Il fatto di stare sicuro in una macchina che funziona, che ti dà una popolarità senza usare i mezzi per averla che sono di tutt’altro tipo e sappiamo benissimo di che cosa parliamo, noi siamo abbastanza gamedi da questo punto di vista…quindi avere una professionalità, un lavoro che ti permette anche di proiettarti nel futuro che è la più grande paura di un attore, il “domani che faccio? Finisce la tournèe che succede?” però questo pur rimanendo vivaci e irrequieti. Io guai se pensassi di timbrare il cartellino! Faccio questo mestiere cercando di essere il primo ad annoiarmi, colgo l’occasione per fare tanti personaggi all’interno di quello che mi permette di fare Raffaele; guai se io facessi seduto un Raffaele, difficilmente sarei arrivato a stare lì 10 anni ma mi sarei esaurito subito. Il primo ad annoiarmi da casa cerco di essere io, perché mi vedo tutte le puntate la sera commentandole anche al telefono con lui, e magari se in scrittura mi arriva una strada percorsa per troppo tempo il primo a sterzare sono io, vado contro la scrittura e magari mi cambio. Cerco di fare i personaggi che sogno di fare da attore nel cinema; appena mi danno l’occasione lì nella scrittura di fare un altro personaggio io subito mi ci butto, gioco a fare l’attore.

Alberto Bader: La Tv italiana penso non sia messa male, penso abbia le possibilità, i soldi, le capacità, gli autori, i registi, le emittenti. E’ sbagliato fare come si fa un po’ col cinema che è “sempre perennemente in crisi”; in realtà in crisi rispetto a cosa? Non siamo paragonabili al mercato americano perché se noi abbiamo un’utenza 10 loro hanno un’utenza 1000, per cui è proprio un altro discorso. Penso che sia più importante semmai salvaguardare quella che è la nostra realtà, cercare di raccontare la realtà nostra attraverso gli occhi nostri non attraverso finestre americane, francesi, inglesi, australiane o qualunque esse siano.

Patrizio Rispo: Noi siamo stati conquistati dagli americani in maniera perfida perché loro più che con le guerre hanno conquistato col piano Marshall. Con l’imposizione del cinema loro ci hanno fatto mangiare nell’arco di 20 anni gli hamburger e le patatine col ketchup, tutte cose che noi non ci sognavamo di fare. L’unico modo per essere riascoltati noi e rimessi in vetrina noi era riraccontarci noi E’ inutile che ci mettiamo a fare un film all’americana non avendo i loro mezzi e il loro mercato. L’unico modo per incuriosire anche loro era saper raccontare di nuovo noi stessi. E noi siamo stati i primi a riraccontare l’Italia, i nostri usi, i nostri costumi e questo all’estero ha affascinato non solo il pubblico italiano: noi siamo il programma più visto su Rai International perché restituiamo la dignità e di nuovo le tradizioni, gli appuntamenti, perché poi noi raccontiamo la realtà, il quotidiano, l’appuntamento, il pranzo di Natale…insomma le cose più semplici. Ma è un modo per riappropriarci proprio della nostra cultura, infatti abbiamo lettere dall’estero di genitori magari di seconda generazione, emigranti che grazie a Un posto al sole hanno riunito la famiglia, recuperano le tradizioni. C’è questa valenza importantissima di restituzione dell’italianità anche nel prodotto, nella fiction, nello spettacolo; questo è fondamentale. Noi abbiamo girato anche a New York Un posto al sole, e firmavamo gli autografi anche a New York, cioè ci conoscevano, hai capito?

Giacomo Manzoli: Si parla spessissimo del format quando comincia una serie; nel caso di Un medico in famiglia si parla di questo format spagnolo, nel vostro caso australiano. Ma quanto conta questo schema di base? Perché di nuovo sembra una di quelle cose a cui ci si aggancia ma che poi in realtà viene completamente scordato strada facendo.

Alberto Bader: Giriamo 25 minuti al giorno di fiction, cosa che prima non si faceva perché non esisteva una struttura produttiva. In realtà secondo me il format estero, qualunque possa essere, deve portarti la capacità di ottimizzare il lavoro, non ti deve certo portare le linee narrative o i personaggi o le tipologie. Non deve portarti la creatività, deve portarti l’operatività.

Patrizio Rispo: La palestra di cui parlavamo prima: devi avere dei minimi altissimi perché se sbagli, magari vai in onda sbagliando perché ci sono talmente tante cose da considerare, l’errore tecnico, l’errore di luce…magari sbagli tu e quella va in onda. Per cui devi avere le spalle forti, avere dei minimi altissimi. Questo ti permette di avere una professionalità, dei ritmi lavorativi, specie per chi comincia è veramente altissimo il prezzo che si paga.

Alberto Bader: Un altro soggetto che dobbiamo menzionare in questa nostra intervista è la Grundy Italia che coproduce insieme a Rai Fiction il format che originalmente nel mondo è una delle realtà che produce lunga serialità da tantissimo tempo. Da questo punto di vista abbiamo ereditato anche con un forum che facciamo con tutti i nostri “cugini” di tutto il mondo; ogni tre mesi ci incontriamo, portiamo puntate, le vediamo insieme, noi vediamo le loro, loro le nostre, ne parliamo e devo dire che Un posto al sole rispetto a tutte le altre soap, a tutta l’altra lunga serialità, “serial drama” come viene chiamato dai nostri cugini inglesi, è molto diverso. Noi lavoriamo parecchio con macchine a mano, lavoriamo anche con un linguaggio più vicino al cinema in realtà; cioè i nostri registi si permettono di uscire fuori da quest’ottimizzazione più rigida, come usano paesi come la Germania, piuttosto che l’Inghilterra, dove si lavora con tre camere fisse. Adesso non vorrei entrare troppo nello specifico però diciamo che abbiamo avuto anche la capacità di seguire il linguaggio della media della fiction in televisione e portarlo dentro il nostro prodotto. Le riprove sono anche le puntate che abbiamo fatto un po’ speciali: le puntate monostoria, le puntate con cartoon, in costume…

Patrizio Rispo: Noi usiamo anche il mezzo…non ci prendiamo sul serio neanche dal punto di vista delle riprese. Abbiamo giocato con il mezzo, abbiamo fatto i cartoon, abbiamo fatto un sacco di cose sperimentali, anche divertenti.

Giacomo Manzoli: Veramente molto bella anche questa idea. Mi fa pensare al glocal, uno schema trasnazionale, internazionale, dentro al quale però ci sono delle caratterizzazioni legate al luogo specifico dove si fa questo serial: le facce, gli attori, il casting, le locations, gli scrittori, i dialoghisti legati proprio a una realtà specifica all’interno del territorio italiano, anche se Napoli non è solo Napoli: vuol dire ovviamente molto di più, vuol dire tutto il Sud e non solo il Sud. Ma oltre a questo sentendovi parlare mi incuriosiva, pensando anche alle serie per esempio americane, il fatto che Un posto al sole sia un monumento ormai della serialità televisiva italiana. Mi veniva da chiedervi se potendo rischiare, se avendo mano libera e il massimo dell’agilità vi piacerebbe realizzare qualche idea magari completamente diversa. Se sempre nell’ambito della serialità televisiva vi interessava battere qualche strada che nessuno ha mai battuto anche al di là di Un posto al sole.

Alberto Bader: Come professionista dico sì perché ci sono parecchie cose organizzative che sono riproducibili. Diciamo che ci divertiamo comunque in Un posto al sole facendo parecchia sitcom.

Patrizio Rispo: Io dico che è un vivaio. Forse non molti colgono quest’occasione, ma non parlo per me ma proprio per i miei colleghi .Prima di tutto io lo considererei industrialmente un vivaio di talenti perché veramente si dà un’opportunità ai ragazzi di crescere perché questo è un mestiere al di là del talento. Ma poi io giocherei ancora di più con le potenzialità di Un posto al sole, infatti continuamente propongo “allora facciamo anche Un posto al sole a teatro, facciamo un appuntamento la mattina in radio Il buongiorno si vede dal mattino …la portineria…” secondo me c’è da sfruttare ancora un altro 60% di cose che possono nascere da Un posto al sole come potenziale umano e di talenti di squadra che ci sta. Ci conosciamo, ormai gli sceneggiatori scrivono… io potrei andare a braccio, guardo la scena e vado a braccio e alla fine il mio braccio si somiglia alla scena che scrivono loro. Ormai c’è una morale comune, c’è un divertimento comune per cui si può osare secondo me molto di più di quello che facciamo. Certo con tempi e soldi è un investimento diverso. Secondo me dovrebbero accorgersi di quello che hanno in mano, che potremmo avere un futuro non solo di inerzia ma proprio di sperimentazione importantissimo.

Giacomo Manzoli: Si diceva che il mercato italiano, anche sotto il profilo televisivo, è quello che è, cioè non stiamo parlando di numeri paragonabili a quelli americani in cui ci sono contemporaneamente un centinaio di serie in lavorazione; da noi poi arrivano magari le più interessanti da Le casalinghe disperate a Lost a questi prodotti qui, ma che sono poi la punta di un iceberg che sotto è gigantesco e che dà vita a una quantità smisurata di prodotti non tutti naturalmente di altissimo livello.
Anche l’apporto creativo degli attori era un altro argomento che mi sembra molto interessante: perché gli autori ovviamente lavorano pensando all’attore. L’attore si trova per le mani questo materiale che è stato scritto pensando a lui e su quello poi interviene nuovamente sia attraverso l’interpretazione sia, immagino, attraverso una serie di modificazioni. Le principali che si ricorda? I cambiamenti principali, anche i rischi che si è assunto sul copione. Ce n’è qualcuno particolare che ha ancora in mente oppure la linea grosso modo è quella?

Patrizio Rispo: Io faccio sempre una lettura critica, parto sempre andando contro quello che c’è scritto anche quando lo condivido, proprio come stimolo interpretativo. Per esempio vedo molti colleghi, che magari fanno parte ancora del gioco, che si lamentano dello scritto. Dico “non ti lamentare, criticalo mentre lo fai!”. Cioè, io non vado più dagli scrittori e dico “ah, ma avete scritto questo…”, no lo faccio lì e questo è un apporto creativo, non è un essere attore passivo che esegue, altrimenti sei orchestrato! Invece noi tendiamo ad essere una squadra di solisti, guai se tu ti mettessi nella partitura, esegui e basta. Noi chiediamo di essere partecipi proprio nell’interpretazione perché chiaramente anche la scrittura ti dà, anche quando sbaglia, un suggerimento importante che, se tu lo sostieni anche nella critica, è comunque valido. Altrimenti finiresti con l’essere un freno al meccanismo che non ti consente di avere questo tipo di interruzione, la lamentela, la riscrittura…non lo puoi fare! Per cui o esegui, e magari quel personaggio si esaurisce dopo un po’ se esegue soltanto; se invece è attivo, è sanguigno, è critico, la macchina viene accelerata. Quindi anche noi come squadra siamo tutti appagati, non ci sono divismi, protagonismi; ognuno ha un settore da portare avanti, un target. Ognuno di noi ha una sua fascia di pubblico da coltivare, magari io per esempio ce l’ho più trasversale perché sono un po’ il padre per cui faccio da spalla in molte storie, però la cosa fondamentale è essere proprio una squadra, cioè in noi non ho mai sentito una critica “ah, quello va male!” e si gode. No, se va male ci si chiama, ci parliamo, ci critichiamo perché c’è bisogno di essere un corpo unico. Guai se io godessi dei benefici del mio personaggio nello stesso tempo godendo delle difficoltà di un mio collega; per me è fondamentale che non riesca solo la mia scena ma anche la sua: il gioco è assolutamente di squadra.


* intervista trascritta dal contributo audio di Radio Città Fujiko