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P. SANTOSTEFANO

Le porte del Cavallino al tempo della Serenissima, Cavallino (Venezia) 1994

estratto dalla    PREMESSA

            Chi ai giorni nostri, arrivato  al ponte sul  Sile  nei pressi di Cavallino, lasciasse alle proprie spalle la via Fausta e risalisse l'argine destro del fiume arriverebbe a un "passaggio" d'acqua  - trait d'union tra  Laguna e antico alveo della Piave  -  che, a partire  dal 1632, è sempre stato denominato porte del Cavallino.  

            L' entità di questo passaggio, pochi piedi - per usare l'unità di misura in vigore ai tempi della Serenissima - di  larghezza  e di profondità d'acqua, non lascia certo spazio perché l'immaginazione tenti di ricomporre  un affresco  nel quale sia illustrato il lento susseguirsi del transito di barche in entrata nella Laguna,  o provenienti da essa per risalire quel corso d'acqua che fu prima Piave, poi Piave Vecchia o Sile.

            Solo uno sguardo più attento alla facciata, nascosta da un  filare di robinie, dell'edificio prospiciente e una lettura della lapide ivi murata, purtroppo di recente smembrata del fregio che recava scolpiti il leone marciano e gli stemmi dei nobili veneziani che provvidero alla sua messa a dimora, potrebbe indurre a supporre l'esistenza di una storia, o meglio di più storie che per teatro ebbero questo angolo della Laguna.

            E appunto di storie si deve parlare, di eventi in cui  la gestione del  territorio, e di quanto collegato ad esso, da parte del sempre vigile potere della Dominante si intersecò, si affiancò e naturalmente anche si scontrò con le vicende di uomini che in questo fazzoletto di terra vedevano  racchiuso tutto, o quasi, il proprio  mondo.

            Per alcuni queste porte rappresentarono  un luogo di lavoro o di transito sulla rotta dei loro traffici, dove sorgevano edifici che, da soli, delimitavano un intero universo, come un oratorio, un ufficio per i dazi, un'osteria: la presenza, materialmente  tangibile, della chiesa, dello stato, della società. Era insomma un posto dove vivere, lavorare, pregare, socializzare e divertirsi, persino morire. E spesso di morte violenta,  perché affogati nel vaso delle porte, o addirittura assassinati.

            Ma altri videro in questo luogo e nei  terreni circostanti, barenosi o vallivi, una zona dove investire denaro proveniente da consolidati patrimoni familiari,  guadagnato altrove con i  traffici più disparati. Erano, costoro, nobili veneziani, ma anche affaristi stranieri,  accomunati quest'ultimi, da Daniel Nys a Jacobus Feitama - mercanti allineati sul filo del tempo dai primi decenni del secolo diciassettesimo alla metà di quello successivo - dall'essere tutti fiamminghi.

            Si tratta di personalità affascinanti di "colonizzatori", che da sole meriterebbero uno studio approfondito; qui però ci si limiterà ad individuare  gli interessi che li muovevano e gli obiettivi che cercarono, spesso senza riuscirci, di perseguire.

            E proprio da questa intersezione di storia   e  microstorie  è derivato lo stimolo a scrivere, e poi a far conoscere, quella che riduttivamente indichiamo come "storia delle porte del Cavallino".