"Diario di un parroco di campagna": don Luigi Rosada a Cavallino nel 1865

a cura di Piero Santostefano

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Don Giuseppe Rosada nacque nella parrocchia di S. Felice in Venezia il 5 ottobre 1820; suo padre, Matteo, era <<paron di barca>> e proveniva da Pellestrina. Nel 1854 ricevette la patente di cooperatore in S. Giovanni della Bragora in Venezia, e il 26 febbraio 1857 quella di economo spirituale per Cavallino. Il 2 aprile seguente superava l’esame, unico concorrente, per il beneficio parrocchiale di S. Maria Elisabetta.

Come per i suoi predecessori, anche per don Luigi l’impatto con le condizioni insalubri di Cavallino, martoriato dalla malaria, furono molto dure. Il 5 dicembre 1865 alle otto di sera, reduce da una massacrante giornata, in preda ad un malessere nel corpo e nello spirito, scriveva al patriarca Giuseppe Luigi Trevisanato una straordinaria lettera – conservata nell’archivio storico del Patriarcato di Venezia - nella quale rendeva al vivo le condizioni in cui svolgeva, eroicamente, il suo ministero.

La sua disperazione veniva attribuita a <<febbri ostinatissime per lo spazio di sette anni; [e a] due malattie di angina, che mi condussero all’orlo del sepolcro; e poi [a] calunnie infamissime; e, ciò che più mi abbatte, un’accanita guerra da chi più d’altri aveva beneficiato>>.

Ma la lettera è anche il racconto fedele di una giornata di un "curato di campagna" che aveva, innanzitutto, visto coi propri occhi aumentare il numero dei parrocchiani e, quindi, le incombenze del suo ministero.

Un esempio significativo, i defunti: << In quattro primi anni che io fui qui, da otto a dieci erano i morti, la maggior parte bambini: in questo furono trenta e quasi tutti adulti!>>, e giova ricordare come l’assistenza ai moribondi comportasse un impegno consistente dato che, oltre all’amministrazione dei sacramenti della confessione, comunione ed estrema unzione, i fedeli venivano confortati fino al loro spirare.

Quel 5 dicembre, dunque, era così ricostruito da don Rosada: <<Sono ritornato dall’estremità del paese, a cinque miglia dalla canonica, dall’aver assistito un moribondo, nella case del quale tre furono i morti in meno degli ultimi quindici dì, nel corso dei quali, o poco più, ben altri quattro casi di morti (non conto i bambini) avvennero in altri punti diversi, più quello che se ne sta morendo al fanale di Piave, di dove partii questa mattina per dire la s. messa, per andare a prendere il defunto sudetto, e per amministrare l’estrema unzione. La distanza da un punto all’altro è di sette miglia per a traverso le dune. Il santo Uffizio devo dirlo per istrada.>>