Tra “sortita” e tempeston: qualche appunto sulla storia di Cavallino negli anni 1848-49
testo di Piero Santostefano, pubblicato in <<Forum>> Cavallino (VE), dicembre 1996
La recente ripubblicazione del volumetto Onore a Venezia. Combattimenti di Cavallino e di Mestre di Francesco Carrano, che tratta anche di un fatto d’arme accaduto a Cavallino il 22 ottobre 1848, è sicuro motivo di interesse sia per chi abitualmente scorre le cosiddette carte d’archivio, sia per chi risiede nel Litorale nord di Venezia.
Se, come lettore, il testo mi ha suscitato una serie di domande, come curioso ho cercato di approfondire la conoscenza dei fatti lì narrati. Mi è anche sembrato opportuno tentare una rapida operazione di ricerca storica, che mi permetto di definire didattica non tanto per i risultati , quanto per la verifica di una metodologia che intende leggere le vicende di questo territorio collocandolo puntualmente all’interno della ben più ampia e nota storia della laguna, che sostanzialmente vuol dire storia di Venezia.
Assunto fondante, e al contempo limite di questa personale miniricerca, è il voler raccogliere indizi dalle fonti storiche esistenti in loco, che per Cavallino vuol dire esclusivamente l’archivio - tenuto in ottimo stato - della parrocchia di s. M. Elisabetta. Purtroppo, essendo Cavallino nel comune di Burano, la distruzione dell’archivio comunale nel novembre del 1944 comportò allora la perdita di tutta la memoria amministrativa del Litorale, e ora comporta - ai pochi che si occupano sistematicamente di storia locale - invidia per quei territori che trovandosi nel comune di Venezia hanno alle spalle un corposo archivio a partire dal 1806
Lette le carte, pochissime, relative a quel periodo rivoluzionario - per esattezza dal 22 marzo 1848 al 23 agosto 1849 - ci si può confrontare con quanto scritto sia nel libro sopra citato sia in altre fonti edite; da ultimo deve seguire un’inevitabile integrazione con documenti dell’Archivio storico del patriarcato di Venezia, perché chiave di lettura degli anni rivoluzionari diventano in Cavallino le vicende del curato don Giuseppe Pellegrini, il quale si dimise dai benefici parrocchiali nel 1852.
Nel testo del Carrano si narra di come il 22 ottobre 1848 i “Cacciatori del Sile”, volontari che difendevano la repubblica di Venezia, marciassero - lasciando il forte Treporti - lungo l’argine del Pordelio fino ad arrivare a Cavallino, da dove ricacciarono oltre il Sile circa 300 austriaci che si erano difesi con <<barricate erette agli sbocchi del borgo>>. In quello scontro, sempre nelle parole del Carrano, ma in una pubblicazione del 1850 intitolata Della difesa di Venezia negli anni 1848-49, gli austriaci ebbero <<un quindici soldati tra morti e feriti>>.
Le domande che meritano un tentavo di risposta cominciano dunque ad essere numerose: - E’ credibile che il numero degli austriaci a difesa di Cavallino fosse così elevato e che subì quelle perdite (per inciso noto come A. Noaro nel suo libro Dei volontari in Lombardia e nel Tirolo e della difesa di Venezia nel 1848-49 edito nel 1850, parla di 20 tra morti e feriti)? - Ed è credibile che gli occupanti si difesero dietro le barricate che <<chiudevano>> il borgo? - Dopo quella sortita, e fino alla caduta di Venezia come si svolse la vita a Cavallino?
La popolazione di Cavallino era nel 1842 di 345 unità - secondo quanto riportato da G. Bertoletti in Carta della laguna, edito appunto in quell’anno - vale a dire di poco superiore al numero degli occupanti, ed era distribuita in poco più di 70 abitazioni (dato questo che ho ricavato dalle anagrafi parrocchiali compilate in maniera puntigliosissima da don Pietro Sbampati, parroco dal 1839 al 1846) che si allargavano su un territorio tra la Piave vecchia e Settecasoni, includendo anche la Falconera. Dalla Piave vecchia al centro di Cavallino - dove erano attestati gli austriaci - le abitazioni erano poco più di 40 e quindi probabilmente insufficienti ad ospitare un tal numero di occupanti nel caso il loro comando li avesse distribuiti su un territorio oggettivamente ampio e ostile ai rapidi spostamenti. Gli austriaci potevano sì essere accampati, ma spazi talmente ampi da poter permettere un dispiegamento di tutto l’armamentario da campo non sembra esistesse perché - come narra il Carrano - l’unico spazio di terreno <<meno paludoso e alquanto solido>> era solo in corrispondenza dell’abitato di Cavallino, che inoltre era ben lungi dall’essere un borgo ed avere degli sbocchi da difendere. In realtà si trattava di poche case distanziate l’una dall’altra, dove l’unica emergenza edilizia era la chiesa con la canonica e il vicino palazzo padronale.
I registri parrocchiali dei morti offrono qualche spunto di riflessione in quanto non presentano alcun nominativo riconducibile alle truppe di occupazione e, escludendo che venissero rimpatriate le salme, non resta che dedurre che tra gli occupanti la salute fosse buona. E’ vero che siamo in presenza di un gruppo (gli occupanti) di soli maschi adulti, ma l’assenza di un decesso all’interno di un insieme così numeroso - e pur nell’arco di circa quattro mesi come poteva essere dalla metà di giugno (quando si strinse il blocco attorno a Venezia) alla fine di ottobre del 1848 - permette di dubitare che la consistenza fosse quella proposta nelle memorie del Carrano. Questi, nelle già citate memorie del 1850 riferisce che la guarnigione di forte Treporti a volte era ridotta alla metà dei suoi effettivi a causa delle febbri malariche che assalivano i militari e li rendevano inabili al servizio. Ritengo che il medesimo fenomeno avvenisse tra le truppe austriache di stanza a Cavallino e che, se il numero degli occupanti fosse stato veramente elevato (C.A. Radaelli in Storia dello assedio di Venezia edito nel 1875 porta il numero dei nemici a quattrocento!) qualche caso mortale di febbre malarica si sarebbe sicuramente verificato. Ma, come detto, i registri di morte sia civili sia religiosi riportano solo nomi di cavallinotti, e il 22 ottobre poi non risulta alcun decesso.
Era allora parroco, come si è anticipato, don Giuseppe Maria Pellegrini immesso nel beneficio parrocchiale il 14 gennaio 1847, provenendo da Treporti dove per breve periodo aveva ricoperto il ruolo di economo, cioè di reggente in mancanza del parroco titolare. Il Pellegrini si dimise poi con una lettera inviata al patriarca Mutti in data 15 agosto 1852 quando ebbe la certezza che, altrimenti, sarebbe stato sottoposto a procedimento disciplinare per condotta indegna. E leggendo tra i documenti dell’Archivio storico del patriarcato di Venezia il carteggio relativo al Pellegrini - peraltro accusato in seguito di aver distrutto parecchi documenti appartenenti alla parrocchia di S. M. Elisabetta - si ricavano notizie interessanti su quel periodo, e che confermano come Cavallino, dopo la sortita del 22 ottobre, non ritornò immediatamente in mani nemiche ma rimase sotto Venezia fino alla capitolazione finale, anche se qualche difficoltà di comunicazione con la Dominate doveva esistere.
Una lettera di don Pellegrini al patriarca Monico in data 9 aprile 1850, infatti, così iniziava: <<Eminenza, le barbare vicende ch’ella ha sofferte son ben lungi dal pareggiare le mie>>. Il riferimento era alle note vicende dell’assalto al palazzo patriarcale del 2 dicembre 1848 per quanto riguarda il prelato, e alle vicende che lui, don Pellegrini, filoaustriaco, ebbe a passare a Cavallino dove invece gli abitanti erano schierati con Venezia.
La scelta filoveneziana dei cavallinotti, in un’altra missiva inviata al patriarca Mutti il 14 settembre 1851, così era ricordata: <<ella non conosce la meffitica posizione del Cavallino, ne la tenuità del benefizio, ne la miserabilità degli abitanti, e meno le effetive veraci mie malattie che chiamar si potrebbero una continua infermità che [fu causata]da paura, da spasimi, da batticuore prodotte in que’ terribili momenti in mezzo a due accaniti nemici, abbandonato da tutti, perfino da sua eminenza il fu patriarca [Monico dal quale], non ebbi nè consiglio né assistenza (....). Il Cielo (...) mi salvò la vita liberandomi dalle branche di quelle genti che miseramente avean perduta la testa.>>
Inoltre, per capire il travaglio del parroco si deve tornare alla lettera del 9 aprile 1850 la quale si concludeva con queste parole di rammarico: << ed ora comprendo appieno il gran male che ho fatto, a non secondare gli inviti gentilissimi e cordiali di quattro generosi generali austriaci>>. A questo si unisca il fatto che il Pellegrini stesso venne poi decorato con l’onorificenza austriaca della croce d’oro al merito: si era dunque al conflitto aperto tra parrocchiani e parroco, e per questioni politiche!
Il Pellegrini si era dunque schierato con quelli che sarebbero stati i vincitori e poteva, a buon ragione e senza nulla temere, criticare aspramente <<la disapprovevole condotta del prete brigante, rivoluzionario, antireligioso don Giovanni Vicini romagnolo. [Questi aveva ] pubblicamente in chiesa esposto anche il SS. Sacramento, con enorme scandalo de’ buoni vomitando più orrende imprecazioni, ed enormi maledizioni contro il legittimo sovrano, non già una sol volta ma fino tre volte al giorno. Testimonio la comunal rappresentanza di Burano, come ei personalmente colà portossi, chiese, ed ottenne nientemeno che cento fucili per armar cento uomini contro la monarchia (...) Non solo ciò bastava per dichiararlo di aver preso parte attiva in quella cieca vertigine italiana, ma l’aver di più seguito nelle sortite contro gli austriaci, i rivoltosi, animando, ed incoraggiando, se non col fucile, certo colla voce, li combattenti ribelli.>>
Don Giovanni Vicini, il prete brigante, doveva trovarsi nel periodo caldo della rivoluzione a Treporti dove era stato nominato economo in data 20 gennaio 1847, dopo essere stato prima cooperatore, almeno dall’8 settembre 1846, e poi economo in Cavallino che lasciò quando fu nominato parroco il Pellegrini.
Tutto questo travaglio, ovviamente, sarebbe stato risparmiato al Pellegrini se gli austriaci avessero controllato Cavallino portandovi quella legalità tanto desiderata dal parroco.
Ritornando ad un esposizione cronologica dei fatti è ora il turno di alcuni documenti che, oggi, assumono il valore di prova indiziaria sulla situazione del Cavallino in quei 17 mesi trascorsi tra incertezza e speranza circa il futuro assetto politico di Venezia.
Il primo indizio è una ricevuta di tal Franco Bianchini cerer veneziano che in data 23 dicembre così scriveva:<<Dalli sig.ri fabbriceri della parrocchia di Cavallino ricevo io sottoscritto lire cinquanta e questo per saldo di cere oggi vendutagli dico le ricevute L. 50>>. Cavallino, quindi, era in contatto con il capoluogo al quale sicuramente venivano inviati viveri e dal quale ci si approvvigionava, come al solito, per le necessità materiali del culto. Già questa polizza di spese contraddice quanto scritto da Vincenzo Marchesi il quale nella Storia documentata della rivoluzione e della difesa di Venezia...., edita nel 1916, riferendosi a Cavallino e Cavanella d’Adige così argomentava: <<I Veneziani, sfortunatamente, non furono in grado di tenerli per mancanza di uomini, ond’essi rimasero sempre in potere al nemico. (...) Del resto il 22 ottobre 1848 i nostri, attaccando Cavallino, si proposero soltanto l’intendo di richiamare l’attenzione degli Austriaci sui punti più lontani dell’estuario, col fine poi di assalire poi qualche luogo vicino alla terraferma.>>
C’è comunque dell’altro: nei registri di stato civile di Cavallino, che il parroco redigeva per conto dell’autorità pubblica, alla data 9 marzo 1849 è annotata la morte di Giovanna Guger, residente a Cavazuccherina. A margine del necrologio poche righe dove don Pellegrini evidenziava che << da me assistita per le attuali vicende fu sepolta in questo cimiterio>>. Le <<attuali vicende>> non possono che essere l’mpedimento di raggiungere Cavazuccherina dove, come ampiamente noto, stazionavano le truppe imperiali.
Un altro morto, e questa volta molto interessante per i “topi d’archivio”: il 20 maggio 1849 passava a miglior vita Vincenzo Braga. L’annotazione a margine dell’atto nel registro civile dei morti di Cavallino così recita: <<Fu ucciso accidentalmente dagli Austriaci mentre combattevano contro gli Italiani, e non potendo i di lui parenti portarlo alla Cava, fu seppelito in questo cemiterio>>. Il Braga - registrato tra i nati del comune di Cavazuccherina il 21 settembre 1821 -doveva essere capitato tra il fuoco incrociato di italiani e asburguci, i quali in una sorta di guerriglia anfibia si inseguivano tra Sile e laguna con scontri anche consistenti, come quello ricordato proprio il 19 maggio di quell’anno, e che vide i patrioti eseguire una scorreria fino a Cavazuccherina e Torre del Caligo (G.B. Cavedalis, I commentarii, editi nel 1929). In questa scaramuccia le fonti austriache danno 8-10 morti tra gli italiani e due feriti tra gli asburgici (Kriegsbegebenheiten bei der Kaiserlich Österreichischen Armee in Italien vor Venedig., Vienna 1850)
Il 16 luglio del 1849 veniva battezzata, all’età di un giorno, Maddalena di Antonio Fiorindo e Angela Piala; anche per questo atto le note di don Pellegrini non lasciano dubbio circa l’appartenenza di Cavallino ai territori momentaneamente liberatisi dall’occupazione austriaca: <<Li detti coniugi vennero a riffugiarsi in questa parrocchia essendo il Fiorindo disertore austriaco>>.
Il 3 agosto tra le 2 e le 5 di notte un accanito combattimento ebbe luogo attorno alle porte del Cavallino quando 800 volontari (1600 secondo le fonti austriache) furono respinti dagli austriaci mentre tentavano di risalire di nuovo il Sile: Le perdite furono poco consistenti - 3 feriti per gli austriaci, due e un morto per gli italiani - ma i nemici contrattaccarono e ripresero Cavallino.
Il 23 agosto seguente Venezia si arrendeva agli austriaci, il 27 forte Treporti tornava al nemico. Non so come si comportò don Pellegrini nella sua parrocchia: se fece suonar le campane a distesa, se cantò il Te Deum o se espose il Santissimo. So solo che, con estrema probabilità, il 29 agosto Cavallino era sconvolta da una grandinata di tale virulenza che da lì nacque la festa votiva del tempeston. Che quella fosse la data esatta lo ricavo da un nota di spese redatta pochi giorni dopo dal fenestrajo Giusto Pivirotto il quale chiedeva 5.50 lire austriache per sistemare le vetrate della chiesa <<rotte dalla grandine>>.
Lascio volentieri al lettore stabilire se la tempesta fu scatenata per punire i cavallinotti rei di aver sostenuto la repubblica di Venezia, o se invece la causa è da attribuissi a un castigo di Dio per l’eccesso di festeggiamenti organizzati da don Pellegrini per celebrare il ritorno della monarchia asburgica.