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Note per una storia dell’agricoltura nel territorio di Cavallino Treporti (1897-1905)

testo di  Piero Santostefano,   pubblicato in <<Il Litorlae>> Cavallino Treporti (VE), dicembre 2002

 

Cosa spinse l’11 novembre 1897 Giorgio Maestrello detto Mondo, Osvaldo Basso, Cadamuro detto Bellin, Antonio Gobato I, Giovanni Gobato III, Giovanni Seno detto Fiapo, Claudio Catto, Antonio Enzo detto Pac[i]on, Pietro Costa detto Rossi, Ferdinando Dalla Puppa e Antonio Tortato a firmare (o a tracciare una croce) in calce al contratto di mezzadria per poter lavorare i terreni posti a sud del canale di Pordelio lungo quella che è attualmente denominata via degli Armeni?

E’ una domanda a cui si risponde con difficoltà, e le ipotesi si possono formulare, al momento, attingendo esclusivamente a quello che per comodità chiamerò d’ora in poi "Carteggio Eugenio Scarpa" dal nome del proprietario, un veneziano che dimorava alla Zattere, che si qualificava come "capitano" e che nel 1896, per via di successione ereditaria in seguito alla morte del padre Augusto, era venuto in possesso di circa 40 ettari di terreno situati, come scritto, a mezzogiorno del tratto terminale del Pordelio dove questo si immette nel canale di Treporti.

Gli undici mezzadri citati probabilmente lavoravano già quelle terre, e l’11 novembre 1897 si videro in un certo senso costretti a firmare quel contratto: è vero, non erano stati allontanati, ma non erano neppure riusciti a migliorare la propria posizione aggiungendosi a quel ristretto numero di agricoltori che nel territorio lavoravano in proprio un appezzamento.

Ma non è di quel contratto, in 19 articoli che stabiliva diritti (molti) e doveri del proprietario e diritti e doveri (molti) del contadino, che si qui vuol parlare. In esso, infatti, si trovano i rapporti tipici della mezzadria relativa alla divisione degli utili, alla compartecipazione degli investimenti, ai severissimi divieti imposti al conduttore affinché al possidente non sfuggisse una briciola del potenziale guadagno.

Si vuole invece riassumere il contenuto di una lunga memoria redatta da Eugenio Scarpa nel 1899, quindi tre anni dopo la sua assunzione di responsabilità come proprietario e attento alle novità agronomiche che circolavano tra gli imprenditori illuminati.

La situazione di partenza non era affatto incoraggiante: <<Alberi e viti [erano] in uno stato di decadenza enorme per mancanza di mezzi curativi e di nessuna o poca nozione di potatura, in conclusione un completo disordine sopra ogni coltivazione ed in rovinoso stato tutti li fabbricati e stalle>>. Gli alberi da frutto, elencati qui in ordine decrescente per numero, erano: peschi, meli, suchette, marinelle, marabolani (amoli), peri, ribes, amoli, meli cotogni, albicocchi. Mentre le cosiddette ortaglie consistevano in patate, piselli, granoturco, asparagi.

Lo Scarpa, <<asecondato dai miti inverni>>, bonificò negli anni 1897-99 circa 100.000 metri cubi di terreno utilizzando fanghi provenienti dai rii Veneziani e stallatico; restaurò le abitazioni rurali delle 11 famiglie (con un totale di 90 persone), riordinò o realizzò exnovo 9 stalle; costruì tre nuovi pozzi per l’acqua potabile, scavò 2000 metri lineari di fossi per migliorare la pescicoltura.

La redditività dell’azienda era affidata in maniera quasi esclusiva agli alberi da frutto, collocati in appezzamenti circondati da filari di vite, e per la loro concimazione si escluse completamento l’uso della spazzatura, introducendo invece lo stallatico che, a volte, veniva mescolato con i fanghi dei rii. Vi era anche un vantaggio economico: per concimare un campo padovano (circa 3800 mq) ci volevano 30 barche di scoasse che portavano il costo a lire 480 il campo; con lo stallatico il costo per campo era di 308 lire, senza contare il maggior potere fertilizzante di quest’ultimo.

Per quello che riguardo lo stato delle viti, si lascia la parola allo Scarpa: <<l’abbandono completo in cui erano lasciate per mancanza di concimazione, mezzi curativi, e la nessuna base di potatura, riduceva le medesime ad uno stato selvaggio al punto tale che il raccolto del 1896 con circa 9000 viti a prodotto si ridusse a soli 15 quintali di uva fra nera e bianca>>. Nel giro di tre anni la produzione crebbe di ben 10 volte, grazie anche all’introduzione di trattamenti del suolo, delle piante e dei frutti dove venivano alternanti, o mischiati, fanghi dei rii veneziani, residui di cuoio, cenere e fosfati minerali, zolfo ramato. La potatura da primaverile si trasformò in autunnale.

Sempre critico verso le tecniche agrarie locali sedimentate da secoli di tradizione, lo Scarpa sostituì il sistema dei sostegni longitudinali in legname delle viti con sostegni di fili metallici, riducendo così la manodopera ed estromettendo dalle vigne i salici non più necessari per le legature. Impedì inoltre la coltura consociata di mais e viti.

I vitigni già esistenti (raboso veronese, raboso nostrano, uva rossetta, uva doretta) si affiancarono in via sperimentale riesling bianco e tockay bianco.

Per il mais si adottò una seminagione con file di piante distanziate di 80 cm. che permetteva il passaggio del personale attraverso i campi; le sementi tradizionali vennero sostituite con altre provenienti dal Friuli. Nel giro di tre anni la produzione triplicò.

Il frumento venne introdotto, sempre in via sperimentale, eliminanado parte del mais e dei piselli. Il granoturco venne surrogato dal cosiddetto "cinquantino", mentre i piselli furono giudicati onerosi per la manodopera che comportava la frascatura e la raccolta in tempi che coincidevano con altre attività agrarie molto più urgenti.

Per quanto riguarda il ruolo degli animali bovini all’interno dell’azienda, ancora una volta le parole dello Scarpa sono chiarissime: <<Per mantenere il terreno di concimazione triennale nei rispettivi appezzamenti (…) il proprietario fu obbligato a rinnovare, e costruire a nuovo tutte le stalle le quali non erano che orribili lupanare>>.

Il bestiame venne acquistato e selezionato con oculatezza raggiungendo un massimo di 45 tra vacche e vitelli distribuiti tra le nove stalle. A <<migliorare la razza provvide [un] torro il quale diede a quest’oggi ottimo risultato e ben differente da quelli ottenuti per il passato>>.

Anche i fossi partecipavano alla costruzione del reddito dell’azienda. La superficie complessiva era di circa 7 ettari e il novellame veniva alla fine di aprile venduto ai proprietari delle vali lagunari.

I contratti di mezzadria vennero poi rinnovati di anno in anno, sempre il giorno di S. Martino, apportando qualche cambiamento nei vari punti che ne costituivano l’impianto. Allora sì che doveva essere festa, quando la partita dare-avere si concludeva con qualche vantaggio per il mezzadro, e in famiglia sicuramente si tirava un grosso sospiro per una prospettiva di vita che non veniva distrutta o dall’allontanamento dalla vigna o dal fardello del debito che ci si ritrovava sulle spalle per l’anno a venire. (A proposito, non sarebbe il caso di rispolverare il senso più profondo della festa di S. Martino anziché perdersi in invenzioni mediatico-commerciali tipo Halloween?)

Nel 1905-6 un'altra imponente opera di trasformazione di suoli interessò l’azienda, quando la porzione più occidentale venne bonificata al fine di introdurre la coltivazione del carciofo secondo la modalità in uso a Malamocco. Di quei lavori nel "Carteggio Eugenio Scarpa" rimangono sia le planimetrie delle nuova sistemazione idraulica, sia i precisi schemi geometrici per l’impianto del carciofo.

Se dopo questa data viene a mancare una documentazione sui lavori nei campi, si conserva un gruppo di carte riconducibili ai lavori negli edifici rurali già a partire dal 1902. Essendo la tenuta Scarpa compresa nell’area di rispetto del Forte Treporti, ogni opera edilizia doveva ottenere l’autorizzazione dalla Direzione del genio militare di Venezia o da altri uffici preposti allo scopo.

I carteggi conservati, in buona parte relativi alla casa padronale che oggi è la sede della tenuta della Congregazione armena, offrono tutto un ventaglio di situazioni fin troppo attuali: verbali di violazioni delle normative vigenti, domande e concessione di sanatoria, rifiuto di autorizzazioni per incompletezza della documentazione, integrazione dei progetti, lettere di raccomandazione, informazioni passate sottobanco dai regi funzionari allo Scarpa.

C’è un altro aspetto, per la storia locale, ancor più interessante e sono le copiose tracce - a partire dal 1896 - della militarizzazione che il territorio andava sopportando con la richiesta di porre in opera pali telegrafici, cavi per la fornitura di energia elettrica alle batterie antinave, binari per la ferrovia a scartamento ridotto che partiva dal Forte Treporti e si dirigeva verso le altre fortificazioni.

In conclusione, una prima riflessione sull’importanza di questo "Carteggio Eugenio Scarpa": sono sicuramente uniche testimonianze di un’innovazione agronomica condotta nel nostro territorio circa cento anni fa; le bonifiche degli anni ’20 e ’30 del Novecento in un certo senso trovarono una strada aperta e agricoltori già al corrente dei metodi più redditizi per lavorare la terra.

Sarebbe oltremodo interessante riuscire a seguire il percorso professionale degli 11 mezzadri citati all’inizio per vedere dove e come andarono poi ad operare, spendendo le nozioni acquisite lavorando per il capitano Eugenio Scarpa.

Inoltre, se risultasse che l’attuale proprietà avesse conservato altre testimonianze a partire dall’acquisizone della tenuta nel 1921, si potrebbe ricostruire un’evoluzione secolare di una ben individuata area rurale, uscendo da una generica nozione di progresso agronomico che ha invece bisogno, per sostanziarsi, di dettagli sulle tecniche colturali, sui costi degli investimenti, sui redditi dell’impresa e dei lavoratori, sui rapporti tra proprietario e conduttore, sulla commercializzazione dei prodotti.

Una seconda riflessione o, meglio, un invito che rivolgo ai lettori che hanno portato pazienza fino a questo punto, è di controllare se "in soffitta" non ci sia una qualche dimenticata e impolverata cartaccia del nonno o del bisnonno: chissà, un qualche libretto dei conti di dare-avere tra proprietario e mezzadro, o una qualche annotazione sui lavori in campagna…

Solo rendendo disponibili e consultabili questi documenti, e quella specie di "stanza della memoria" che è l’Archivio storico di Cavallino-Treporti attualmente conservato nella biblioteca di Cavallino è al momento il luogo più adatto, sarà possibile far conoscere e rendere patrimonio comune le molte storie che si sono intrecciate nel nostro territorio.