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  P. SANTOSTEFANO

Cavallino. Lingua di sabbia, giardino dei popoli. La chiesa e la parrocchia di S. Maria Elisabetta. 1699-1999, Cavallino (Venezia) 1999

    estratto dalla  PREMESSA

Era, ed è, nell’intenzione di chi scrive portare a termine una trilogia che affondi la propria ragione d’essere nella vita di quella che, per comodità espositiva non disgiunta da accuratezza semantica, viene qui chiamata “l’isola del Cavallino”. Dopo un primo approccio  al mondo dei commerci fluviali nei secoli XVII e XVIII, sviluppato nel libretto Le porte del Cavallino ai tempi della Serenissima (1994), nella presente pubblicazione il centro della ricerca diventa la vita religiosa, cioè la vicenda di una comunità parrocchiale che, costituitasi definitivamente all’inizio del 1700, segue, nel proprio piccolo, le vicende di un mondo che questa isola non può condizionare ma da cui trae, a volte contro la propria volontà, quella linfa vitale che ne guida le trasformazioni quotidiane.

Uscendo fuor di metafora, nel ricostruire parzialmente, e in qualche passo anche imperfettamente, la storia religiosa di questa lingua di sabbia, il pensiero corre sempre  dalla periferia al centro, da Cavallino a Torcello e Venezia prima, da Cavallino a Burano e Venezia poi, da Cavallino alla sola Venezia infine.

Il susseguirsi, prima convulso e poi più temporalmente disteso, dei sacerdoti che abitarono qui nell’esercizio del proprio ministero rilancia, almeno per tutto il Settecento, l’idea di Cavallino come crocevia di vocazioni provenienti da tutte le parti d’Italia.

I pochi anni, se non i pochi mesi, qui da loro trascorsi narrano della durezza della vita di chi, allora, conduceva un’esistenza comunque privilegiata rispetto ad una popolazione di coloni e di braccianti a giornata che faticavano duramente per ottenere dalla terra quel poco che permettesse loro di sopravvivere.

La comunità religiosa continuò a coincidere con quella civile, non esistendo un mondo che fosse fuori, altro o diverso, rispetto alla parrocchia; questo, almeno, fino alla fine del secolo scorso.

E proprio considerando fatti apparentemente poveri di significato, se guardati con gli occhi dei potenti e delle oligarchie dominanti, si riesce a costruire un singolare intreccio tra le persone e le cose (la chiesa, le sue opere d’arte, i suoi arredi sacri, i documenti conservati nell’archivio parrocchiale) nel quale scorre tutta la storia di un secolo: l’Ottocento.

La dominazione napoleonica e quella asburgica, il sogno di Venezia libera e repubblicana nel ’48-’49, l’unificazione con il regno sabaudo, gli atteggiamenti anticlericali postunitari lasciano tutti una traccia – desiderata, sopportata, temuta, ignorata, ricercata – nell’isola e nei suoi abitanti.

Sacerdoti non più in sintonia con i fedeli della loro stessa comunità, sacerdoti che non condividono più il comportamento dei proprietari delle terre che via via diventavano sempre più fertili, sacerdoti che spesso sentono lontano il patriarca mentre devono affrontare stenti fisici, malattia, povertà, incomprensione e solitudine. Si tratta di piccoli, o di grandi segni in una realtà locale che è macinata dal corso della storia e che può, in genere, solo contemplare, se riesce a decentrarsi, il corso degli astri nei grandi cieli della politica, dell’economia, della religione.

Il Novecento, sotto gli occhi di tutti e di cui tutti qualcosa abbiamo testimoniato, porta nell’isola gli echi dei grandi sconvolgimenti: la grande guerra, il socialismo, le lotte agrarie, il fascismo, la seconda guerra mondiale, la disaffezione alle tradizioni religiose; ma anche l’innovazione nella lavorazione della terra e la bonifica dei suoli, e l’inizio – in anni recenti, se visti nel corso dell’intera storia, delle attività turistiche: simbolico ritorno, ma non nello stesso punto, delle presenze internazionali tra i padroni dell’isola nei secoli passati, e dei sacerdoti “foresti” tra il clero qui residente.

Di tutto questo c’è traccia nella storia della parrochi di S. Maria Elisabetta. E non potrebbe essere altrimenti. Sono tracce, tuttavia, rilevate quasi esclusivamente per mezzo dei documenti prodotti da chi allora, localmente, deteneva capacità scrittoria: i parroci.

Sono in fondo loro, i protagonisti, di questa ricerca. Ma è un ruolo che si sono costruiti essi stessi, inconsapevolmente, quando prendevano la penna in mano e scrivevano ...

Per conoscere chi fossero e come vivessero i “cavallinesi”, da quando di loro se ne parla nei documenti storici, potrà essere un inizio significativo un’altra pubblicazione dove i protagonisti diventeranno quelle persone usualmente trascurate dall’egemonia scrittoria dei gruppi dominanti. Solo così una trilogia, come prologo ad un approfondimento della storia di Cavallino, potrà dirsi completa.